Il mio sentiero verso la libertà

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Il mio sentiero verso la libertà
Il mio sentiero verso la libertà.
Mi chiamo Nazirè, sono curda.
Il mio popolo è costretto a combattere per avere la libertà di esistere con la sua
lingua, la sua storia e le sue tradizioni.
Nel 1997 ero una ragazzina di 17 anni, la guerra contro lo stato turco era sempre più
cruenta e diffusa in tutta la Turchia.
Io avevo un padre violento, dittatore e feudale, che trattava male mia madre e i miei
fratelli. In casa c’era sempre un clima di grande tensione, non sapevamo che cosa
poteva succedere da un momento all’altro. Mi sentivo oppressa, non avevo nessuna
libertà: non potevo avere amici, non potevo decidere di andare a lavorare o
frequentare un partito o un’associazione.
Tante volte ho pensato di uccidere mio padre, ma non ne avevo il coraggio, e non
sapevo dove trovare la pistola per farlo.
Volevo scappare da quella situazione di oppressione: non potevo più vivere con la
paura e il terrore di mio padre, e nello stesso tempo sentivo il bisogno di impegnarmi
per la causa del nostro popolo; così ho deciso di andare a fare la guerrigliera con i
nostri partigiani.
Conoscevo un amico che accompagnava i ragazzi in montagna per combattere, ma lui
non era disposto ad aiutarmi per paura che mio padre facesse la spia alla polizia turca.
Quando però ha capito che io ero comunque determinata a partire, mi ha aiutato, mi
ha dato tutte le informazioni necessarie per trovare coloro che portavano i ragazzi in
montagna.
Avevo deciso di lasciare tutto dietro le mie spalle per iniziare una nuova vita, lontana
da mio padre.
Io lavoravo nel negozio di alimentari della mia famiglia che si trovava sotto casa
nostra.
Il giorno stabilito per la partenza, per non destare sospetti, non ho salutato nessuno.
Era sceso il buio, e arrivata l’ora di andare via io ero molto triste, pensavo molto ai
miei fratelli e alla mia mamma, ma andavo via soprattutto per liberarmi del mio
cattivo padre: pensavo anche che la mia decisione di unirmi ai guerriglieri l’avrebbe
intimorito e l’avrebbe spinto a cambiare atteggiamento e a comportarsi bene.
Con me c’erano altri tre ragazzi che volevano raggiungere i partigiani: due ragazzi e
una ragazza di 15 anni.
Un ragazzo che non conoscevamo, di nome Rezzan, ci ha fatto salire su un taxi che
da Mersin, dove abitavo, ci ha condotto in un altro paese, a Osmania.
Per una settimana siamo rimasti chiusi in una casa di Osmania in attesa che Rezzan
organizzasse il resto del viaggio. Il padrone di casa con la moglie e i figli erano molto
gentili e ci trattavano bene, ma noi avevamo tanta paura che la polizia turca ci
trovasse, non vedevamo l’ora di andare via.
Arrivato il giorno della partenza ho pensato molto al fatto che stavo scegliendo la
strada per la mia libertà ed ero anche consapevole che potevo morire; il mio destino
era già deciso: vivere libera o morire.
Con Rezzan abbiamo preso un pulman, ma per tutto il viaggio abbiamo fatto finta di
non conoscerci, non abbiamo chiesto alla nostra guida quale era la meta del nostro
viaggio, verso quale paese ci stavamo dirigendo: questo era segreto.
Abbiamo viaggiato per nove ore, era diventato buio, alle dieci di notte siamo arrivati
a Mardin; lì siamo scesi e a piedi abbiamo attraversato la città e ci siamo incamminati
verso un vicino villaggio: da lì poi ci saremmo diretti verso le montagne.
Camminavo senza sapere dove mi trovavo, ho scoperto di essere arrivata in Kurdistan
solo quando siamo arrivati al villaggio con le sue case fatte di pietra e fango, con il
tetto di legno, le donne con i loro figli e i vicini seduti fuori a chiacchierare.
Eravamo felici, la nostra meta era vicina.
Non ci siamo fermati al villaggio, ma abbiamo continuato a camminare e poi a
correre perché in giro dappertutto c’erano le pattuglie dei militari turchi i quali, se ci
avessero visto, ci avrebbero ucciso.
Era estate. Abbiamo attraversato al buio lunghe distese di terra coltivate ad orto, la
terra era fangosa e le nostre ciabatte sono rimaste nel fango, la mia amica ed io
eravamo scalze.
Abbiamo corso durante tutta la notte, senza bere e senza mangiare, i cespugli ci
pungevano e ferivano il nostro corpo, ma noi non badavamo al dolore, avevamo
molta sete, eravamo molto stanchi: io non avevo più la forza di camminare, i piedi
non mi ubbidivano.
Il ragazzo che ci accompagnava, Rezzan, aveva smarrito la strada che ci avrebbe
portato dai nostri guerriglieri.
Verso le cinque del mattino ci siamo dovuti fermare, altrimenti i militari ci avrebbero
scoperto.
Eravamo ai piedi di una montagna altissima, Rezzan però non sapeva dove ci
trovavamo.
La nostra guida decise allora di lasciarci per andare a cercare i partigiani; ci aveva
raccomandato di stare fermi ad aspettarlo e ci aveva promesso che al calare della
notte sarebbe venuto a prenderci con i guerriglieri.
Abbiamo aspettato a lungo, nascosti tra due massi.
Il tempo passava, ma Rezzan non si vedeva ancora.
Stava arrivando la sera, pensavamo tante cose brutte e dicevamo che ci avevano
imbrogliato.
Avevamo fame e sete, eravamo sfiniti, così alla fine abbiamo deciso di tornare a casa,
ma non avevamo soldi, non avevamo documenti, non avevamo nulla.
La mia amica aveva però una collana d’oro, pensavamo che al villaggio avremmo
potuto venderla e così comprare i biglietti e tornare ognuno a casa sua.
Il mio desiderio non si era realizzato, però era stato importante provare.
Abbiamo camminato tanto; ad un certo punto abbiamo visto un pastore con le sue
pecore. Si è avvicinato a noi e ci ha chiesto:
-Chi siete?
Gli ho risposto:
-Abbiamo perso la strada per andare al villaggio.
Il pastore ci ha dato dell’acqua, dicendo:
-Chiamo mio fratello, viene qui con la sua macchina, vi porta in paese.
Gli abbiamo creduto, ma in realtà lui era una spia del governo, lavorava per i militari
a pagamento.
Non erano trascorsi neanche 20 minuti che sono arrivati i militari, ci hanno arrestato
perché stavamo venendo dalla montagna.
Ci dissero che noi eravamo guerriglieri e terroristi, ma non era vero.
Ci hanno condotto in caserma, hanno incominciato a picchiarci finché non è diventata
notte tardi.
A me e alla mia amica ci hanno torturato; hanno abusato del nostro corpo in tutti i
modi, ci bastonavano con il manganello, ci tiravano i capelli, ci colpivano con pugni
e calci perché volevano sapere da noi chi era il ragazzo che ci aveva portato fin lì, ma
nessuno di noi lo conosceva, solo dopo abbiamo scoperto come si chiamava. Ma
anche se lo avessimo saputo nessuno di noi era disposto a parlare, nonostante le
torture.
I militari dicevano:
-Se non parlate vi ammazziamo.
Ci hanno coperto gli occhi con una benda nera, sentivo solo il dolore e le urla.
Questo è durato cinque giorni .
Tutti i giorni la stessa tortura, piangevamo, urlavamo.
Dopo cinque giorni ci hanno portato in carcere, hanno separato i maschi da noi.
A me e alla mia amica ci hanno messo in una grande camera, con i topi che
scorrazzavano liberamente, non c’erano letti, durante tutte le notti trascorse lì non
abbiamo mai dormito, nemmeno un secondo.
In un’altra ala del carcere c’erano le politiche, donne guerrigliere o simpatizzanti dei
nostri partigiani; quando sono venute a sapere da una guardia, solidale con noi, che
eravamo arrivate, la loro responsabile ha chiesto al direttore del carcere di trasferirci
da loro e così poco dopo anche noi siamo arrivate lì.
Pensavamo di essere arrivate in Paradiso, non credevamo possibile che quei giorni di
tortura fossero finiti.
Erano tutte ragazze, in tutto eravamo 38; avevamo uno spazio diviso in vari ambienti,
al piano terra la cucina e il bagno, al piano superiore una grande camerata con i letti a
castello.
Tutte le cose da noi possedute erano in comune, ognuna di noi condivideva tutto con
le altre compagne.
Non dimenticherò mai quei mesi di carcere, era bellissimo, anche se la nostra
giornata iniziava con la visita dei militari che entravano nella nostra cella per cercare
scritti o appunti e con quella scusa mettevano a soqquadro ogni cosa .
Ogni mattina pazientemente rimettevamo a posto ogni cosa e poi iniziavamo le nostre
attività. Non trascorrevamo neanche un minuto senza far niente. C’era un ordine per
fare ogni cosa, c’era l’ora per mangiare, l’ora per discutere, l’ora per leggere. Ogni
mattina facevamo un po’ di sport.
L’esperienza del carcere, grazie a tutte le mie compagne e soprattutto a due donne
meravigliose, Aynur e Kurde,è stata per me una grande scuola e palestra di vita.
In quei giorni trascorsi con loro ho imparato ad avere coraggio, a non avere più paura,
a non arrendermi di fronte alle difficoltà, a capire il valore del tempo da usare per una
grande causa. Ho imparato soprattutto a dare un grande valore e un senso profondo
alla mia vita.
Io pregavo Dio perché volevo rimanere sempre con loro.
Dopo tre mesi, ammanettate ci hanno condotto in tribunale, dal giudice per fare il
processo.
Io e la mia amica abbiamo detto al giudice che eravamo arrivate in quel paese, a
Mardin, per trovare mio zio.
Il giudice ci ha creduto e ci hanno lasciato libere.
Sempre ammanettate, dopo quattro ore di viaggio, siamo tornate in carcere.
Dovevamo salutare le nostre compagne di prigionia, ma non volevamo andare via,
siamo uscite dal carcere e il nostro cuore è rimasto con loro.
Questa esperienza ha segnato molto la mia vita.
Tornata a casa non ero più disposta a subire le violenze di mio padre senza oppormi a
lui, ho deciso di lavorare con una associazione che si occupava di detenuti politici,
lavoravo nella segreteria, mi occupavo di raccogliere fondi per aiutare i detenuti e i
loro familiari in tutti i loro bisogni.
Dopo sette mesi il governo turco ha dichiarato l’attività dell’associazione illegale:
hanno portato via tutti i documenti, i computer e hanno sigillato la porta della nostra
sede.
Non mi sono arresa, ho iniziato a percorrere un’altra strada, in difesa stavolta dei
diritti delle donne. Mi sono iscritta all’associazione “Ozgur Kadin”(Libertà per le
donne). Mi occupavo di vendere dei mensili in cui scrivevano donne che si
occupavano di politica. Tutte le sere, con il buio, andavamo di casa in casa, per
vendere o regalare la nostra rivista, soprattutto alle ragazze giovani perché
desideravamo che diventassero consapevoli dei loro diritti.
A casa mia la situazione era migliorata ma c’erano ancora problemi, per questo ho
deciso di sposarmi. Abbiamo avuto un figlio con una malattia che è molto presente
anche in Sardegna, la talassemia. Con mio marito abbiamo deciso di venire qui in
Italia, in Sardegna, per dare le migliori cure a nostro figlio.
La nostra speranza è che nostro figlio possa guarire e che non debba ricorrere tutta la
vita alle trasfusioni.
Sono passati diciotto anni, il dolore e la sofferenza sono rimasti chiusi nel mio cuore,
ancora oggi non riesco a ricordare quei cinque giorni di tortura senza provare
l’umiliazione della violenza subita, ma la mia storia continua e io sono oggi qui a
combattere per la mia vita e per la libertà del mio popolo.