Un riccio di nome Ottavio

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Un riccio di nome Ottavio
Un r iccio di nome Ottavio di Aurora Dal Maso N
N ELL’oscurità di una notte d’estate osservavo il lento danzare delle lucciole in volo, quand’ecco un fruscio provenire dalla siepe. «Sarà qualche animaletto notturno che si aggira», pensai. Intimorita mi avvicinai e tra il fogliame notai un riccio. Tentati subito di avvicinarmi ma l’animale, intimorito, dapprima s’immobilizzò, poi si rinchiuse nella sua palla spinosa. Mi allontanai di qualche passo e rimasi ad osservarlo in silenzio. Piano, piano il riccio tornò nella sua posizione consueta e scomparì nuovamente nella siepe. La sera seguente tornò. Stessa ora, stesso posto. Per non disturbarlo lasciai in prossimità della siepe qualche pezzetto di mela e corsi a nascondermi dietro la colonnina del portico. Aspettai invano che il riccio uscisse dal suo nascondiglio, ma di lui nessuna traccia. La mattina seguente non trovai più i pezzi di frutta. Un altro animaletto poteva benissimo averla mangiata, ma qualcosa mi diceva fosse stato proprio il misterioso riccio che però non si fece più vedere per alcuni giorni. Ma una sera spuntò da un cespuglio e si avvicinò a me. Corsi a prendere del cibo e lo appoggiai a terra, calibrando i miei movimenti per non spaventarlo. A debita distanza l’osservavo: aveva un musetto carino e mi guardava con i suoi occhietti vispi. «Bisognerà darti un nome» dissi «ti chiamerò Ottavio!». Mi sono sempre piaciuti i ricci. Nel loro incedere sgambettano e spariscono nell’oscurità. Cercano di essere veloci, ma il mantello di spine é ingombrante e non possono evitare di far rumore perché gli aculei strusciano contro le foglie, l’erba, gli arbusti. La natura è stata beffarda con loro: li ha dotai di spine che difendono dal nemico, ma che allontanano l’amico.
La mia presenza non pareva disturbare Ottavio che masticava il cibo lentamente.Avevo molta voglia di accarezzarlo, ma come fare? Stando ben attenta a non pungermi, avvicinai la mano il più possibile al manto di aculei dell’animale e mimai il gesto della carezza. Sebbene il contatto fosse inesistente, Ottavio apprezzava e pareva avvertire il calore di quella mano amica che toccarlo non poteva. Uno strano rito si creò tra me e l’animale che si presentava puntuale ogni sera, aspettava qualche pezzetto di cibo, si faceva accarezzare in quel modo buffo e poi trotterellava via, sapendo che io lo seguivo fino a quando l’oscurità lo inghiottiva. Questa nostra speciale amicizia proseguì e rimase immutata per anni. D’estate aspettavo impaziente di vedere Ottavio sbucare dalla siepe. Riconoscevo i rumori prodotti dal suo passaggio, intuivo l’ombra, conoscevo il percorso: costeggiava la recinzione, entrava dal buco nella rete, s’infilava nella siepe, sbucava cautamente, si dirigeva verso il pino e in un preciso punto del giardino si fermava ad aspettarmi. Io sapevo che si trattava di Ottavio, non di un altro riccio. Una sera d’estate lo vidi arrancare, non trotterellava più vispo e felice come un tempo, era stanco, affaticato. Ebbe comunque la forza di avvicinarsi a me per farsi accarezzare, ma non mangiò nulla, poi scomparve nella siepe. Nell’oscurità non riuscii a distinguere la sua sagoma, forse era scappato da qualche parte. La mattina seguente, nella luce accecante del sole, scorsi una macchia scura tra l’erba. Era Ottavio. Giaceva immobile, steso su un fianco, accanto al musetto un fiore. Pareva dormisse. Era venuto a morire nel mio giardino. La sera prima aveva raccolto le ultime forze, mi aveva salutato, si era nascosto e poi era tornato nel punto del giardino, in cui c’incontravamo e nel buio della notte il nostro rito aveva inizio. Piansi. Una mia lacrime cadde tra le sue spine. Aurora Dal Maso Nata ad Arcugnano nel 1985