La Pratica Analitica - 2013 - Figure attuali della genitorialità

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La Pratica Analitica - 2013 - Figure attuali della genitorialità
La Pratica Analitica 2013
a cura
del Centro
Italiano
di Psicologia
Analitica
Istituto
di Milano
Figure attuali
della genitorialità
V
la biblioteca di
VIVARIUM
La Pratica Analitica 2013
A cura di:
Comitato di redazione:
Sezioni:
Collaborazioni:
Cipa - Istituto di Milano
via Donizetti 1/A - 20122 Milano
tel: 025513817 - fax: 0259902644
e-mail: [email protected]
Rossella Andreoli, Francesca Avon, Anna Benvenuti,
Giorgio Cavallari, Monica Ceccarelli, Susanna Chiesa,
Silvia Di Lorenzo, Augusto Gentili, Gianni Kaufman,
Claudio Tacchini, Laura Vanzulli
RIFLESSIONI DI CLINICA JUNGHIANA, a cura di S. Di Lorenzo, L. Vanzulli
I MODI DEL PENSARE, a cura di G. Cavallari, S. Chiesa, G. Kaufman
INFANZIA E ADOLESCENZA, a cura di R. Andreoli, M. Ceccarelli
RECENSIONI, a cura della redazione
Si collabora solo per invito. Gli articoli e le corrispondenze
vanno inviati alla Redazione. Per i contributi da pubblicare
è richiesto l’invio tramite posta elettronica o su supporto
informatico PC compatibile e su carta.
ISBN 978-88-95601-22-9
© 2013 La biblioteca di Vivarium
Milano, via Caprera 4
Indice
Editoriale
Claudio Tacchini
Il ruolo della madre fra mutamenti sociali
e permanenza degli aspetti profondi del materno
Giorgio Cavallari
Essere padri oggi: riscoperta di un ruolo
Elisabetta Baldisserotto
Abbandono e Adozione: due categorie intrapsichiche
Cecilia Ragaini, Anna Poli, Francesca Cerutti
La rappresentazione del viaggio e dell’incontro
adottivo attraverso la Sand Play Therapy
Paola Terrile
Fare famiglia: si comincia!
Patrizia Conti, Sarah Francavilla
“Ma io sogno... io sogno
perché non sono che un bambino in viaggio,
lontano dalla terraferma
Francesca Avon
Adozione e ricerca delle origini
Cosimo Sgobba
Il sostegno alla genitorialità fragile
Autori
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La proposta del comitato di Redazione di dare spazio
a un editoriale che permettesse di individuare e di
confrontare le differenze teoriche e di metodo del nostro lavoro clinico all’interno della stanza d’analisi e
all’esterno, nei diversi luoghi istituzionali (dove fenomeni e trasformazioni sociali oggi ci chiamano
sempre più spesso a intervenire) e le preziose integrazioni che l’equazione personale della presenza
analitica, l’importanza della centralità della relazione, la disposizione a parlare il linguaggio delle immagini rendono possibili, è stata raccolta da un gruppo di ricerca di formazione junghiana che opera nell’Unità di Terapia della Famiglia1 dell’ospedale San
Raffaele di Milano.
L’editoriale è frutto della riflessione sui profondi
mutamenti che la famiglia ha attraversato negli ultimi decenni, a partire dai movimenti culturali e femministi (o, meglio, “femminili”) che hanno comportato una trasformazione delle relazioni di genere, minando alle radici l’identificazione del maschile con il
ruolo di indiscussa autorità e di esercizio del potere
in ambito sociale, fino ad approdare alla cosiddetta
“famiglia affettiva”. Molti mariti e padri permangono
in una condizione di indecisione tra l’abbandono di
un modello forte, caratterizzato in senso negativo (il
“padre-padrone”), e l’acquisizione di maggiori competenze emotive, da sempre patrimonio del materno.
D’altro canto il maggior equilibrio dei ruoli all’interno della coppia, la dipendenza reciproca spesso anche sul piano economico (un tempo impensabile), se
ha lasciato spazio a nuove forme di solidarietà e cooperazione tra i due partner che oggi si scelgono da
soli, non garantisce “legami di coppia” stabili, psicologicamente e sessualmente soddisfacenti (stupisce la
molteplicità dei rapporti che si creano on-line). E questa nuova coppia, ci chiediamo, vorrà o potrà diventare coppia genitoriale (accenniamo all’inarrestabile
sviluppo delle tecnologie di promozione della fertili-
Editoriale
Laura Vanzulli
1. L’équipe è costituita da
Laura Vanzulli, Responsabile dell’Unità, Paolo Casati, Marina Fiore, Alessandro Pieri, Michela
Pozzi, Andrea Scalabrini.
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Figure attuali della genitorialità
Laura Vanzulli
tà, ma anche alle crescenti pratiche adottive)?
Questa evoluzione, come spesso accade, si è svolta
in un tempo talmente breve da non consentire che
nell’immaginario collettivo e individuale si sedimentassero nuove rappresentazioni. Non trovando modelli con cui identificarsi, i padri sospendono la funzione paterna ed entrano in rapporto con i figli
(spesso con il “figlio unico”, biologico o in affido o
adottivo) secondo modalità imitative di un modello
materno; il clima emotivo delle famiglie, specie se
“ricomposte” o “ricostituite”, è caratterizzato da forme di legame che, seppur sperimentate e accettate all’interno del tessuto sociale, manifestano instabilità e
diffusione dei ruoli e dei confini.
Maschile e femminile costituiscono, dal vertice junghiano, due funzioni psichiche presenti sia nell’uomo
sia nella donna: la prima ha il compito di agire sull’oggetto dall’esterno (attraverso il potere del lógos),
la seconda quello di accogliere lo stimolo, lasciare
che si sviluppi e dargli corpo dall’interno. In mancanza dell’intervento del lógos, accade che la scelta
generativa sia frutto di un desiderio di auto-espressione unicamente proveniente dalla madre, che richiede al compagno di partecipare al proprio progetto. Quest’ultimo, però, sembra a volte ignorare in
quale ruolo porsi in rapporto alla nuova diade che si
sta venendo a creare e rischia di rimanere un “satellite” che ruota intorno a tale micro-mondo (un complesso materno a forte prevalenza che funziona da attrattore) fino a distaccarsene.
Al di là delle motivazioni e delle specifiche problematiche che un nucleo familiare porta alla nostra
attenzione presso l’Unità di terapia focale della famiglia, in fasi diverse del ciclo di vita individuale, in relazione alla fratria, alle esperienze lavorative, al matrimonio, alla nascita o al percorso di adozione di un fi-
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glio, a una perdita reale o simbolica, in altri termini
in relazione al ciclo di vita della famiglia, la nostra risposta è sempre guidata da un autentico interesse per
la persona, che non si limita all’interesse per il paziente o per la coppia in crisi. Partiamo dalla consapevolezza che non è mai solo il bambino o l’adolescente reale ad essere portato in terapia ma, anche e
soprattutto, il bambino o l’adolescente appartenente
al mondo interno dei genitori. Privilegiamo il paradigma generazionale (trasmissione psichica inter e
trans-generazionale), che non consente di escludere le
dinamiche più profonde sia dell’inconscio collettivo
che dell’inconscio personale. Se uno strumento terapeutico efficace, tra gli altri, risulta essere l’offerta di
figure di riferimento di sesso uguale e opposto, che
diventa un’importante occasione di ancorare emozioni e rappresentazioni a un nuovo e diverso modello di identificazione che possa essere introiettato
nel corso della terapia, non dimentichiamo che maschile e femminile sono categorie che appartengono al
mondo interno di ciascuno di noi e hanno radici archetipiche, a prescindere dall’identità di genere. A volte si coglie l’urgenza di riequilibrare il peso delle funzioni materna e paterna e si va a rivitalizzare quest’ultima, laddove si collochi in una posizione di inferiorità. A volte occorre offrire un modello che concili l’eros, l’esercizio delle indispensabili funzioni dell’holding e della rêverie, con l’introduzione di norme e
limiti che garantiscano quello spazio protetto entro
cui possa svolgersi il delicato processo individuativo.
Ma, come scrive Jung (1934/1954), “il rapporto Anima-Animus è sempre ‘animoso’, cioè emotivo e perciò
collettivo: gli affetti abbassano il livello della relazione, avvicinandolo alla base istintuale comune che
non ha più in sé nulla di individuale”. E così accade
che la relazione possa sfuggire al desiderio di legame,
di reciprocità e al controllo individuale: la coppia
sembra funzionare come un potente complesso, che
attrae tutta l’energia psichica, la capacità genitoriale
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Figure attuali della genitorialità
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si altera fino ad annullare la sintonizzazione e la dialettica degli opposti. L’impossibilità di separarsi dal
proprio inconscio e dall’altro può costringere a legami totalizzanti nei quali regna l’identità inconscia.
Nel primo contributo a nascita di questo volume
de “La Pratica Analitica” Claudio Tacchini, denunciando l’oggettivo aumento dei disturbi evolutivi che
riscontra nella sua attività di neuropsichiatra infantile nell’istituzione (coincidenti con un variegato, vertiginoso aumento della domanda e dell’offerta di cura), accosta il “padre delegante” a madri sempre più
impegnate sul fronte lavorativo/professionale. I ritardi del linguaggio, l’atteggiamento di scarso interesse per la conoscenza e un’aggressività giocata quasi esclusivamente in famiglia (presenti per lo più in
bambini e adolescenti di sesso maschile, spesso figli
unici), vengono letti come manifestazioni di un complesso materno non compensato. “L’uomo - scrive Tacchini - di fronte alla rivoluzione del femminile pare
aver preso spesso le distanze, più che le misure, e
questo ricade pesantemente, e in maniera negativa,
sull’integrazione della funzione genitoriale. Sta di
fatto che manca un terzo, che funga da regolatore e
modulatore di una relazione che, altrimenti, rischia
di rimanere diadica”. Solo una funzione genitoriale
integrata è capace di fornire un equilibrio psichico,
che - conclude l’autore - sta alla base di un’armonia
dialettica tra il complesso dell’Io e gli altri complessi.
Queste considerazioni si coniugano con l’appassionato discorso clinico di Giorgio Cavallari che, riportando l’esperienza all’interno del témenos analitico, osserva che “difficilmente un campo bi-personale,
se non è dialettizzato dalla comparsa di un terzo vertice, rimane un campo vivibile senza correre il rischio
del collasso, del precipitare di un protagonista della
diade sull’altro, della fusione confusiva o dello scontro radicale e distruttivo”. Mentre si punta l’indice sul
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disagio della genitorialità e delle nuove famiglie bloccate nelle proprie dinamiche complessuali, dove complesso materno e complesso familiare si sovrappongono e si confondono, l’autore sottolinea la necessità
della riscoperta del ruolo fondante e responsabile del
padre all’interno della diade madre-figlio. “Essere padri oggi” esige non solo di essere portatore della
“somma delle opinioni tradizionali” (Jung, 1951), che
in parte limitano e qualche volta reprimono le istanze
innovative, ma soprattutto di fare i conti con la paura.
Può accadere, come nel caso clinico di Roberto, che i
padri si trovino a comunicare inconsciamente ai figli
la propria paura del vuoto e i figli (specie in età adolescenziale) reagiscano riempiendo questo vuoto di
rabbia o comportamenti devianti. Da sottolineare il
concetto di passione genitoriale e di passione paterna, che
“esprime anche l’autenticità e l’ambiguità delle forti
commozioni dell’animo, degli stati di travaglio, di sofferenza e di dolore”.
Il lavoro di Elisabetta Baldisserotto introduce i
contributi successivi al volume, che si focalizzano su
tematiche inerenti l’adozione e la post-adozione.
L’autrice presenta l’abbandono e l’adozione nella duplice accezione di esperienze del reale e di categorie
intrapsichiche che hanno un fondamento archetipico. Riprendendo Jung (1936-1937), ci ricorda che la
fantasia “presente in innumerevoli bambini di ogni
età, i quali credono che i loro genitori non siano
quelli veri, ma soltanto genitori adottivi, ai quali sono
stati affidati” ha il fine di mantenere scisse rappresentazioni ed affetti contrapposti verso i propri genitori. L’idea di una seconda nascita, patrimonio del
pensare mitologico e dei riti di iniziazione, è frequente in età adolescenziale, quando si osserva la ricerca di figure adulte alternative da investire del ruolo di genitore amorevole, preservato dalla distruttività riversata sulle figure genitoriali. Ma se è la forza
dell’archetipo a dare forma sia al mito sia all’infanzia
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degli uomini, l’esperienza psichica dell’abbandono è
un’esperienza inevitabile e necessaria per separarsi
dalle imago genitoriali ed imparare ad adottare se
stessi. Ripudiando i genitori biologici, i figli adottivi
possono, invece, presentare una condizione in cui lo
sdoppiamento manifesto nasconde lo sdoppiamento
psichico. E può accadere, spiega l’autrice, di ritrovare un’analoga scissione nel mondo interno dell’adulto: “Come Edipo, ciascuno di noi alberga dentro di sé
quattro genitori, credendo di averne soltanto due”
oppure “mancano l’odio per il padre amato e l’amore per la madre odiata. Perciò bisognerebbe chiedersi: dove sono gli altri due genitori?” In quali fantasie,
sogni, relazioni si manifestano? Il transfert diventa
luogo d’elezione per ricomporre le dimensioni complementari dell’abbandono e dell’adozione.
Nel lavoro presentato da Cecilia Ragaini, Anna Poli e Francesca Cerutti, la riflessione su dati attuali ottenuti dal Tribunale per i Minorenni di Milano, presso cui le autrici operano in qualità di consulenti tecnici d’ufficio, evidenzia come aspetti traumatici inelaborati del minore e incomprensioni nella comunicazione con la coppia genitoriale si intreccino generando una stretta spirale di dolore e di rabbia che,
inesorabilmente, porta al “disconoscimento” del ruolo di genitore e di quello di figlio fino al fallimento
adottivo. È stato proprio il ripetersi di queste deludenti esperienze, specie nel caso di adozioni internazionali, a guidare nella comprensione dell’errore:
“non con un rito di rinascita si diviene figli adottivi,
ma con un rito di passaggio lungo e faticoso”. Si è pensato di utilizzare l’approccio della Sand Play Therapy
nella fase di accompagnamento del nuovo nucleo
che deve diventare famiglia adottiva: le immagini, che
“nascono da uno stato di necessità della psiche”, possono tradurre speranze e desideri, emozioni, ricordi
spesso inesprimibili e non condivisibili; la sabbiera,
dove vengono proiettati i vissuti relativi al rito adotti-
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vo, riassume in sé la duplicità delle funzioni materna
e paterna, con il suo essere sia contenitore accogliente e spazio protetto sia veicolo di trasformazione
e di rinnovamento, tramite l’energia catalizzatrice
delle immagini che vi prendono forma. La “presenza
analitica”, offrendo il tempo e il luogo per vivere e
comprendere la rappresentazione del viaggio e dell’incontro, è testimone e garante dello svolgimento
di questo delicato rito di passaggio. Così è nato il
“Progetto Adozioni e Sand Therapy”, basato su un
numero limitato di incontri individuali in spazi esclusivi per il bambino alternati a momenti di incontro e
di condivisione con i familiari. Per i genitori adottivi
che si aprono con il figlio al gioco simbolico, senza
valenze interpretative, l’immagine che irrompe dalla
sabbia “di solito si trasforma, perché il semplice fatto
di averla presa in considerazione è sufficiente ad animarla” (Jung, 1955, 1956). Il percorso clinico di Max
è esemplificativo.
Paola Terrile, analista junghiana nel ruolo di consulente per il Postadozione presso Ente Enzo B (autorizzato per le adozioni internazionali), ci introduce
e ci guida nei profondi movimenti psichici caratterizzanti le primissime fase del percorso post-adottivo. Innanzitutto, sottolinea l’autrice, che si occupa dell’accompagnamento all’incontro dei genitori adottivi
con il figlio “venuto da lontano”, ciò che crea il primo sentimento di unione è una coincidenza simmetrica: da una parte il bisogno istintivo di essere genitori, dall’altra il bisogno del bambino di avere genitori che si prendano cura di lui. Il filo conduttore del
lavoro clinico è l’amplificazione di componenti
egualmente fondanti la relazione genitori adottivi-figlio/figli adottati, coniugando vicinanza affettiva e
diversità, intimità ed estraneità. Il negare o sottovalutare questi aspetti “Ombra” porta a sottovalutare le
peculiarità del percorso di adozione e, a volte, a creare inutili difficoltà nell’entrare in contatto con gli
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aspetti più delicati dell’esperienza di genitore adottivo. Il lavoro post-adottivo assume una valenza di prevenzione del disagio e una valenza educativa, nel senso
più ampio del termine.
Parole come speranza, narrazione, verità sono il
filo rosso del corposo lavoro di Patrizia Conti, analista e consulente tecnico d’ufficio del Tribunale dei
Minorenni, che ci accompagna con la collega Sarah
Francavilla, psicoterapeuta dell’età evolutiva, dentro
il lavoro con le coppie nel periodo di post-adozione. Le parole chiave sono: speranza, portata dall’esperienza
dell’analista, testimone di “incontri riusciti”, che
possa essere preludio di un contenitore mentale cocostruito capace di attribuire un significato a esperienze emozionali individuali e condivise; narrazione,
come preziosa occasione di ricompattare, integrare,
ritessere parti di sé e le diverse componenti di cui la
propria storia è inevitabilmente composta; verità,
perché il bambino adottato dovrebbe poter conoscere le sue vere origini sin da piccolissimo: secondo
le autrici non è necessario che capisca, l’importante
è che sappia.
Il contributo di Francesca Avon colloca il tema
dell’adozione in una più generale esigenza psichica
di ricerca delle origini, che fa parte del percorso di individuazione personale. Nella sua esperienza di analista e componente privato del Tribunale dei minorenni di Milano, l’autrice racconta l’incontro e le testimonianze di persone adulte adottate in cerca delle proprie origini (per un terzo figlie o figli di donne che,
dopo il parto, non avevano acconsentito a essere nominate). Si tratta per lo più di persone arrivate alla
soglia della seconda metà della vita, in cui la ricerca
coincide con eventi biografici che implicano passaggi e cambiamenti relativi all’identità e all’appartenenza. Al centro di queste nuove situazioni si ritrova,
a volte, l’arrivo di un bambino reale. Il bisogno di co-
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noscere le proprie origini, sottolinea l’autrice, sembra muoversi a partire da questo aspetto bambino, probabilmente dissociato, e porta l’adulto adottato ad affrontare stati d’animo legati all’abbandono e alla perdita, a vivere l’esperienza dell’adozione come uno
strappo doloroso nella genealogia. “La maledizione
degli Atridi non è una frase vuota di significato” rammenta Jung (1948). Il lavoro terapeutico, nella maggioranza dei casi citati dalla Avon, consiste nell’accompagnare il paziente a trovare un significato nella
propria storia e a rinominare le esperienze traumatiche che ha vissuto. È proprio il recupero di una narrazione coerente della propria vicenda esistenziale,
più che una ricostruzione precisa e assoluta di ciò
che è stato, a offrire nuovi possibili significati.
L’interessante contributo di Cosimo Sgobba nasce
dall’esperienza di sostegno alle varie forme della cosiddetta genitorialità fragile presso un servizio pubblico dedicato alla tutela minorile. Seguendo l’autore è
possibile addentrarsi nel contesto di valutazione, sostegno e cura, che aiuta a comprendere le complesse
esigenze dell’utenza, che si inquadrano troppo spesso in una prospettiva di “urgenza”, a fatica conciliabile con le possibilità riflessive della mente. La complessità della restituzione e della risposta terapeutica
in tutti i casi sottoposti all’egida di un’Autorità Giudiziaria, per i quali si deve decidere in merito all’esercizio della potestà genitoriale, impone prese in carico multiple nel tentativo di arrivare a una mediazione tra i bisogni del minore traumatizzato, che continua ad avere la necessità di rapportarsi alle figure genitoriali, e le difficoltà dei genitori a fornire risposte
adeguate anziché agire, come spesso accade, la violenza dei loro stessi bisogni attraverso pericolosi giochi proiettivi. Diverse sono le metodologie applicate
e molti i paradigmi di riferimento teorico nel tentativo di assicurare un assetto professionale “orientato al
mantenimento, nella mente dei singoli operatori, co-
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me in quella del gruppo di lavoro, di un adeguato
spazio contestualmente riflessivo e autoriflessivo”. Far dialogare la cultura analitica, nello specifico quella junghiana, nella dimensione gruppale di lavoro e di supervisione aiuta ad affrontare la paura che può paralizzare lo “psicologo sul caso” quando le minacce di
un padre, Lucio, diventano concrete e arrivano a toccare la sua personale famiglia, intossicano la mente e
bloccano il pensiero.
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Il ruolo della madre
fra mutamenti sociali
e permanenza
degli aspetti profondi
del materno
Questo lavoro vuol essere
una riflessione sul rapporto
fra ciò che è permanente, radicato nel profondo, atavico
nel modo di essere madre, ed
i cambiamenti significativi
che investono l’esperienza
concreta della funzione materna e che l’hanno trasformata nel tempo.
Perché questa riflessione?
Credo sia legata ad una esperienza lavorativa che si dipana fra l’essere un analista
junghiano ed un neuropsichiatra infantile e che, di
conseguenza, rende necessaria l’integrazione di una
posizione analitica nell’attività di consultazione, svolta per il Servizio Sanitario Nazionale, che mi mette
quotidianamente a confronto con una grande varietà di problematiche psico-sociali, nell’atto di valutare
una situazione di disagio, o psicopatologia, all’interno della famiglia. Sono presenti, nella società odierna, una serie di eventi in profondo e continuo mutamento che, inevitabilmente, incidono sulle dinamiche familiari.
Gli eventi principali che prenderò in considerazione riguardano tutti gli attori della scena familiare:
le donne che sono sempre più impegnate in attività,
lavorative e no, che le portano fuori casa, nel mondo
circostante, con ruoli e responsabilità analoghe a
quelle dei loro uomini.
Gli uomini che, per tutta una serie di motivi, faticano a fare i conti con questa realtà e che, spesso,
non riuscendo a condividerla, prendono le distanze.
I figli, infine, che sono sempre più spesso figli unici, posti al centro del nido, vale a dire di un mondo,
sovente chiuso all’esterno, che poco comunica con
l’esterno, quanto meno per tutta una serie di aspetti
correlati agli eventi negativi che costellano la vita, e
che risultano poco tollerabili, o addirittura inaccetta-
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bili, per le capacità elaborative dei genitori.
Sono tutti elementi che, spesso, ci potrebbero dare ragione del funzionamento alterato dei singoli all’interno dei gruppi sociali. Si potrebbe, quindi, rischiare di non tenere in debito conto le dinamiche
più profonde, sia dell’inconscio collettivo, sia dell’inconscio personale che, nel caso del materno, hanno
a che fare con l’archetipo della madre e con il complesso materno, nei suoi aspetti positivo e negativo, e
che sono, invece, proprio i temi fondamentali, necessari a delineare un profilo psichico individuale, o
delle dinamiche familiari, con le debite caratteristiche di completezza ed integrazione. Temi fondamentali anche per una diagnosi, non intesa come inquadramento nosografico in un manuale diagnostico-statistico, ma nel significato etimologico di “capire
attraverso”, vale a dire dare un senso ai sintomi ed ai
segni che si evidenziano.
In realtà, proprio pensando a quegli equilibri che
saltano nelle dinamiche familiari attuali, alla prevalenza, assai frequente, di nuclei psichici a forte rilevanza emotiva, abbiamo la possibilità di riferirci al
concetto junghiano di complesso a tonalità affettiva:
“È l’immagine di una determinata situazione psichica caratterizzata in senso vivacemente emotivo che si dimostra inoltre incompatibile con l’abituale condizione o atteggiamento della
coscienza. Questa immagine possiede una forte compattezza
interna, ha una sua propria completezza e dispone inoltre di
un grado relativamente alto di autonomia, il che significa che
è sottoposta soltanto in misura limitata alle disposizioni della
coscienza e si comporta perciò, nell’ambito della coscienza,
come un corpus alienum animato” (Jung, Vol. 8, p. 113).
Riprenderò il concetto di complesso, che ha una
parte fondamentale nel dipanarsi di questa relazione, proprio perché, come già si può intuire, diviene
il crocevia di più piani: quello inconscio, collettivo ed
individuale, e quello conscio, correlato alla propria
costituzione personale e familiare.
Le numerose consultazioni familiari svolte sono
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Il ruolo della madre fra mutamenti sociali e permanenza...
motivate dai genitori, nella maggior parte dei casi, in
base ad un supposto disagio o psicopatologia dei figli.
In verità la consultazione è, generalmente, a cura
esclusiva delle madri che, se da un lato hanno la sensibilità di comprendere che qualcosa non funziona
nei loro figli, dall’altro fanno fatica ad orientarsi nella confusione di realtà familiari nelle quali, il disagio
dei figli, è solo una parte e, spesso, neppure la più importante.
Le famiglie infelici sono tante e, come scritto nell’ìncipit dell’Anna Karènina di Tolstòj:
“Tutte le famiglie felici si assomigliano; ogni famiglia infelice
è invece disgraziata a modo suo”.
Vorrei tracciarne, però, dei tratti comuni.
I figli sono sempre meno, tanto da poter pensare
a generazioni di figli unici; sono, spesso, generati in
età tardiva, doni preziosi ricevuti all’ultimo momento. Questi figli sono, così, investiti da aspettative assai
pesanti da sopportare: esemplari unici che devono
farsi strada nella vita, realizzando i sogni dei genitori,
e che dovranno, poi, prendersi cura di loro, magari a
scapito della loro vita privata.
Questo investimento esclusivo nasce fin da subito
e confonde i bambini, piccoli principi in casa e uno
fra tanti altrove; ciò che si sperimenta a casa con i soli genitori, mancando spesso fratelli o sorelle, è troppo diverso da ciò che accade fuori, luogo di frustrazioni, di emozioni negative che, in alcuni casi, sono
sconosciute o mistificate. Fuori casa, in ogni modo, si
imparano delle cose, anche importanti, e non sempre questi insegnamenti corrispondono alla filosofia
familiare; ne nasce una discrepanza che, prima o poi,
porta a confronti e recriminazioni, anche dure e dolorose. La fiducia e l’affidamento vacillano e l’imprinting familiare perde il suo valore profondo, condiviso anche con l’etologia: preparare alla vita, in autonomia.
Il fatto che le donne d’oggi lavorino sempre più
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frequentemente, con maggiori responsabilità, e con
un impegno che le porta ad un grande dispendio di
tempo ed energie non è, naturalmente, un aspetto
negativo; entra, però, in conflitto con il bisogno di
conferma che i figli hanno: vale a dire quello d’essere al centro del mondo e dell’interesse materno.
Il padre, in tutto ciò, non ha sufficiente influenza;
frequente è il suo delegare alla donna la cura dei figli, l’organizzazione ma, soprattutto il pensiero su di
loro; non è una novità, forse, ma mi pare che, questo
aspetto, si inserisca in un movimento più ampio: l’uomo, di fronte alla rivoluzione del femminile, pare
aver preso spesso le distanze, più che le misure e,
questo, ricade pesantemente, ed in maniera negativa,
sull’integrazione della funzione genitoriale.
Sta di fatto che manca un terzo, che funga da regolatore e modulatore di una relazione che, altrimenti, rischia di rimanere diadica.
Si assiste ad una scarsa modulazione nella relazione di coppia, nella dialettica maschile-femminile, che
comporta una profonda rigidità dei ruoli: la donna,
nel momento in cui diviene anche madre, perde, in
molte situazioni relazionali di coppia, il riconoscimento della propria parte femminile di moglie o
compagna, restando, esclusivamente, nel ruolo di
madre. Questa riduzione è foriera di dinamiche profondamente alterate nell’equilibrio familiare: l’uomo, che si relaziona con la propria donna investendola, prevalentemente, del ruolo di madre, rischia di
mettersi in competizione con i figli, per lo più con il
figlio unico, per averne l’attenzione maggioritaria.
Nascono dinamiche di gelosia che, invece d’essere
vissute fra i figli, coinvolgono i padri, come se i protagonisti di tutto questo avessero pari ruolo in famiglia, con tutte le conseguenze del caso ma, soprattutto, minando alla base l’autorevolezza paterna e rendendo insensato il conflitto generazionale, così importante per una reale crescita, proprio perché la differenza generazionale si abolisce.
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Il ruolo della madre fra mutamenti sociali e permanenza...
La funzione genitoriale, così poco equilibrata, più
facilmente costella lo sviluppo di una complessualità,
generalmente materna, con quell’eccesso di energia
psichica che, talora, può determinare la scissione e
l’isolamento del nucleo d’energia psichica dal resto
della psiche, generando un complesso materno a forte prevalenza.
Ritengo, però, che tale possibilità divenga frequente proprio nelle situazioni di scarso equilibrio
maschile-femminile, quando il paterno, con le caratteristiche di pensiero e norma, fa mancare la propria
funzione trasformativa, di contenimento necessario
alla crescita dei figli e di supporto al materno.
Tutti gli elementi esposti ci danno ragione di tutta una serie di disturbi dell’età evolutiva che, per altro, hanno una prevalenza in aumento costante: vorrei chiarire che non si tratta di psicopatologie, ma di
segni di un disagio, continuativi e mutevoli, che sono
correlabili ad un funzionamento non adeguato, di
impronta familiare.
Da qui la necessaria attenzione a non commettere
l’errore di attribuire ai figli il ruolo di malati: il meccanismo che, assai spesso, si rileva è quello del capro
espiatorio che permette ai genitori di non mettersi in
discussione.
Vorrei citare, brevemente, alcuni dei disturbi in
questione, proprio per chiarire meglio il senso di
queste dinamiche familiari alterate: ritengo che il
contrasto fra nido e mondo esterno sia alla base di
molti di questi disturbi perché il bambino, capace di
abitare la casa con sicurezza, talora tirannicamente e
con onnipotenza, si trovi poi, fuori, in un mondo che
ha regole differenti, tutte da scoprire, specie negli
aspetti regolatori e frustranti. Ne nasce una insicurezza che, molto spesso, assume caratteristiche d’ansia, terreno fertile per l’espressione di vari disturbi e,
in primis, quelli del comportamento, in massiccio e
preoccupante aumento.
Il mondo è differente da come i genitori l’avevano
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dipinto, non se ne è più al centro, ma si deve conquistare, faticosamente, tutto, anche ciò che si era dato per scontato.
Il senso di essere stati ingannati è fonte di aggressività ed ira, che non lascia spazio a riflessioni mature di assunzione di responsabilità: è necessario trovare un colpevole, e la madre diviene la vittima, fondamentalmente perché non farà, in ogni modo, mancare il proprio amore.
È esperienza comune, di chi lavora nell’ambito
dell’età evolutiva, riflettere sul fatto che, il 70% dei
minori portati in consultazione è di sesso maschile e
che, per quanto concerne la fascia d’età, quella più
rilevante per prevalenza, corrisponde, più o meno,
alla scuola media inferiore.
Esiste una associazione di sintomi, segni e atteggiamenti assai comune, ma che non ha un inquadramento diagnostico né che, probabilmente, può avere, proprio per la vastità rappresentata: ragazzini con
difficoltà scolastiche, non correlabili a disturbi specifici dell’apprendimento, né a ritardo mentale, ma
che presentano un atteggiamento di scarso interesse
per la conoscenza.
Mancanza di senso di responsabilità, difficoltà nel
reale confronto con i coetanei, mancanza di iniziativa, se non una vera e propria passività, diffusa e marcata che, nei casi più gravi, induce ad un vero e proprio isolamento sociale.
Ansia ed insicurezza, manifestazioni della paura di
sbagliare, di non essere all’altezza. Fobie ed inibizioni che limitano grandemente il campo d’azione di
questi ragazzi. Aggressività, giocata quasi esclusivamente in famiglia, spesso come sfogo ai soprusi subiti all’esterno, fuori dal rassicurante nido e che, in
molti casi, si esprime come un vero e proprio disturbo della condotta, con disturbi emotivi associati.
Queste sono le manifestazioni del complesso materno, che non necessariamente è definibile negativo, ma che assume un’energia psichica assai consi-
21
Il ruolo della madre fra mutamenti sociali e permanenza...
stente, non elaborabile con l’aiuto dei genitori che
spesso, a propria volta, presentano tale complessualità; in altri casi i genitori non svolgono una funzione
genitoriale integrata, capace di fornire un equilibrio
psichico, che è alla base di una buona armonia fra il
complesso dell’Io e gli altri complessi; tale equilibrio
non ci esenta dall’avere dei sani e consapevoli complessi, ma evita che i complessi abbiano noi.
Se ragioniamo su un piano prettamente oggettivo
dobbiamo rilevare che la madre svolge, consciamente, una funzione che potrebbe risolvere queste problematiche: ha più conoscenze, una maggiore cultura e padronanza di una rete sociale che è in grado di
attivare risposte specifiche.
La scuola, soprattutto, è stata investita della funzione di rilevare il disagio dell’età evolutiva, con un
ruolo crescente anche se, talora, spropositato. Trasmissioni televisive e radiofoniche, articoli e saggi divulgativi intrisi di consigli su come crescere i figli. Potrebbe bastare.
Ma quali sono le madri che si incontrano, nell’attività lavorativa, nella vita: sono madri che, in grande
numero, assieme alla preoccupazione che le porta a
rivolgersi ad altri, compresi gli esperti, mostrano
aspetti non consapevoli, che continuano a nutrire le
dinamiche familiari non funzionanti, e non permettono ai loro interventi consci, utili, di esercitare la cura, di essere una madre sufficientemente buona. Esiste un livello “altro” che è necessario affrontare, sia
nella sua essenza, sia nell’uso che ne è fatto. La famiglia attuale pare destabilizzata da mutamenti repentini, continuativi e massicci, che hanno un effetto saturante e stimolano una qualità di pensiero che è rigida e assai omogeneizzata, se non addirittura stereotipata.
Nasce l’esigenza di una posizione psicoanalitica,
che possa portare questo “altro” in questa situazione
confusa, ma rigida, destabilizzata ma tendente alla ripetizione di schemi, compresi quelli disfunzionali.
Figure attuali della genitorialità
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Figure attuali della genitorialità
Claudio Tacchini
Mi colpisce, spesso, un’immagine forte di genitori
che tentano di elaborare e filtrare una grande massa
di stimoli esterni, spesso a beneficio dei figli. Ma è un
bombardamento di dati che, oltre ad essere pesante
per quantità, lo è anche per qualità: è invalso un atteggiamento che trasforma gli esperti, vale a dire persone che hanno esperienza e competenza in un preciso argomento, in tuttologi che propalano l’idea che
tutto si possa spiegare a tutti. Gli elementi che arrivano sono saturi, senza la possibilità di una elaborazione personale, e saturanti.
L’accesso al simbolo sta diventando un lusso, anzi
si è proprio perso il suo significato, la potenza della
vitalità di un’espressione gravida, che non si esaurisca con una definizione certa e che lasci sempre spazio a ciò che non si può conoscere completamente.
L’evocazione dell’arte privilegio di pochi. L’utilizzo
del simbolo, dell’evocazione, è sempre meno parte
della riflessione su di sé, nella costruzione di una storia personale che tenga conto di ciò che è profondo,
di ciò che ci sostanzia nella nostra natura di esseri
pensanti, razionali, ma che devono integrare le emozioni; consapevoli, ma che devono tenere conto dell’inconscio che, sempre, reclama la propria parte.
C’è bisogno di una compensazione, di una integrazione con un altro livello, per non essere travolti
da una sorta di cecità sociologica che rischia di globalizzare anche la psiche, di proporre dei personaggi
stereotipi al posto di quelli dei racconti e dei miti,
personaggi che non sono più animati dal male e dal
bene, che vivono situazioni in cui trovano il male nel
bene, ed il bene nel male. Questi personaggi cangianti ed iperattivi sono, però, fissi nella loro essenza,
non più animati dalla dinamica degli opposti.
Sono persuaso che anche i sempre più frequenti
ritardi del linguaggio siano legati alla caduta di senso
della narrazione, dell’importanza di raccontare a se
stessi ed agli altri emozioni ed immagini profonde; il
linguaggio si spoglia della propria ricchezza e diviene
23
Il ruolo della madre fra mutamenti sociali e permanenza...
una funzione di servizio, non più comunicativa.
La carenza narrativa rende più difficoltoso il contatto con le proprie emozioni, ed anche l’espressione
di sé agli altri; molto spesso un bambino a disagio,
oppure sofferente, fatica a trovare “le parole per dirlo”. È inevitabile il ricorso ad una “messa in scena”
per spiegare ai genitori, o alle figure di riferimento
importanti, le emozioni negative patite. La messa in
scena difficilmente è piacevole, per chi la rappresenta e per chi la osserva ma, nel momento in cui mancano le parole, l’esegesi è a cura dell’adulto che però, purtroppo, troppo spesso equivoca e deve far ricorso alla diagnosi, ed alla cura che ne consegue.
Sappiamo che l’inconscio esiste, anche se, almeno
per ora, non l’hanno evidenziato con la PET (tomografia ad emissione di positroni).
Dobbiamo, però, portarne l’esistenza ovunque,
con più forza e con più frequenza; dovrebbe uscire
dagli studi degli psicoanalisti e manifestarsi in più situazioni, che non siano solo di cura, ma anche di
comprensione del disagio, sia dell’individuo, sia della società.
La corrispondenza degli aspetti immutabili, atavici, profondi e radicati del ruolo materno si correla,
per quanto concerne l’inconscio collettivo, all’archetipo della madre, per quanto riguarda l’inconscio
personale al complesso materno, sia positivo, sia negativo.
Jung si pone il problema dell’importanza della
madre personale sulla psiche infantile e, nel 1938,
scrive:
“(...) a svolgere sulla psiche infantile tutti gli effetti descritti
dalla letteratura non è tanto la madre personale, quanto piuttosto l’archetipo su di lei proiettato, che le conferisce uno
sfondo mitologico e la investe di autorità e numinosità” (Jung
Vol. 9*, p. 84).
di seguito
“(...) io cerco l’origine delle nevrosi infantili nella madre pri-
Figure attuali della genitorialità
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Figure attuali della genitorialità
Claudio Tacchini
ma di tutto, sapendo per esperienza che nel bambino sono assai maggiori le probabilità di uno sviluppo normale e non nevrotico e che nella stragrande maggioranza dei casi le origini
dei disturbi vanno cercate nei genitori, e in special modo nella madre. Ma i contenuti delle fantasie anormali sono da riferirsi alla madre personale soltanto in parte: essi racchiudono infatti attestazioni chiare e inequivocabili che oltrepassano di gran lunga ciò che si potrebbe imputare ad una madre
reale” (ibid.).
Nella lettura di questo scritto si ha l’impressione
che, come è usuale riscontrare in Jung, ci sia un equilibrio fra l’importanza degli aspetti numinosi, e quelli personali, con una dialettica degli opposti, che è
anche il filo conduttore delle questioni inerenti l’inconscio, sia collettivo, con i termini della Madre
Amorosa e della Madre Terrificante, poli estremi degli attributi della madre, sia dell’inconscio personale,
costellato da complessi, che ci dominano quanto più
ci si allontana da un equilibrio fra loro, da una integrazione il più possibile armonica.
Sta di fatto che la realtà da lui descritta è la risultante di molteplici aspetti, così come per tutto ciò
che è importante nella nostra vita: atteggiamenti reali derivanti dalla madre personale, proiezioni archetipiche che conferiscono alla madre anche un’aura
numinosa, che avrà accesso alla consapevolezza, con
il passare degli anni e con l’accumularsi di esperienze profonde.
Il complesso, che può essere considerato il trait
d’union, o forse meglio, il crocevia fra conscio ed inconscio, collettivo e personale, fra la madre personale e quella archetipica, anche in quegli aspetti che si
innestano così profondamente da non parere neppure distinguibili. Jung così scrive:
“L’archetipo della madre costituisce il fondamento del cosiddetto complesso materno. Benché non si sia ancora stabilito
se questo complesso si produca senza partecipazione causale
e dimostrabile della madre, la mia esperienza mi induce a
credere che la madre ha sempre una parte attiva nell’origine
del disturbo, in particolare nelle nevrosi infantili o in quelle
25
Il ruolo della madre fra mutamenti sociali e permanenza...
la cui etiologia risale senz’ombra di dubbio alla piccola infanzia. Poiché in ogni caso è disturbata la sfera istintuale del
bambino, si costellano degli archetipi, i quali si frappongono
come elemento estraneo e spesso ansiogeno tra il figlio e la
madre” (ibid., p. 85).
Il concetto junghiano di complesso, che non necessariamente comporta una correlazione ad una psicopatologia, ci introduce in un terreno “complesso”,
ma assai ricco in cui ogni elemento psichico, conscio
ed inconscio, trova il proprio spazio e la propria dignità: nel campo dei complessi, e del delicato equilibrio necessario fra il complesso dell’Io e tutti gli altri,
contano la nostra storia, la personalità dei nostri genitori, ma anche tutti quegli aspetti inconsci personali, che si tramandano da generazioni, ed in primis
proprio i complessi, materno e paterno, portati dai
genitori stessi.
Jung, già nel 1927, ha in mente la prospettiva
transgenerazionale, ed il rischio di una eredità a trasmissione inconscia che, proprio per questa intrinseca caratteristica, non è elaborabile dalla coscienza:
“Ciò che di norma influisce di più sul bambino a livello psichico è quella vita che i genitori (e i progenitori, poiché si
tratta del fenomeno psicologico primordiale del peccato originale) non hanno vissuto (...) quel pezzo di vita che eventualmente avrebbe anche potuto essere vissuto, se certi pretesti più o meno sottili non l’avessero impedito. Si tratta di un
aspetto della vita a cui — per dirla chiaramente — ci si è sottratti, magari con una pia menzogna. Da qui si sviluppano i
germi più virulenti” (Jung Vol. 17, p. 42).
Nel 1938 una ulteriore intuizione junghiana, che
sarà confermata dall’etologia, con Lorenz, con le teorie dell’attaccamento di Bowlby e con il concetto di
Winnicott per cui il bambino, nel momento in cui
viene al mondo, si aspetta qualcuno che si prenda cura di lui. Jung scrive:
“Portatrice dell’archetipo è anzitutto la madre personale,
perché il bambino vive in un primo tempo in partecipazione
esclusiva, in identità inconscia con lei. La madre è la precon-
Figure attuali della genitorialità
26
Figure attuali della genitorialità
Claudio Tacchini
dizione, il presupposto non soltanto fisico, ma anche psichico del figlio” (Jung Vol. 9* p. 100).
Aleggia su questi aspetti, primigeni e misteriosi,
l’archetipo della madre, con la sua potenza, le sue irruzioni immaginifiche nella nostra vita, organizzatore di aspetti profondi, capace di armonia con tutto il
resto ma fondamento, appunto, del complesso materno. Ritengo questo lo snodo fondamentale, che ci
fa comprendere quanto la teoria dei complessi sia
unificatrice, come possibilità clinica e teorica di integrare gli aspetti del materno archetipico con le trasformazioni storiche; quanto il gioco di armonia dei
complessi fra loro introduca tutti gli altri, compreso
il complesso paterno, che ci illumina sulla funzione
paterna, fondamentale nell’introdursi nella diade
madre-bambino, e nel trasformarla nelle innumerevoli possibilità relazionali che divengono la ricchezza
delle dinamiche familiari sane, necessarie ad una reale evoluzione dei figli.
Esistono innumerevoli aspetti clinici dell’età evolutiva che non trovano spiegazione nel determinismo,
nei fenomeni sociali che, seppure ci diano ragione di
certi accadimenti, non si rivelano così importanti per
tutti; ci sono aspetti individuali che travalicano tutto
ciò e che sono correlati ad un senso più profondo delle cose, ad un fine che, spesso, può sfuggire a chi osserva, ed anche a chi ne è animato. Mi riferisco al concetto di telos junghiano, la necessità di ritrovare un fine, un senso che ci permetta di considerare i sintomi
non come prodotto meccanicistico di un determinismo psichico, ma come la tensione ad uno scopo. Nei
bambini questo senso è assai chiaro, e lo scopo, pur
non completamente consapevole, è quello di trovare
un rimedio ad un disagio per il quale, molto spesso,
anzi sempre più spesso, non trova le “parole per dirlo”; si avverte in loro la necessità di trasformare le dinamiche individuali e familiari che formano un coacervo difficile da definire e da tollerare.
27
Il ruolo della madre fra mutamenti sociali e permanenza...
È, poi, con il passare del tempo che il sintomo cristallizza e rischia di perdere il valore trasformativo originale; la cultura psichiatrica non aiuta, spesso, a ritrovare questi segni, preziosi, ed il loro significato simbolico. Il rimedio diviene peggiore del male, e tutta
l’attenzione è calamitata dal sintomo che, spogliato
dei suoi reali significati, è oggetto di studio, di per sé:
non esiste più la persona che presenta un sintomo,
ma il malato di una precisa psicopatologia, per la quale sono già pronti i rispettivi protocolli terapeutici.
Ritengo che la sfera complessuale, e per l’età evolutiva in special modo il complesso materno, in dialettica con quello paterno, ci permetta ragionamenti
più profondi e l’esercizio di una funzione trasformativa della psiche. Come Jung aveva già compreso sono rare le psicopatologie vere e proprie dell’età evolutiva, e sono ancor meno se escludiamo quelle originate da un disfunzionamento cerebrale primario.
Diviene, così, necessario lo sforzo di comprendere il
senso di un sintomo, vale a dire un segno, più o meno investito di significati profondi e condivisi; questo
crocevia fra inconscio, personale e collettivo, ed il
conscio degli attori delle dinamiche familiari, è rappresentato dal complesso, ed è quanto di meglio si
possa utilizzare per poter tenere conto di tutti gli
aspetti che sono stati presi in considerazione.
La realtà del complesso materno è assai viva nel
mondo infantile e nella modulazione della psiche in
crescita, con le enormi potenzialità fornite dagli opposti, compresa quella polarità della madre terrificante, ctonia, che non permette ai figli di crescere,
ma che è necessario considerare senza scandalo: parlare di madri ambigue o ambivalenti è relativamente
semplice. Assai più difficile pensare ad una madre così amorevole da impedire ai figli di allontanarsi da
lei, fino ad utilizzare mezzi terribili, così simili a quelli di una madre terrificante: gli estremi si toccano, e
sono parte di tutti noi, ma tocca scomodare Terenzio:
“Sono un essere umano, e non considero da me alie-
Figure attuali della genitorialità
28
Figure attuali della genitorialità
Claudio Tacchini
no nulla che sia umano”.
C’è da domandarsi se questa consapevolezza sia
poi così difficile da sopportare di per sé, oppure perché pochi sono coloro che possono spingersi all’individuazione: staremo a vedere ma, spesso, la possibilità di unire il numinoso ed il quotidiano, l’alto ed il
basso, esiste, soprattutto nel campo dell’arte.
Vorrei concludere, quindi, con le parole di un
grande scrittore, John Fante che ormai vecchio, poche settimane prima di morire, rilasciando l’ultima
intervista disse, riguardo al suo primo romanzo
“Aspetta primavera, Bandini”, dedicato alla madre, e
non solo per la dedica iniziale:
“Di una cosa sono sicuro: tutta la gente della mia vita di scrittore, tutti i miei personaggi si ritrovano in questa mia prima
opera. Di me non c’è più niente, solo il ricordo di vecchie camere da letto, e il ciabattare di mia madre verso la cucina”.
Bibliografia
Jung C. G.(1934), “Considerazioni generali sulla teoria dei complessi”, Vol. 8, Boringhieri, Torino.
Jung C. G.(1938), “Aspetti psicologici dell’Archetipo della madre”, Vol. 9*, Boringhieri, Torino.
Jung C. G.(1927), “Prefazione a F. G. Wickes, Il mondo psichico dell’infanzia”, Vol. 17, Boringhieri, Torino.
29
Figure attuali della genitorialità
Essere padri oggi:
riscoperta
di un ruolo
Inizierò questo lavoro parlando di due
“incontri” avvenuti nella mia storia di
analista, il primo molti anni fa, all’inizio della mia professione, il secondo
invece assai più recente.
La cosa che accomuna i due soggetti, peraltro fra loro diversissimi, è che
entrambi hanno parlato, nel primo incontro con me, del loro padre.
Giovanni fu uno dei miei primi pazienti, mi consultò inviato da un collega più anziano, che lo aveva seguito come psichiatra per la comparsa di sintomi ansiosi, e
poi aveva suggerito lo svolgimento di una psicoterapia. All’appuntamento mi trovai di fronte un giovane
di trent’anni, che mi salutò in modo molto rispettoso, nonostante avessi pochi anni più di lui, e mi chiese se poteva togliersi la giacca: era estate, e nel mio
studio allora privo di condizionatore faceva molto
caldo. Fui colpito da una stretta di mano molto vigorosa, e dall’atteggiamento formalmente corretto e rispettoso fin quasi ai limiti della rigidità. Mi raccontò
della comparsa di sintomi ansiosi avvenuta pochi mesi prima con tensione muscolare, apprensione esagerata anche per problemi minimi, difficoltà a dormire, sintomi che si erano attenuati grazie alla terapia
farmacologica, ma di cui voleva capire l’“origine”. Mi
parlò di una vita fino a quel momento normale, anzi
di una normalità che in particolare a livello sociale
rasentava la descrizione del soggetto normotico fatta
da Bollas1, caratterizzata in particolare da ottimi risultati scolastici, una laurea brillantemente conseguita in chimica, l’inserimento lavorativo in una multinazionale. Dal concetto di normoticità lo allontanavano però lo sguardo ed una vitalità che appariva presente, per quanto coartata e inibita. Mi raccontò una
vita in cui sicuramente l’impegno, lo studio, la serietà nel conseguire gli obiettivi avevano prevalso sull’inquietudine giovanile, sulle ragazze, sul diverti-
Giorgio Cavallari
1. Bollas C.: The shadow of
the object. Psychoanalysis of
the unthought known, Columbia University Press,
New York, 1987.
30
Figure attuali della genitorialità
Giorgio Cavallari
mento, una esistenza dove le cose “serie” avevano comunque sempre funzionato bene: sembrava una storia in cui l’ansia non potesse avere terreno in cui affondare le radici.
Quando gli chiesi della famiglia il discorso prese
le mosse proprio dalla descrizione del padre, un uomo “grande”, nella statura fisica e nell’incombenza
psicologica sui figli; una figura che fu sempre dal
quel momento “grande”, nel bene e nel male, all’interno del percorso analitico che avremmo svolto insieme. Mi fu descritto sottolineandone la severità, il
rigore, la coerenza fra il senso del dovere che insegnava ai figli e quello che applicava quotidianamente
prima di tutto a se stesso. Uomo profondamente religioso, raccontò un giorno al mio paziente che da giovane fece parte di un gruppo cattolico in cui si praticava anche l’uso del cilicio, in certi periodi dell’anno
liturgico, per temprare il corpo e la mente. Giovanni
lo aveva introiettato come una presenza forte, stabile,
per alcuni versi temibile, per altri rassicurante. Rassicurante per la sua fedeltà alla famiglia, per la sua presenza assidua, per la sua capacità di mantenere un atteggiamento continuo e stabile nel tempo, per la decisione con cui aderiva, anche imponendoli, a modi
di pensare e di agire che erano molto protettivi anche se a tratti soffocanti. Temibile per la sua severità,
per la sua censura di ogni atteggiamento “leggero”,
spiritoso, anche moderatamente trasgressivo.
Conobbi Roberto invece nel recente passato. Al
primo appuntamento mi trovai di fronte un ragazzo
di sedici anni, vestito in canottiera e pantaloncini, come se fosse in una palestra, e che mi dava del tu, nonostante avessi più di tre volte i suoi anni. Fra i problemi che avevano indotto i genitori a chiedere la
consultazione vi era l’ennesimo imminente insuccesso scolastico (stava per concludere per la seconda volta con una bocciatura il primo anno di superiori) ed
il comportamento che teneva in casa. Era infatti aggressivo, provocatorio, polemico, in continuo conflit-
31
Essere padri oggi: riscoperta di un ruolo
to con i genitori e la sorella di pochi anni maggiore.
Anche lui mi parlò di suo padre nella prima seduta, in un modo però completamente diverso da quello usato da Giovanni, che riporto di seguito nel dettaglio con le sue precise parole, perché estremamente significativo.
“Il mio nervosismo è colpa di mio padre, lui mi dice fai quello che vuoi, dice puoi fare quello che vuoi,
lui usa tanto la psicologia, lui dice sempre fai quello
che vuoi, la vita è tua, lo faceva anche suo padre con
lui, guarda che suo padre se ne fregava di lui, e gli diceva sempre di fare quello che voleva, e che la vita era
sua”. Come è mia abitudine nel lavoro con gli adolescenti, vedo preliminarmente i genitori, che poi di
solito incontro con una certa regolarità, circa ogni
tre, quattro mesi, se dai primi colloqui con il ragazzo
(o ragazza) scaturisce un progetto di trattamento. Vidi il padre del paziente la prima volta da solo, in
quanto la moglie aveva avuto un imprevisto e non
aveva potuto presenziare al primo appuntamento, e
in seguito con la mamma di Roberto. Mi apparve come un uomo pacato, disponibile a confrontarsi con
me, sinceramente preoccupato per i problemi del figlio, in particolare per gli insuccessi scolastici e per i
comportamenti aggressivi. Parlava di Roberto con un
misto di preoccupazione, rassegnazione, dispiacere,
a tratti sembrava sentirsi autenticamente “in colpa”
per gli atteggiamenti del ragazzo, mi precisò più volte che si era sempre sforzato di parlare con il figlio,
di ascoltarlo, di dialogare con lui. Raccontò anche
che non aveva mai preteso troppo, e che lo aveva
sempre lasciato libero di pensare con la sua testa. La
cosa che più mi colpì fu però una frase: in una discussione riguardante la scuola, Roberto gli disse la seguente frase: “tu devi obbligarmi a studiare”. Mi apparve come un uomo sinceramente preoccupato e
motivato ad aiutare il figlio, e contemporaneamente
disarmato di fronte a tale compito. Soprattutto mi
sembrò che avesse paura, paura che la situazione po-
Figure attuali della genitorialità
32
Figure attuali della genitorialità
2. Jung C. G.: “La sigizia:
Anima e Animus”, in Opere, vol. 9**, Boringhieri,
Torino 1982.
Giorgio Cavallari
tesse sfuggire di mano, che Roberto non trovasse una
sua strada, che potesse rimanere vittima dell’abuso di
sostanze stupefacenti; nella frase del figlio che mi riportò, “tu devi obbligarmi a studiare” colsi peraltro
tutta la crisi di una paternità, che investiva il padre di
Roberto, ma con lui molti altri padri di ragazzi adolescenti, a cui i figli possono purtroppo “rimproverare” l’abdicazione, la rinuncia ad occupare un posto
qualificato come autorevole.
Nel caso di Giovanni la figura paterna fu presente
nella vita del paziente con una pluralità di valenze,
che possono peraltro essere ricondotte ad alcuni nodi forti che brevemente illustrerò. Si trattava di un
padre che in primo luogo era portatore di un patrimonio valoriale sentito e proposto come forte, stabile,
ordinatore. Pochi principi morali di riferimento proposti con una ridondanza addirittura rituale: i valori
religiosi (la religione cattolica da praticare e rispettare), i valori di impegno sociale e civile (studiare e lavorare in modo serio e rigoroso), i valori familiari (la
fedeltà coniugale, l’obbligo di mantenere la famiglia,
l’impegno di svolgere un ruolo educativo).
In secondo luogo il padre di Giovanni si presentava come portatore di valori ereditati da una “tradizione”: un ruolo paterno appreso dal proprio padre, da
incarnare e da trasmettere a sua volta. La religione, il
lavoro, il rispetto delle norme non era solo funzionale alla conservazione del presente, era anche il mantenimento di una continuità con il passato, e da tale
continuità traeva forza, incisività e legittimazione, ed
anche speranza per il futuro. Parlando in un suo testo del concetto di padre, Jung ne parlò come del
portatore della “somma delle opinioni tradizionali”;2
possiamo vedere in questa definizione certamente
l’eredità freudiana della funzione del padre come interprete e veicolo dell’istanza normativa collettiva,
ma anche qualcosa di più: il veicolo possibile della
trasmissione nel tempo di valori potenzialmente ispiratori e organizzatori del modo di pensare, di agire e
33
Essere padri oggi: riscoperta di un ruolo
di rapportarsi.
Le “opinioni tradizionali” non sono solo consuetudini che limitano, e qualche volta reprimono, le
istanza innovative: vi è in esse sedimentata anche
quella eredità che la storia delle società, dei gruppi,
delle famiglie ha portato fino a noi, consegnandocela. Vi è in esse la somma dell’energia, del coraggio,
delle paure, degli sforzi, degli errori appartenuti alle
generazioni precedenti. Vi è in particolare ciò che gli
antenati hanno imparato, vivendo, della vita. Una
eredità insieme preziosa e scomoda, utile e pericolosa, che può aiutare e che può schiacciare, ma comunque una eredità da cui non si può sfuggire. Prendendo a prestito un concetto mediato dal diritto va
accettata con “beneficio di inventario”, non passivamente, non in modo troppo timoroso e sottomesso;
allo stesso tempo, però, non può essere fuggita. È interessante notare come nella tradizione anglosassone
i cognomi (surname) fossero anticamente costruiti
con due parti: il nome del padre in primo luogo, cui
era aggiunta la particella son (figlio). Robertson è Robert-son, il figlio di Robert, Johnson è John-son, il figlio di John. Ciò significa che chi porta quel cognome dichiara pubblicamente di essere figlio, di avere
una radice, e allo stesso tempo di essere una entità individuale: vengo da Robert, questo è il mio destino,
ma sono suo figlio, sono una entità diversa da lui, infatti oltre al cognome porto un nome personale.
Nel caso del padre di Giovanni la presenza dei valori e la continuità che questi istituivano con il passato apriva la strada alla possibilità di svolgere una ulteriore funzione: quella di essere un soggetto “orientante” nella vita del paziente. Il messaggio trasmesso
ai figli suonava in qualche modo così: ti do questo
corredo valoriale, che a mia volta ho tratto da mio padre, dal padre di mio padre, e dal Padre di tutti noi,
che è il Dio patriarcale della tradizione giudeo-cristiana. Insieme al corredo ti do anche una strada da
percorrere, che è la continuazione di quella che io, e
Figure attuali della genitorialità
34
Figure attuali della genitorialità
Giorgio Cavallari
i padri prima di me, hanno già percorso.
Tutto questo poneva in rilievo la presenza di un
quarto elemento che fu nodale nel rapporto di Giovanni con il padre, e nel nostro lavoro di analisi: il tema della paura. La figura paterna incuteva paura
quando Giovanni era bambino con la sua presenza
reale, ed al momento della consultazione, anche se il
paziente viveva già da solo, continuava a generare tale emozione come oggetto interiorizzato ma ancora
molto presente.
Lo sguardo, la voce, la visione del mondo, i giudizi del padre comparivano nella dimensione intrapsichica inducendo il timore di sbagliare, un senso del
dovere potente, un rispetto dell’autorità che apparivano francamente ipertrofici. Deviazioni (poche) o
insufficienze nella strada indicata dal padre alimentavano sensi di colpa profondi. Timore di sbagliare e
conseguenti sensi di colpa alimentavano il senso di
inadeguatezza e l’inquietudine, che divenivano poi
sempre più spesso franca paura, sperimentata sotto
forma di ansia libera, di somatizzazioni, oppure
proiettata sul mondo esterno e su figure che entravano a vario titolo nella vita di Giovanni (colleghi, superiori, amici, figure femminili con cui si ingaggiava
in rapporti affettivi).
Il lavoro di comprensione partì proprio dal bisogno di confrontarsi prima, ed emanciparsi poi, dalla
paura prodotta dalla presenza ingombrante del padre esterno e di quello interiore. Fu una emancipazione che portò gradualmente a due risultati: primo
fra questi la possibilità di differenziarsi, e di fare
emergere quindi un modo proprio, personale, di essere uomo in rapporto alla società, al lavoro, alle figure femminili, e dopo alcuni anni anche di essere
padre a propria volta. Nel processo analitico, il secondo risultato fu un altro tipo di differenziazione
operata nella dimensione psichica, a carico della immagine interiorizzata del genitore: la distinzione fra
la parte opprimente, moralistica e patologicamente
35
Essere padri oggi: riscoperta di un ruolo
super-egoica del padre, e la eredità valoriale, e quindi potenzialmente costruttiva dello stesso. L’uomo
può, di fronte ad un oggetto che incute paura, attivare due forme di risposta: la prima è la fuga, la seconda consiste nell’affrontare la paura stessa. La radice naturale di questo sta nell’istintiva adozione dei
comportamenti auto-preservativi di attacco o fuga,
flight or fight. Ad un livello arcaico, l’oggetto che incute paura è fuggito o attaccato, con modalità di solito impulsive; l’evoluzione dell’apparato psichico
permette una terza via, che è quella della adozione di
condotte più articolate e organizzate. Tutte queste
passano inevitabilmente attraverso una porta: quella
della conoscenza della paura, e in particolare dell’oggetto che la genera, e quello della conoscenza di
se stessi, delle proprie risorse e dei mezzi di cui si dispone o cui si può accedere. Il padre temuto deve essere conosciuto, per conoscerlo bisogna differenziarsi da lui, e conoscerlo vuole dire comprendere i suoi
aspetti inquietanti, ma anche quelli potenzialmente
costruttivi. Nel testo biblico dove Dio (Padre) consegna a Mosè le tavole con la legge, con i comandamenti che il popolo dovrà rispettare, si parla espressamente del dovere di onorare il padre e la madre.
Non si menziona in primo luogo la necessità di obbedire ai genitori, ma di onorarli. Altrove la stessa
Bibbia parlerà espressamente del fatto che il figlio
dovrà lasciare il padre e la madre: però si può lasciare
(conquistando la autonomia) solo genitori che sono
stati onorati: che sono stati ascoltati, temuti, conosciuti restando al loro cospetto anche quando questo
poteva causare sofferenza, e infine, al termine di un
cammino di maturazione, lasciati.
Una novella inglese parla di un marinaio che tornava a casa una volta all’anno, dopo mesi di navigazione e conseguente assenza, e ingaggiava una lotta
rituale con il figlio maggiore, sottomettendolo ogni
anno, ovviamente sempre con maggiore fatica, perché il ragazzo era ogni anno più grande e robusto.
Figure attuali della genitorialità
36
Figure attuali della genitorialità
Giorgio Cavallari
Venne finalmente un giorno in cui il figlio, ormai
cresciuto abbastanza, prevalse sul padre. A quel punto poté imbarcarsi a sua volta, non era più un bambino, era diventato un uomo, anche grazie alle sconfitte subite dal genitore, che gli avevano però permesso
di conoscere la forza e la virtù del padre: ora finalmente gli spettava il diritto di navigare per il mondo,
era diventato a sua volta un marinaio.
Nel caso di Roberto la paura era pure presente,
ma in un modo completamente diverso. In primo
luogo era la paura del padre, che temeva di non riuscire a gestire le condotte aggressive e disorganizzate del figlio adolescente, una paura che ho avuto modo di rilevare più volte nei genitori che mi consultano per le problematiche dei loro ragazzi o ragazze.
Una paura su cui voglio soffermarmi, in quanto
esprime un autentico “tremore”, un vacillare che
molti genitori ( e in particolare padri) provano di
fronte al compito di svolgere il proprio ruolo nei
confronti dei figli. Per generazioni, attraverso i secoli e i millenni, nel rapporto genitori-figli il senso di
colpa e la paura spettavano maggiormente ai secondi. Anche nel recente passato, “Io ti mantengo, tu devi studiare ed essere promosso!” era il messaggio che
in maniera ora esplicita ora implicita, ora autoritaria
ora benevola, induceva i figli ad impegnarsi per evitare bocciature o esami a settembre. L’insuccesso scolastico veniva considerato conseguenza di negligenza, di trascuratezza, di leggerezza dei ragazzi, e comunemente i genitori se ne assolvevano. Oggi, in
molti casi, la situazione è diversa. Nel caso di Roberto, come in altri analoghi che ho visto, i padri vivono
invece i problemi scolastici e comportamentali dei figli come testimonianza di propri errori, limiti, inadeguatezze. In alcuni domina un autentico senso di colpa, in altri uno smarrimento spaventato, in altri ancora un senso di inadeguatezza, in molti una drammatica percezione di essere soli di fronte al compito
educativo. “Dove ho sbagliato” è la domanda che
37
Essere padri oggi: riscoperta di un ruolo
pongono, e che si pongono.
Un tempo i padri si sentivano nel giusto per principio, davano regole e incutevano paura, e potevano
talvolta abusare in modo anche brutale del loro potere: ricordiamo tutti la drammatica pellicola “Padre
padrone” dei fratelli Taviani, il film è del 1977, l’autoritarismo patriarcale vacillava di fronte al farsi avanti dei movimenti giovanili e antiautoritari, del femminismo, di una nuova politica dei generi e dei rapporti familiari. Oggi assistiamo invece non raramente ad una situazione rovesciata. Quando un analista
sente dire dal sedicenne Roberto “Il mio nervosismo
è colpa di mio padre, lui mi dice fai quello che vuoi,
dice puoi fare quello che vuoi, lui usa tanto la psicologia, lui dice sempre fai quello che vuoi, la vita è tua”
non può essere così ingenuo da cadere nella trappola di un ragazzino che si sta giustificando, ma deve
nondimeno cogliere la denuncia di una drammatica
carenza paterna, di una paura paralizzante che affligge il genitore. La vita di un sedicenne non può essere totalmente sua, non lo può essere giuridicamente, non lo può essere psicologicamente.
La “volontà” di un sedicenne deve essere costruita, passando anche attraverso la necessità di subire,
non senza dolore e frustrazione, la superiore volontà
paterna. La frase rivolta al padre “Tu devi obbligarmi
a studiare” può essere una manovra manipolatoria
del ragazzo, ma è anche la dichiarazione di una necessità educativa, una richiesta inconscia che esprime
la necessità di essere “condotti”, gradualmente, alla
conquista e all’esercizio della libertà. In un saggio di
contenuto filosofico ma di rilevante interesse per chi
come noi pratica quotidianamente la psicologia analitica, in particolare con soggetti in età adolescenziale, Hans Jonas si interroga radicalmente sul tema della libertà, e ci dà spunti preziosi per la riflessione teorica e per l’ispirazione del lavoro clinico.
Jonas parla infatti di tre gradi iniziali di libertà. Il
primo riguarda la
Figure attuali della genitorialità
38
Figure attuali della genitorialità
3. Jonas H.: Materia, spirito e creazione, Morcelliana,
Brescia 2012.
4. Ibidem.
5. Ibidem.
6. Ibidem.
Giorgio Cavallari
“libertà del pensiero di autodeterminarsi nella scelta della
propria tematica attuale…l’uomo può riflettere su ciò che gli
pare, seriamente o per gioco, fino al punto di essere frivolo”.3
Nessuno può obbligare una persona (compreso
un adolescente) a pensare ad un oggetto, o a non
pensarne un altro, a concentrarsi su una cosa seria, o
su questioni di rilevante spessore piuttosto che banali. La nostra mente va dove noi la indirizziamo, ed abbiamo la libertà, almeno parziale, di mandarvela.
Il secondo livello di libertà riguarda la facoltà di
“trasformare il dato sensibile in immagini interiori create autonomamente”.4
Io, come chiunque altro, posso creare le rappresentazioni che voglio di ciò che accade nella realtà,
in autonomia. La mia mente è libera di rappresentarsi la realtà secondo modelli interpretativi, logici e
valoriali che sono personali. Un terzo piano di libertà è costituito da una libertà che Jonas chiama semplicemente la “libertà di oltrepassare”,5 cioè la fondamentale libertà umana di guardare oltre, di gettare lo sguardo, il pensiero, la attività immaginativa oltre i limiti personali e collettivi. Per Jonas lo spirito
giovanile nel momento in cui si cimenta con tale
possibilità accede ad
“una libertà trascendente dello spirito, che è mossa da un proprio eros”.6
Un adolescente come Roberto sperimenta necessariamente, grazie anche alle modificazioni profonde
che avvengono nella sua mente, nel suo corpo, nel
suo sistema nervoso centrale, nel suo sistema endocrino la vertigine e l’eccitazione della possibilità di potere pensare ciò che vuole, di trasformare i dati sensibili, di oltrepassare. Si parla qui della libertà di trasgredire le regole proposta dai genitori, dalla famiglia,
dalla società, quella libertà che se gestita in modo maturo porta alla autonomia, alla innovazione e alla
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Essere padri oggi: riscoperta di un ruolo
Figure attuali della genitorialità
creazione di nuovi stili, comportamenti e valori, in altre parole alla creazione di regole personali cui aderire e a cui ispirare la propria condotta. Viceversa,
quando esercitata da soggetti immaturi la libertà di oltrepassare sfocia nel pericolo sempre incombente dell’anomia, con la distruzione, e non con l’evoluzione,
delle regole.
Jonas ci ricorda però anche una quarta libertà, il
confronto con la quale è un tema nodale nella adolescenza, la
“libertà morale tipica dell’essere umano. Tra tutte essa è la
più trascendente, oltre che la più pericolosa, poiché è anche
la libertà di far fallire se stessi, della insensibilità per scelta,
addirittura dell’opzione contraria sino ad arrivare al male radicale”.7
Nel compito di acquisire tale quarta, potente e pericolosa libertà l’adolescente non può essere lasciato
solo: la conoscenza circa il bene e il male, e la facoltà di discernerli, deve essere insegnata, è un compito
genitoriale e paterno in particolare.
Il padre di Giovanni era convinto di sapere con
certezza cosa era il bene, e lo imponeva, non senza
esagerazioni autoritarie, ai figli, esercitando la sua libertà morale in un modo che non raramente scivolava nel moralismo. Il padre di Roberto invece era condizionato dalla paura profonda che scaturiva in lui di
fronte al compito di esercitare, come padre, come genitore, come educatore la sua libertà morale, la libertà morale di chi si fida di ciò che insegna. In altre
parole non riusciva a dire a se stesso: io penso che
questo sia il bene per mio figlio, io lo propongo, io lo
impongo. Il padre di Giovanni metteva nei figli la
paura di un “troppo pieno”, di un castello normativo,
di un Super-Io ipertrofico che prescriveva, che imponeva, che vietava. Il padre di Roberto trasmetteva la
paura di un vuoto, vuoto che si riempiva rapidamente di dubbi, di esitazione, di instabilità. Per Giovanni
il compito fu quello di costruire un personale, origi-
7. Ibidem.
40
Figure attuali della genitorialità
Giorgio Cavallari
nale sistema valoriale, diverso, almeno in parte, da
quello paterno. Roberto invece, al momento della
consultazione, attorno ai margini di una presenza paterna precaria (esteriore e interiorizzata) aveva costruito dei propri mezzi di rassicurazione, che utilizzava di fronte alla paura generata dal vuoto valoriale:
l’uso di sostanze, sulle quali mostrava purtroppo già
una significativa competenza, atteggiamenti da pseudo-leader, da bulletto, da “duro”, una sorta di cinismo di facciata da uomo navigato dietro al quale non
era difficile riconoscere una incessante richiesta di
punti di riferimento. Più che una libertà dello spirito
mossa da un eros autentico mostrava di possedere ed
esercitare la libertà precaria e disorganizzata che nasce da un deserto normativo, dove la voce del padre
non riusciva a penetrare, e dove il dialogo fra i due
quindi non riusciva ad attivarsi autenticamente.
Il dialogo genitori-figli è strutturante infatti per la
personalità dei ragazzi solo se sono rispettate due ineliminabili condizioni. La prima è la necessità che tale dialogo resti asimmetrico finché il figlio è in età
evolutiva: è il dialogo fra chi è più grande e chi è piccolo, fra chi ha più potere e chi ne ha meno, fra chi
ha più libertà e chi ne ha meno, fra chi ha più responsabilità e chi ne ha meno. È anche il dialogo fra
chi sa, e sa di sapere, “di più”, e chi necessariamente
sa di meno. La seconda condizione è che il ruolo genitoriale sia incarnato con un modo di essere che deve avere la giusta quota di passione, di autostima, di
narcisismo sano. Voglio spiegare brevemente perché
uso i termini passione genitoriale e passione paterna,
piuttosto che amore paterno. Rispetto alla parola più
suggestiva e potente “amore”, la passione si colora
dei tratti tipici dello slancio amoroso, della gioia nel
dare, ma esprime anche la autenticità e l’ambiguità
delle forti commozioni dell’animo, degli stati di travaglio, di sofferenza e di dolore. Inoltre, particolare
da non trascurare, la passione possiede una parentela non solo etimologica con quel pathos che è la ma-
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Essere padri oggi: riscoperta di un ruolo
lattia, la patologia. Non a caso Winnicott parlò non solo di una madre che può essere solo “sufficientemente” buona, ma anche di una preoccupazione materna primaria che è “quasi” una malattia. Nel caso
dell’esperienza della maternità e della nascita della
“passione” materna ciò che accade ha profonde radici che affondano nella filogenesi e nella biologia. Le
cure materne, così importanti e differenziate negli
animali a sangue caldo (uccelli e mammiferi) sono in
forma arcaica presenti già nei rettili: le mamme dei
coccodrilli, infatti, mostrano alcune forme molto primitive di cura della prole. Negli animali superiori, e
nell’uomo con specificità appunto umane, l’attaccamento è la base psico-biologica in cui la diade madrebambino contribuisce a “costruire” la psiche del neonato, e anche la competenza materna. Tronick8 parla suggestivamente di “Dyadically expanded states of counsciousness”, cioè di stati di coscienza che si espandono diadicamente. In termini più semplici, la madre e il bambino interagendo fra loro, in un processo di decostruzione e costruzione della relazione, di
fallimenti e riparazioni della sintonizzazione, di matching e mis-matching diadicamente espandono lo stato
di coscienza di entrambi. Non si tratta solo di un fatto cognitivo, quanto di un complesso processo che
comprende l’emergere di vissuti complessi, emozioni, movimenti intenzionali, attivazione di sistemi motivazionali nel piccolo come nella madre.
Per quest’ultima in particolare la gravidanza, il
parto e l’allattamento creano quell’intimità affatto
particolare con il bambino su cui si innestano il modo di sentire, di pensarsi e di agire come madre, e
una autentica, intensa, complessa e a tratti sofferta e
ambivalente passione materna.
Anche i padri accedono ad una passione genitoriale che a loro compete, per vie però necessariamente diverse. Meno immediatamente radicata nella
dimensione biologica (i padri non vivono la gravidanza, il parto e l’allattamento in prima persona) la
Figure attuali della genitorialità
8. Tronick E.: The Neurobehavioral and Social Emotional Development of Infants
and Children, Norton,
New York 2007.
42
Figure attuali della genitorialità
9. Winnicott D. W: Dalla
pediatria alla psicoanalisi,
Martinelli, Firenze 1975.
Giorgio Cavallari
funzione paterna è peraltro fondamentale fino dalle
cure primarie. Mi riferisco qui non solo all’opportunità che i papà presenzino e partecipino attivamente,
svolgendo il proprio ruolo, a quei momenti di holding
e di handling svolti in primo luogo dalle madri, superando antiche fobie eredità del patriarcato, ma anche a qualcosa di più importante e significativo: parlo della necessità di una presenza che definisco di sostenitore e contenitore dialogico di quella che Winnicott chiamò the imaginative elaboration (...) of physical
aliveness”.9
Con tale termine, traducibile come elaborazione
immaginale dell’essere vivi fisicamente, Winnicott
volle insegnarci non solo che non esiste un bambino
senza una madre, ma anche che non esiste un atto
concreto, un gesto “fisico” espressivo della funzione
materna (allattare, lavare, addormentare, cullare) rivolto al bambino che non sia contemporaneamente
anche un atto di elaborazione immaginativo, un atto
pensato, sognato, elaborato nella sfera del mentale.
I tempi sono maturi però per affermare che non
solo non si può, seguendo la lezione di Winnicott,
pensare a un bambino senza pensare alla madre, ma
anche che non si può pensare ad una diade mammabambino che non sia sostenuta e contenuta in modo
dialogico dalla presenza di un “mondo” umano che
va al di là della diade stessa, e che si concretizza in
primo luogo nella figura del padre.
Se Tronik parla correttamente di “Dyadically expanded states of consciousness”, noi possiamo parlare di
expanded states of counsciousness che devono essere di
natura plurale. In una prospettiva che guarda alla psiche umana come a una realtà complessa, prospettiva
che per noi psicologi analisti contemporanei rimane
una delle più feconde eredità della lezione originale
di Jung, la madre che contiene, nutre, che “dialoga”
fin dalla nascita con il corpo e poi con la parola con
il suo bambino deve a sua volta essere sostenuta, contenuta, e coinvolta in un dialogo costante dove il pro-
43
Essere padri oggi: riscoperta di un ruolo
cesso costruttivo di una identità materna umanamente sostenibile trova interlocutori attenti, pronti a
condividere, ad ascoltare, a pensare, ad appassionarsi insieme a lei attorno a quell’”alba” che è un bambino venuto al mondo.
Molte donne considerate, talvolta anche dai terapeuti dei figli e delle figlie, “madri terribili”, madri
patologiche o inadeguate sono al fondo donne lasciate sole da chi ha generato il figlio con loro, da chi
non ha saputo, o voluto, andare oltre la paternità biologica. Parlo qui di una solitudine materiale, pratica,
economica, ma anche e soprattutto di una solitudine
psicologica, dell’assenza di un dialogo sollecito con
qualcuno che rivendichi con orgoglio e corrispondente senso di responsabilità il diritto, e il dovere, di
partecipare ad una genitorialità che ha nella sua articolazione fra figura paterna e figura materna una risorsa di incomparabile valore.
Le madri che contengono e sostengono meritano
di essere contenute e sostenute, e devono essere al
contempo chiamate a rinunciare ad una centralità assoluta, totale e onnipotente nella vita del figlio. In
particolare, la loro esperienza fisica e psichica della
maternità, dell’attaccamento primario, dell’handling
e dell’holding deve poter essere elaborata sul piano
immaginativo, e per avere tale destino deve potersi
aprire ad un “terzo” che non è il bambino, e nemmeno solo la propria interiorità e la propria capacità
di rêverie. Qui la presenza paterna crea una sorta di rivoluzione copernicana, il mondo (anche il mondo
psichico embrionario di un bambino o di una bambina) non può ruotare tutto solo attorno ad una terra-madre. Il sistema è più complesso, la terra-madre
è il pianeta più importante, soprattutto all’inizio delle sviluppo, ma non è il solo ad esistere in quel sistema solare in cui un essere umano si trova a nascere e
ad iniziare la sua avventura.
Se consideriamo la diade madre bambino ci viene
in mente l’immagine geometrica di due punti su una
Figure attuali della genitorialità
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Figure attuali della genitorialità
Giorgio Cavallari
retta, che possono avvicinarsi o allontanarsi. Solo la
presenza di un terzo da luogo ad una forma triangolare, con tre vertici, e alla creazione di uno spazio
compreso fra i vertici e le linee che li collegano. Difficilmente un campo bi-personale, se non è dialettizzato dalla comparsa di un terzo vertice, rimane un
campo vivibile senza correre il rischio del “collasso”,
del precipitare di un protagonista della diade sull’altro, della fusione confusiva o dello scontro radicale e
distruttivo. Donna Orange, riprendendo nella prospettiva della psicoanalisi relazionale l’originale pensiero filosofico di Lévinas, scrisse che
10. Orange D.: Thinking
for clinicans, Routledge,
London New York 2010.
“Io sono definito come una soggettività, come una singola
persona, come un ‘Io’, precisamente perché io sono esposto
all’Altro. È l’incontrovertibile e inevitabile tensione che spinge a rispondere all’Altro che fa di me un Sé individuale”.10
Le madri sono necessariamente “esposte” ad un
Altro che è il figlio, ed il figlio è esposto fin dalla nascita alla madre, all’affetto, all’investimento, alle ombre, alle gioie, alle paure, alle fantasie protettive e ai
fantasmi inquietanti della donna che il destino gli ha
dato in sorte come madre. Il termine “esposto” di Lévinas vale per tutte le relazioni umane significative,
incontrare un’altra persona vuole dire esporsi e contemporaneamente chiedere all’altro una analoga
esposizione, una analoga apertura, una analoga disponibilità a condividere il proprio essenziale modo
di essere.
Tale esposizione è ancora più intensa, più potente, più ricca ma anche più rischiosa nel rapporto madre-figlio, e con sfumature diverse ma di analoga radicalità nel rapporto madre-figlia. Incontrare lo
sguardo di colui a cui hai dato la vita, o di quella da
cui l’hai ricevuta (cioè esporsi!) vuole dire fare risuonare nel proprio corpo, nella propria mente, nella
proprio modo di essere qualcosa di essenziale, di originario, di fondante. La coppia madre-neonato vive
la propria esperienza diadica fatta di attachment (se la
45
Essere padri oggi: riscoperta di un ruolo
Figure attuali della genitorialità
guardiamo con gli occhi dell’infant research), di sintonizzazione, di rêverie (se la guardiamo con gli occhi
dell’infant observation psicoanalitica) in una sorta di
tempio le cui porte non possono però rimanere chiuse ad oltranza, altrimenti il tempio si trasformerà rapidamente in un claustrum. La porta esiste per delimitare ma anche per essere aperta da una figura di
padre che come “Altro”, come terzo, come diversonon-troppo-diverso ha il dovere, e il diritto, di varcarla con la forza, il coraggio, la responsabilità della
passione paterna.
Entrambi, sia la mamma che il figlio, non possono
rimanere due strumenti musicali che dialogano da
soli sul palcoscenico della vita: il loro orizzonte si deve allargare, la loro esposizione reciproca deve farsi
plurima, deve articolarsi per evitare il collasso della
diade. Qualcuno deve esporsi al loro cospetto, e chiedere loro la stessa esposizione, per aiutarli ad emergere come soggetti individuali. La prima figura che
può attivare tale processo è il padre. Questo ovviamente se non si auto-emargina, e non subisce passivamente l’emarginazione. Questo se desidera con
passione “esserci”, come esperienza nuova, nella vita
del figlio, e come presenza rinnovata, nella vita della
donna che gli ha dato un figlio.
Un testo di antica saggezza che appartiene non alla nostra cultura occidentale, ma alla tradizione dell’antica India, ci parla della “nascita” della funzione
paterna. Più precisamente, le Upanisad vediche ci
parlano di tre nascite della funzione paterna. La prima ha a che fare con la generazione biologica, e il testo così recita:
“All’inizio è nell’uomo che giace l’embrione, ossia lo sperma,
che è l’ardore raccolto di tutte le membra. Quando versa il seme nella donna, allora provoca la nascita dell’Atman. Questa
è la sua prima nascita. Questo seme diviene una cosa sola con
la donna, così come fosse una delle sue membra. Perciò non
le porta danno ed essa fa crescere l’Atman dell’uomo che è
penetrato in lei”.11
11. Upanisad Vediche, TEA,
Milano 1988.
46
Figure attuali della genitorialità
Giorgio Cavallari
Poco oltre il testo dirà:
“La madre che nutre deve essere nutrita: il padre fin dall’inizio, fin da prima della nascita si prende cura del figlio. Poiché
prende la cura del figlio fin dal principio, fin da prima della
nascita, egli prende cura di se stesso perché i mondi si continuino (...). Questa è la seconda nascita”.
È evidente qui la necessità che il padre “nutra” la
madre che nutre, ma in un modo particolare. Se la
“cura” paterna esiste già da prima della nascita, è evidente che non parliamo solo di un padre che provveda materialmente, economicamente, educativamente alla prole: ci riferiamo all’investimento desiderante, simbolico, immaginale che solo un padre
che sa curarsi di sé, e che sa desiderare che i “mondi
continuino” può dare alla madre che gli darà un figlio, e al figlio stesso. Parliamo di un padre abbastanza sanamente narcisista da volere un figlio che sia
anche suo, e abbastanza capace di “sperare” che i
mondi continuino per potere ospitare lui, la sua compagna e i loro figli. In altre parole, stiamo parlando
di un padre capace di fare una rêverie della rêverie materna, capace di accudire materialmente ma anche di
“ri-sognare” i sogni fatti dalla diade madre-figlio o
madre-figlia.
Infine, la saggezza del testo vedico ci fa riflettere
su un altro particolare, su una terza nascita possibile
per la figura paterna. Oltre alla funzione generatrice
e a quella protettiva il padre ha una ulteriore dimensione di espressione del suo modo di essere. Dice il
testo:
“il padre, dopo avere fatto quel che doveva fare se ne va, e andandosene di nuovo rinasce”.
Non si tratta di un disimpegno irresponsabile, l’Upanisad dice chiaramente “dopo avere fatto quel che
doveva fare”, e non incoraggia certo i padri a “sparire” negando l’assegno di mantenimento: è piuttosto
l’invito a coltivare la capacità di non abbarbicarsi ai
47
Essere padri oggi: riscoperta di un ruolo
Figure attuali della genitorialità
propri discendenti, di giocare la propria presenza
con autorità, coraggio e passione, sapendo però
quando è il momento di cedere il passo ai figli, rispettando la libertà di questi di avere la loro parte di
mondo, e la propria di continuare incessantemente
la ricerca di nuovi “luoghi del mondo”, siano essi psichici o materiali. “Nuovi luoghi” del mondo che non
devono necessariamente essere esotici: uno di questi,
infatti, è la famiglia stessa, il nucleo dove madre, padre, figli si incontrano. La nascita di un figlio modifica profondamente l’equilibrio di una coppia, la coppia stessa deve però ricordarsi che l’essere divenuti rispettivamente padre e madre non può “uccidere” il
fatto di essere partner. Compito dei padri è anche
quello di fare “rinascere” insieme alla propria donna,
dopo la nascita di un figlio, quella complicità di coppia, quel gioco di risonanze emotive, fisiche, sentimentali che non possono scomparire con la nascita
del ruolo genitoriale.
Si tratta di inviti antichi, che oggi possono risuonare come un incoraggiamento per gli uomini contemporanei: ritrovare una passione paterna che recuperi la tradizione patriarcale, depurata dagli aspetti unilaterali, intolleranti e violenti verso le donne e i
figli che ancora prosperano purtroppo in molte parti del mondo e che non sono scomparsi del tutto
nemmeno in occidente, per aprire le porte ad una
identità maschile e paterna che possiamo definire
post-patriarcale.12
Bibliografia
Bollas C.: The shadow of the object. Psychoanalysis of the unthought
known, Columbia University Press, New York, 1987.
Cavallari G.: L’uomo post-patriarcale, verso una nuova identità maschile, La biblioteca di Vivarium, Milano 2001.
Jonas H.: Materia, spirito e creazione, Morcelliana, Brescia 2012.
12. Cavallari G.: L’uomo
post-patriarcale, verso una
nuova identità maschile, La
biblioteca di Vivarium,
Milano 2001.
48
Figure attuali della genitorialità
Giorgio Cavallari
Jung C. G.: “La sigizia: Anima e Animus”, in Opere, vol. 9**,
Boringhieri, Torino 1982.
Orange D., Thinking for clinicians, Routledge, London New
York 2010.
Tronick E.: The Neurobehavioral and Social Emotional Development of Infants and Children, Norton, New York 2007.
Winnicott D. W.: Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze 1975.
Upanisad Vediche, TEA, Milano 1988.
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Figure attuali della genitorialità
NATI DUE VOLTE
Abbandono
e Adozione:
due categorie
intrapsichiche
Dice Jung1 che la fantasia infantile “presente in innumerevoli bambini di ogni età,
i quali credono che i loro genitori non siano quelli veri, ma soltanto genitori adottivi,
ai quali sono stati affidati” ha un fondamento archetipico. L’idea di una seconda
nascita, infatti, si trova in tutti tempi e in
Elisabetta Baldisserotto
tutti luoghi: l’eroe della mitologia greca
spesso discende sia da genitori umani che
1. C.G. Jung (1936-37),
divini (come Perseo), oppure viene esposto da regali
“Il concetto dell’incongenitori biologici e raccolto e allevato da umili geniscio collettivo”, Opere, vol.
tori soccorrevoli (come Paride), nell’antico Egitto il
9*, Bollati Boringhieri,
faraone era “nato due volte”, Mosé viene abbandonaTorino 1997, p. 46.
to e poi adottato, così come il Budda, Gilgamesh, Ci2. O. Rank (1909), Il mito
ro il persiano e, nella mitologia nordica, Sigfrido.2
della nascita dell’eroe, SuIl rito stesso del battesino può essere inteso come
garco, Milano 1994.
una forma di adozione: “oggi i bambini, in luogo di
fate buone e cattive che li ‘adottano’ magicamente alla nascita con benedizioni o sortilegi, ricevono come
3. C.G. Jung (1936-37), “Il
protettori un ‘padrino’ e una ‘madrina’”.3 In inglese
concetto dell’inconscio
padrino si dice godfather e madrina godmather: essi rapcollettivo”, cit., p. 46.
presentano la coppia divina che si presenta alla nascita, alla quale viene affidato il benessere spirituale
del battezzando. Nel contempo il battesimo segnala
un fenomeno psicologico, cioè la tendenza umana a
proiettare la forma archetipica della coppia divina
sui genitori reali che perciò il bambino mitizza e crede onnipotenti, finché crescendo e venendo da essi
deluso, impara a percepire in modo più reale. Poiché
tuttavia questo processo dipende da un considerevole accrescimento della propria consapevolezza “nessuno meglio dello psicoterapeuta sa come la mitizzazione dei genitori si prolunghi spesso nell’età adulta
4. C.G. Jung (1936/1954),
”Sull’archetipo, con partie venga abbandonata solo con fortissima resistenza”.4
colare riguardo al concetTale mitizzazione va di pari passo con una corrisponto di Anima”, Opere, vol.9,
dente demonizzazione, così che accanto alla figura
tomo I, Bollati Boringhieri, Torino 1997, p. 70.
della madre sorridente dispensatrice di amore e di vi-
50
Figure attuali della genitorialità
5. C.G. Jung (1935), “Fondamenti della psicologia
analitica”, Opere, vol. 15,
Bollati Boringhieri, Torino 1997, p. 162ss.
6. C.G. Jung (1938/1954),
“Gli aspetti psicologici
dell’archetipo della Madre”, Opere, vol.9, tomo I,
Bollati Boringhieri, Torino 1997, p. 92.
7. D. Quinodoz (2002),
Le parole che toccano. Una
psicoanalista impara a parlare, Borla, Roma 2004.
Elisabetta Baldisserotto
ta coesiste nell’inconscio la figura della madre terrificante, divoratrice, che paralizza il coraggio di vivere. Analogamente, insieme all’imago del padre saggio, personificazione del senno e dello spirito, coabita quella del padre oscuro, che incarna la pura e sfrenata sensualità.
Secondo Jung il battesimo cristiano, come i riti di
iniziazione alla pubertà delle popolazioni primitive, è
una misura igienica per allentare la soverchiante influenza delle immagini parentali sulla psiche. Il padrino e la madrina, rammentando la presenza di questo influsso numinoso, stanno ad indicare che genitori in carne ed ossa e archetipi parentali non sono la
stessa cosa. D’altronde funzione dei riti di iniziazione, come della psicoterapia, è favorire il distacco del
soggetto dai genitori naturali liberando questi ultimi
dal carico delle proiezioni archetipiche, ovvero depotenziandoli.5 Così si esprime Jung riguardo alla
madre:
“Colui che sa non può più caricare di quell’enorme fardello
di significati, responsabilità, doveri, paradiso e inferno, la
creatura fragile e fallibile, degna di amore, indulgenza, comprensione e perdono che ci generò. Egli sa che la madre è
portatrice di quell’immagine in noi connaturata di mater natura e mater spiritualis, di totalità di vita, a cui fummo, bambini, affidati e in pari tempo abbandonati. Egli non può esitare
nemmeno un istante a liberare la madre da questo spaventoso fardello, per rispetto verso di lei e verso se stesso”.6
Il personaggio di Edipo, eroe tragico, non esula
dal tema della duplice origine ovvero della doppia
madre. Un aspetto generalmente trascurato del mito,
infatti (su cui però si fonda tutto l’intreccio drammatico), riguarda l’esistenza di due coppie di genitori:
Laio e Giocasta, abbandonici e potenzialmente assassini, e Polibo e Merope, genitori adottivi che lo amano teneramente. Secondo Danielle Quinodoz,7 questo aspetto della storia, al pari degli altri elementi del
dramma sofocleo, va inteso come la rappresentazione di un funzionamento psichico inconscio universa-
51
Abbandono e Adozione: due categorie intrapsichiche
le, che si verifica nello sdoppiamento dell’immagine
genitoriale. Tale sdoppiamento serve da meccanismo
di difesa contro l’ambivalenza dei sentimenti: per
non dover odiare un genitore amato si sdoppia l’immagine in due personaggi, uno buono e uno cattivo,
sdoppiando così sia gli affetti corrispondenti che l’Io.
Gli affetti diventano parziali: idealizzazione da un lato e demonizzazione dall’altro, dove entrambi non si
rivolgono che a una parte dell’oggetto, fraintentendola per il tutto. Questo bipolarismo richiama decisamente quello junghiano relativo ai complessi materno e paterno positivi e negativi (che si formano a
partire da un nucleo archetipico intorno al quale si
raccolgono emozioni ed esperienze relative ai genitori reali). In entrambi i casi, infatti, ci troviamo di
fronte a due coppie di genitori intrapsichici. Come
dice giustamente Stefano Carta,8 molti ricercatori
contemporanei, pur non conoscendo Jung, hanno
sviluppato, ridefinito ed inquadrato in diversa forma il
pensiero junghiano. La Quinodoz non fa eccezione,
e il suo lavoro sul mito di Edipo è un interessante approfondimento di questa tematica complessuale.
Com’è noto, Edipo, che non è al corrente di essere stato adottato, si allontana precipitosamente da
Corinto dov’è cresciuto con Polibo e Merope, a causa del timore di far loro del male. L’oracolo di Delfi
gli ha infatti pronosticato che ucciderà il padre e giacerà con la madre. Prima di giungere a Tebe, la città
che gli ha dato i natali, gli capita di uccidere un uomo, che non sa essere il re Laio, suo padre naturale,
per un banale diritto di precedenza a un incrocio. Rimosso l’avvenimento, egli può essere proclamato re
di Tebe dopo aver liberato la popolazione dal flagello della Sfinge, di cui risolve l’enigma, e aver sposato
la regina Giocasta.
Dunque, il timore di distruggere gli oggetti buoni
dentro di sé, ovvero la difficoltà di depotenziare il padre e la madre, accettandone i lati sia negativi che positivi, porta Edipo a scindere le figure parentali in ge-
Figure attuali della genitorialità
8. S. Carta, “Jung: tracce
dagli altri” in Rivista di
Psicologia Analitica, Nuova
Serie n. 23, vol. 75/2007.
52
Figure attuali della genitorialità
Elisabetta Baldisserotto
nitori buoni (Polibo e Merope) e genitori cattivi
(Laio e Giocasta), lasciando l’aggressività libera di
scagliarsi contro questi ultimi. La fuga dalla conflittualità interna attraverso la scissione comporta la perdita di contatto con le imago positive (i genitori adottivi, infatti, vivono lontano e non compaiono mai durante la tragedia), mentre balzano in primo piano le
imago negative, con i sentimenti loro correlati. Ma
l’inconscietà di Edipo riguardo a se stesso comporta
una distruttività fuori controllo che ha conseguenze
nefaste dilaganti: la città di Tebe, infatti, viene flagellata dalla peste rivelando la contaminazione a cui è
sottoposta. Per porvi rimedio bisogna che l’omicidio
di Laio non resti impunito. Con la ricerca dell’assassino ha inizio per Edipo quella ricerca delle ragioni
del sintomo che lo porterà a scoprire le sue colpe. Interroga Tiresia, “il divino profeta, il solo tra gli uomini in cui la verità è innata”. Tiresia, in un primo tempo, si rifiuta di rivelare il nome dell’assassino, ma, in
seguito, provocato dall’ira del re che arriva ad accusarlo di complicità con il reo, sbotta:
9. Sofocle, Edipo Re, tr. it.
di L. Correale, Feltrinelli,
Milano 2005, pp. 71-73.
Tiresia: ... Ti ordino di attenerti all’editto che hai promulgato
e da questo giorno non rivolgere la parola né a costoro né a
me, poiché sei tu colui che contamina empiamente questa
terra.
Edipo: Così spudoratamente pronunci queste parole e credi
che potrai evitarne le conseguenze?
Tiresia: Le ho già evitate; io nutro in me la forza della verità.
Edipo: Da chi l’avresti appresa? Certo non dalla tua arte.
Tiresia: Da te: tu mi hai costretto a parlare, io non volevo.
Edipo: Che hai detto? Dillo di nuovo, che io lo capisca meglio.
Tiresia: Non hai compreso prima? o vuoi farmi parlare?
Edipo: Non posso dire mi sia chiaro; ripetilo.
Tiresia: Dico che sei tu l’assassino che cerchi.9
“Dico che sei tu l’assassino che cerchi”. Il momento è cruciale: a questo punto Edipo può ritirare le
proiezioni, oppure rafforzarle. Forse perché non ha
ancora in mano tutti gli elementi che provano la sua
colpevolezza, ma forse soprattutto perché ignora ancora chi è e da dove viene, sceglie la seconda strada di-
53
Abbandono e Adozione: due categorie intrapsichiche
Figure attuali della genitorialità
ventando paranoico. Comincia a sospettare che
Creonte, suo cognato, lo accusi, attraverso Tiresia, di
aver assassinato Laio per liberarsi di lui e succedergli
nel regno. Ne nasce una disputa con Creonte alla quale pone fine Giocasta mettendolo a parte delle circostanze in cui Laio perse la vita. Quando Edipo sente
parlare dell’incrocio di tre strade carraie, nella regione chiamata Focide, quale luogo dell’omicidio, inizia
a tremare e il ricordo del vecchio incidente gli si riaffaccia alla mente: “Se tra quello straniero e Laio c’è
qualche relazione, chi ora è più infelice di me? Quale
uomo potrebbe essere mai più odioso agli dei?”. Ma
non sa ancora che Laio è il padre biologico.
Le circostanze della propria adozione, di cui è rimasto all’oscuro per tanti anni, gli vengono rivelate
da un messaggero proveniente da Corinto che gli
porta la notizia della morte del padre Polibo.
Messaggero: Tra te e Polibo non c’era alcun legame.
Edipo: Che dici? Polibo non mi ha generato? (...) Perché, allora, mi chiamava figlio?
Messaggero: Ti ebbe in dono, devi sapere, dalle mie mani.
Edipo: E mi amò tanto, benché mi avesse ricevuto da una mano estranea?
Messaggero: Lo spinse a questo il non aver avuto figli fino ad
allora.
Edipo: Mi avevi comprato oppure trovato quando mi desti a
lui?
Messaggero: Ti avevo trovato nei boscosi anfratti del Citerone.
(...)
Edipo: Ero sofferente quando mi raccogliesti in quella dolorosa condizione?
Messaggero: Lo possono testimoniare le tue caviglie.
Edipo: Ahimè! Perché mi parli di questo male antico?
Messaggero: Io ti sciolsi, avevi le giunture dei piedi perforate.
Edipo: Tremendo oltraggio ho ricevuto ancora in fasce!
Messaggero: Da quello avesti il nome che porti ancora adesso.10
La rabbia per essere stato abbandonato nei boschi
del Citerone, con le caviglie trafitte come un capretto,
esposto a morte sicura, ha segnato per sempre l’esistenza di Edipo che, nel suo stesso nome (Oedipus =
‘dai piedi gonfi’), porta il segno di quell’originaria of-
10. Ibidem, pp. 121-123.
54
Figure attuali della genitorialità
11. B. Kilborne, (2002),
Persone che scompaiono. Vergogna e apparire, Borla,
Roma 2005, p.165.
12. Sofocle, Edipo Re, cit.,
pp. 63-65.
13.
C.W.
Socarides
(1977), “La vendicatività:
il desiderio di ‘pareggiare
i conti’”, in AA.VV., Rabbia e vendicatività, Bollati
Boringhieri, Torino 1993.
Elisabetta Baldisserotto
fesa contro natura. Il dolore ai piedi, col quale deve
convivere, gli rammenta di continuo (anche se inconsciamente) il rifiuto estremo di cui è stato oggetto.
Kilborne sostiene che la vergogna edipica comprende
la mortificazione di aver avuto dei genitori che hanno
cercato di ucciderlo quando era un neonato, di essere stato spogliato di una famiglia, di essere stato solo
e irriconoscibile alla nascita.11 Inevitabile quindi la
vendetta che, per compiersi però, deve concentrarsi
sul torto subito, prescindendo dall’affetto e dalla gratitudine per chi lo ha allevato e messo al mondo. La
tragedia, pertanto, nasce dalla scissione, ovvero dall’incapacità di sostenere dentro di sé il conflitto tra
immagini e sentimenti positivi e negativi.
È la scissione infatti che determina l’ignoranza circa le proprie origini: Edipo non sa di chi è figlio perché alberga dentro di sé due coppie di genitori in
contrasto tra loro, che si escludono a vicenda. E ha
“scelto” di disconoscere la coppia adottiva in favore
di quella abbandonica. La vendicatività ha quindi
campo libero, non essendo più temperata da sentimenti di segno opposto. Così Edipo diventa assassino: può agire il suo odio in modo distruttivo uccidendo il padre e portando al suicidio la madre, a causa dell’incesto commesso con lei. I sensi di colpa, poi,
lo portano a cercare accanitamente il colpevole di tali crimini per fare giustizia e a scagliare la propria maledizione contro se stesso:
“Invoco che il colpevole (...) misero miseramente possa vivere una vita sventurata. Invoco poi, se egli fosse nella mia casa
(...) che io possa soffrire quello che or ora ho imprecato...”.12
Spesso, infatti, chi si vendica diventa anche giustiziere di sé medesimo: il soggetto vendicativo cerca di
trasformarsi nel Super-Io della sua vittima, ma a livello inconscio prova degli intensi sentimenti di colpa
che provocano un bisogno di autopunizione.13
Una volta conosciuta la verità non può che esservi
il rimorso e la necessità dell’espiazione. “Ahimè, tut-
55
Abbandono e Adozione: due categorie intrapsichiche
to è chiaro — dice Edipo nell’atto di accecarsi — Luce,
ti veda per l’ultima volta, io che, ormai è evidente, fui
generato da chi non dovevo, con chi non dovevo mi
congiunsi, e chi non era lecito uccidere, uccisi”.14 La
conoscenza di sé implica il riconoscimento dell’Ombra, ovvero della propria doppiezza. Edipo, emblema
della ragione umana che risolve l’enigma della Sfinge, abituato a scindere nettamente bene e male, è
egli stesso doppio, come doppio e ambiguo è l’essere
umano.
“Chi è Edipo? La risposta è: Edipo è un enigma, un plesso di
contraddizioni insolubili. Egli si pone sempre come doppio,
come portatore di due verità contrapposte: il decifratore di
enigmi è egli stesso un enigma da decifrare, il giustiziere è un
criminale, il chiaroveggente un cieco, il salvatore della città
colui che la porta a perdizione, e così via”.15
Tragica è quindi l’ambiguità della condizione
umana, segnata da sdoppiamenti continui, il cui male “è più grande di quanto si possa sopportare”.
L’ANTICA FIGURA DELLA SCISSIONE
Fin dall’antichità la patologia psichica è stata immaginata come l’irruzione, nello stesso soggetto, di
una personalità altra, rispetto a quella conosciuta,
dalle caratteristiche strane e sconvolgenti. Tra le popolazioni primitive si parlava di spiriti che abitavano
il corpo del malcapitato, nel Medioevo di possessione
demoniaca, finché la psichiatria ottocentesca non dichiarò che possessore e posseduto sono una stessa
persona. In particolare Janet, nei suoi studi sulla
frammentazione della coscienza, parlò di personificazione delle personalità subconsce. Per Jung la psiche è caratterizzata dalla scindibilità, fenomeno del
tutto normale che determina il distacco dalla coscienza di parti della psiche che non soltanto appaiono estranee, ma conducono al tempo stesso una pro-
Figure attuali della genitorialità
14. Sofocle, Edipo Re, cit.,
p. 137.
15. A. Romano, Il complesso edipico, Seminario tenuto a Verona il 19 aprile
2008.
56
Figure attuali della genitorialità
16. C.G. Jung (1934),
“Considerazioni sulla teoria dei complessi”, Opere,
vol. 8, Bollati Boringhieri, Torino 1994, pp. 113116.
17. R. Speziale-Bagliacca,
“Scissione” in Psiche. Dizionario storico di psicologia,
psichiatria, psicoanalisi,
neuroscienze, Einaudi, Torino 2007, vol.II, p.992.
18. A. Goldberg (1999),
La mente che si sdoppia. La
scissione verticale in psicoanalisi e psicoterapia, Astrolabio, Roma 2001.
Elisabetta Baldisserotto
pria vita autonoma. Queste parti autonome sono i
complessi che interferiscono con la lucidità mentale
e con la volontà del soggetto: la loro forza di assimilazione è tale da risucchiare, in certi casi, l’Io, provocando una momentanea e inconscia modificazione
della personalità che viene definita identificazione
con il complesso. Il distacco può avvenire a causa di
un trauma o, più frequentemente, di un conflitto
morale: non vi è perciò se non una differenza di grado tra la dissociazione nevrotica e quella psicotica in
cui i complessi diventano “sonori” e compaiono come “voci” che hanno un carattere assolutamente personale.16 Secondo Speziale-Bagliacca, Jung ha anticipato le visioni più moderne della psicoanalisi, spiegando che “la salute non sta nel raggiungere il dominio dell’Io sull’Es, come riteneva Freud, ma nel far
dialogare l’Io con le parti distaccate della personalità”.17 Freud infatti in favore della rimozione accantona la scissione, la quale viene recuperata solo in tempi più recenti. Oggi la tendenza è quella di considerare che possono esserci patologie di gravità diverse,
tutte però connesse con scissioni della personalità, ritenute un processo dinamico a monte sia della nevrosi che della psicosi.
Goldberg18 ha esaminato a fondo il fenomeno della scissione, definendola scissione verticale per distinguerla dalla rimozione, che corrisponde ad una scissione orizzontale tra conscio e inconscio. La scissione
verticale si fonda sul meccanismo di difesa del diniego tramite il quale è possibile ignorare temporaneamente alcuni aspetti della realtà, che restano però
parzialmente accessibili alla coscienza. Il diniego è legato ad una modificazione percettiva, che potrebbe
essere descritta anche come un provvisorio accecamento di fronte a determinati eventi della vita. Così
Edipo nega la propria aggressività e non la riconosce
sotto la forma dell’epidemia di peste, risultando cieco di fronte all’evidenza della propria colpa. Il fenomeno più comune, legato alla negazione, è quello
57
Abbandono e Adozione: due categorie intrapsichiche
Figure attuali della genitorialità
del lutto, durante il quale si verificano vari tentativi —
che vanno dall’avvistamento occasionale della persona scomparsa al culto della stanza o dei suoi beni — di
affermare che la perdita non sia avvenuta. Ma il diniego è un espediente presente fin dall’infanzia, per
mezzo del quale il soggetto cerca di risparmiarsi l’esperienza delle assenze e delle manchevolezze delle
figure genitoriali.
La scissione, dunque, è caratterizzata dal “toglimento”, ovvero dal mettere da parte — da un’altra parte — un elemento che si vuole al tempo stesso conservare e cancellare, rifiutare e salvare. Questo elemento non viene inglobato in una sintesi, ma rimane nella dialettica, nella costante oscillazione.
SANARE LA SCISSIONE
Gli interrogativi edipici: chi sono? da dove vengo?
fanno parte dello sviluppo psichico di ciascuno di noi
e indicano la percezione inconscia di una doppia natura, non risolvibile all’interno del mondo familiare
conosciuto. Le fantasie di essere stati adottati, così
comuni nell’infanzia e nella prima adolescenza, sono
espressione del tentativo di conferire un’origine a
una parte di sé emergente che coincide, spesso, con
la scoperta dei lati meno positivi dei propri genitori.
All’immagine del genitore divenuto “cattivo”, che tradisce la fiducia del figlio, si oppone l’immagine fantasticata del genitore “buono”, quello vero, protettivo
e sempre teneramente affettuoso, posto in un altrove
lontano dalla realtà. Il “romanzo familiare” nasce, secondo Freud,19 quando il bambino si sente messo in
disparte e sente mancargli il pieno amore dei genitori: “la sensazione che la propria dedizione non sia
corrisposta trova allora sfogo nell’idea, che spesso
poi riemergerà coscientemente dai ricordi della seconda infanzia, di essere un figliastro o un figlio adottivo”. È dunque la fantasia del bambino, che spesso
19. S. Freud (1908), “Il
romanzo familiare dei nevrotici”, Opere, vol. V, Boringhieri, Torino 1972.
58
Figure attuali della genitorialità
Elisabetta Baldisserotto
sostituisce entrambi i genitori reali con altri più nobili, stimolata dai sentimenti della vendetta e della
nostalgia per il tempo perduto in cui “suo padre gli
appariva come l’uomo più nobile e più forte e sua
madre come la più bella e cara delle donne”, a gettare le basi per la creazione del mito. Le affinità tra il
romanzo familiare e i motivi essenziali del mito dell’eroe testimoniano per Rank come l’anima popolare
attribuisca all’eroe la sua stessa storia infantile. La
scomposizione della coppia parentale (padre/tiranno-persecutore, madre/colei che espone) viene poi
spiegata con il carattere paranoide del mito, in cui
l’ostilità del bambino viene proiettata sul genitore. Al
contrario, per Jung, è la forza dell’archetipo a dar
forma sia al mito che all’infanzia degli uomini.
Durante la fase adolescenziale in cui, com’è noto,
avviene una rielaborazione delle tematiche edipiche,
non è rara la ricerca di maestri, mentori e altre figure idealizzate, quando l’idealizzazione dei genitori
decade, allo scopo, secondo Freud, di liberarsi dai genitori ormai disprezzati e sostituirli con altri, solitamente di posizione sociale più elevata, oppure, secondo Jung, al fine di proiettare su nuovi oggetti gli
archetipi parentali. Poiché, per Jung, lo sviluppo psico-fisico segue dei modelli di comportamento preordinati, di matrice istintuale, potremmo dire che quella dell’abbandono è un’esperienza inevitabile e necessaria per separarsi dai genitori e imparare ad adottare se stessi. E, in effetti, le relazioni dei genitori nei
confronti del bambino sono fatte sia di abbandono
che di adozione: per un verso, il bambino è sempre
abbandonato, poiché l’amore non è mai sufficiente,
per l’altro, è sempre adottato, poiché la sua accettazione deve passare attraverso un atto di volontà e di
sacrificio di alcuni spazi personali degli adulti. L’adozione di un figlio biologico non è mai simultanea
né al concepimento, né alla nascita, è un processo
che attraversa fasi di abbandono: diventare genitori,
infatti, è un percorso di apprendimento in cui atteg-
59
Abbandono e Adozione: due categorie intrapsichiche
giamenti abbandonici e adottivi si incrociano e si modificano col tempo. Difficoltà e carenze nell’accudimento e nell’educazione, assenze fisiche e/o emotive
contribuiscono a costruire, nei figli, immagini interiori di genitori negativi, abbandonici o potenzialmente assassini. Viceversa, l’affetto, la comprensione,
il sostegno morale e/o economico concorrono alla
formazione di imago positive.
Nei casi di adozione reale, invece, spesso l’immagine del genitore di sangue che abbandona il figlio e
non vuole più saperne di lui, viene rigidamente vissuta come oscura per collocare fuori dall’ambito familiare la cattiveria e la negatività. In genere i figli adottivi tendono a ripudiare i genitori biologici, presentando una situazione in cui lo sdoppiamento manifesto nasconde lo sdoppiamento psichico.20 Da parte loro, i genitori adottivi devono fare i conti con il lutto
per la loro sterilità e con quello per la perdita della
continuità biologica tra le generazioni; con l’estraneità del corpo dei figli, continuamente comprovata dalla diversità dei tratti somatici e con fantasie persecutorie relative ai genitori biologici e alla società stigmatizzante.21 Tutti questi fattori possono interferire
con il processo di adozione oppure dare adito, per
formazione reattiva, a comportamenti iperprotettivi.
Come Edipo, ciascuno di noi alberga dentro di sé
quattro genitori, credendo di averne soltanto due.
Così i nostri pazienti portano in analisi un solo padre
e una sola madre, ma si tratta di figure affettivamente incomplete: mancano, per esempio, l’odio per il
padre amato e l’amore per la madre odiata. Perciò bisognerebbe chiedersi: dove sono gli altri due genitori? In quali fantasie, sogni e comportamenti del/della paziente si manifestano? Su quali altre figure vengono spostati?
La figura dell’analista, nel transfert, incarna sia il
genitore abbandonico che quello adottivo: in quanto
abbandonico è odiato ma eccitante, in quanto adottivo è amato ma soffocante. Le fantasie incestuose so-
Figure attuali della genitorialità
20. D. Quinodoz, op.cit.
21. L. Kancyper (1991),
Risentimento e Rimorso,
Franco Angeli, Milano
2003, pp. 105-106.
60
Figure attuali della genitorialità
Elisabetta Baldisserotto
no dirette verso la parte abbandonica — desiderabile
e pericolosa — nel tentativo di riunirsi ad essa e al
tempo stesso di annientarla attraverso la vendicatività. Mentre la parte adottiva incorre nel rischio della
svalutazione, in quanto scontata, mediocre, anche se
affettuosa e affidabile. In certi casi il paziente colleziona quattro analisti, di cui due “eccitanti” e due
“mediocri” prima di riuscire a integrare le parti scisse dentro di sè.
D. Quinodoz sostiene che il paziente ha bisogno
di sentire che l’analista accetta nel transfert sia il ruolo dei genitori che abbandonano, sia quello dei genitori che adottano, poiché i due aspetti, abbandono e
adozione, hanno ciascuno degli elementi positivi,
nella misura in cui sono complementari. Infatti un’adozione esclusiva può essere opprimente, mentre
un’abbandono parziale può insegnare la separazione
e la distanza. Per identificazione introiettiva con l’analista il paziente può allora superare l’apparente incompatibilità di questi due ruoli e sentire che il ruolo dei genitori è dato dalla sintesi dei due aspetti: abbandonico e adottante.
22. D. Quinodoz, op. cit.,
p. 91.
23. Ibidem, p. 94.
“Dal momento che la sintesi supera la somma dei suoi componenti, non vi è più né abbandono né adozione, ma la creazione di una relazione di libertà, fatta di distanza e intimità,
che permette a ciascuno di essere molto vicino all’altro pur
conservando la propria indipendenza”.22
Se nel corso di un’analisi il paziente vede di volta
in volta nell’analista i genitori di Corinto o quelli di
Tebe, è importante che l’analista non dimentichi mai
di riunire le due coppie e in particolare di essere
pronto ad utilizzare ora il linguaggio dell’una ora
quello dell’altra.23 A questo fine mi sembra di particolare importanza che l’analista non parli né troppo
male né troppo bene dei genitori del paziente perché altrimenti rischia di aggravarne la scissione. Allo
stesso tempo può essere utile valorizzare le figure positive con funzioni genitoriali che al paziente accade
61
Abbandono e Adozione: due categorie intrapsichiche
Figure attuali della genitorialità
di nominare nel corso della terapia al fine di temperare eventuali demonizzazioni, facendo emergere il
versante positivo della scissione insieme a risorse e
potenzialità del paziente.
“È importante che l’analista, quando menziona un aspetto
positivo, stia attento a mostrare al paziente che d’altra parte
non dimentica quelli negativi, e viceversa; tutto avviene come
se il paziente desiderasse inconsciamente di sentire che l’analista si cura di legare insieme le forze distruttive e quelle
costruttive per metterle al servizio dei processi vitali”.24
Depotenziare, quindi, le immagini parentali, ritirando le proiezioni archetipiche e mettendo insieme
aspetti positivi e aspetti negativi, significa da un lato
ridimensionare l’importanza dei genitori nella vita
dell’individuo, dall’altro riposizionare l’elemento del
sacro su nuovi obiettivi. Nello stesso tempo la riunificazione delle imago genitoriali permette l’integrazione di affetti distinti, ognuno dei quali, preso isolatamente, comporta dei pericoli, mentre la loro unione è costruttiva e va di pari passo con un sentimento
di coesione dell’Io.25
Possiamo perciò concludere che, da un punto di
vista psicologico, siamo tutti figli abbandonati e adottati e, se genitori, non possiamo evitare di essere sia
abbandonici che adottivi. Un caso che mi sovviene
come emblematico della separazione prima rigida e
poi flessibile di queste polarità contrapposte, è quello di Renato, cresciuto in campagna in una famiglia
numerosa da genitori presenti, ma molto restii ad
esprimere l’affettività. Il padre, in particolare, viene
descritto come un uomo totalmente incapace di mostrare emozioni, tranne la rabbia che sfoga sui figli
picchiandoli. Sempre molto indaffarato sembra infastidito dai bambini e li esorta a crescere in fretta e ad
“arrangiarsi”. Per fortuna la sua figura viene compensata da quella di un nonno affettuoso e paziente.
La madre è una donna ansiosa, indisponibile al dialogo, che non esprime mai la sua opinione né dà con-
24. Ibidem, p.33.
25. Ibidem, p. 94.
62
Figure attuali della genitorialità
Elisabetta Baldisserotto
sigli. Entrambi i genitori non lo seguono durante il
percorso scolastico, Renato così, fin da ragazzino, finisce per cercare fuori dalla famiglia delle figure che
possano comprendere il suo mondo interno e aiutarlo a crescere. Le trova in amiche più grandi con cui
si confida e che lo prendono “sotto la loro ala”.
Quando arriva in analisi, consigliato appunto da una
cara amica, è stato praticamente “adottato” dalla famiglia di questa, la quale, sposata e con figli, gli fa un
po’ da mamma e un po’ da sorella maggiore. La cosa
che più mi colpisce quando lo conosco è l’assoluta
estraneità che prova nei confronti della famiglia di
origine, i cui componenti sono considerati da lui alla
stregua di semplici conoscenti. Questa sorta di ripudio si accompagna a una generale freddezza emotiva
e all’incapacità di innamorarsi. Oggi mi comunica
che, per la prima volta in vent’anni, non passerà il
Natale con la sua famiglia “adottiva” bensì con la sua
famiglia d’origine. Questa comunicazione è la conclusione di un lungo percorso che ha visto avvenire
pian piano il disgelo emotivo del paziente: Renato si
è innamorato di una ragazza a sua volta “abbandonata” dai genitori e ha cominciato a intravedere nel padre, dietro la fredda e crudele figura di un Laio, un
Polibo disponibile, con cui è possibile provare il piacere di fare dei lavori manuali insieme. Nell’adottare
gli abbandonici e nell’abbandonare gli adottivi Renato può ora giocare meglio con le proprie parti,
non più rigidamente scisse, e perciò più fruibili.
Può, come ama dire, provare a se stesso che, se
vuole, “cambiando atteggiamento, può modificare
anche gli atteggiamenti degli altri”.
63
Abbandono e Adozione: due categorie intrapsichiche
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Figure attuali della genitorialità
65
Figure attuali della genitorialità
La rappresentazione
del viaggio e
dell’incontro adottivo
attraverso
la Sand Play Therapy
Il significativo aumento dei paesi che hanno aperto le porte alla adozione internazionale, l’età dei minori adottati sempre
più elevata, le diverse difficoltà
che i minori adottati incontrano nell’integrarsi, l’alto numero di fallimenti, ha portato il
mondo psicologico a porsi nuove domande e, soprattutto, a
cercare nel lavoro analitico le risposte che potessero guidare
questi nuovi nuclei familiari ad
una integrazione, prima ancora
che affettiva, comunicativa.
Alcuni stimoli riflessivi sono stati dati da ricerche
compiute da Enti e Tribunali, là dove sono emerse
con evidenza le fatiche pregresse di questi minori, le
intense esperienze traumatiche a cui erano stati sottoposti, e la difficoltà od impossibilità dei genitori a
trovare strumenti per comprendere ed accogliere
questo dolore. Sofferenze espresse con agiti, con rifiuti, o solo con grandi silenzi, che traducevano l’intensa difficoltà nello strutturare quel filo sottile, ma
essenziale, che avvia ad una condivisione di emozioni
e sentimenti, e che solo un giorno potranno diventare pensieri.
In particolare, gli elementi rilevati dalle ricerche
svolte in passato e le riflessioni su dati attuali ottenuti dal Tribunale per i Minorenni di Milano, evidenziano come alcuni aspetti in-elaborati del minore e
della coppia genitoriale si intreccino generando una
spirale dolorosa e rabbiosa che, nel tempo, porta al
fallimento adottivo. La prima fase di incontro familiare, governata per lo più da proiezioni ed idealizzazioni, viene violentemente lacerata dallo scontro con
elementi dissociati che appartengono sia al passato
del bambino (i dati suggeriscono che l’adozione in
età scolare sia elemento di forte pregiudizio), sia a di-
Cecilia Ragaini
Anna Poli
Francesca Cerutti
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Figure attuali della genitorialità
Cecilia Ragaini, Anna Poli, Francesca Cerutti
namiche familiari ancora in equilibrio precario (altro fattore di rischio sembra essere la presenza di altri figli adottivi). Tali aspetti, se associati all’età avanzata dei genitori al momento dell’adozione, generano un cortocircuito di rabbia e dolore che spesso si
traduce in agiti violenti ed in rifiuti espliciti da parte
di adulti e bambini. Aspetti in-elaborati, forti movimenti emotivi confusi e, talvolta, una scarsa capacità
da parte dei genitori di comprendere e dare significato ad atteggiamenti e comportamenti, portano ad
un “disconoscimento” del ruolo di genitore e di quello di figlio.
Così Marika, Vladimir, Katarina, Vova e molti altri
bambini che hanno varcato la soglia degli studi di psicoterapeuti, cercavano parole che accompagnassero
emozioni confuse, paure, insicurezze, e con loro i loro genitori adottivi, quelli “non biologici”, quelli
“non di pancia”, quelli che non erano nulla, ma adesso erano tutto, gli unici su cui contare in futuro ma
anche quelli a cui dover dare conferme, rassicurazioni, o solo spiegazioni; circuiti affettivi dove spesso gli
uni chiedevano agli altri la stessa cosa: “volevi proprio
me? Adesso che mi conosci mi avresti scelto? E poi
perché proprio io? Ti ho deluso?...”.
Sempre più chiaro è apparso nel lavoro con queste famiglie come l’adozione rappresentasse per tutti
un importantissimo e significativo rito di passaggio,
le cui tappe e le cui fasi sarebbero state scandite da riti personali, ricchi di simboli e significati, tanto oscuri quanto essenziali.
Se era chiaro come fosse importante non lasciarli
soli in questo cammino, difficile era comprendere
come aiutarli, sostenerli, senza invadere un mondo
nuovo, già troppo ricco di stimoli per trovarne altri,
e senza banalizzare, od esaltare, emozioni intense e
confuse. La paura a chiedere aiuto si intrecciava a
lunghe esperienze di colloqui giudicanti, che avevano messo a dura prova le sicurezze di adulti, che spesso non si aspettavano di dover essere valutati per
67
La rappresentazione del viaggio e dell’incontro adottivo...
un’esperienza considerata quasi biologica.
All’inizio del lavoro con le famiglie adottive, molti anni fa, si dava all’adozione un significato diverso,
si parlava di “rito di iniziazione”, intendendo l’adozione come un ingresso in una nuova vita, data da un
passaggio da un vecchio ad un nuovo, da un essere figlio di una realtà a figlio di un’altra, “morire per rinascere”. L’adozione ha rappresentato, infatti, per
anni la fantasia collettiva occidentale di poter offrire
“una famiglia” a bambini che “non l’avevano”, con selezioni attente, perché questo passaggio non fosse
traumatico e non fosse una ulteriore delusione.
In parte abbiamo peccato di presunzione, o forse
solo di ignoranza; senz’altro oggi rileggiamo con occhi diversi quanto abbiamo costruito nel passato e, dai
fallimenti, purtroppo numerosi, dalla sofferenza di
chi non ha costruito quello che sperava, abbiamo imparato a dare significato diverso a ciò che vedevamo.
I pazienti, le famiglie, hanno guidato a comprendere l’ errore, non con un “rito di rinascita” si diviene figli adottivi, ma con un “rito di passaggio”, lungo
e faticoso, che rende il nuovo individuo figlio di una
nuova realtà, diversa da quella di origine, ma anche
da quella che per lui era stata costruita: una realtà
terza, una nuova famiglia.
Non abbiamo più figli adottati, abbiamo nuclei o
coppie che adottano, e che, con i loro figli adottivi,
sono cresciute e, solo se sono riuscite a terminare il
loro rito di passaggio, sono diventate “famiglia”, non
certo quella stereotipa che immaginavamo, ma una
famiglia che ha oggi, nel nostro mondo multietnico,
da insegnare a chi, come noi, era restato in un mondo di teorie.
Lutti, traumi, paure di abbandono, assumono in
questo passaggio valenza di condivisione, prima che
di superamento, in una consapevolezza che quanto
vissuto non può e non deve essere cancellato, e neanche banalmente “interpretato”, ma deve divenire
punto di forza per affrontare le difficoltà future del-
Figure attuali della genitorialità
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Figure attuali della genitorialità
Cecilia Ragaini, Anna Poli, Francesca Cerutti
la vita. Così come la nascita dei Supereroi, tanto amati da adulti e bambini, è conseguenza di un vissuto di
diversità, di estraneazione, anche i minori adottivi devono sviluppare un sentimento di superiorità, di risorsa straordinaria, per essere individui “integrati”
nel mondo.
Il mondo della Sand Therapy ha guidato nella
comprensione di questo processo di individuazione,
ed ha aiutato ad attendere, a dare ai pazienti il tempo ed il luogo per vivere e comprendere questo rito
di passaggio. Lo studio dello psicoterapeuta è divenuto per loro un contenitore che non segnava il tempo, ma offriva, a momenti, lo spazio per esprimere
sentimenti confusi.
Apparivano inidonee le espressioni che a lungo
erano state scritte nelle relazioni per il Tribunale dei
Minori: “è diventato figlio della coppia, è completamente affiliato etc..”, ma bisognava trovare parole
più simili a “la nuova famiglia ora si è costituita, è nato un nuovo nucleo che integra i due passati, le due
storie”.
È inoltre apparso sempre più chiaro come la nuova realtà che veniva a costituirsi era talmente personale che solo loro la potevano rappresentare, non
con le parole, ma con le immagini. Le storie traumatiche narrate dai pazienti non trovavano parole, là
dove i processi di mentalizzazione ed attribuzione di
significato ad eventi e a emozioni, non erano mai stati stimolati, e la sopravvivenza al dolore pareva legata
solo a meccanismi di scissione e negazione.
Ecco come le immagini prodotte nella sabbia hanno permesso ai pazienti, ed ai loro genitori, di entrare in contatto con ricordi traumatici, vissuti di abbandono, rabbia per le frustrazioni subite, solitudine
e paura, in una condivisione che ha aiutato loro a
non averne paura.
Nel mondo della Sand Therapy i pazienti hanno
potuto drammatizzare ricordi traumatici ed allo stesso tempo scoprire soluzioni che inconsciamente ave-
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La rappresentazione del viaggio e dell’incontro adottivo...
vano già trovato, ma di cui non erano consapevoli. Il
loro mondo interno era ricco di simboli che rappresentavano il superamento dei loro conflitti interiori,
di immagini che indicavano come un cammino di integrazione di passato e presente fosse tracciato, grazie al rivivere di esperienze collettive più profonde.
Esisteva un mondo che univa genitori e figli, lontano
da aspettative, frustrazioni e rabbia, e che andava solo scoperto e riconosciuto.
Immaginando un parallelismo con il mondo delle
fiabe, nel percorso adottivo genitori e figli si ritrovano a vivere un cammino che inizia direttamente con
la fase della “crisi”, quindi entro un percorso evolutivo che non ha sperimentato un momento di equilibrio che possa offrire senso a ciò che accade. Il percorso adottivo nasce infatti con un’idealizzazione iniziale che si lacera presto in una dimensione entro la
quale le proiezioni di adulti e bambini si scontrano,
generando e potenziando conflitti intrapsichici e relazionali.
Adulti e bambini, seppure insieme, spesso si trovano soli ad affrontare lutti dolorosi e rabbiosi nell’impossibilità di trovare un linguaggio comune, un terreno condiviso che permetta loro un incontro reale.
Genitori e figli si trovano quindi a sperimentare le
“peripezie”, le “crisi” del proprio percorso individuale, genitoriale e di coppia, ed è essenziale accompagnarli nel faticoso percorso di ritrovarsi insieme in
un percorso di trasformazione entro il quale gli
aspetti ed i conflitti individuali vengano compresi,
condivisi ed integrati tra loro.
I bambini adottivi spesso portano con sé una storia di occhi adulti che non li hanno “visti”, che non
sono stati in grado di “guardarli affettivamente” e si
ritrovano improvvisamente a destreggiarsi con genitori che desiderano offrire loro uno “sguardo” emotivo ed accogliente. Questi nuovi “occhi” desiderosi
di amare, spesso attivano un vuoto persecutorio anziché contenere o risarcire una mancanza. Genitori e
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Figure attuali della genitorialità
Cecilia Ragaini, Anna Poli, Francesca Cerutti
figli nutrono quindi gli stessi bisogni ma, spesso, lasciati soli si trovano a vivere ciò che più terrorizza e
distanzia: l’angoscia del rifiuto.
I personaggi della fiaba adottiva si trovano come
“polarizzati” su significati opposti di un unico simbolo, faticando ad accedere e, poi, a trovare soluzione
al conflitto: la madre desidera più di ogni cosa nutrire ed accudire un figlio che la vive come divorante e
distruttiva. L’unica via d’uscita è un incontro simbolico, un contatto affettivo in un mondo pre-verbale e
sensoriale entro un contenitore che tuteli e permetta l’integrazione.
Le immagini nascono quindi da uno stato di necessità della psiche, dal bisogno di superare conflitti
interni e dal bisogno di trovare risposte nuove, e la
Sand Therapy è parsa il contenitore migliore per offrire a questi minori ed ai loro genitori spazio di
espressione.
Per questo è nato il progetto adozioni e Sand
Therapy, un percorso di accompagnamento che permettesse a questi nuovi nuclei di diventare famiglia,
intendendo con questo termine un contenitore ove
poter condividere emozioni ed affetti, entro il quale
potersi alleare e sostenere reciprocamente nelle difficoltà, sentendo di aver dato un senso a tutte le fatiche ed a tutte le energie investite.
Le scatole della sabbia, i simbolici contenitori ove
le famiglie possono proiettare i vissuti relativi al rito
adottivo di passaggio, catalizzano e restituiscono con
l’energia trasformatrice e rinnovante delle immagini, la fase di costruzione del nucleo familiare. La presenza del clinico acquista la funzione di testimone
del rito, che ulteriormente contiene ed amplifica la
risonanza emotiva dell’evento psichico.
La proposta di un limitato percorso di incontri di
Sand Therapy, che prevede inizialmente spazi esclusivi per il bambino e poi passaggi di condivisione
con i membri della famiglia, esulando da valenze interpretative, si propone di attivare quel mondo im-
71
La rappresentazione del viaggio e dell’incontro adottivo...
maginifico, “limitandosi a fissarlo nella mente e a
contemplarlo”. Infatti l’immagine “di solito si trasforma, perché il semplice fatto di averla presa in
considerazione è sufficiente ad animarla”.1 L’intento del progetto è infatti quello di attivare un metabolismo sensoriale, stimolando la disposizione verso
linguaggi provenienti dai diversi canali comunicativi e relazionali, con cui le famiglie potranno, dopo
essersi incontrare, continuare a parlarsi nel proseguo del loro viaggio.
L’immagine che irrompe dalla sabbia riporta traccia di un pensiero antico, fissato nella genetica psichica umana: quello dell’inconscio collettivo, il cui
accesso diviene possibile attraverso i numerosi oggetti archetipici a disposizione nella Sand Therapy.
Comunicare e condividere lutti, traumi e paure di
abbandono reciproche diventa allora più naturale,
all’interno di un canale percettivo sensoriale che lascia dialogare liberamente corpo e psiche: dove prima vi era frattura traumatica e scissione tra l’emotivo e il corporeo, ora vengono attivate le diverse funzioni della coscienza e dell’attività creativa.
L’esperienza di abbandono, perdita e sradicamento vissuta dal bambino, così come i lutti spesso
poco elaborati dai genitori, di cui le menti hanno ancora scarsa coscienza, potranno dunque trovare rappresentabilità nella creazione sensoriale dei mondi
simbolici nelle scatole della sabbia. Nel costruire un
mondo tridimensionale che condensi diverse esperienze emotive senza tempo, per il bambino adottato, la cui formazione identitaria risente della difficile integrazione di due mondi così lontani e diversi e
che ricorre spesso a misure difensive di negazione o
idealizzazione, si compie un primo passo verso l’acquisizione di un’identità in grado di mantenere gli
opposti in una stimolante tensione evolutiva.
Per i genitori che si apriranno al gioco simbolico
con il figlio, sarà possibile riattivare quella fertilità
psichica e vitale, spesso interrotta nei momenti in cui
Figure attuali della genitorialità
1. Jung C.G., “Mysterium
coniunctionis”,
Opere,
XIV, tr. it. Boringhieri,
Torino 1989/1990, pp.
495-496.
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Figure attuali della genitorialità
Cecilia Ragaini, Anna Poli, Francesca Cerutti
il naturale desiderio generativo venne frustrato.
Nel rappresentare il viaggio che ha condotto diverse realtà a scorgersi e ad incrociarsi, la nuova famiglia potrà finalmente davvero incontrarsi su di un
medesimo terreno psichico e comunicare la stessa
lingua, quella edificata sugli innumerevoli elementi
simbolici provenienti da tutto il mondo e da ogni
tempo.
MAX
È difficile scegliere un percorso fra i tanti, che
possa meglio rappresentare l’evoluzione dei vissuti e
delle dinamiche instaurate fra minori e genitori, ma
la psicoterapia di Max meglio esemplifica nelle immagini quanto altri hanno tradotto anche in parole.
Max è un bambino adottato a cinque anni dopo
un fallimento adottivo nel suo paese di origine. Apparentemente sano e robusto, sorridente e vivace,
traduce velocemente un intenso malessere in una irrequietezza che evolve in comportamenti sempre
più ingestibili da parte dei genitori. La scuola, i centri sportivi ed i vicini di casa stessi, rimandano ai genitori le continue e ricorrenti provocazioni di questo
bambino, sempre più emarginato dai coetanei e progressivamente da ogni rete sociale.
I vissuti di inadeguatezza di genitori e figlio divengono cortocircuiti che portano ad agiti ed a verbalizzazioni violente, seguite poi da sensi di colpa così intensi, da danneggiare in ogni modo ogni intervento educativo e da rendere di fondo impossibile lo
strutturarsi di un sano attaccamento. Ambivalenze,
contraddizioni, segnano le relazioni di un nucleo
che pare domandarsi ogni momento “chi sono” e soprattutto “dove sto andando?”.
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La rappresentazione del viaggio e dell’incontro adottivo...
Figure attuali della genitorialità
Immagine 1
IL PASSATO
La prima immagine nella sabbia prodotta dal
bambino da solo guida nella comprensione delle fatiche di Max e viene tradotta ai genitori al termine
della seduta. È una immagine che ben aiuta a comprendere come la cicogna che porta il bambino sia
rivolta ancora verso oggetti del passato, un vecchio
macinino, una lampada ad olio. Le poche parole di
Max mi aiutano a comprendere il mio ruolo, là dove
insiste nel chiedermi se io possegga questi oggetti od
almeno se io li abbia usati nel passato, come un vecchio saggio che può conoscere e comprendere il peso delle esperienze passate.
I genitori vengono coinvolti in questo momento e
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Figure attuali della genitorialità
Cecilia Ragaini, Anna Poli, Francesca Cerutti
condividono con me la conoscenza di questo passato
ed il fascino di saper conoscere l’uso di oggetti antichi. Max sente di averli vicini e da questo momento
introduce “il gioco della paletta”, come un rito che
quasi introduce l’inizio dei nostri incontri, come un
dentro ed un fuori dalla seduta, ma anche un primo
ponte di comunicazione fra passato e presente.
La traduzione ai genitori di questa immagine
simbolica, del primo ponte fra passato e presente,
fra interno ed esterno, viene accompagnata alla lettura di un primo ed essenziale bisogno di Max: la
sabbia “del presente” deve sostenere il peso di questo passato e che solo loro, forse con il mio aiuto,
possono svolgere questo ruolo. In due sedute successive alla condivisione di questa prima immaginesimbolo, Max sembra doversi esercitare nella gestione di questo difficile equilibrio, aumentando gli oggetti del passato o riducendo la sabbia del presente,
in una sfida che solo nel ripetersi di questa ritualità
pare trovare conferma di quanto già sperimentato.
Un rito che Max trasforma nel divenire degli incontri, ma che mantiene questo valore di trasformazione, in un coinvolgermi nel sostegno ed in un coinvolgere i genitori nei traguardi e nel significato di
quanto espresso.
La scatola della sabbia diviene contenitore di una
ritualità quasi sacra che perde la staticità di un’immagine, per divenire spazio attivo di trasformazione,
con immagini che non si possono fermare perché
appartengono ancora ad un mondo che non esiste,
un mondo in costruzione, un mondo terzo, dove
l’immagine paletta ne rappresenta un primo arcaico
accenno, come una terza dimensione che si alza da
uno spazio relazionale bidimensionale.
Una paletta che, raggiunto il suo equilibrio, pare
scoprire la paura della solitudine, venendo posta
ogni volta all’inizio di una serie di incontri, che lasciano posto a racconti del presente, intrisi di rabbia,
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La rappresentazione del viaggio e dell’incontro adottivo...
Figure attuali della genitorialità
Immagine 2
polemica e senso di estraneità. Compagni che non accolgono, non capiscono, o volutamente provocano,
lasciando Max sempre escluso ed incompreso da tutti. A fatica i genitori si distaccano da questi vissuti di
inadeguatezza, rinforzati dai continui richiami di insegnanti ed educatori, ma comprendono la fatica di
questa solitudine ed il bisogno di sostegno di Max,
che pare non riuscire in nessun modo a mettere in
discussione questo momentaneo equilibrio. Il vuoto
lasciato da Max sotto a questo equilibrio precario, indica sicuramente il grande timore ad avviare ricordi
del passato, non più astratti ma personali e dolorosi.
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Figure attuali della genitorialità
Cecilia Ragaini, Anna Poli, Francesca Cerutti
Immagine 3
L’ALLEANZA DEL GRUPPO
Solo l’intervento del padre permette a Max di trovare la forza di avvicinare questo mondo sommerso,
ed il sopraggiungere di una nuova immagine aiuta il
nucleo a comprendere i vissuti sottostanti. Così una
montagna costruita dal padre nel centro della sabbia, simbolo forse del suo desiderio di assumere un
ruolo centrale-patriarcale nella gestione di questi ricorrenti momenti di umiliazione della sua genitorialità, (Max ha rotto il naso ad un compagno in un litigio, ha strappato quaderni, insultato con parolacce
volgari la maestra), si trasforma tra le mani di Max in
un vulcano che lascia attoniti ed impreparati gli animali vicini, confusi sul valore della lava, scambiata
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La rappresentazione del viaggio e dell’incontro adottivo...
Figure attuali della genitorialità
Immagine 4
per acqua. Un acqua che però li uccide con il suo calore, in un rievocare di Max un materno archetipico
violento e distruttivo, tanto ambivalente quanto centrale nel suo mondo interno.
Grazie al ruolo assunto dal padre e dalla silenziosa presenza della madre, ancora troppo spaventata
dalla violenza degli agiti del figlio, l’immagine simbolo del vulcano apre a successive traumatiche rievocazioni di una madre terra che nella sua impulsività
distrugge ciò che circonda, e soprattutto ciò che era
stato con fatica costruito.
È nuovamente l’intervento del padre a offrire una
strada evolutiva, là dove la razionalità del pensiero
unisce per la prima volta il risvegliarsi di risorse protettive materne. Le mani del padre deviano la lava
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Figure attuali della genitorialità
Cecilia Ragaini, Anna Poli, Francesca Cerutti
del vulcano nella direzione più lontana dal mondo
costruito e Max pone le pecore in un angolo dello
spazio protetto, per “evitare che escano e si facciano
del male”, riconoscendo per la prima volta la valenza
protettiva di regole e limiti. Due veicoli, “che avevano
sfidato troppo il vulcano” (queste le parole di Max),
vengono travolte e distrutte, a ribadire la necessità di
una distanza protettiva dalla violenza del ricordo
traumatico, un ricordo che non trova ancora parole
ma che all’improvviso emerge con agiti violenti che
distruggono il piccolo villaggio, ricco di simboli che
per la prima volta paiono però condivisi, là dove una
piccola gondola riconduce tutti al ricordo felice di
un loro viaggio a Venezia.
L’INDIVIDUAZIONE
Max pare a seguito di questi primi interventi trovare una maggior capacità di esprimere le proprie
emozioni e poterle condividere con prime parole,
nella costruzione di un proto-linguaggio che si intreccia a simboli presi a prestito dalla terapia ed in
parte scoperti in famiglia.
Sostenuto dalla consapevolezza dell’esistenza di
un contenitore affettivo che è in grado di reggere e
di tradurre il significato di comportamenti prima
vissuti come attacchi ad un ruolo genitoriale, Max
sembra ora potersi fidare del terreno su cui cammina, libero, o meglio consapevole delle insidie insite
nell’archetipo materno, ma allo stesso tempo capace di sfruttare le risorse del materno positivo, forte
di una guida paterna, oggi non più vissuta come
motivo di sfida.
Un cammello solitario si avvia apparentemente
senza una meta, in un’area dove l’acqua ha liberato
un cammino, in una immagine che offre nuovamente spazio di interpretazione e di ascolto da parte di
tutti. La solitudine del passato, l’aridità del terreno in
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La rappresentazione del viaggio e dell’incontro adottivo...
Figure attuali della genitorialità
Immagine 5
cui poggiano le radici di Max, trovano in un’immagine simbolica spazio trasformativo e risolutivo, là dove
le risorse date da madre natura al cammello gli permettono di attraversare deserti e soprattutto essere di
sostegno ad altri.
Così nelle associazioni dei genitori il cammello diviene elemento rassicurante, quasi salvifico, in situazioni estreme di solitudine e de abbandono, quasi un
supereroe che è di guida e sostegno “agli uomini”,
“smarriti nel deserto,” od ai “beduini che lo devono
attraversare”, un cammello che ha ritrovato dentro di
sé risorse naturali di cui Max chiede conferma con
insistenza.
Il piccolo cammello deve essere portato a casa da
Max, che sente di aver trovato una immagine simbo-
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Figure attuali della genitorialità
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lo del suo cammino di individuazione, ma anche uno
spazio di comunicazione con quella che sta diventando con lui la “sua famiglia”.
Solo nella consapevolezza della sua diversità e della sua solitudine Max sembra poter accettare di essere parte di un nuovo nucleo, quest’ultimo sereno del
sapere di radici che affondano in un materno solo superficialmente diverso, ma di fondo afferente ad un
inconscio collettivo dove i simboli rappresentano un
patrimonio comune di comunicazione e condivisione emotiva.
L’INCONTRO DEI DUE MONDI
Nell’ultimo incontro Max, nuovamente con le immagini, traduce il suo traguardo. Il piccolo cammello, decorato e vestito, con colori che spesso accompagnano la diversità dei nostri supereroi, si trasforma
e si umanizza, assumendo caratteristiche semplici ed
essenziali, ma forti e consapevoli. Così il nuovo cammello, adesso nudo e cavalcato da una figura umana,
osserva un incontro-saluto di due dinosauri, in
un’immagine che questa volta non trova parole, ma
che rimanda con chiarezza la consapevolezza inconscia di Max di essere figlio di due mondi che possono
oggi trovare spazio di incontro in un piccolo lago, dove l’acqua rende il terreno spazio di sostegno.
Tre sono gli elementi della sabbia di Max, come tre
sono gli elementi che compongono la nuova famiglia,
tre immagini piene di risorse, di storia, di energia, così come di distruttività e violenza. Una famiglia anomala, come tutte le famiglie che si stanno costituendo
oggi, con confini che simbolicamente riportano più
ad una macchia che ad una casa, ma che hanno superato difficoltà che paiono una lotta fra titani, e che
di questo devono prendere consapevolezza.
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La rappresentazione del viaggio e dell’incontro adottivo...
Figure attuali della genitorialità
Immagine 6
CONCLUSIONI
Il lavoro di Max svolto con i suoi genitori, con incontri fatti di momenti individuali del bambino, alternati a momenti di incontro e condivisione con i
genitori, talvolta insieme, talvolta separati, ha permesso di identificare forse una nuova strada al sostegno di queste nuove famiglie, sempre più numerose,
ma sempre più cariche di fatiche e delusioni e, per altri aspetti, sempre più sole.
La Sand Therapy nella sua multietnicità, nel suo
essere spazio archetipico di espressione di simboli
che possono essere ponte fra mondo interno e mondo esterno, fra passato e presente, pare essere una risorsa stimolante per questi nuovi nuclei che, in un
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Figure attuali della genitorialità
Cecilia Ragaini, Anna Poli, Francesca Cerutti
percorso terapeutico accompagnato, possono porre
le basi per una condivisione affettiva ed emotiva di
sostegno e comprensione.
La speranza è di poter sviluppare questa tecnica
per guidare tutti i nuclei familiari che le diverse vicissitudini della vita hanno costretto a ricomposizioni
forzate, in un sentirsi parte di un mondo collettivo
che gli offre stimoli di condivisione, in un linguaggio
che nella sua valenza archetipica supera barriere comunicative.
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Fare famiglia:
si comincia!
Inizierò questa riflessione sull’incontro
con la diversità nella relazione tra genitori
e figli con una citazione letteraria, che descrive una realtà lontana da noi nel tempo,
ma nella quale possiamo in parte riconoRiflessioni a margine
scerci.
del lavoro di postadozione
Nel romanzo Accabadora (che significa
“accompagnatrice all’ultimo viaggio”), amPaola Terrile
bientato in un paesino della Sardegna denominato dall’autrice Soreni, negli anni 50
del secolo scorso, si narra la storia del legame tra una
sarta nubile ed una bambina che adotta come figlia.
La bimba è la quarta figlia femmina di una madre
povera, poi rimasta vedova, e di conseguenza è stata
pochissimo desiderata e per nulla amata; di comune
accordo con la madre naturale viene presa all’età di
sei anni dalla sarta, e vive da allora con lei.
Una sera, quando la bimba ha dieci anni, avviene
questa conversazione con Bonaria, la madre adottiva:
1
“Maria, dice la madre, tu di chi sei figlia?”
La ragazzina non se lo aspettava. Tacque per un attimo, cercando la trappola nella domanda, poi si buttò sul sicuro.
“Di Anna Teresa e Sisinnio Listru”.
“Giusto. E però dove vivi?”
Stavolta Maria intuì la trappola, e prese tempo.
“A Soreni vivo”.
“Maria,” la ammonì Bonaria inarcando le sopracciglia. La ragazzina dovette cedere.
“…Vivo qui con voi, Zia”.
“Quindi vivi staccata da tua madre, ma sei sempre sua figlia.
È così? Non vivete insieme, ma siete madre e figlia”.
Maria tacque, un po’ umiliata, abbassando gli occhi sulle ginocchia per consolarsi con l’abbecedario, dove ogni cosa aveva un suo comodo posto, e solo uno. Il sussurro arrivò lieve
come un soffio.
“Siamo mamma e figlia, sì… ma non proprio una famiglia. Se
eravamo una famiglia, non si metteva d’accordo con voi …
cioè, io credo che voi siete la mia famiglia. Perché noi siamo
più vicine”.
Stavolta fu Bonaria a tacere per qualche momento. La musica classica che continuava a venire dalla radio non impediva
al silenzio di sentirsi. Quando parlò di nuovo, aveva cambiato
1. Michela Murgia, Accabadora, Torino, Einaudi
2009, pp. 24-26.
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Figure attuali della genitorialità
Paola Terrile
ancora tattica.
“Mi fa piacere che dici questo, ma non c’entra... perchè lo sai
bene che Arrafiei (il fidanzato) mi è morto in guerra nelle
trincee del Piave. E quella guerra la faceva l’Italia, mica la Sardegna. Quando si muore per una terra, quella terra diventa
per forza tua... Nessuno muore per una terra che non è sua,
se non è stupido”.
Maria non aveva nessun’arma da opporre a quella logica, né
consolazione per un dolore così forte da conservare ancora
memoria di sé dopo quarant’anni. Lo vide brillare come un
lumino negli occhi di Bonaria, la sola tomba dove il disperso
Raffaele Zincu non aveva mai smesso di essere pianto. Mormorò confusamente:
“Cosa volete dirmi, Zia… che io diventerò veramente vostra
figlia solo quando sarò morta?”. Bonaria scoppiò a ridere,
spezzando la tensione rivelata senza pudore dalla domanda
di Maria. Con un gesto istintivo prese la testa della ragazzina
e se la strinse al grembo, come per scaldarla.
“Sciocca che sei, Mariedda Listru! Tu sei diventata mia figlia
nel momento stesso in cui ti ho visto, e non sapevi ancora
nemmeno chi ero. Però devi studiare l’italiano bene, questo
te lo chiedo come una grazia…”.
“Perché, Zia…”.
“Perché Arrafiei era andato sulla neve del Piave con scarpe
leggere che non servivano, e tu invece devi essere pronta. Italia o non Italia, tu dalle guerre devi tornare, figlia mia”.
Non l’aveva mai chiamata così, e non lo fece mai più. Ma a
Maria quel piacere denso, così simile a un dolore in bocca, rimase impresso per molto tempo.
Due osservazioni a partire da questo testo. L’adozione quale noi la conosciamo, negli anni 50, epoca
in cui è ambientata la bella storia narrata dal libro, in
Italia non esisteva: era invece abbastanza diffusa l’affiliazione come legame elettivo.
Figli di anima, così chiamava questi figli il linguaggio popolare; oggi si parla di “mamma di cuore”,
ma il termine ”anima” sembra alludere ad un legame
davvero particolare. Come se la scelta da parte del genitore fosse considerata, sia soggettivamente che collettivamente, talmente profonda da compensare la
mancanza del legame di sangue con un legame altrettanto importante, quello tra anime. Se mi sei figlio di anima, penserà il genitore, mi somigli, non
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Fare famiglia: si comincia!
nel fisico ma dentro; c’è tra noi una misteriosa affinità, analoga a quella che unisce due persone in altri
tipi di amore (le anime gemelle). Siamo cioè in qualche modo simili, (“noi siamo più vicine”, dice infatti
la piccola Maria ponendo implicitamente a confronto il suo legame con la madre adottiva e quello con la
madre naturale), e questo mi rassicura.
Pensiamo ora ai figli adottivi, in particolare a
quelli che vengono da lontano, con i loro bellissimi
visi così differenti dai nostri. Innanzitutto, ciò che
crea il primo sentimento di unione è il coincidere
simmetrico del bisogno istintivo di essere genitori,
con quello del piccolo di avere genitori che si prendono cura di lui.
La prima “somiglianza”, quindi, la crea il desiderio. Due bisogni altrettanto forti: il che spiega perché
nelle prime sedute di postadozione il sentimento di
gioia reciproca, di desiderio affettivo esaudito, sia talmente intenso da pervadere l’aria della stanza in cui
le famiglie siedono.
Gli incontri di postadozione sono di regola quattro, ma possono aumentare di numero in relazione alle esigenze specifiche del gruppo famigliare, e si svolgono nel primo anno-anno e mezzo dall’arrivo del
bimbo alla presenza dell’intero nucleo famigliare.
In questi incontri emergono e prendono vita le caratteristiche specifiche della relazione genitoriale
adottiva. Svolgo le sedute in collaborazione con “Enzo B”, Ente autorizzato per le Adozioni Internazionali: si tratta per le famiglie di un percorso volontario,
integrativo e spesso suppletivo al percorso di postadozione istituzionale.
Il setting è aperto per poter cogliere dal vivo, man
mano che si fanno presenti nel dialogo e nell’interazione di gioco tra adulti e bambini, le dinamiche tra
i vari componenti della famiglia, e perché mi sembra
l’impostazione più adatta a rispettare le caratteristiche di questo particolare nucleo. Lo psicologo analista consulente entra nel vivo dell’interazione con la
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Paola Terrile
famiglia rispondendo a domande dei genitori su questioni concrete, giocando via via con i bambini, in un
intrecciarsi di dialoghi in movimento in cui lo sguardo analitico — quello di chi ha gli strumenti per saper
leggere la relazione tra parola, emozione ed istinto —
si manifesta nel dare senso a ciò che succede, nell’illuminare in tempo reale emozioni e pensieri inserendoli nello stile e nel tessuto relazionale di quella
determinata famiglia.
Un esempio tratto da un incontro può aiutarci ad
entrare nel vivo di ciò che accade, a mettere in evidenza la natura di queste sedute.
La mamma e i due bambini (due fratellini etiopi
di quattro e sette anni, in Italia da circa nove mesi)
entrano insieme a me nella stanza dedicata al postadozione.
È il quarto colloquio, il primo senza il padre, assente per motivi di lavoro; i bimbi sono a loro agio
nell’ambiente ed il piccolo di quattro anni inizia subito a giocare.
La sorella, di sette, siede al tavolo con me e la madre ed inizia subito a parlare come un fiume in piena. La madre, che appare esausta, mi racconta degli
“sfoghi” della figlia rispetto al proprio passato, del
quale parla da qualche tempo con emozioni molto
accese. Inizia poi ad accennare ad alcuni suoi litigi
con le compagne a scuola, che la bimba — la chiameremo D. — subito spiega a modo suo: ”Ho nostalgia
del mio Paese, per questo sono nervosa…”
Madre: “Quando è nervosa cerca il litigio, ha discussioni con il papà”.
D.: “Il papà del mio paese mi piaceva di più”.
Madre:”Quando D. è triste piango anch’io con
lei... Anche il piccolo G. spesso dice:”Piango e non so
perché. I bimbi mi fanno troppe domande, mi chiedono sempre dei leoni,io mica vivevo coi leoni!”.
Il piccolo gioca assorto poco lontano dal tavolo al
quale sediamo, guarda la madre, sorride annuendo.
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Fare famiglia: si comincia!
Mi alzo e seguo il piccolo, che colora e gioca con
le macchinine, lui mi sorride complice. Torno dopo
qualche minuto al tavolo.
Intanto D., sempre seduta al tavolo con la madre,
prende la plastilina morbida ed inizia a giocare; anche la madre gioca ritagliando piccole forme tonde
tutte uguali. La bimba prepara due forme tondeggianti e piatte, di colori differenti, una più piccola
dell’altra. Le sovrappone dando loro forma concava
e mi spiega,con tono tra il fiero e il malinconico:
”Questo è il piatto in cui al mio Paese si mette il cibo per gli sposi, nel matrimonio”.
Mentre continua a creare e a sovrapporre le forme di plastilina, ed io commento la loro bellezza, (la
madre tace ascoltando il dialogo tra me e D.), la bimba dice ad un certo punto in tono ansioso, rivolgendosi a me:
”Sono preoccupata per ciò che sta accadendo là…
Sai, ho aspettato tantissime volte che venissero per
me, quando ero in istituto, ma erano sempre i genitori di altri bimbi...”.
“Io sogno la mia famiglia, a volte, non sono sicura
che stiano tanto bene…”.
“Sono arrabbiata con la famiglia di mio padre, è
stata colpa loro se siamo venuti qua…”. Fa il broncio,
abbassa il viso e conclude, lapidaria: ”Non mi servono più”.
La ascolto ed interagisco con lei con brevi commenti e sguardi rassicuranti, mentre la madre appare
sollevata dal fatto che oggi raccolgo io il fiume in piena dei racconti della sua figliola: finchè la bimba all’improvviso sembra voler cambiare argomento, con
tono allegro e con gesti attenti mi consegna il suo elaborato e si alza dal tavolo.
Durante il mio dialogo con mamma e sorella il
piccolo continua a giocare, comunicandomi con lo
sguardo che lui sta bene e che posso continuare ad
ascoltarle.
La sorella ora si sposta dal tavolo e gioca con le
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bambole. La madre mi racconta in tono preoccupato
del piccolo che a volte a casa dice che nessuno gli
vuol bene, espone dubbi sull’adeguatezza delle proprie reazioni rispetto alle differenti emozioni dei due
figli: la rassicuro sul fatto che il suo modo di porsi verso i due bimbi è oggi più spontaneo,(nei primi incontri la madre si era mostrata molto ansiosa ed interpretante), ma che forse occorre dosare il tempo
dedicato ai racconti sul passato.
La parte finale dell’incontro, mentre i due bimbi
interagiscono nel gioco, si svolge nel racconto della
madre delle sue difficoltà con il padre, che a suo parere sta poco in famiglia e questo gli impedisce di
creare un rapporto sereno in particolare con la figlia,
oltre a creare un inizio di crisi coniugale. Programmiamo quindi una seduta solo per i genitori.
A fine incontro la bimba sembra allegra, mi saluta
con battute pungenti sui suoi ex compagni di istituto
che sono anch’essi giunti in Italia, sorride, anche il
suo fratellino mi bacia con dolcezza e trasporto.
Da questo breve esempio si può cogliere come
una seduta di postadozione sia un’istantanea dinamica sulle relazioni di ciascuno dei membri della famiglia con gli altri.
Ci permette di entrare nella relazione tra i genitori e i bimbi cogliendone lo “stato dell’arte” nel delicato e fondamentale momento del suo prendere
forma. I nostri rimandi aiutano i genitori a collegare
i fili emotivi e di conoscenza con il figlio, nel qui ed
ora, ad evidenziare i punti critici e a mettere in moto
le risorse per affrontarli; mentre i bimbi possono
esprimere liberamente ciò che sentono, compresi i
conflitti, mostrando aspetti di sé a volte nuovi per i
genitori stessi. ( Un esempio frequente tratto dall’osservazione nelle prime sedute dopo l’arrivo di un secondo figlio: qui i genitori tendono spesso, in prima
battuta, a minimizzare le reazioni di gelosia del più
grande, mentre il fratello maggiore nel corso della
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Fare famiglia: si comincia!
stessa seduta mette spontaneamente in scena, giocando col piccolo, emozioni intense di rabbia e smarrimento in relazione a quest’ultimo).
Nello stralcio che abbiamo appena visto, appunto,
il dialogo con me in contemporanea al racconto della figlia ha permesso alla madre di sentirsi meno oberata dall’irruenza emotiva della piccola; di condividerne le emozioni ma anche di coglierne frammenti
di identità legati al passato, e quindi di approfondirne la conoscenza iniziando a riconoscerne e ad accettarne la differenza.
La bimba invece ha potuto esprimere con la parola e con i gesti le forti emozioni, in questo caso legate al suo passato nel paese d’origine, iniziando con
ciò (e sentendosi legittimata a farlo dallo sguardo
adulto) a collegare tra loro le sue differenti identità.
In questa seduta, ma accade sovente nel corso degli incontri, le parole dei bambini e quelle degli adulti assumono una forte risonanza emotiva, e questo
per un gruppo di persone che stanno imparando a
“fare famiglia” è di grande importanza. La parola
simbolica, cioè pregna di sentimento e di emozione
autentica che trovano uno spazio per esprimersi, aiuta infatti a radicarsi nel possibile, cioè a costruire su
basi solide l’intreccio delle relazioni di cui è fatta la
famiglia.
Torniamo ora ai contenuti più frequenti che
emergono nel corso dei colloqui, che come abbiamo
visto accompagnano il processo di conoscenza reciproca tra genitori e figli e il sorgere della relazione di
attaccamento.
Ad una domanda che pongo ai genitori nel corso
dell’ultimo colloquio:
“Che cosa è cambiato nella vostra relazione con
lui dal primo giorno in cui vi siete incontrati?”, le famiglie danno sostanzialmente due tipi di risposte,
per lo più sintone in entrambi i genitori. La prima si
traduce in: “L’ho sentito da subito figlio mio”, l’altra
invece in: “All’inizio provavo tenerezza, ma soltanto
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Paola Terrile
ora che ci conosciamo meglio, che viviamo insieme
già da un anno sento di volergli davvero bene”.
Entrambe le affermazioni contengono una verità,
anche se quelle del secondo tipo rivelano una consapevolezza maggiore del fatto che il bambino all’inizio
è uno sconosciuto, una piccola persona con una sua
identità ed una storia che nelle sue origini, in parte
più o meno breve a seconda dell’età del bimbo quando entra a far parte della famiglia, non coincide con
la storia dei genitori. È vero che, come dice la madre
adottiva del romanzo sopra citato, lo si è sentito parte della propria anima ancor prima di averlo conosciuto: ciò non toglie che quando ce lo si trova tra le
braccia la sua estraneità e diversità (da noi, dagli altri
bimbi) balzi agli occhi almeno quanto la vicinanza.
Questa diversità, fatta di tante componenti, somatica,
esperienziale, culturale, fa sì che soprattutto all’inizio si possa percepire il figlio come uno sconosciuto.
Dall’altra parte, il vissuto di vicinanza inteso come
intimità istintiva di gesti e sentimenti, esiste fra genitori e figlio fin dal primo giorno della loro vita comune.
Il filo conduttore del lavoro con le famiglie adottive è appunto quello di aiutarle a coniugare fin dall’inizio vicinanza affettiva e diversità, intimità ed
estraneità come componenti egualmente fondanti
nella relazione con il bambino.
Il negare o il sottovalutare la “diversità” del bambino, cioè la sua identità di individuo, fa spesso tutt’uno con la difficoltà ad entrare in contatto con gli
aspetti più delicati dell’esperienza di genitore adottivo.
In primo luogo, secondo i racconti dei genitori,
c’è la difficile questione di come rapportarsi al passato dei propri figli, del quale spesso non si sa nulla.
Il raccontare al figlio piccolo la storia dell’adozione, soprattutto quando la si fa diventare una bella favola a lieto fine i cui personaggi vengono trasfigurati
e prevalgono i buoni sentimenti, può diventare per il
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Fare famiglia: si comincia!
genitore una compensazione del proprio disagio di
fronte all’ignoto che è il passato del bambino, così
come rispetto alle ipotetiche sofferenze che vi sono
iscritte. In una parola, la storia può lenire il disagio
legato all’impossibilità di rispondere in modo rassicurante a tutte le domande del figlio.
Raccontare la storia in effetti fa bene al bambino,
ma è importante che il genitore si faccia da subito
consapevole che l’aspetto sconosciuto e “segreto” del
passato del bimbo non è cancellabile, e che nelle diverse fasi della vita e della crescita del figlio dovranno continuare ad affrontarlo, insieme a lui. L’elaborazione della storia serve ai genitori per iniziare a familiarizzare con l’aspetto più estraneo e difficile da
accettare del loro figliolo: il suo passato.
Se il figlio adottivo entra nella vita famigliare con
un’età sufficiente per portare con sé un bagaglio di
ricordi, sarà possibile condividere con lui questo passato.
Inizialmente i racconti del piccolo faranno sentire
in modo acuto la sua estraneità; ma il tempo e la crescente famigliarità reciproca, nella quale trovi ampio
spazio la consuetudine ad esprimere chiaramente i
propri vissuti emotivi, aiuteranno il padre e la madre
ad inserire i ricordi del figlio all’interno del legame
affettivo con loro.
Le esperienze del suo passato si inseriranno per
gradi nella storia della famiglia, diventando risorsa
preziosa sia per il figlio che per i genitori, utile alla
conoscenza reciproca ma anche per dare inizio da subito (come abbiamo visto nell’esempio di seduta) alla costruzione di un ponte tra passato e presente, tra
le differenti identità del bimbo e quelle di ciascuno
dei suoi cari.
Se invece il bimbo al suo ingresso in famiglia è
troppo piccolo per poter avere ricordi, il passato degli inizi della sua vita resta e rimarrà in futuro uno
spazio vuoto, che i genitori potranno aiutare il figlio
ad affrontare in quanto essi stessi impareranno nel
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Figure attuali della genitorialità
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tempo a convivervi con meno disagio possibile.
Le parole di una madre: “La prima volta in cui un
bambino compagno di scuola materna di mio figlio
mi ha chiesto se lui era mio figlio, mi sono trovata a
balbettare… Ero così preparata, lo avevo sempre saputo, eppure la prima volta che ho dovuto spiegarlo
sono rimasta così smarrita, mi sono bloccata, non trovavo le parole...”. Siamo di fronte ad un’esperienza
impastata di sentimenti ed emozioni molto intensi,
talmente articolata e complessa, che per descriverla
le parole non bastano.
È importante, ed è questo un aspetto sul quale
molto si lavora nei colloqui postadottivi, imparare a
contenere l’ansia di essere ad ogni costo “un bravo
genitore”, facendo i conti con il proprio limite ed evitando ogni forzatura. Prendendo atto, per esempio,
che alcune domande del proprio figlio sulla propria
nascita possono essere per alcuni aspetti dolorose (il
discorso sull’altra madre, ad esempio, per molte
mamme è comprensibilmente faticoso) e che l’accettazione della propria difficoltà aiuta il genitore a trovare un atteggiamento autentico nei confronti delle
domande più complesse del figlio.
Un altro aspetto “Ombra” molto presente nel vissuto iniziale dei genitori adottivi è la così detta “riparazione del trauma”. Fin troppo formati agli aspetti
psicologici del vissuto del bimbo abbandonato, i genitori tendono a volte ad assumere un atteggiamento
“consolatorio” ad oltranza nei confronti del bimbo. Il
pensiero retrostante è: dato che il nostro bambino
nei primi tempi della sua esistenza ha sofferto, è stato abbandonato, allora dobbiamo ricoprirlo di affetto senza dargli limiti, per aiutarlo a risanare la sua
“ferita primaria”. Dietro questo che è un altro modo
di manifestarsi della non accettazione del bimbo come persona, si nasconde da parte del genitore la tendenza ad una relazione simbiotica, che ha in realtà
una valenza riparatoria nei confronti delle proprie
ferite affettive, spesso a discapito del bambino.
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Fare famiglia: si comincia!
È vero invece che i bambini spesso hanno in sé
buone potenzialità per recuperare la fiducia nel
mondo adulto: un atteggiamento genitoriale che
non sia basato su un’affettività con pretese di onnipotenza, bensì su una persistente accoglienza e fiducia nelle loro risorse e nel grado di autonomia che
già possiedono, rispettando la gradualità dell’avvicinamento, è quindi per loro senza dubbio il più favorevole.
Come scrive Barbara Waterman:2
“I genitori che persistono nel tentativo di creare un legame
emotivo con i figli adottivi, malgrado gli intensi meccanismi
di identificazione proiettiva dovuti a perdite subite da entrambe le parti, consentiranno loro di sperimentare una sensazione fondamentale: l’appartenenza”.
“Quando ti conoscerò meglio mi fiderò di te”: le
limpide parole di una figlia alla madre spiegano meglio di tanti concetti quale ruolo importante svolga il
tempo nella costruzione di un rapporto di reciproca
fiducia.
La semplice osservazione della spontanea energia
dei figli, senza volere per forza ed in ogni caso prevenirne i bisogni, può dunque essere di grande aiuto
ai genitori nel ridimensionare i timori iniziali.
Un ulteriore aspetto critico che ho potuto evidenziare nel corso dei colloqui è l’eccessiva importanza
data dai genitori adottivi al controllo sociale, sottoforma di ansia di essere giudicato appunto “un bravo
genitore”, così come in forma di paura del giudizio
degli altri nei confronti della differenza di cui il bambino è portatore. L’aspetto di apertura al mondo che
la famiglia adottiva porta con sé è senza dubbio vissuto dalla maggioranza di esse come un valore da diffondere. D’altro canto, è un dato di fatto che la cultura dell’adozione non è ad oggi molto diffusa a livello sociale, almeno in Italia, e che il pregiudizio ancora dominante, compreso quello positivo, può non
aiutare ad esempio l’inserimento del bimbo nell’isti-
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2. Barbara Waterman, La
nascita di una madre,
Ma.Gi., Roma 2010, p. 77.
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Figure attuali della genitorialità
3. Michela Murgia, Accabadora, cit., pp. 21-23.
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tuzione scolastica.
A questo riguardo, ecco un’altra pagina del romanzo Accabadora in cui l’incontro con il pregiudizio
viene tratteggiato con efficace delicatezza:3
“Uscirono (la madre adottiva e la maestra della bimba, che
l’aveva convocata a colloquio) nel giardino che circondava la
scuola, e camminarono tra le aiuole fiorite senza curarsene,
attente soprattutto l’una all’altra. Bonaria (ricordiamo che
questo nel romanzo è il nome della madre adottiva) osservava la maestra con brevi occhiate dirette, Luciana (la maestra)
si limitava a guardare di tanto in tanto il profilo segnato di
quella donna, quando pensava di non essere vista.
“È strano sa, questa cosa del figlio d’anima…”
“Perché è strano?” Il tono di Bonaria era inespressivo.
“Maria non sembra averne affatto risentito. Vede spesso la sua
famiglia d’origine?”
“Sì, ogni volta che me lo chiede. Perchè doveva risentirne?”
Luciana Tellani rispose di getto, come se quella frase se la fosse rimuginata da molto prima, nell’attesa che la vecchia si
presentasse all’appuntamento.
“Non lo so, è che mi sorprende che per esempio, quando le
chiedo di fare un disegno dei suoi genitori, Maria disegni lei,
e non la vera madre”.
Bonaria non mostrò sorpresa a quella rivelazione, e rimase in
un silenzio che invitò l’altra a proseguire imbarazzata.
“Bè, è che mi sembra una cosa così insolita che una bambina
venga sottratta... consensualmente, per carità, ma comunque
che venga via dalla famiglia così, senza mostrare traumi…”.
“Non è strano, in questa zona succede ogni tanto, se va a Genari ci sono almeno tre fillus de anima, una ha all’incirca l’età di Maria…”Bonaria si fermò per ribadire il concetto: Non
è strano”.
La piemontese non sembrò convinta, ma lì per lì non aggiunse altro. Fecero scivolare il discorso sui risultati scolastici
meno brillanti della bambina, e una volta tornate alla porta
della classe la maestra fece per congedarsi. Ma Bonaria aveva
un’ultima domanda.
“Volevo chiederle, a proposito dei disegni che fa Maria... cosa intende esattamente quando dice che dovrebbe disegnare
la vera madre?”
La maestra rimase interdetta, dallo sguardo più che dalle parole dell’anziana sarta.
“Non mi fraintenda, mi riferivo alla madre naturale, non intendevo certo svilire il vostro rapporto…”
“La madre naturale, per Maria, è quella che lei disegna quando le chiedono di disegnare sua madre”.
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Fare famiglia: si comincia!
Forse fu il tono della vecchia, così lieve e pacato. O forse lo
sguardo, assolutamente vitreo su di lei, come se le guardasse
attraverso. In ogni modo, maestra Luciana reputò più seggio
non replicare, stringendo le labbra in una rigida parodia di
sorriso”.
Questa pagina, con la sintetica limpidezza della
letteratura nel tratteggiare aspetti conflittuali dell’esperienza umana, pone l’uno di fronte all’altra il
pregiudizio e l’esperienza della relazione concreta,
la quale spiazza e smentisce il pregiudizio, anche
quando non riesce subito a smontarlo. Perché la relazione concreta e viva del padre e della madre con
il bambino, allorché la si vive con autenticità e naturalezza, si articola come un percorso aperto di crescita comune, e in quanto tale rasserena e dà forza.
Semplifica e rassicura.
Nel rimarcare uno o più aspetti critici della loro
esperienza in maniera ansiosa e drammatica, alcuni
genitori rivelano invece la latente paura che la difficoltà o comunque la differenza del passato del bambino prendano prima o poi il sopravvento e gli impediscano di sentirsi veramente parte della famiglia e
del grande mondo. Anche in questo caso fa capolino,
dietro le legittime paure, la difficoltà di venire veramente a patti con la complessità dell’esperienza del
proprio figlio e di quella di genitore adottivo.
È infatti indiscutibile, e questo ogni genitore lo sa,
che il bambino adottato è anche “figlio del mondo” e
non può appunto essere del tutto figlio proprio.
Si può affermare che l’identità specifica della famiglia adottiva proprio in questo paradosso abbia origine: il mondo è sempre “dentro” ed è impossibile tenerlo fuori. L’acquisizione e la stabilizzazione di questa consapevolezza hanno come conseguenza un atteggiamento in cui, con la mediazione dell’affetto, si
accolgono man mano che si presentano i differenti
aspetti dell’identità del bambino, compresi quelli più
distanti dai propri, (legati alla cultura di origine ma
anche alle esperienze primarie vissute nella comuni-
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tà in cui sono nati), senza tendere per forza ad uniformarli ai propri. Imparando a convivere con la differenza, affrontandone nel concreto i nodi critici si
apprende a riconoscerne la potenzialità di arricchimento: man mano che impara a vivere le differenze
con la maggior naturalezza possibile, il genitore trasmette questa esperienza al figlio donandogli con ciò
un fondamentale punto di forza nonché uno strumento per il suo futuro. Tutto ciò, in un periodo storico come l’attuale, fa di ogni famiglia adottiva un laboratorio di convivenza ed “educazione permanente” di ciascun membro alla molteplicità ed al confronto con le differenze.
Nel lavoro postadottivo è mia cura accompagnare
i genitori, attraverso il confronto con aspetti concreti della propria esperienza, ad entrare in contatto
consapevole e a sviluppare la propria funzione regolatrice genitoriale, sempre giocata tra la riflessività
analitica e globale e l’ascolto della dimensione istintuale: una vera e propria funzione-guida nella costruzione progressiva del rapporto di conoscenza, attaccamento e fiducia con il bambino.
Ciò che i genitori chiedono, a volte in maniera
esplicita, è di essere aiutati a trovare, limitando la tendenza alla razionalizzazione che l’eccesso di formazione porta con sé, una propria cifra istintiva, individuale ma anche di coppia, che, rispettando la propria identità e quella del figlio, le metta insieme nel
gioco della relazione.
I bimbi adottivi appaiono all’osservazione, nel primo anno dopo l’arrivo, in grande maggioranza dotati di maggior maturità esperienziale ed emozionale
rispetto ai coetanei: abituati ad una precoce socializzazione, si rivelano capaci di adattabilità e di mediazione culturale. Come se i vissuti forti della loro prima infanzia, che siamo abituati a considerare soprattutto nei loro aspetti negativi, li avessero d’altra parte portati a metter in essere risorse che li rendono
nella maggior parte dei casi positivamente reattivi ri-
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spetto alle nuove esperienze.
Un approccio psicoanalitico orientato a cogliere
soprattutto gli aspetti di difficoltà del loro vissuto appare quindi parziale. Rischia infatti di non rendere
giustizia alla complessità della esperienza pregressa
del bambino, che non può non includere anche vissuti positivi, e di non valorizzarne le risorse.
L’uso esclusivo di una categorizzazione psicologica orientata in senso psicopatologico appare nel
complesso non adeguato a cogliere la complessità e
l’intreccio di livelli dell’universo famigliare adottivo.
Una metodologia sperimentale prettamente empirica, dinamica ed “insatura”, che comprenda lo sguardo analitico sulla relazione profonda insieme ad un
ascolto “aperto” volto a sostenere e a valorizzare la relazione genitori-figli nel suo formarsi e nel suo essere nel mondo, mi sembra la più adatta ad avvicinarci
all’esperienza delle famiglie adottive e ad accompagnarle all’inizio del loro percorso di vita comune con
il figlio.
Il lavoro postadottivo assume in queste forme una
valenza di prevenzione del disagio ed educativa nel
senso più ampio del termine. Dalla casualità dell’incontro alla costruzione di un nucleo aperto in cui
ognuno, adulto e bambino, possa svilupparsi nella relazione autentica con gli altri.
A conclusione di queste note, propongo un sogno
che descrive in maniera precisa l’evoluzione della relazione affettiva adottiva. La sognatrice è una donna
che per alcuni anni ha vissuto la esperienza di genitore adottivo:
“Sono per strada e vedo una bambina stesa per
terra, avrà due o tre anni ma è molto minuta, come
se fosse vietnamita. Si alza e segue una suora che la
sta aspettando. La bimba è incerta sulle gambine e fa
fatica a seguire la suora, che cammina svelta davanti
a lei e non la aspetta. La piccola mi fa tenerezza e allora la aiuto, la prendo per mano e seguiamo la suora, finchè non arriviamo a destinazione, una sorta di
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negozio o piccolo supermercato. Qui la suora scompare ed io ho sotto braccio un cesto in cui è seduta la
bimba, in mezzo a tante verdure fresche. All’improvviso mi volto e la bimba non è più nel cesto, e le verdure sono tutte appassite.
Mi dispero e mi getto piangendo tra le braccia di
un ragazzo sconosciuto che si trova lì.
Ma poi penso: dev’essere passato del tempo, la
bambina non è più piccola, se n’è andata per la sua
strada. E allora la mia disperazione si attenua e mi
consolo”.
In questo sogno protagonista è il tempo che compensa, il tempo che sviluppa. Nel tempo della vita insieme al figlio c’è la gioia dell’incontro, l’accompagnamento alla rinascita di ciascuno nella relazione.
Ad un certo punto avviene anche il dolore della separazione, un vissuto la cui eco e risonanza è presente fin dall’inizio nell’esperienza di tutti i componenti della famiglia adottiva: la separazione è dolorosa,
ma si apprende che la bimba ha infine preso la sua
strada, cioè la relazione è riuscita! Non ci si può possedere per sempre, racconta il sogno, ma si percorre
un lungo pezzo di strada insieme e questo rinnova e
dà nuova linfa al vivere.
Anche questo si impara, lasciandosi adottare dai
propri figli.
Bibliografia
Michela Murgia, Accabadora, Einaudi, Torino 2009.
Barbara Waterman, La nascita di una madre, Ma.Gi., Roma 2010.
101
Figure attuali della genitorialità
“Ma io sogno...
io sogno perché non
sono che un bambino
in viaggio, lontano
dalla terraferma”
“Rivivere il momento in cui abbiamo incontrato per la prima
volta V. evoca sempre una forte
emozione. È stato un momento
‘collettivo’, in cui tutti ci siamo
trovati di fronte a questa personcina che sarebbe diventata parte
integrante della nostra famiglia e
di noi, ma che sicuramente ognuno di noi ha vissuto in modo personale e con sensazioni proprie.
Io parlo nome di tutti e tre ma in
realtà parlo delle mie sensazioni
ed emozioni, del mio sentire... È
stato il momento in cui tutte le
speranze dette e non dette di anni di attesa si sono concretizzate, sono diventate qualcosa di
reale. Se dovessi esprimere quali fossero queste speranze,
non lo saprei dire. L’arrivo di un nuovo bambino che cosa significa di preciso? È un insieme di emozioni e di sensazioni,
è un terremoto emotivo che ti travolge, nel bene e nel male.
Bisogna semplicemente essere pronti ad essere travolti...”.
PREMESSA
In alcuni passaggi della vita vi sono momenti particolari, che concretizzano in un incontro la condensazione e la compenetrazione di bisogni da soddisfare e desideri da esaudire, nell’attesa di un cambiamento dell’esistenza. Ciò accade, ad esempio, quando si incontrano una coppia disponibile all’adozione
e un bambino adottabile.
Ripercorrere tali frangenti così speciali, in un secondo momento, costruisce una narrazione densa di
significato. Nell’ascoltare, o leggere la narrazione di
tali momenti, si entra in contatto con un precipitato
emozionalmente pregnante, inevitabilmente toccante.
Lo sa bene lo psicologo che in un intervento di
post-adozione incontra per la prima volta il nucleo familiare da poco costituitosi.
Il presente articolo è un piccolo contributo sull’intervento psicologico nel periodo di post-adozione
Patrizia Conti
Sarah Francavilla
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Figure attuali della genitorialità
Patrizia Conti, Sarah Francavilla
in un’ottica di prevenzione, considerata di grande
importanza in ragione della quota elevatissima di sofferenza che la crisi di un’adozione comporta.
In tale intervento non è implicato un aspetto curativo in senso stretto. Nel caso della rilevazione di
un disagio dei genitori o del bambino, l’eventuale
presa in carico terapeutica degli uni o dell’altro è
sempre successiva. Sarebbe, eventualmente, da attivarsi una volta consolidatesi una più precisa interpretazione della sofferenza e individuata più specificatamente la cura, ovvero quando appare confermarsi un serio rischio “evolutivo” della situazione familiare.
A costituire l’aspetto più entusiasmante di questo
lavoro di accompagnamento dei primi mesi della costituzione del nuovo nucleo familiare sono le valenze
trasformative che si attivano per ogni partecipante,
genitori e bambini e, non da ultimo, lo psicologo.
I genitori nel sapere che c’è un momento destinato innanzitutto alla narrazione, nonché ad osservazioni, riflessioni, scoperte, sorprese, e poi anche, ma
solo secondariamente, e se necessario, a problemi e
difficoltà.
Il bambino nel vivere e sperimentare un contesto
specificatamente dedicato alla sua vicenda, ovvero
uno spazio mentale in cui i genitori riflettono sulla
loro comune avventura, su di lui, ma anche su di loro e sulla loro relazione.
Gli psicologi nell’aver costantemente rinnovata
l’esperienza emozionante di un racconto quasi “magico”: quello di un incontro denso di significato, che
avvia un legame speciale, e dà vita ad una genitorialità intensamente desiderata.
L’obiettivo è, per il clinico dell’infanzia, delle relazioni di coppia e di famiglia, il raccogliere e l’analizzare esperienze di incontri “riusciti” e il poter accompagnare una positiva impostazione dei primi importantissimi mesi di avvio del concreto iter adottivo. Ciò
permette di vedere sorgere e svilupparsi le relazioni
103
“Ma io sogno... io sogno perché non sono che un bambino...”
di attaccamento, preludio indispensabile allo sviluppo del sentimento di appartenenza e alla contemporanea integrazione dell’elemento della “diversità”.
L’intervento del post-adozione sta anche nel poter
aiutare, con incisività ed efficacia, le situazioni difficili - molto poche fortunatamente nella nostra esperienza - ovvero quelle che si avviano sulla strada di un
esito potenzialmente sfavorevole, cercando di allontanare o ridurre sensibilmente il rischio di un esito
negativo, di un fallimento dell’adozione. Quest’ultimo è un’eventualità che, in ragione di una quota
inammissibile di sofferenza per il bambino, ma anche per i genitori, diviene drammatica quando apre
la strada a situazioni serie, quali la separazione dei
genitori e la rottura dell’unità familiare o il rifiuto e
l’allontanamento del bambino adottato.
Avere allora la possibilità di accompagnare la prima delicata fase di avvio della relazione adottiva,
concretamente declinata nella quotidianità, diviene
prezioso momento di “riflessione”. Va detto che con
tale termine intendiamo il costellarsi di un contenitore mentale co-costruito e capace di attribuire un significato alle esperienze emozionali individuali e
condivise.
LA NARRAZIONE
Il narrarsi, il narrare e, ancor più, il sentir narrare
di sé sono l’occasione preziosa di ricompattare, integrare, ritessere e “rimagliare” parti di sé, intese come
le diverse componenti di cui la propria storia è inevitabilmente composta.
Il passato narrato cura, se è promessa per il futuro
e per la mente, quando, “riunendo i pezzi”, si pone
l’obiettivo di rintracciare i diversi momenti, i diversi
ruoli, le diverse parti di sé all’interno di discontinuità e rotture che nel corso del tempo si succedono,
più o meno intense, più o meno profonde, generan-
Figure attuali della genitorialità
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Figure attuali della genitorialità
Patrizia Conti, Sarah Francavilla
do una identità che implica una molteplicità di sensi
e significati.
Il molteplice, però, è spesso un concetto “scomodo”.
“(…) nella monoteistica certezza che l’uno sia sempre preferibile al molteplice, il vivere più vite resta e resterà a lungo l’evidenza palesata di una colpa, di un’ambiguità pericolosa, di
un tradimento verso un dio o i costumi locali” (Demetrio,
1996, p. 31).
Ma il molteplice è anche una risorsa. Il molteplice, se accettato, o addirittura ricercato, pone la questione dell’integrazione e nell’esperienza adottiva va
ricostruito attraverso la rievocazione e la narrazione
del ricordo. Ma ricordare deve poter essere un piacere e “non è da tutti”. Come ricorda Seneca (“La
brevità della vita” - 54 a.c. circa):
“solo gli spiriti tranquilli e sereni possono ripercorrere ogni
istante della propria vita, mentre quelli sempre carichi di impegni, come fossero sotto un giogo, non possono voltarsi a
guardare indietro”.
Solo in questo caso il passato cura, poiché potrebbe sviluppare poteri diversi. Innanzitutto la capacità
di creare un effetto del tutto particolare sulle immagini interiorizzate che, inizialmente sfumate e sbiadite, possono riapparire sempre più vivide, acquistando
contorni meglio definiti.
È proprio attraverso la narrazione, vero e proprio
campo transizionale, che si viene a creare di volta in
volta un importante consolidamento e rafforzamento del legame fin lì creatosi e sviluppatosi tra le diverse parti di sé e della propria storia. A volte è lì che
si crea o si ripara e addirittura si sana, se sono occorse rotture e distorsioni.
Il passato ha anche il potere di far convivere sé e
gli altri, la propria storia narrata e quella degli altri,
confermando e rafforzando, ma anche creando e formando il legame. Il passato ricostruito mette in con-
105
“Ma io sogno... io sogno perché non sono che un bambino...”
nessione segmenti interattivi, verbali e analogici, ricomponendo sequenze interattive, amplificando e
arricchendo relazioni, andando così a espandere la
sfera simbolica: riguarda gli altri, i vicini, i presenti,
ma anche quelli “lontani”, ormai non più presenti,
forse scomparsi, forse dimenticati, forse dispersi.
Il racconto rafforza il sentimento di convivere con
gli altri e consolida il sentimento di appartenenza. La
convivenza dei/con/per i frammenti della propria esistenza diventa, dunque, componente essenziale per il
personale sentimento di coesione e di integrità.
Può trattarsi anche di una ri-apparizione sulla scena della propria vita di elementi lasciati in secondo
piano, scivolati in una sorta di “zona grigia” del ricordo e della consapevolezza, che non sono realmente dispersi, tanto meno rimossi, ma semplicemente poco considerati e che contribuiscono a dare
un prezioso senso di continuità, nonostante ogni possibile smagliatura intercorsa.
Si delinea il potere di una connessione capace di
creare legami che non alterano la natura delle singole e diverse parti messe in collegamento, ma stabilendo interconnessioni importanti, le infittiscono, rimagliano i legami, donando loro un senso complessivo talora sensibilmente differente.
Oliver Sacks (1985) citava Luis Bunuel:
“si deve cominciare a perdere la memoria, anche solo brandelli di ricordi, per capire che in essa consiste la nostra vita;
senza memoria la vita non è vita. La nostra memoria è la nostra coerenza, la nostra ragione, il nostro sentimento, persino
il nostro agire”.
Ma il punto di vista non può essere esclusivamente individuale, come è di prassi per la riflessione filosofica, ed anche per alcune prospettive psicologiche.
La prospettiva più corretta, a nostro avviso, non può
non prendere in considerazione la dimensione collettiva, familiare e sociale, tenendo sempre in considerazione la dimensione dell’intersoggettività, così
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Figure attuali della genitorialità
Patrizia Conti, Sarah Francavilla
come si gioca nel concreto declinarsi della relazione
con l’altro. Se il “condiviso” manca, non si dà una
memoria collettiva e risulta allora assente o carente
una dimensione importantissima per l’individuo, che
le più recenti ricerche in ambito psicologico dimostrano fondativa del nostro essere individui.
Si tratta forse dell’aspetto più affascinante, pur se
non quello più “curativo” (lo sono tutti in pari misura!) della narrazione, quello che inserisce l’individuo
nel suo contesto, mettendo in rilievo la tessitura della sua origine familiare e delineando i contorni della
sua appartenenza sociale, nel permettergli di “tramandare” una cognizione, che solo se narrata può divenire “tradizione”.
Senza disperderci oltre nella disamina di quanto
rilievo assuma la narrazione di sé anche solo in un
senso generale e aspecifico, a prescindere dal contesto in cui avviene e dagli scopi che si prefigge, o dai
compiti che è chiamata ad assolvere, il discrimine importante non è tanto la modalità in cui la narrazione
trova la sua declinazione, se verbale o scritta, poiché
sempre di linguaggio si tratta, ma il fatto che “si conosce solo ciò che è stato drammatizzato dal linguaggio” (Bachelard, 1970).
In questo senso è lo spessore simbolico che la narrazione assume a costituire l’elemento più rilevante e
di grande interesse nell’intervento del post-adozione.
LA NARRAZIONE “NELLE” FAMIGLIE ADOTTIVE
Con i bambini adottivi e le loro famiglie, quando
prendono forma i processi narrativi, si tocca con mano il “simbolico”.
Fin da subito, e non solo dal concreto attivarsi della coppia per dare realizzazione al proprio intento
adottivo, ma già fin dal primo prender corpo del progetto generativo, la narrazione inizia a profilarsi nella sua importanza costitutiva, collocandosi all’interno
107
“Ma io sogno... io sogno perché non sono che un bambino...”
di una rete di relazioni e di trasmissione intergenerazionali.
Ma è quando il progetto prende forma concretamente, che inizia il processo di maturazione della disponibilità concreta ad accogliere un bambino. Si avvia un dialogo, forse prima solo interiore, o interno
alla coppia, ma poi via via allargato ad un contesto relazionale più ampio, comprendente familiari, amici e
conoscenti, nonché operatori e tecnici.
Il percorso di maturazione diviene ben presto formativo nel senso più ampio, ma anche più profondo
del termine, tanto da costituirsi come vero e proprio
elemento trasformativo.
Non è ancora possibile un racconto. Si tratta di
una fase ancora troppo intensamente “vissuta”, cioè
proiettata in un futuro molto desiderato e soggetto
ad una forte ansietà per l’incognita del suo divenire,
e declinata in un presente che assorbe energie attentive. La riflessione è volta, poiché in tale direzione anche molto sollecitata, a immaginare del e sul bambino da un lato, dall’altro a ripercorrere una parte dolorosa del passato della coppia, ovvero quella della
impossibilità generativa.
La narrazione, richiesta dagli operatori dei servizi,
quando adempiono ai doveri istituzionali in relazione alla domanda delle coppie di adottare un bambino, è condizionata dal contesto in cui si declina, ovvero un contesto fortemente contrassegnato da una
valenza valutativa che non agevola di certo un movimento autoriflessivo spontaneo e autentico.
In tali narrati vi è una forte centratura su un obiettivo che, pur anche rispondendo ad una progettualità intensamente e approfonditamente elaborata, non
è pienamente compatibile con lo sforzo autonarrativo: le risposte sono attese dal mondo esterno.
Durante il percorso che precede il concretizzarsi
di un bambino, anche solo nella notizia dell’abbinamento e nel ricevimento di un nome, di una foto, di
brandelli di elementi conoscitivi, inizia ad avviarsi un
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Figure attuali della genitorialità
Patrizia Conti, Sarah Francavilla
pensiero, ancora tenue e delicato, che si rivolge alla
narrazione: raccontare che cosa, quando e in che
modo...
Ma è proprio il sapere che in una parte di mondo
c’è un bambino che aspetta quei genitori ad avviare
una intensa fantasmatizzazione nella mente della
coppia. Ed è questo che farà da base per la successiva
esigenza narrativa.
L’incontro della coppia con il bambino aggiunge
una ulteriore attivazione di doversi e dovergli poi narrare. Il bambino sta occupando via via sempre più
spazio nella mente degli imminenti genitori. E si presentifica ben presto anche una emergenza: il bisogno
di narrare al bambino del bambino.
Al rientro, nel ritornare ad una quotidianità ormai profondamente modificata e alla ricerca di nuovi assetti e di più funzionali equilibri, può insorgere
un’urgenza, la necessità di rispondere a domande
del bambino, quelle esplicite, al pari di quelle non
manifestate apertamente da lui, ma talora anche intensamente percepibili nelle trame di umori, atteggiamenti, movenze ed espressioni.
A distanza di qualche mese, verso la scadenza del
primo anno adottivo si profila sempre più intensamente, spesso accompagnato da timori quasi inconfessabili e dense inquietudini, il desiderio di dare
senso a questo primo importantissimo periodo insieme. Vi è sotterranea anche l’esigenza di riconciliarsi
con il passato doloroso di un’impossibilità generativa, con la sensazione di inefficacia, con l’esperienza
della perdita, col vissuto di mancanza.
Si sono ormai affacciati anche i pensieri relativi all’abbandono e al trauma, che affrontati apertamente
nella fase del pre-adozione, hanno ora una “corporeità” sconcertante nell’essere rappresentati dal bambino. Il bambino con la sua concreta presenza pone
e ripropone ai genitori quella che tra le tematiche
umane è la basilare e fondativa, la più antica in termini filogenetici oltre che ontogenetici: la paura del-
109
“Ma io sogno... io sogno perché non sono che un bambino...”
l’abbandono.
Ecco che riuscire a pensare alla storia del bambino, a quella del “prima”, a quella del “mentre” e a
quella del “subito dopo” offre la possibilità di affrontare tematiche di incredibile pregnanza sul piano
emotivo con risvolti di eccezionale profondità dal
punto di vista degli affetti.
Si tratta di scontrarsi con la diversità, l’estraneità,
la difformità, la separatezza per poter accedere e coltivare l’appartenenza, l’attinenza, l’affinità, la concordanza. Si tratta di affrontare la paura angosciosa
di un rifiuto, di una negazione, di un disconoscimento per costruire, con pazienza, la possibilità preziosa di un riconoscimento, un accoglimento, un’accettazione, un consenso.
In questo senso il narrare e il raccontare, a sé stessi come individui, a sé come coppia e al bambino nel
post-adozione, permette di ricomprendere l’altro,
confermandosi in una nuova complessità relazionale,
con una nuova realtà familiare appena costituitasi, e
ciò anche quando un bambino è già presente.
Nella “frenesia” di costruire il progetto non vi è il
“tempo” di narrare, nel travolgimento dell’incontro
non vi è lo spazio mentale; nel momento della routine,
invece, si apre il tempo e si crea lo spazio per narrarsi
così da poter trasmettere al figlio una storia recente,
ma che affonda le sue radici in un passato lontano di
coppia, e del bambino nel suo “prima” quasi del tutto
sconosciuto.
Il “rivedersi” nel rappresentarsi nuovamente gli
avvenimenti visivamente e graficamente, nei diari,
negli album, nei libri, con le foto e i disegni che accompagnano lo scritto, permette l’aprirsi di un nuovo spazio di riflessione.
In questo senso la narrazione nel post-adozione ricrea e ripercorre un viaggio, che assume una valenza
intensamente formativa e trasformativa, che chiude
con i debiti e crediti: ora ci sei e siamo insieme.
Figure attuali della genitorialità
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Figure attuali della genitorialità
Patrizia Conti, Sarah Francavilla
LA VERITÀ NARRABILE
Il bambino adottato dovrebbe poter conoscere le
sue vere origini sin da piccolissimo: non è necessario
che capisca, l’importante è che sappia.
La “verità narrabile” (Guidi e Nigris, 1993) rispecchia la sostanza degli eventi ricostruita attraverso la
sequenza dei successivi ruoli dei protagonisti rispetto
al bambino. Ciò che va comunicato è l’effetto prodotto dai fatti precedenti o immediatamente seguenti la nascita del bambino: i genitori naturali sono coloro che lo hanno messo al mondo, e che, rinunciando a lui, permettono ai genitori adottivi di diventare tali.
La ricostruzione della verità narrabile risponde,
pertanto, a due bisogni. Il bisogno del genitore adottivo di essere legittimato come “l’unico e vero genitore” di quel figlio non partorito e il bisogno del
bambino di essere figlio di quel genitore e non di
quello biologico. Secondo la nostra esperienza sarebbe importante narrare sin da subito, come avvolgendo il figlio in un contenitore linguistico metaforico,
ma anche emotivo e simbolico che ponga le basi dei
processi evolutivi primari.
Prende forma allora l’idea che nelle storie di adozione c’è sempre il futuro tra le righe, anche se potrebbe apparire prevalente, o persin quasi pervasivo,
il passato. Importantissimo si staglia, infatti, l’aspetto
di creazione in divenire: la narrazione dell’adozione
non è mai “finita”, si tratta sempre di storie “aperte”
in senso metaforico, per quella implicazione squisitamente psicologica cui si faceva cenno, ma anche in
modo concreto, costituendo una realtà, anzi “la” realtà di partenza e che rimane di fondo, “il vuoto nelle e
delle origini”.
Nell’ambito adottivo, non diversamente da ogni
narrazione, come abbiamo visto, il registro implicato
è sempre piuttosto complesso, coinvolgendo non solo più livelli espressivi, ma anche diverse dimensioni.
111
“Ma io sogno... io sogno perché non sono che un bambino...”
Diventano, allora, doppiamente importanti immaginazione e fantasia, per rievocare, ma anche creare
nuove rappresentazioni, senza mai dimenticare la
realtà vissuta, quella esperita anche in modo condiviso, né la realtà pregressa, spesso solo semplici frammenti, talora anche confusi, vaghi e incerti.
La narrazione delle storie adottive affronta anche
il rischio della persecutorietà di cui si colora la relazione con i genitori biologici, la stempera, la rielabora, la trasforma e presenta due funzioni centrali prioritarie: la funzione “coesiva” per il Sé, ancor prima
che ristrutturante per l’assetto identitario, e la funzione “connessiva”, la solidificazione che ripara le lacerazioni.
Non vi è, infatti, solamente il contesto familiare e
sociale in cui il bambino è nato da integrare. Compaiono, quali elementi da considerare e connettere,
anche i contesti successivi in cui il bambino è stato accolto a far tempo del suo abbandono: l’istituto, l’orfanotrofio, la missione. Talvolta si tratta di un unico
contesto, più spesso sono molteplici e diversi, e si sono succeduti nel corso di un tempo talora anche piuttosto ridotto. Torna il discorso della molteplicità versus una unicità che risulta essere meta ideale quanto
mai lontana dalla concreta esperienza reale.
Possono essere, allora, compresi nella creazione
narrativa le “persone” degli orfanotrofi, degli istituti,
ma anche degli enti e delle associazioni che dell’adozione si sono occupati, oltre eventualmente anche figure familiari.
Ed ecco che nella narrazione trovano integrazione
creativa le due dimensioni di cui è intessuta, poiché
su esse si poggia l’esperienza di noi stessi, dell’altro e
del mondo, quella cognitiva e quella affettiva.
La narrazione rappresenta una “magica” alchimia
di cognitivo e affettivo, producendo indistinguibili
effetti ed esplicando una funzione integrata su entrambi i piani. La narrazione adottiva è fin da subito
inserita in una dimensione intersoggettiva e non solo
Figure attuali della genitorialità
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Figure attuali della genitorialità
Patrizia Conti, Sarah Francavilla
perché il proposito di raccontare implica necessariamente un ascoltatore, ma anche perché si tratta di un
dialogo a più voci e a più persone, di cui spesso una,
quella che muove il tutto, non è ancora rappresentabile, se non in una sorta di ideale essenza senza forma né contrassegni specifici. Ma nel momento in cui
può diventare vera e propria narrazione, ogni personaggio ha acquisito la sua forma definita.
Il passato “anamnestico” di cui non conosciamo
quasi nulla nell’esperienza del post adozione, è dinamico e attivo e in questo modo esplica inevitabilmente la sua azione. I genitori ne colgono, pezzo per
pezzo, le dinamiche in un modo discontinuo, frequentemente improvviso, avendo scarsi punti di riferimento o parametri per poterne attuare una prima
lettura sufficientemente “equilibrata” tra cognizione
ed emozione.
L’ESPERIENZA DEL POST-ADOZIONE
Impostazione metodologica
1. L’associazione Enzo B
è stata fondata nel 1991
da alcuni volontari che
già allora operavano nell’area di via Onorato Vigliani 104, nel quartiere
torinese di Mirafiori Sud.
Il cuore dell’associazione
è a Torino nel “Villaggio
ENZO B”. In questa struttura convivono un centro
d’accoglienza per donne
sole con figli, una comunità terapeutica per mi-
L’intervento psicologico si svolge nel periodo immediatamente successivo al rientro della coppia adottiva con il bambino dal paese d’origine di quest’ultimo. Si sviluppa per il primo anno di vita del nucleo
familiare costituitosi ed è previsto dal protocollo dell’Ente1 come offerta di un supporto, un sostegno,
uno spazio di ascolto e di riflessione, nella consapevolezza dell’importante valenza preventiva implicata
in un tale intervento. Diventa così un completamento del percorso adottivo che ha previsto una prima fase informativa e formativa. L’incarico all’Ente prevede così due interventi distinti, di natura differente in
relazione alle diverse finalità.2
Gli incontri, che si svolgono a distanza di due o tre
mesi, con una durata di un’ora e mezza ciascuno, sono in genere quattro o cinque. In talune situazioni di
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“Ma io sogno... io sogno perché non sono che un bambino...”
particolare complessità, o con specifiche esigenze, gli
incontri possono aumentare in ragione delle esigenze riscontrate, fino a diventare un massimo di otto.
Agli incontri vengono invitati sia i genitori sia il
bambino, comprendendo gli eventuali fratelli presenti. La necessità di avere incontri con i soli genitori viene di volta in volta determinata dal riscontro di particolari bisogni, o in relazione a particolari passaggi del
processo di inserimento del bambino adottivo.
Come già accennato, si tratta di un intervento di
natura preventiva, e come tale rimane, anche in quelle situazioni in cui viene rilevato un rischio evolutivo.
Il lavoro si rivolge ad un aiuto più specificatamente
clinico, ma mai terapeutico in senso proprio, mirando piuttosto a preparare il terreno per un eventuale
invio successivo del bambino, o talora anche dei genitori o della famiglia.
L’adozione è più facile si evolva positivamente se
il rapporto bambino-adulto può radicarsi a livelli profondi, analoghi a quelli che si sviluppano nell’attaccamento per i figli naturali. In questo senso, soprattutto le prime fasi dell’esperienza adottiva vanno preparate e seguite da professionisti (Morral Colajanni e
Castelfranchi, 1992).
Nella maggioranza delle situazioni il percorso ha
il suo andamento “regolare”, declinandosi dal rientro in Italia di genitori e bambini, alla ripresa graduale della quotidianità con tutte le modificazioni
che il nuovo assetto familiare inevitabilmente comporta, all’inserimento nel tessuto sociale della nuova
famiglia, all’avvio delle attività scolastiche ed extrascolastiche, alla ripresa dell’attività lavorativa e professionale della madre o del padre.
Nella nostra metodologia la scelta è quella di riservare gli incontri ad ogni singolo nucleo.
Si intende configurare il luogo simbolico del nucleo familiare, non delle relazioni e degli scambi con
altri appartenenti al mondo esterno, sia pure nella
condivisione di una esperienza analoga.
Figure attuali della genitorialità
nori tossicodipendenti,
un centro di riabilitazione equestre ed, infine, un
centro di lavoro guidato,
per persone diversamente
abili. A livello internazionale ENZO B opera in 14
Paesi africani e in Vietnam. In particolare l’attività di ENZO B si articola
nel settore delle adozioni,
realizzando iniziative di
solidarietà e di cooperazione allo sviluppo a favore di minori e comunità
vulnerabili. L’impegno di
solidarietà si è esteso anche in Romania dove l’attività dell’associazione è
rivolta alla creazione di
un polo di animazione sociale ed economico che
valorizzi le risorse locali e
crei legami di amicizia,
solidarietà e scambio con
l’Italia. www.enzob.org.
2. Il lavoro del post adozione è stato avviato e impostato metodologicamente dalla dottoressa
Paola Terrile, consulente
dell’Ente da tempo. Si coglie l’occasione per ringraziarla in ragione dell’aver permesso il nostro
coinvolgimento in questa
straordinaria esperienza
professionale e personale,
che ha accompagnato
con disponibilità al confronto, fornendo suggerimenti e consigli preziosi
grazie alla esperienza da
lei maturata e alla competenza sviluppata.
114
Figure attuali della genitorialità
Patrizia Conti, Sarah Francavilla
Il gruppo ha una valenza del tutto particolare e
specifica, e mostra limiti evidenti nel non permettere
la costellazione di alcuni assetti psichici che nel setting individuale (laddove per individuale si include
l’individuale nucleo adottivo formatosi) trovano, invece, possibilità di manifestare la propria presenza in
termini simbolici, ma poi anche concretamente travasati nelle rappresentazioni mentali, e pertanto
emotive e affettive, dei soggetti coinvolti.
RACCONTO ORALE E RACCONTO SCRITTO
Perché nel post-adozione il racconto è così importante? A partire dall’analisi delle narrazioni di un
certo numero di coppie adottive sull’incontro con il
bambino a loro abbinato (narrazioni raccolte all’interno del primo incontro di post-adozione), si possono analizzare le dinamiche sottese alla speranza nutrita dai genitori adottivi e quelle che accompagnano
la speranza del bambino adottato, nella loro pregnanza emotiva e affettiva.
Se al primo colloquio è stato chiesto ai genitori di
raccontare il primo incontro con il bambino adottivo, successivamente si è proposto agli stessi genitori
di trascrivere tale momento.
Opportuno anteporre, però, una premessa. Bisogna tener presente che si tratta di due narrazioni differenti: la prima è quella diretta al primo incontro in
risposta a una domanda precisa, che, però, di volta in
volta può cambiare, adattandosi alla casualità della
dinamica comunicazionale avviatasi con la coppia genitoriale (siamo nei primi momenti di conoscenza
dopo un approccio telefonico). Si tratta di una narrazione dialogante, aperta, composta da entrambi i
genitori e anche del bambino presente. Essa varia in
relazione all’esperienza concreta e alla personalità
individuale e di coppia dei genitori.
La seconda è una narrazione altrettanto diretta-
115
“Ma io sogno... io sogno perché non sono che un bambino...”
mente richiesta, ma come elaborato scritto, che possa servire anche a loro, come “memoria” o aiuto all’interesse dell’approfondire l’importanza del primo
incontro.
Nella narrazione orale compiuta nella stanza di
consultazione, l’aspetto preminente è quello di “cocostruzione” di una dimensione interlocutoria, nella
seconda è l’aspetto più riflessivo, più introspettivo
che non prescinde, però, da un fondamentale aspetto di consapevolezza, rispetto ad un duplice destinatario, quello più superficiale che è lo psicologo, che
stimola e quello al momento, “tra le quinte”, pur essendo uno dei protagonisti, che è il bambino.
Nel racconto scritto la dimensione che si potrebbe definire di maggiore consapevolezza ha a che fare
con la sfera cosciente; se toglie di spontaneità espressiva, arricchisce di approfondimento.
La rievocazione di quel primo momento avviene
dopo che si è consolidata una prima esperienza di accettazione reciproca.
Si sono instaurati alcuni importanti primi equilibri, (nessun equilibrio per essere funzionale dev’essere permanentemente stabile), quelli ancora provvisori del primo anno, quando non si sono ancora manifestati i segni delle prime “crisi” conseguenti al consolidarsi dei legami di attaccamento.
Dalla lettura dei racconti,3 al di là delle inevitabili,
attese differenze, emergono alcuni punti comuni di
certo rilievo e interesse.
Vi sono racconti che appaiono “resoconti” sintetici, altri rievocazioni “drammatizzate” di una serie di
momenti, alcuni che paiono muoversi dall’esigenza
di partire da sé, altri che si focalizzano sul bambino.
La “cifra” stilistica appare assumere una importanza relativa alla luce di quelle che saranno le modalità espressive della coppia (in particolare della
madre spesso materiale estensore del racconto).
La narrazione è, in realtà, anche se si rivolge esplicitamente al bambino, un’occasione di narrare a se
Figure attuali della genitorialità
3. Si tratta di situazioni
estrapolate da una quarantina di consultazioni
effettuate nell’arco del
primo anno di affidamento preadottivo da
maggio 2009 a dicembre
2010, consistite ciascuna
in una media di 4 incontri (per alcune coppie 5,
per altre anche 7).
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Figure attuali della genitorialità
Patrizia Conti, Sarah Francavilla
stessi, e qui poco importa se è la madre a farlo materialmente, imprimendo il suo stile; il contenuto è visibilmente quello condiviso in coppia, chiara amalgama di un’esperienza fusa, patrimonio comune, anche
nella successiva riflessione su di essa.
Uno degli scopi proposti è quello di promuovere
un tornare a vivere, evocare e rievocare il momento
dell’incontro, avviando una particolare e specifica riflessione sul significato di quel passaggio, e ponendo
le base per la costruzione dell’identità familiare e individuale del bambino.
La storia orale che deriva da questi genitori è
un’arte, oltre che dell’ascolto, della relazione: la relazione fra genitori e operatori (dialogo); la relazione fra il presente in cui si parla e il passato di cui si
parla (che crea e alimenta la memoria del bambino);
la relazione fra il pubblico e il privato, l’autobiografia e la storia; la relazione fra oralità e scrittura. Così
si crea la storia del bambino.
STRALCI DELLE NARRAZIONI
Alcuni genitori cominciano a narrare immediatamente partendo dal bambino, il loro bambino, centrando la luce su di lui; altri hanno scritto una pagina di diario aperta da una prima indicazione temporale e spaziale: il luogo e la data. È il rivivere, il vivere l’incontro con il bambino sperato e atteso non tanto per una seconda volta, ma in modo nuovo, soffermandosi sulle emozioni, sugli attimi scegliendo il luogo dove farlo: nell’hic et nunc o nel là ed allora.
Per la maggior parte dei casi, i racconti iniziano al
plurale, indipendentemente dal “punto di partenza”
ovvero dal momento in cui ha inizio la storia.
A volte l’arrivo del bimbo è così pervaso dall’emozione, collocato in una dimensione “meta”, altra,
surreale che diventa innominabile, tanta è la sua
“grandezza”.
117
“Ma io sogno... io sogno perché non sono che un bambino...”
Spesso quando le mamme o i papà incontrano i figli parlano al singolare, quasi che quell’emozione
fosse al momento non condivisibile, troppo privata,
troppo narcisisticamente gratificante.
Alcuni genitori descrivono il bambino accennando a diversi riferimenti al “corporeo” e all’espressione delle emozioni, come a centrare l’attenzione sul
nuovo arrivato, sul singolo.
Sia che prendano come punto di vista narrativo
quello dei genitori, o quello del bambino, le narrazioni sono permeate da elementi emozionali che
creano una sorta di atmosfera e clima intensamente
coinvolgenti e pregnanti che colorano e sfumano le
diverse avventure.
A volte l’arrivo del bambino è avvolto da un’atmosfera che ricorda l’atmosfera “piena di grazia”, di
cui parla la Vallino (2004), che quando viene pervasa dall’impronta religiosa può creare uno scenario
messianico sin dal titolo del racconto.
Altri, invece, hanno narrato una vera e propria favola, non tralasciando l’happy end rigorosamente previsto dalle fiabe a lieto fine, come se i genitori fossero
ancora del tutto assorbiti in un’estasi magica, surreale, impregnata e/o derivata da idealizzazioni di certo
spessore che rassicurano da un lato e proteggono da
ansietà di riconoscimento individuale dall’altro.
Nonostante la trama emotiva sia “spessa” e robusta, leggendo le narrazioni è apparso un prevalere
degli aspetti razionali, quelli di analisi e sintesi, come
se lo scrivere permettesse di rielaborare criticamente
l’esperienza vissuta in modo più consapevole, più
controllato rispetto al racconto orale composto nella
stanza di consultazione.
Il racconto diventa così occasione per esprimere
ansietà e trovare strategie per affrontarle e contenerle (“sarà stato curato, nonostante l’abbandono?” chiedono alcuni), occasione in cui esprimere anche più facilmente aspetti di legittimazione di sé come genitori (“ci ha riconosciuto subito!”) che verbalmente, agli in-
Figure attuali della genitorialità
118
Figure attuali della genitorialità
Patrizia Conti, Sarah Francavilla
contri non sempre riescono a venir espressi.
PER CONCLUDERE
Così come è iniziato, l’intervento psicologico nel
post-adozione sta proseguendo con la medesima curiosità, la medesima partecipazione, il medesimo impegno, nel rinnovarsi ogni volta, ad ogni primo incontro, di quella “magia speranzosa” di un nuovo dipanarsi di un cammino insieme, che nel racconto riprende quello che la coppia sta percorrendo da tempo e ha appena iniziato a compiere insieme con il
bambino. I racconti li ascoltiamo sempre con interesse, cercando ogni volta di immaginarci quanto le
parole, accompagnate dalle tonalità dell’emozione,
stanno disegnando, nel rappresentarci quel momento così particolare e così denso di speranze e emozioni. E, a un certo punto, anche noi abbiamo pensato che raccontare di tali narrazioni potesse essere
un parziale riconoscimento alle famiglie adottive per
l’impegno nel dar vita a una esperienza così vitale e
creativa. D’altro canto abbiamo toccato con mano il
valore trasformativo e formativo di un intervento psicologico non strettamente psicoanalitico, trovando
nuova conferma di come un intervento fondamentalmente preventivo possa, invece, risultare “curativo”. In questo senso crediamo che la narrazione nel
post-adozione effettuata all’interno di una cornice
psicoanaliticamente orientata diventi fondante e/o
ristrutturante le identità individuali e familiari.
119
“Ma io sogno... io sogno perché non sono che un bambino...”
Bibliografia
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Figure attuali della genitorialità
121
Figure attuali della genitorialità
“Si sprigionino tutti i mali del mondo, ma io voglio conoscere la mia origine, per umile che sia”
Sofocle, Edipo re.
“Chi mi ha generato?” è la domanda che
si pone Edipo che non conosce il nome
della sua vera madre e del suo vero padre.
“Devo sapere” è il suo imperativo. La sua
storia è, per certi versi, quella di un figlio
abbandonato dai genitori naturali, Laio e
Giocasta, terrorizzati da una profezia nefasta, accolto
a Corinto nella reggia dei genitori adottivi, Polibo e
Merope, condannati alla sterilità, che lo faranno passare per figlio proprio e mai gli sveleranno la sua vera storia. Il mito fondante del pensiero psicoanalitico
si potrebbe quindi anche leggere come la storia di
un’adozione fallita, proprio per le conseguenze provocate dal segreto sulle origini del figlio.
Edipo libera Tebe risolvendo l’enigma della Sfinge “che cos’è l’uomo?” ma non sa chi è. Non conosce
la propria identità e sarà questo a perderlo. Come
scrive Adriana Cavarero, “solo il racconto della sua
nascita può svelargli la storia di cui è protagonista.
(…) Conoscere se stesso, per Edipo, significa conoscere la sua nascita, perché lì la sua storia è cominciata”.1
E, spinte, incalzate quasi da questa domanda ,“Chi
sono io? Da dove vengo?”, sono le persone adottate
che si rivolgono al Tribunale per i minorenni per conoscere la propria storia.
La legge sulle adozioni, in Italia, prevede infatti
che al compimento del venticinquesimo anno una
persona adottata, con una serie di limitazioni e di filtri, possa rivolgersi al Tribunale per avere informazioni sulle proprie origini. Questo significa che può
accedere a tutti i documenti relativi alla propria vicenda, prima e dopo l’adozione. Può quindi venire a
conoscenza anche dell’identità dei propri genitori
biologici.
Adozione
e ricerca
delle origini
Francesca Avon
1. A. Cavarero, Tu che mi
guardi, tu che mi racconti,
Feltrinelli, Milano 1997,
p. 21.
122
Figure attuali della genitorialità
Francesca Avon
Come si sa, in Italia, a differenza di quanto accade
invece in altri paesi come gli Stati Uniti, l’adozione
rescinde tutti i legami con la famiglia biologica: il
bambino o la bambina assumono il cognome dei
nuovi genitori e non hanno più contatti con la famiglia di origine che, da parte sua, da quel momento
non saprà più nulla del figlio o della figlia.
Da questa possibilità sono esclusi solo i figli di donne che al momento del parto chiedono espressamente di non essere nominate. In Italia, unico paese europeo oltre alla Francia e al Lussemburgo, la donna
ha diritto al parto anonimo. È una legge che ormai ha
quasi cent’anni e si può spiegare da una parte con l’esigenza di scongiurare gli infanticidi e gli abbandoni
dei neonati ma forse anche con l’esigenza di tutelare
l’onore della donna rispetto alla disapprovazione sociale che, allora, una gravidanza extraconiugale avrebbe potuto suscitare. Nel caso del parto anonimo, non
è previsto che la donna possa recedere dalla propria
decisione nel tempo e questo significa che, qualora la
figlia o il figlio volessero ricercare le proprie origini, il
Tribunale non potrebbe consentire loro di accedere
alla documentazione. Si tratta, ovviamente, di una
norma molto discussa in quanto, secondo molti, lede
il diritto a conoscere dei figli adottivi.
In questi anni, nel corso del mio lavoro come
componente privato del tribunale per i minorenni di
Milano, ho incontrato circa 30 persone in cerca delle proprie origini. Di queste, per un terzo erano figlie
o figli di donne che al momento del parto non avevano acconsentito di essere nominate.
Solo in pochissimi casi queste persone avevano
maturato questa decisione nell’ambito di un percorso terapeutico. Nella grande maggioranza si trattava
di un bisogno imprenscindibile, ma maturato autonomamente.
È interessante notare che la fascia numericamente più consistente riguarda persone tra i 30 e i 50 an-
123
Adozione e ricerca delle origini
Figure attuali della genitorialità
ni di età. Questa ricerca sembra attivarsi quindi in un
momento della vita successivo rispetto il limite minimo di 25 anni previsto dalla legge. Si tratta perlopiù
di persone arrivate alla soglia della seconda metà della vita. La loro ricerca sembrerebbe quindi caratterizzata da quella che definirei una esigenza di individuazione.
Come raccontano spesso anche le fiabe, non è infatti proprio la curiosità, che infrange divieti e segreti, a provocare la crisi individuativa nella vita di una
persona?
L’impellente necessità di conoscere non è l’elemento caratterizzante della spinta individuativa?
Penso a quanto scrive Neumann, quando afferma
che la psiche continua a ripresentare la domanda sulle origini come un interrogativo essenziale.
“Il problema dell’inizio è anche il problema della provenienza, dell’origine e del destino, cui la cosmologia e il mito della creazione hanno cercato di dare continuamente risposte
nuove e diverse. Il problema dell’origine, della provenienza
del mondo, è sempre anche il problema della provenienza
dell’uomo, della coscienza e dell’Io, è la domanda fatale ‘da
dove vengo io’ che si pone a ogni essere umano quando giunge alla soglia della presa di coscienza di sé”.2
Ritornando all’esperienza al Tribunale per i minorenni, se prendo in considerazione le situazioni di
vita in cui si attiva questo bisogno, mi accorgo che
spesso coincidono con eventi scatenanti che implicano dei passaggi, dei cambiamenti relativi all’identità
e all’appartenenza. Al centro di queste nuove situazioni di vita a volte c’è la presenza di un bambino reale e i propri vissuti rispetto a esso. Queste situazioni
possono riguardare una separazione e la preoccupazione legata al pensiero che i figli piccoli possano soffrirne, la nascita di un figlio, l’arrivo in famiglia di
uno o più figli adottivi. Oppure anche la scoperta
della propria sterilità o, a volte, la morte di un figlio.
In altri termini: il bisogno di conoscere sembra
muoversi a partire da questo aspetto “bambino”, pro-
2. E. Neumann, Storia delle origini della coscienza,
Astrolabio, Roma 1978,
p. 29.
124
Figure attuali della genitorialità
Francesca Avon
babilmente dissociato, e porta ad affrontare inevitabilmente vissuti e stati d’animo legati all’abbandono,
al dolore e alla perdita. Solo in un caso mi sono trovata davanti a un uomo che motivava la propria richiesta con l’esigenza di ottenere un certificato di nascita necessario al suo imminente matrimonio, negando in maniera evidente la portata emotiva della
sua ricerca.
In un ambito terapeutico “guarire” significa anche
recuperare una narrazione coerente della propria vicenda esistenziale, essere in grado cioè di stabilire
quelle connessioni tra l’esperienza intrapsichica e la
realtà esterna, nel presente e nel passato, che sono
state danneggiate e dissociate nelle situazioni di trauma cumulativo. L’impossibilità di misurarsi con contenuti dolorosi impedisce infatti la costruzione di una
personalità integrata: aiutare il paziente a trovare un
significato nella propria storia e a rinominare le esperienze vissute è il compito del terapeuta. Jeremy Holmes, teorico dell’attaccamento, lo definisce addirittura un “assistente biografo” che accompagna il paziente come una madre ben sintonizzata e lo aiuta a “trovare storie che corrispondano all’esperienza”. La salute psichica è caratterizzata cioè dalla capacità riflessiva, dal passaggio da una narrazione patologica o
complessuale a una narrazione in cui il soggetto non
è più soltanto una “vittima” degli accadimenti. In relazione a questo, Holmes parla appunto di
3. J. Holmes, Psicoterapia
per una base sicura, Raffaello Cortina Editore,
Milano 2004, p. 105.
“uno spostamento da una narrazione di malattia sicura ma ristretta (…) alla possibilità di una narrazione nuova e meno ristretta”.3
Ma anche al di fuori di un percorso analitico, questo bisogno autobiografico sembra porsi come un’insopprimibile esigenza umana che ha lo scopo di
strutturare e creare l’identità.
Scrive il filosofo Aldo Gargani:
“Noi abbiamo una nascita che è determinata dall’atto di pro-
125
Adozione e ricerca delle origini
creazione dei genitori, ma poi c’è una nuova nascita; che non
è quella recepita dall’esterno e che è precisamente la nascita
che noi ci diamo da noi stessi raccontando la nostra storia, ridefinendola con la nostra scrittura che stabilisce il nostro stile secondo il quale noi ora esigiamo di essere compresi dagli
altri”.4
Lo scopo del pensiero autobiografico è quello di
creare nessi, collegamenti nello spazio e nel tempo
per dare un senso agli eventi.
Recuperare una narrazione non significa quindi
arrivare a una ricostruzione precisa e assoluta di ciò
che è stato, avviare una sorta di indagine poliziesca,
quel che conta sembra essere piuttosto una ricerca di
significato. E di legami, perché l’appartenenza è un
aspetto irrinunciabile dell’identità. Mi definisco in
base a un sentirmi parte, su un piano individuale ma
non solo. Se noi siamo la nostra storia, la nostra storia comprende, oltre al passato personale, le generazioni che ci hanno preceduto perché, come dice
Jung, “la maledizione degli Atridi non è una frase
vuota di significato”,5 intendendo con questo che siamo anche portatori della problematica dei nostri genitori che, a loro volta, si devono considerare come
figli dei propri genitori e così via.
E, in questo senso, l’esperienza dell’adozione rappresenta uno strappo doloroso nella genealogia.
Questi aspetti sono evidenti nella motivazione che
spinge le persone adottate a cercare le proprie origini, ricorrono nelle loro parole.
Raramente le persone giustificano la loro ricerca
con la precisa intenzione di incontrare i genitori biologici. Quando questo desiderio veniva comunicato,
ho potuto osservare che spesso si trattava di bambini
molto deprivati al momento della dichiarazione di
adottabilità. Penso in particolare alla storia di un
bambino cresciuto fino ai tre anni in una condizione
di trascuratezza assoluta, una sorta di “bambino lupo”, costretto a giocare da solo persino a nascondino.
Figure attuali della genitorialità
4. A.G. Gargani, Il testo
del tempo, Laterza, Bari
1992, p. 8.
5. C.G. Jung, Introduzione
a F.G. Wickes, “Il mondo psichico dell’infanzia”, Astrolabio, Roma 1948, p. 19.
126
Figure attuali della genitorialità
6. L. Luzzatto, “Tebe e
Corinto: adozione e conoscenza delle origini”,
in Minorigiustizia 2, Franco Angeli Editore, Milano 2011, p. 82.
Francesca Avon
Motivando la richiesta di accedere alla documentazione, questo giovane uomo di 28 anni parlava del
desiderio di incontrare i genitori, soprattutto il padre, per poterlo aiutare qualora si fosse trovato in
una condizione di bisogno. In questo caso mi sembra
evidente la funzione difensiva di questa fantasia grandiosa che gli consentiva di negare il trauma e la deprivazione subiti.
Un altro giovane uomo di 27 anni, adottato a 7 con
il fratello gemello, figlio di una madre con una diagnosi di schizofrenia paranoide, desiderava contattare
i genitori per potersi accertare che stessero bene.
Questa esigenza di arrivare a un incontro reale
con i genitori naturali potrebbe anche indicare una
carenza da parte dei genitori adottivi: come osserva
Leonardo Luzzatto “riguarda soprattutto coloro che
non hanno potuto stabilire con i genitori adottivi un
legame interno di filiazione e sono ancora degli orfani alla ricerca dei genitori”.6
Questa che definirei “un’urgenza di concretezza”
riguarda invece la relazione con fratelli e sorelle. Tra
le persone che ho incontrato e ascoltato in questi anni, una buona parte di queste si erano rivolte al Tribunale per avere loro notizie. Come se il legame affettivo, investito di significato e insostituibile, con la
famiglia d’origine fosse questo. La richiesta è sempre
stata quella di avere informazioni che consentissero
di rintracciarli.
Il bisogno di un ricongiungimento reale, concreto riguarda questa aspetto “scisso”, scomparso e mai
più recuperato, nei confronti del quale c’è un vissuto
di nostalgia e preoccupazione. È uno struggimento,
un vero e proprio dolore non avere più notizie. Perché sono loro, i fratelli e le sorelle con i quali si è condiviso un “nido”, abitato da sofferenza, incuria, maltrattamenti, ma pur sempre un nido, a rappresentare
la “parte mancante”.
Ma, nella grande maggioranza dei casi, il bisogno
127
Adozione e ricerca delle origini
preminente sembra invece quello di ricostruire una
storia. Molte persone parlano dell’esigenza di distinguere tra la fantasia e la realtà. Nelle situazioni di abuso e di deprivazione la capacità di contare su una narrativa personale è seriamente compromessa, realtà e
fantasia possono infatti venire confuse, in relazione alla tendenza a dissociare l’esperienza dolorosa.
C’è chi parla della necessità di “fare ordine” tra i
ricordi dell’infanzia. Chi sente il bisogno di confrontare le immagini oniriche che riguardano un genitore naturale “con dati reali”.
Silvia, 27 anni, è stata adottata quando ne aveva 5.
Ha molti ricordi, compreso quello del suo vero cognome. Ricorda la morte della madre naturale, e l’inadeguatezza del padre che non è riuscito a occuparsi di lei e dei suoi fratelli. Lui l’ha anche cercata attraverso una popolare trasmissione televisiva. Oggi Silvia non vuole incontrare nessuno. “La mia famiglia ce
l’ho” spiega. “Questa ricerca è una cosa soltanto mia”.
Ma penso anche a un’altra giovane donna, andata
in adozione alla stessa età, subito dopo la morte della madre poiché il padre non era in grado di occuparsi di lei e del fratello. Ha ancora dei frammenti di
ricordi, il funerale, il collegio ma sente il bisogno di
ricomporli. A 18 anni, in un momento di grande difficoltà, il Tribunale le ha concesso di rintracciare i
parenti paterni ma oggi non le importa di incontrare
quegli zii. Parla infatti del suo bisogno di “dare una
cornice ai fatti”.
Perché quel che manca è proprio una struttura di
significato.
Marisa, 31 anni, adottata a 6, ha parlato del suo bisogno di capire che cosa ha spinto i suoi genitori maltrattanti a voler avere un altro figlio dopo di lei. Giulia, 28 anni, incinta al sesto mese, vorrebbe incontare
la madre naturale ma solo per avere delle informazioni da lei, “per poter capire” cosa è accaduto. Vera,
34 anni, adottata all’età di 6, si interroga sulle proprie
Figure attuali della genitorialità
128
Figure attuali della genitorialità
7. M. Chistolini, “Le informazioni nell’adozione: quale significato nella
crescita del bambino”,
Minorigiustizia 3, Franco
Angeli Editore, Milano
2003, pp. 20-21.
Francesca Avon
difficoltà nelle relazioni affettive, chiedendosi se non
possano dipendere dalla personalità della madre, per
questo motivo vorrebbe capire “che tipo era”.
È importante distinguere tra “il bisogno del bambino adottato di sapere e quello di capire”, come afferma Marco Chistolini,7 non sono le informazioni
dettagliate a contare. E questo mi sembra valga anche
per le persone adulte che si rivolgono al tribunale.
Il senso di queste richieste sembra essere quello di
poter entrare nella mente dei genitori. Perché soltanto immaginando di essere stato pensato posso esistere, definirmi. La domanda sembra essere: “cosa
avevano in mente” mentre si ponevano in relazione
con me? E cioè: che cosa avevano in mente quando
mi hanno abbandonato?
L’esigenza imprescindibile sembra essere quella
di poter riflettere sui comportamenti degli altri, sulle
azioni che hanno portato all’abbandono.
Come ho già accennato, da questa possibilità sono esclusi i figli di madre ignota. Non può essere consegnato nemmeno il certificato integrale di nascita
perché attraverso i nomi dei testimoni si potrebbe risalire all’identità della madre, violandone la privacy.
E non poter accedere ai propri dati rappresenta un
ulteriore abbandono. È un rifiuto esercitato dalla madre al momento della nascita che si protrae anche
nel futuro, per sempre. Ed è molto pesante accettarlo nel momento in cui viene comunicato.
Anche se la legge non lo prevede, in alcuni casi sono stata presente alla consegna e alla lettura dei documenti. Si trattava di situazioni in cui avevo la sensazione che ritrovarsi da soli davanti a un fascicolo
zeppo di relazioni dei servizi sociali che documentano con un linguaggio crudo e asettico realtà deprivate e traumatizzanti (leggere, per esempio, di una madre “dedita alla prostituzione, di scarsa intelligenza e
semianalfabeta”) potesse rivelarsi per queste persone
un’esperienza emotivamente insostenibile. Insieme
129
Adozione e ricerca delle origini
ad altri colleghi, ho pensato di fornire una sorta di
contenitore, creando un setting nella stanza del tribunale. Forse, penso ora, si è costellato in quelle occasioni un un vissuto di abbandono che ha attivato
un mio controtransfert materno che mi ha portato a
sentire la necessità di un holding che andasse oltre le
funzioni previste da un articolo di legge.
Mi sono interrogata se sia vero che in presenza di
una “buona adozione” questo bisogno di conoscere
le proprie origini non esista. Con buona adozione intendo una situazione in cui la famiglia, consapevole
dei bisogni e dei vissuti del bambino adottato, sia stata in grado di riconoscerli, accoglierli e contenerli
adeguatamente.
Non ho gli elementi per esprimere una valutazione in tal senso riguardo i casi presi in considerazione.
Ho comunque notato che spesso la famiglia adottiva
è all’oscuro della richiesta fatta al tribunale e le spiegazioni fornite rispetto questo silenzio sono legate al
bisogno di proteggere i genitori, di non ferirli. Molte
persone si decidono a fare la richiesta soltanto dopo
la morte dei genitori adottivi. Spesso, il vissuto di colpa è molto intenso.
Mi sembra comunque riduttiva una lettura che riconduca il bisogno di andare in cerca delle proprie
origini a un fallimento adottivo.
Spesso mi sono trovata davanti a persone anziane.
Ricordo, per esempio, un uomo di settant’anni che
aveva scoperto solo in età adulta di essere stato adottato e che aveva perso in un incidente l’unico figlio.
La sensazione di essere privo di radici ma anche privo di un futuro lo spingeva a chiedere e a informarsi.
Questo aspetto dell’età avanzata di chi fa questa richiesta mi porta a chiedermi se la domanda “perché
sono stato abbandonato” possa mai trovare una risposta nel corso di una vita, ma continui a ripresentarsi nel tempo. È noto che in situazioni di abuso, di
trascuratezza e di maltrattamento come quelle che
Figure attuali della genitorialità
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Figure attuali della genitorialità
Francesca Avon
portano alla dichiarazione di adottabilità, il bambino
traumatizzato avrà difficoltà a considerare gli altri come dotati di sentimenti, intenzioni e desideri poiché
questo implicherebbe il riconoscimento di atteggiamenti nei propri confronti troppo dolorosi da riconoscere quali l’odio o l’indifferenza. Mi chiedo quindi se, a volte, questo frammento dissociato rimanga
tale per tutta l’esistenza, come se il dolore legato all’esperienza dell’abbandono costituisse un’emozione
impensabile, intollerabile.
La mià è però soltanto un’ipotesi. Non ho condiviso un percorso terapeutico con le persone che ho
incontrato in Tribunale una o, al massimo, due volte
soltanto e che non ho potuto nemmeno “accompagnare” in una fase successiva alla lettura del proprio
fascicolo. Non ho quindi gli elementi per verificare
se e come questa domanda relativa all’abbandono
possa essere accolta e integrata “creativamente” nella
vita di una persona adottata.
Un’indicazione in tal senso forse la possono dare
le parole che una scrittrice inglese, Jeannette Winterson, usa per descrivere la sua esperienza di bambina adottata e che qui prendo a prestito:
8. J. Winterson, Perché essere felice quando puoi essere
normale?, Mondadori, Milano 2012.
“Il bambino viene scaraventato in un mondo sconosciuto che
è conoscibile solo attraverso una storia; questo vale per tutti,
è la narrazione delle nostre vite, ma l’adozione ti precipita
dentro la storia dopo che è già cominciata. È come leggere
un libro a cui mancano le prime pagine. È come arrivare
quando il sipario si è già alzato. La sensazione che qualcosa
manca non ti abbandona mai e non può che essere così, perché qualcosa manca davvero. Non che questo sia di per sé negativo. La parte mancante, il passato mancante, può rappresentare un’apertura, non un vuoto. Può essere un’entrata come pure un’uscita. È la documentazione fossile, l’impronta di
un’altra vita, e anche se non potrai mai viverla, le tue dita
tracciano i contorni dello spazio dove avrebbe potuto essere,
e imparano un alfabeto Braille.
Qui ci sono dei segni, in rilievo come piaghe. Leggili.Leggi la
ferita. Riscrivili.Riscrivi la ferita.
È questo il motivo per cui sono una scrittrice”.8
131
Adozione e ricerca delle origini
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Figure attuali della genitorialità
133
Figure attuali della genitorialità
Il sostegno
alla genitorialità
fragile
La genitorialità è l’aspetto della vita adulta che, se correttamente sviluppato, ci
consente di essere madri e padri sufficientemente adeguati. Questo aspetto è
influenzato da diversi fattori. I Servizi
che si occupano di tutela del minore
Le complessità
hanno a che fare con molte declinazioni
dell’essere genitore. Alcune di esse pondi un intervento svolto
gono l’operatore di fronte a varie forme
presso un Servizio pubblico
di fragilità genitoriale e a vari possibili
dedicato
esiti che queste problematicità inducono
alla tutela del minore
sulla salute psico-fisica del minore.
Lavorare in contesti istituzionali, che
Cosimo Sgobba
a vario titolo si occupino di valutare, sostenere, curare o persino vicariare le diverse espressioni della genitorialità, sottopone gli
operatori coinvolti nella presa in carico a molte sollecitazioni. In questi contesti lavorativi notevoli sono
le risonanze intime che spesso impongono una prospettiva di urgenza, a fatica conciliabile con le possibilità riflessive della mente. Il pericolo di agire controtransferalmente o di mettere in campo progettualità basate su idee preconcette o sul bisogno inconscio di fuga degli operatori sono solo alcuni dei pericoli imminenti, corsi da chi opera nei Servizi dedicati alla tutela del minore. Lavorare con genitori problematici, a volte anche molto compromessi, significa incontrare situazioni umane dai risvolti complessi.
Tali complessità impattano da un lato sull’esercizio
delle funzioni genitoriali e dall’altro sul bisogno dei
minori di avere a disposizione un ambiente che li accompagni adeguatamente nel loro percorso di crescita. Il doversi occupare, con prese in carico multiple, contemporaneamente delle esigenze del bambino e del sostegno alla genitorialità svela, a volte, un
conflitto inconciliabile. Almeno in apparenza, in
molte situazioni sembra impossibile trovare una mediazione tra i bisogni del minore e le difficoltà dei genitori nella messa in campo di risposte adeguate a ta-
134
Figure attuali della genitorialità
1. Nei contesti istituzionali di cui parlo la maggior
parte delle prese in carico, soprattutto degli adulti, sono prescritte dall’Autorità Giudiziaria,
questo difficilmente agevola una spontanea ed
esplicita domanda di cura da parte dell’utente
del Servizio.
Cosimo Sgobba
li bisogni. Non sempre è immediato comprendere
chi sia il paziente più bisognoso o delineare quale sia
la scala delle priorità più opportuna. In un tempo relativamente breve l’operatore è costretto ad eleggere
una determinata chiave di lettura contemporaneamente delle complessità che intercetta, delle stratificazioni generazionali che si svelano e dello spessore
emotivo del quale sono intrise le storie che ascolta.
Egli deve procedere senza venire travolto dall’impatto emotivo che inevitabilmente si scatena dall’incontro di alcune situazioni traumatiche e traumatizzanti.
L’operatore sente tutta la portata emotiva delle vite
che ha di fronte e deve trasformare questo sentire in
uno strumento utile alla crescita delle persone di cui
si sta occupando.
La priorità data alla tutela del minore, stabilita
dalle regole della morale e dalle norme dei codici civili e penali, non può da sola risolvere le questioni relative alla pianificazione delle prese in carico e dei
progetti di cura. Da molto tempo ormai non si pensa
più che il solo mettere al riparo il minore, allontanandolo dall’ambiente familiare malato e inserendolo in contesti comunitari o extra-familiari, possa essere di per sé risolutivo. Il bambino continua ad avere
la necessità di rapportarsi alle figure genitoriali, sia in
termini di oggetti interiorizzati che in termini di presenze oggettive nella sua vita. La presa in carico del
minore non può quindi essere svincolata da quella
del genitore. Farsi carico dei problemi del bambino
non può prescindere dal farsi carico delle difficoltà
dell’adulto, al quale il minore si riferisce. Questo però pone il Servizio, preposto ad occuparsi di entrambi questi aspetti, di fronte ad un notevole conflitto.
Esso infatti deve contemporaneamente empatizzare
sia con le ferite del minore che con quelle dell’adulto, deve cioè occuparsi in estrema sintesi sia della “vittima” che del “carnefice”, a qualsiasi livello sia la loro
consapevolezza o la loro domanda di cura.1 Questo
genere di conflitto, presente sia negli operatori che
135
Il sostegno alla genitorialità fragile
nel gruppo di lavoro, non è da sottovalutare se non si
voglia rischiare di appiattire una complessità che è
invece da accogliere nella sua interezza. Tale complessità infatti è potenzialmente foriera di molte nuove possibili prospettive di evoluzione.
Diverse sono le metodologie applicate e molti i
paradigmi di riferimento teorico ai quali ci si possa
ispirare lavorando in contesti di tutela minorile. Tutti gli approcci, magari con accentuazioni differenti,
cercano di rispondere sia ai bisogni dell’adulto che a
quelli del bambino. Ritengo però che le prospettive
più utili siano quelle che prioritariamente tentano di
mantenere un assetto professionale orientato al mantenimento, nella mente dei singoli operatori come in
quella del gruppo di lavoro, di un adeguato spazio
contestualmente riflessivo e auto-riflessivo. L’operatore e il gruppo di lavoro devono cioè essere capaci
di riflettere sul materiale offerto dai loro utenti ma,
contemporaneamente, devono connettersi alle proprie reazioni interiori e alle varie risonanze emotive,
scatenate dagli elementi raccolti. Un valido apporto
alla messa in campo della capacità di stare in relazione al tempo stesso con l’utente e con se stessi potrebbe essere quello influenzato da un pensiero
orientato analiticamente.
Si potrebbe ritenere che la formazione analitica e
il desiderio di lavorare in un Servizio pubblico possano a prima vista sembrare presupposti inconciliabili.
Ritengo invece che una delle sfide più interessanti,
per chi crede ancora nella specificità del pensiero
analitico, sia proprio quella di coniugare queste due
anime apparentemente così distanti tra loro. Spesso
mi chiedo se una preparazione analitica possa realmente fornire un valido contributo anche alla pratica
svolta in Servizi con mandati non esplicitamente sanitari.2 In particolare sento molto significativa la sfida di
voler far dialogare la cultura analitica con le realtà lavorative rese vulnerabili dall’urgenza di reperire risposte concrete a problemi complessi. Come accen-
Figure attuali della genitorialità
2. Con il termine “sanitario” intendo l’ambito di
intervento clinicamente
legato alla cura in termini psicoterapici o alla valutazione in termini psicodiagnostici.
136
Figure attuali della genitorialità
3. Centro Psico Sociale,
ambulatorio psichiatrico
territoriale.
Cosimo Sgobba
nato precedentemente, soprattutto nei contesti che si
occupano a vario titolo del trattamento del trauma,
spesso perpetuato anche dal punto di vista transgenerazionale, si viene molto sollecitati emotivamente e si
corre spesso il rischio di incappare in vari tipi di agiti
controtransferali. Credo che proprio in questi specifici ambiti le riflessioni attorno al pensiero analitico assumano un particolare valore. Esse infatti sostengono
lo sforzo di preservare uno spazio di pensiero che
contribuisca a tenere utente, operatore e gruppo di
lavoro in uno stesso campo. Ognuno con il suo ruolo
è intento a cercare possibili combinazioni per dare vita a relazioni significative, uniche espressioni reali di
possibili prospettive di speranza. Ovviamente ritengo
valido l’assunto che veda una mente analitica esprimersi sia al livello del singolo operatore che al livello
del gruppo di lavoro. La dimensione gruppale contiene e protegge la dimensione singola e quest’ultima
sostiene quella gruppale in una inscindibile circolarità. L’utente di un Servizio di tutela, sia esso genitore
o figlio, può esprimere la propria patologia, raccontare la propria storia, portare le proprie problematicità,
i propri bisogni e i propri desideri e l’operatore, insieme al gruppo di lavoro, lo deve ascoltare con una
“mente allenata” a mettere in campo funzioni di contenimento e metabolizzazione, utili a restituire elementi attivatori di possibilità di vita più sana e adeguata. Per fare un esempio posso dire che l’operatore
di tutela, pur non avendo un compito diretto rispetto
alle problematiche psichiatriche, deve anche occuparsi di come inviare o accompagnare un genitore
psichiatrico, magari mai preso in carico prima, presso
un CPS3 o un reparto di Salute Mentale. L’operatore
deve trovare il modo di restituire adeguatamente ad
un genitore psichiatrico che la sua sofferenza ha un
esito nel rapporto con i suoi figli, ma che essa con il
giusto sostegno potrebbe anche ridimensionarsi. Per
realizzare tutto questo è fondamentale credere che
un genitore scompensato non perda per sempre la
137
Il sostegno alla genitorialità fragile
possibilità di fare il genitore o che il Servizio non debba pensare di tutelare esclusivamente il bambino.
Quel bambino ha bisogno che il Servizio sia vicino anche al suo papà o alla sua mamma che, stando male,
inconsapevolmente potrebbero anche agire mettendo a rischio se stessi o gli altri.
Per declinare meglio ciò che intendo per “mente
allenata” utilizzo il pensiero di Bion. Egli postula che
dall’esperienza traumatica derivino elementi sensoriali ed emotivi grezzi, definiti elementi beta. La concretezza di questi elementi attacca le funzioni della
mente e, se non incontra un’adeguata rêverie e un
corretto contenimento, non verrà mai trasformata in
elementi pensati, cioè in elementi alfa. Qui c’è in gioco la possibilità stessa di produrre il pensiero. L’équipe multidisciplinare, se ben funzionante, si avvale
di una mente gruppale capace di rêverie sia nei confronti dei casi trattati che dell’operatore a diretto
contatto con le situazioni difficili. Questo permette al
gruppo di contenere gli elementi beta evacuati e circolanti e di dar loro un significato. L’operatore, attraverso questo contenimento del gruppo, può recuperare il senso di alcuni suoi vissuti e di alcune caratteristiche del caso che sta trattando. Egli riesce così a
riposizionarsi nei confronti dell’utente, riattivando
lui stesso le funzioni di pensiero e di rêverie necessarie a qualsiasi tipo di presa in carico. L’impatto emotivo di certe storie di vita tragiche o la paura conseguente a certi incontri, che si fanno lavorando a tutela dei minori, finiscono per essere traumatici anche
per gli operatori. Questi ultimi non possono da soli
reggere il carico derivante da tutti i casi che seguono.
Ricordiamo che le “situazioni da tutela” sono in genere molto drammatiche, altrimenti non arriverebbero all’attenzione di un Servizio che come mandato
privilegiato ha quello di lavorare con casi sottoposti
all’egida di un’Autorità Giudiziaria e per i quali si deve decidere in merito all’esercizio della potestà genitoriale. Il sostegno del gruppo di lavoro è fondamen-
Figure attuali della genitorialità
138
Figure attuali della genitorialità
Cosimo Sgobba
tale per il buon funzionamento delle prese in carico
ma anche per la salute mentale degli operatori. Nella mia esperienza quando i gruppi di lavoro sono fondati su presupposti clinici come quelli che ho sopra
descritto, si abbassa notevolmente anche il turnover
dei professionisti che compongono il gruppo, dovuto principalmente al burnout degli stessi.
Attingendo al ricco patrimonio del pensiero analitico, aggiungo altre considerazioni a quanto detto
finora. In particolare userei un’immagine tratta dal
pensiero di Winnicott. Penso infatti che qualunque
Servizio, che abbia il compito di sostenere persone
con difficoltà psicologiche o sociali, debba avere nei
confronti della coppia “operatore-utente” le stesse
funzioni che un padre, secondo Winnicott, dovrebbe
attivare nei confronti della coppia “madre-bambino”.
In entrambi i casi il compito svolto è quello di contenere la coppia affinché possa funzionare al meglio
delle sue possibilità. In particolare in un Servizio di
tutela minorile, l’operatore sostiene o vicaria le funzioni genitoriali che non riescono ad esprimersi oppure contiene le angosce infantili che non sono state
contenute adeguatamente. Egli fa con l’utente ciò
che una madre sufficientemente buona dovrebbe fare con il proprio figlio, esercita cioè una capacità di
holding che, come direbbe sempre Winnicott, contiene adattandosi ai bisogni che intercetta. Affinché
tutto ciò avvenga nel miglior modo possibile, l’Istituzione deve fornire un setting che agevoli tutte le relazioni d’aiuto nate al suo interno; essa per prima deve mettere in campo la stessa capacità di holding che
l’operatore esercita nei confronti dell’utente. Il Servizio quindi, nella specificità del gruppo di lavoro,
dovrebbe fungere da contenitore ampio e solido, al
quale gli operatori possono riferirsi nei momenti di
impasse. Cercando di definire meglio ciò che intendo per setting, direi che, parallelamente al concetto
di holding, è costituito da una componente esteriore
fisica e una interiore psichica. La prima è determina-
139
Il sostegno alla genitorialità fragile
ta dalle procedure, dall’organizzazione, dalle modalità di rapporto con altri Servizi o con l’Autorità Giudiziaria; la seconda invece è determinata dal funzionamento sufficientemente buono della mente del
gruppo di lavoro. Quest’ultima è composta sia dai
pensieri che dalle emozioni dell’intera équipe.
Quando la mente gruppale funziona, il gruppo è in
grado di lavorare sufficientemente bene e di riattivare il pensiero precedentemente attaccato dal trauma.
Essa, fornendo un supporto all’operatore, lo fa sentire forte di questo sostegno, permettendogli di esprimere al massimo tutte le funzioni necessarie al trattamento, anche non psicoterapeutico, di individui
traumatizzati o compromessi sul piano psichico e sociale. La mente dell’operatore è contenuta dalla
mente del gruppo e così può contenere la situazione
che tratta, favorendo l’emersione di nuove pensabilità e nuove progettualità.
Una composizione del gruppo di lavoro che fa coesistere differenti competenze professionali è la prima delle risposte che vengono messe in campo per
far fronte ai diversi livelli di complessità, intercettati
dalla pratica nei Servizi di tutela del minore. Credo
che la vera forza di un’équipe multidisciplinare consista proprio nella possibilità di “contaminazione” tra
punti di vista professionali eterogenei. Questo interscambio contribuisce a dare uno spessore significante a situazioni traumatiche che tenderebbero invece
ad appiattire le funzioni della mente. Nello specifico
all’interno dell’équipe di tutela si possono incrociare
gli sguardi dello psicologo, dell’assistente sociale, del
consulente legale, dell’educatore professionale e del
consulente pedagogico. La molteplicità di questi
sguardi riattiva il pensiero su situazioni che, a seguito
di traumi, evidenziano una sorta di congelamento
della possibilità di pensare. Come un prisma, attraversato da un raggio di luce bianca, rifrange un’ampia gamma di colori, un gruppo di lavoro multidisciplinare, se ben funzionante, è capace di scomporre
Figure attuali della genitorialità
140
Figure attuali della genitorialità
Cosimo Sgobba
una situazione problematica, arrivando a definirne
in tempi relativamente brevi i vari elementi che la
compongono e a sintetizzarli successivamente in nuove costellazioni di senso. La molteplicità degli sguardi rende tridimensionale ciò che è appiattito dal permanere in particolari stati critici, che sembrano non
contemplare alcuna via d’uscita. Un gruppo interdisciplinare avvia più velocemente, almeno in potenza,
un processo di mentalizzazione che riattiva nuove
speranze e delinea nuovi orizzonti di senso. Il fatto
che tra gli sguardi dei vari componenti dell’équipe
non ci sia un’assoluta coincidenza favorisce la formazione di quello che Winnicott definirebbe uno spazio
transizionale dove cominciano ad emergere possibilità interpretative e ipotesi progettuali. Questo spazio
transizionale si genera tra un operatore e l’altro e tra
gli operatori e il caso che essi stanno trattando. Tutto ciò consente al gruppo di lavoro di allontanarsi dal
pericolo del pregiudizio e di cominciare a costruire
una concreta possibilità di pensare “il non pensato”.
Il campo, come direbbero i Baranger, nel quale si
dipana l’attività del Servizio si arricchisce di moltissimi elementi oggettivi e soggettivi, provenienti dagli
operatori di altri Servizi, dai Giudici, dagli operatori
del gruppo di lavoro e dagli utenti stessi. Ognuno di
questi attori ha un ruolo ben definito che interpreta
alla luce della propria storia, della propria personalità, della propria formazione e della propria professionalità. Tutti i ruoli lavorano in sinergia e compongono il campo d’azione del Servizio stesso. Quest’ultimo, olisticamente inteso, è più della somma delle
singole parti, poiché la sinergia dei ruoli fa emergere nuove pensabilità. Inserito in un contesto allargato così fecondo, il campo costituito più in piccolo
dalla relazione tra operatore e utente si arricchisce di
innumerevoli potenzialità. Durante i colloqui non si
incontrano solo i vissuti dell’operatore o dell’utente,
ci si imbatte infatti anche negli elementi provenienti
da altri Servizi, da altri colleghi o da altri ambiti fre-
141
Il sostegno alla genitorialità fragile
quentati dall’utente e contattati, ad esempio, da altri
operatori dello stesso gruppo di lavoro. Tutto arricchisce il campo, lo determina, lo influenza e lo rende perennemente in espansione. Come afferma Ferro, proprio analizzando i vari elementi che si presentano all’interno del campo sotto forma di derivati
narrativi, si possono accogliere significati nuovi e
nuove possibilità di sviluppo. Mettersi in quest’ottica
rende possibile trascendere la concretezza delle informazioni e l’ottusità del pregiudizio.
È lecito pensare che anche il miglior gruppo di lavoro possa essere travolto emotivamente dall’impatto
con certe situazioni particolarmente complesse. Può
succedere così che la mente del singolo o dell’intero
gruppo, per quanto orientata analiticamente, si scontri con situazioni che rendono vulnerabile la sua tenuta. In queste circostanze il lavoro del gruppo necessita di un supporto esterno ed è quindi indispensabile sopperire alla momentanea incapacità di pensare con la messa in campo di sessioni di supervisione, pensate per l’intero gruppo di lavoro. Ritengo
che questo strumento debba principalmente avere la
capacità di far evolvere le dinamiche gruppali, portando sempre di più il funzionamento dell’équipe da
un’ottica di interazione ad una di integrazione. È
proprio questo passaggio, come afferma Quaglino insieme ai suoi collaboratori, a trasformare un gruppo
di individui in un gruppo di lavoro. La supervisione
deve poter contenere le spinte disgreganti interne al
gruppo, spesso determinate dalla deflagrazione tipica del trauma, e ricondurle ad un grado di integrazione nuovo e più evoluto, passando per un lavoro di
coscientizzazione delle dinamiche in gioco. Oltre a
tutto ciò, naturalmente la supervisione deve essere
anche in grado di leggere clinicamente i vari casi, cogliendo e restituendo al gruppo di lavoro o ai singoli
operatori gli elementi rimasti non pensati. Penso
quindi ad una supervisione in grado di lavorare sia
sui singoli casi che sulle dinamiche interne al gruppo
Figure attuali della genitorialità
142
Figure attuali della genitorialità
Cosimo Sgobba
di lavoro. Immagino un supervisore che “addestri” il
gruppo ad esercitare quella capacità di tenere il timone sia sull’ascolto dell’altro che sull’ascolto delle
dinamiche interne al gruppo o al singolo operatore.
Penso a percorsi di supervisione che “allenino” la
consapevolezza degli operatori e del gruppo di lavoro circa il funzionamento di quello che, citando Ogden, potremmo definire il “terzo analitico”, funzionante al livello di gruppo di lavoro oltre che a livello
della coppia operatore-utente. Mi riferisco al concetto di “terzo analitico” nella sua accezione di punto
d’incontro tra soggettività diverse che diviene il luogo dove possano nascere nuove possibilità di cambiamento; è anche il luogo questo dell’incontro tra la
concretezza della storia dei soggetti e i risvolti emotivi ad essa correlati. Esso è soprattutto il luogo dell’incontro tra individui diversi che cercano di lavorare il più possibile insieme per far nascere prospettive
per un futuro migliore.
Nella mia esperienza una tecnica utile ad accrescere la consapevolezza del funzionamento del “terzo
analitico” a livello del gruppo di lavoro e conseguentemente del singolo operatore, è quella che utilizza la
figura dell’“osservatore silente” durante sia le supervisioni che gli incontri di équipe. L’operatore preposto a questo ruolo incarna quelle funzioni della mente che portano alla consapevolezza di ciò che succede al di là delle parole o dei fatti; egli partecipa all’incontro senza intervenire attivamente, alla fine però restituisce al gruppo di lavoro quali dinamiche ha
osservato e quali emozioni ha sentito muoversi nel
campo intersoggettivo del gruppo. Il supervisore infine deve aiutare a mettere insieme ciò che ha spontaneamente portato il gruppo e le specifiche esposte
dall’osservatore. Il gruppo e i singoli operatori imparano sempre di più a tenere contestualmente presenti il piano della concretezza e il piano emotivo. Questo procedere aiuta a svelare i possibili significati nascosti e a tracciare le nuove possibilità di sviluppo. Si
143
Il sostegno alla genitorialità fragile
acquisisce la capacità di guardare e di sentire dalla
giusta distanza, senza essere troppo schiacciati dall’urgenza ma senza nemmeno indugiare in attese che
non si adattano ai bisogni degli utenti. Lo stesso movimento di analisi e di sintesi compiuto dal supervisore nei confronti del gruppo di lavoro al completo4
durante una supervisione, è necessario che venga
svolto durante gli incontri di équipe dal coordinatore, nell’esercizio delle sue funzioni cliniche, nei confronti del gruppo di operatori che direttamente operano sui casi. Solo così, se tutti i ruoli sono ben funzionanti, si ha una sufficiente garanzia che si mettano in campo tutti i necessari livelli di presidio contro
l’attacco ai processi di mentalizzazione compiuto dagli elementi traumatici con i quali impatta un Servizio di tutela.
La tutela del minore è, secondo le normative vigenti, una responsabilità delle Amministrazioni Comunali. I Servizi di tutela quindi sono gestiti da questi Enti che, mentre hanno storicamente una competenza sociale, non hanno una specifica competenza
sanitaria. Nel corso degli ultimi 20 anni si sono sperimentate diversi gradi di interazione e integrazione
tra la competenza sociale e quella sanitaria. In Lombardia, ad esempio, si è passati da una delega completa alle ASL ad una successiva riacquisizione delle
deleghe da parte dei Comuni. Attualmente questi ultimi si organizzano con modalità differenti a seconda
dei diversi ambiti territoriali. Tutto questo vuol dire
che le Amministrazioni Comunali hanno un grande
peso riguardo l’organizzazione dei Servizi di tutela.
Nella mia esperienza è fondamentale che un Servizio
delicato, come quello che si occupa di tutela, goda
dell’appoggio delle Amministrazioni in termini di fiducia riposta negli operatori, nel Servizio stesso e nel
metodo di lavoro. Purtroppo invece le decisioni che
riguardano il funzionamento dei Servizi di tutela sono prese troppo spesso in base a valutazioni meramente economiche e scarsamente fondate su presup-
Figure attuali della genitorialità
4. Intendo il gruppo composto da tutti gli operatori che seguono direttamente i casi e anche il coordinatore che ha funzioni sia organizzative che
cliniche, di supporto al
gruppo e ai singoli operatori.
144
Figure attuali della genitorialità
5. Con il termine “tecnico” intendo sostanziare la
qualità professionale che,
fondata sulla formazione
e la pratica, tiene conto
della complessità degli interventi sia dal punto di
vista del materiale trattato sia da quello delle ricadute di tale materiale sugli operatori.
Cosimo Sgobba
posti tecnici.5 È fondamentale, a questo proposito,
che il gruppo di lavoro possa, con la sua compattezza
interna, porsi come un partner maturo anche nel
dialogo con l’Amministrazione, oltre che nel contatto con gli altri Servizi, con i quali collabora ed è in rete. In particolare il Servizio deve farsi carico di promuovere una cultura del benessere e la necessità di
puntare su uno sguardo che integri le componenti
cliniche e pedagogiche con quella sociale, in una dimensione di gruppo di lavoro allargato. In tutto questo, rimane fondamentale poter trovare nell’Istituzione che governa il Servizio un’alleata consapevole delle difficoltà, del rischio ma soprattutto della necessità di occuparsi di certe situazioni familiari. Un genitore problematico non è un problema solo per i propri figli ma lo diventa per tutta la società, poiché quei
figli diverranno a loro volta adulti e faranno parte del
tessuto sociale del futuro di tutti. Purtroppo non tutte le Amministrazioni, con le loro scelte di Politica
Sociale, sono pronte ad ascoltare questi pensieri e
questi punti di vista. Laddove però l’ascolto si realizzi, vengono a crearsi le condizioni che portano l’Istituzione stessa a svolgere un ulteriore indispensabile
ruolo di contenimento per il Servizio stesso.
Vorrei declinare meglio quanto ho sostanziato fino a questo momento solo teoricamente, avvalendomi del materiale clinico relativo ad un caso che ho
avuto modo di seguire come psicologo, in un Servizio
di tutela dove ho prestato la mia collaborazione. Cercherò di descrivere la presa in carico di un papà, portatore di gravi difficoltà, finalizzata all’obiettivo di
agevolarlo nella migliore espressione possibile della
sua genitorialità. In particolare declinerò come sia
stato possibile attuare la presa in carico a partire da
un preciso funzionamento del gruppo di lavoro che,
attraverso livelli diversi di contenimento, ha favorito
la pensabilità di certi elementi peculiari e liberato
energie per la messa in campo di una adeguata pro-
145
Il sostegno alla genitorialità fragile
gettualità sull’intero nucleo in carico al Servizio.
Una mattina di circa quattro anni fa, arrivato nella sede del Servizio Minori e Famiglia presso il quale
ho lavorato, ascolto i messaggi contenuti nella segreteria telefonica. Uno in particolare catalizza completamente la mia attenzione. Il messaggio, lasciato con
voce quasi sussurrata ma ferma al tempo stesso, recita solamente poche significative parole: “so dove abiti, ora anche tu proverai cosa significa soffrire”. A
parlare è Lucio, padre di Sofia, una bimba di qualche
mese nata dalla relazione con Giada. Lucio ha allora
circa cinquant’anni e Giada circa trenta. Quest’ultima inoltre è stata da poco collocata, con un decreto
del Tribunale per i Minorenni, in una Comunità secretata6 insieme a Sofia. Il dispositivo del Tribunale è
stato emesso a causa delle forti preoccupazioni circa
le capacità genitoriali della madre della minore ma
anche per il rapporto particolarmente problematico
che i genitori hanno tra loro.
Giada conosce Lucio grazie ad amici comuni. Lucio è un uomo molto segnato dalla vita che è però capace di raccontare la sua esperienza rendendola quasi affascinante.
Giada rimane molto colpita dai racconti di Lucio
che si vanta di “aver attraversato l’inferno della tossicodipendenza e di esserne uscito fortificato”. Lucio si
“vende” molto bene, spacciandosi agli occhi di Giada
quasi come un operatore sociale, come un uomo che
ha vissuto talmente intensamente che ora può insegnare la vita a tutti. Giada, che ha un estremo bisogno di figure di riferimento forti che la facciano sentire al sicuro, è catturata dalle malie di Lucio, vuole
credere che egli sia l’uomo adatto a lei, quasi un salvatore, certamente una guida, forse un padre.
Giada ha una storia alle spalle costellata di abbandoni e tradimenti, perpetuati proprio da quelle figure che avrebbero dovuto essere punti di riferimento
stabili nella sua vita. Ha interiorizzato un’immagine
molto deteriorata di sé e presenta ferite di stampo
Figure attuali della genitorialità
6. Con indirizzo sconosciuto a tutti tranne che
al Servizio e al Tribunale
per i Minorenni.
146
Figure attuali della genitorialità
Cosimo Sgobba
narcisistico molto profonde. A volte reagisce con rabbia ai tentativi del Servizio di ricondurla ad una visione della sua situazione più aderente alla realtà e
meno condizionata dalle sue proiezioni. Non arriva
però mai ad una chiara manifestazione violenta nei
confronti degli operatori, di sua figlia o di qualunque
altro individuo con il quale si relaziona. La sua reazione è piuttosto quella di argomentare in modo confuso e pretestuoso le sue ragioni e subito dopo di entrare in una sorta di agitazione dovuta a veri e propri
crolli psichici. Questo stato la induce a comportamenti poco consapevoli e pericolosi, soprattutto per
se stessa, perlopiù improntati ad agiti di fuga o ad
azioni non chiaramente finalizzate. Lucio paradossalmente funge da contenitore e Giada, una volta rimasta incinta, riesce a portare avanti la gravidanza in
modo sufficientemente adeguato.
Poco prima della nascita della bambina però la famiglia di Lucio si oppone al riconoscimento della
piccola da parte del padre e impedisce che Giada si
trasferisca a casa di Lucio. Giada allora si rivolge al
Servizio raccontando che non ha un posto dove stare
poiché la sua famiglia, non avendo accettato la sua
gravidanza, l’ha completamente abbandonata e anche il compagno ha fatto la stessa cosa, ricattato delle manovre malevole della propria famiglia d’origine.
È importante specificare che Lucio soffre da anni di
una malattia degenerativa che gli impone lunghi periodi di immobilità a letto. La sua famiglia, in particolare la madre, si occupa di lui perpetuando un rapporto vischioso di reciproca dipendenza. La madre di
Lucio, un po’ perché appesantita dallo stato di salute
del figlio ma soprattutto per il legame morboso che
ha con lui, non accetta la relazione del figlio con Giada e in modo particolare la gravidanza, poiché vede
quest’ultima solo come un’ulteriore complicazione.
Dati i presupposti, dopo una rapida indagine sociale, Giada viene collocata in un alloggio d’emergenza in collaborazione con un’associazione che si
147
Il sostegno alla genitorialità fragile
occupa di sostenere le madri in procinto di partorire.
Sofia nasce, è una bella bambina sana e vispa; non
viene riconosciuta dal padre che a tratti dichiara anche di avere dei dubbi circa la reale paternità. Inizia
un periodo molto intenso in cui Giada, sostenuta dal
Servizio, cresce nella sua motivazione di voler fare la
madre di Sofia e nella consapevolezza di aver bisogno
di aiuto per svolgere le funzioni genitoriali e per poter impostare la sua vita su presupposti più stabili e
autonomi. Mentre Giada accresce le sue potenzialità,
Lucio soffre per non avere più il ruolo di “eroe” nella vita di Giada e comincia a denunciare al Servizio
una serie di gravi inadeguatezze che Giada mostrerebbe nella gestione della figlia. La accusa alternativamente di essere una tossicodipendente, di maltrattare la piccola o di portarla in luoghi equivoci per
svolgere attività legate alla prostituzione. Il Servizio è
molto confuso anche perché Giada racconta altrettanti particolari terribili riguardanti Lucio. Ella infatti riferisce che il compagno la maltratta, la umilia, la
costringe ad avere rapporti sessuali e pretende di decidere circa la gestione delle figlia pur non dandole
alcun sostegno concreto. Inoltre la ragazza allude ad
un passato di Lucio alquanto torbido e fa intendere
che il compagno non si è fermato di fronte a nulla,
nemmeno di fronte alla legge.
In questo periodo Giada e Lucio si vedono ancora
liberamente poiché non c’è alcun pronunciamento
da parte del Tribunale, nonostante fossero già state
inviate alcune segnalazioni da parte del Servizio. È
soprattutto Giada a recarsi da Lucio, poiché egli è in
uno dei suoi momenti di fatica legati alla patologia fisica di cui è affetto. Ogni volta ella torna da questi incontri con molti dubbi circa l’idoneità di questo loro
rapporto, soprattutto per il fatto che ora da lei dipende un’altra creatura. Durante uno di questi incontri succede qualcosa di terribile per Giada e per
la piccola Sofia. Probabilmente Lucio esagera con le
vessazioni e Giada si ritrova mezza nuda con la sua
Figure attuali della genitorialità
148
Figure attuali della genitorialità
Cosimo Sgobba
bambina in braccio che corre per la strada, in preda
alla confusione e alla paura. Ha la forza di chiamare
il Servizio che organizza un intervento del 118. Giada e la piccola vengono trattenute al Pronto Soccorso per accertamenti e poi dimesse poche ore più tardi. La diagnosi per Giada è di “stato di shock conseguente ad una lite con il compagno”, mentre la bambina non è nemmeno menzionata.
Dopo questi accadimenti mi viene assegnato il caso che comincio a seguire insieme alla collega assistente sociale che ha fatto le prime segnalazioni al
Tribunale. Mi colpisce molto l’episodio della fuga di
Giada e sono io ad offrirmi per seguire il caso; vengo
attratto da una sorta di bisogno di protezione che
sento di dover mettere in campo per Giada e per Sofia. Il racconto di Giada dell’accaduto è molto significativo poiché dà l’idea del suo funzionamento. Ella
non riesce a ricostruire cosa sia accaduto ma ci comunica tutto il panico che ha provato e il conseguente bisogno di fuga. Non può essere più precisa
circa la definizione di cosa è stato detto o cosa è stato fatto; è però certa che ad un tratto ha potuto solo
scappare per mettersi in salvo con sua figlia da un pericolo che nemmeno ricorda. Anche il racconto di
Lucio è molto significativo poiché descrive bene l’assoluta inconscietà con la quale egli tratta Giada. Lucio dice di essersi molto stupito di fronte al gesto di
Giada; egli lo giudica esagerato rispetto al suo benevolo intento di far comprendere alla compagna
quanto ella fosse incapace. Lucio dice che Giada rifiuta di prendersi le sue responsabilità. Secondo lui,
la compagna è come una “bambina pazza ed isterica”
che scappa quando le cose non si mettono bene. Nel
racconto di Lucio non emerge alcun riferimento a
Sofia, se non relativo all’intento di mostrare le inadeguatezze di Giada. Non traspare purtroppo nemmeno alcun tipo di autocritica.
Dopo questo episodio e le ulteriori segnalazioni
da parte del Servizio, il Tribunale decreta l’inseri-
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Il sostegno alla genitorialità fragile
mento di Giada e di Sofia in una struttura comunitaria protetta. C’è un particolare molto importante nel
Decreto: Lucio viene citato come potenziale pericolo
per Giada e Sofia ma non viene considerato come il
padre della bambina. Di conseguenza non viene regolamentata nemmeno la possibilità di incontro tra
padre e figlia.
Si evidenzia una spaccatura notevole tra quanto ha
in mente il Servizio e ciò che decreta il Tribunale. Da
un lato gli operatori considerano Lucio a tutti gli effetti il padre di Sofia e dall’altro il Tribunale si attiene
rigidamente al fatto che, non avendo riconosciuto la
figlia, agli occhi della Legge egli non è padre.
La decisione del Giudice spinge Lucio a cristallizzarsi in una posizione aggressivamente rivendicativa;
egli allude ad abusi di potere da parte dei Servizi o
del Tribunale, minaccia di attivare amici giornalisti,
medita di rendersi protagonista di efferati fatti di cronaca. In questo contesto si inscrive l’episodio del
messaggio ricevuto dalla segreteria telefonica del Servizio. Alla luce di quanto esposto fino a qui, può essere più chiaro il fatto che io abbia ascoltato quel
messaggio già appesantito da una serie di attacchi
sferrati da Lucio, più o meno velatamente. Dalla mia
entrata in gioco sento che Lucio ha identificato me
come interlocutore privilegiato: egli mi ha scelto.
Percepisco che dovrei stare in questo confronto, potenzialmente fecondo, ma allo stesso tempo mi sento
spaventato e confuso. Non so come pormi nei confronti di Lucio e non so cosa sia più giusto per Giada
e Sofia. Ora Lucio rivendica il suo ruolo di padre, ma
minaccia anche di fare del male a Giada o di rapire
Sofia. Egli fa una richiesta lecita, ma con modalità
completamente inadeguate. Oltre a tutte queste difficoltà, mi appesantiscono altri due elementi essenziali. Da un lato sia il coordinatore del Servizio che
l’assistente sociale in coppia con me sul caso, a causa
di un trasferimento degli stessi, vengono in questo
stesso periodo sollevati dai loro incarichi e non ven-
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Figure attuali della genitorialità
Cosimo Sgobba
gono rimpiazzati; dall’altro è decisivo aggiungere
che, sempre nello stesso periodo, il mio indirizzo di
casa viene pubblicato in internet, erroneamente e
senza il mio consenso. Questi due elementi molto
concreti mi fanno sentire ancora più vulnerabile di
fronte all’aggressività di Lucio.
In occasione dei colloqui con Lucio è molto difficile mantenerlo su livelli adeguati di scambio comunicativo. Mostra irrequietezza, un atteggiamento allusivo ad amicizie delinquenziali, dichiara il suo nervosismo e la sua voglia di spaccare tutto. Il suo atteggiamento sembrerebbe principalmente finalizzato al
volere ottenere da me un riconoscimento della sua
paternità, che peraltro io non ho mai negato. Provo
in tutti i modi a ricondurlo su un piano di realtà ma
egli diventa sfuggente, manipola le informazioni e
pare intenzionato solo a mostrarmi la sua rabbia. Sono impaurito ma devo anche ammettere che le minacce di Lucio nei miei riguardi non si sono ancora
mai manifestate attraverso concreti attacchi alla mia
incolumità fisica; mi aggrappo alla speranza che il
suo obbiettivo non sia quello di distruggermi completamente.
Lo contiene molto peraltro proprio il suo stesso
corpo che, poco dopo il Decreto del Tribunale, comincia a mostrare i segni di cedimento dovuti al peggioramento della patologia cronica di cui egli è affetto. Diviene progressivamente più difficile incontrare
Lucio ma, nei momenti in cui sta meglio, si presenta
al Servizio anche senza appuntamento. Inizia un periodo in cui ho con Lucio contatti prevalentemente
telefonici e, anche se non capisco ancora bene la direzione in cui sto andando con lui, mi accorgo che si
creano tra noi due canali comunicativi paralleli: uno
più adeguato, presente quando avviene uno scambio
telefonico diretto, uno vessatorio quando Lucio lascia i suoi terribili messaggi nella segreteria telefonica. Tutti questi atteggiamenti e comportamenti di
Lucio mi fanno pensare ad una sua difficoltà di mo-
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Il sostegno alla genitorialità fragile
dulare le reazioni agli stimoli, come la vicinanza o la
lontananza negli ambiti relazionali, ma non ho ancora le idee chiare.
Nello stesso periodo Giada e Sofia iniziano ad avvalersi della presa in carico della Comunità. Si avvia
un percorso psicologico per Giada e alcune osservazioni mirate a valutare l’interazione tra madre e figlia. Il nodo più problematico in questo momento
pare essere Lucio che, pur non essendo menzionato
dal Decreto del Tribunale e pur essendo un uomo
psichicamente fragile, continua a chiedere a suo modo di poter fare il padre della sua bambina. Giada
non si oppone al fatto che Lucio possa avere contatti
con Sofia, è il Servizio che teme che Lucio possa, ad
esempio durante una visita con la figlia, mettere in atto le minacce che riferisce verbalmente.
Appesantito da tutte le problematiche legate alla
presa in carico di Sofia e dei suoi genitori, decido di
portare il caso all’attenzione dell’intera équipe di lavoro. Racconto ai colleghi le mie preoccupazioni, i
miei vissuti e la mia incapacità di pensare ad una progettualità che abbia un senso per Lucio, Giada e soprattutto per la loro bambina.
Dopo la mia presentazione del caso al gruppo di
lavoro, che grossomodo ricalca ciò che ho fino ad ora
enunciato in questo scritto, e soprattutto dopo l’insistenza con la quale riporto più volte il grado di intossicazione che sento di aver raggiunto nella presa
in carico di questa situazione, si apre una vivace discussione che coinvolge tutti i colleghi presenti al Servizio per l’appuntamento settimanale dedicato all’incontro di équipe.
Scelgo di riportare di seguito uno stralcio del verbale di quell’incontro perché, dal mio punto di vista,
rappresenta lo snodo essenziale che ha determinato
un mio riposizionamento nel rapporto con Lucio e
una mia riconquista di un buon grado di consapevolezza e di capacità riflessiva. Quell’équipe mi ha aiu-
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Cosimo Sgobba
tato a rielaborare i miei vissuti, consentendomi di ritirare il più possibile le mie proiezioni e di attivare sul
caso nuovi vertici di lettura. Oltre a me, sono presenti all’incontro due assistenti sociali, una psicologa ed
una consulente pedagogica. Come di consueto, anche in quell’occasione viene chiesto ad un membro
del gruppo di fare l’“osservatore silente” e ad un altro di verbalizzare l’incontro. In questo caso il ruolo
dell’osservatore è svolto da una delle assistenti sociali mentre il verbale viene redatto dalla consulente pedagogica.
Psicologa: Vorrei prima di tutto esprimere la mia
solidarietà al collega che si trova fatalmente da solo
ad affrontare la complessità della situazione. Mi chiedo se non sia possibile aiutarlo concretamente assegnandoci anche noi alcuni compiti per sollevarlo.
Assistente Sociale: I nostri carichi di lavoro non ci
consentono di prendere altri casi, soprattutto se sono
così complessi. Il rischio è che si facciano pasticci pericolosi, soprattutto in una situazione di questo tipo.
Psicologo sul caso: Chiarisco subito la questione
dicendo che non voglio per forza che il gruppo mi
dia un compagno di lavoro, so che il momento storico è difficile, non sappiamo se e quando arriverà una
nuova collega e non c’è un coordinatore che ci aiuti
a stabilire le priorità nelle prese in carico. Dobbiamo
fare da soli e non è facile. Vorrei però che mi aiutaste a fare chiarezza dentro di me, perché sento che
ho perso la rotta nella gestione del caso. La paura è
divenuta un elemento troppo concreto e mi blocca.
Se Lucio sa davvero dove abito, io temo per la mia famiglia, perché egli mi sembra un uomo imprevedibile e capace di tutto. Lo immagino come un animale
ferito che non ha nulla da perdere.
Psicologa: Ti capisco, abbiamo sentito tutti i messaggi in segreteria ma è anche vero che da un po’ di
tempo Lucio non si presenta al Servizio perché esce
a fatica di casa.
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Il sostegno alla genitorialità fragile
Psicologo sul caso: Sì ma da quello che ho capito
questo impedimento ad uscire è temporaneo e quindi temo che possa presentarsi sotto casa e fare del
male alla mia famiglia. Temo persino che possa incaricare qualcuno, qualche suo amico malavitoso.
Assistente Sociale: Se è così non puoi più seguire
tu questo caso, anzi forse dovresti addirittura denunciarlo. Ma poi si presenterebbe il problema che non
possiamo mettere in lista d’attesa un caso così, anzi
ho l’impressione che più ignoriamo Lucio e più lui si
scatena nella sua rivendicazione.
Psicologo sul caso: Hai ragione, aggiungo un particolare importante che ho verificato in questo ultimo periodo: durante le telefonate lui non ha il tono
minaccioso che ha nei messaggi lasciati in segreteria.
Ho quasi l’impressione che ci tenga a mantenere un
contatto con me, non vuole proprio distruggermi
completamente.
Psicologa: Forse non tollera la tua assenza e si arrabbia se non ti trova disponibile all’ascolto. Forse le
minacce sono un modo bizzarro per tenerti legato a
lui.
Psicologo sul caso: In effetti Lucio è molto presente nei miei pensieri, non riesco a staccare, mi porto a casa le sue minacce, le sue rivendicazioni e più
vorrei mandare via questi pensieri e più mi ritornano, intossicandomi la mente.
Pedagogista: È impressionante sentire parlare il
gruppo perché dalla presentazione del caso si è sviluppata una discussione spontanea che ha tagliato
immediatamente fuori Giada e Sofia. Forse perché
loro sono in protezione ma forse anche perché Lucio
pretende un’attenzione esagerata, tutta rivolta a lui.
Sembra un bambino che fa i capricci perché vuole
una mamma che però non lo vuole fino in fondo; allora diventa sempre più arrabbiato e comincia a chiede attenzione con una rabbia sempre crescente.
Psicologo sul caso: Credo che Lucio possa essere
molto arrabbiato proprio con la sua di madre, poiché
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Cosimo Sgobba
non lo ha mai voluto fino in fondo e inoltre lo ha anche condizionato nel non riconoscere sua figlia. Forse Lucio è così arrabbiato anche perché, condizionato dalla madre, ha finito con l’essere con Sofia come
sua madre con lui, abbandonico e ambivalente. Forse questa somiglianza, di cui non è consapevole pienamente, lo fa saltare.
Pedagogista: Forse è per questo che ha preso le distanze dal pensiero della madre e della sua famiglia
allargata e sta portando avanti da solo questa sua volontà di essere riconosciuto come padre.
Psicologo sul caso: Durante una telefonata mi ha
anche detto che vorrebbe riconoscere la bambina ma
non sa come fare. Comunque è curioso che parliamo
di “riconoscimento” di Sofia da parte di Lucio e di
“riconoscimento” di Lucio da parte nostra. Si evidenzia un intreccio che mi sembra proprio significativo.
Assistente Sociale: Se pensiamo che possa essere
utile posso capire come aiutare Lucio a riconoscere
legalmente la figlia; questo è un pezzo che mi sento
di fare, anche se non sono sul caso.
Psicologa: Vorrei riprendere quanto detto poco fa
circa una mamma che non vuole fino in fondo Lucio,
mi viene da domandarti (rivolta allo psicologo sul caso) se tu lo vuoi o no Lucio? O meglio se tu senti di
volertene occupare?
Psicologo sul caso: Mi fai una domanda difficile.
Mi sento invaso dal suo bisogno, non ero pronto ad
accogliere la violenza del suo bisogno. Una parte di
me vorrebbe scappare! Capisco Giada quando in stato confusionale è scappata dalla casa di Lucio. Lucio
fa questo effetto è un individuo che spaventa, soprattutto quando mostra il suo lato infantile onnipotentemente richiedente. Un’altra parte di me continua a
pensare che forse qualcosa si può recuperare, almeno nella dimensione della genitorialità. Certo con
moltissimi presidi! Credo che la sua domanda di poter fare il padre abbia anche un aspetto sano, evoluto; non c’è solo il suo bisogno, ritengo che ci sia an-
155
Il sostegno alla genitorialità fragile
che la paura che sua figlia possa crescere senza la presenza di un padre. Sento che un compito che posso
prendermi è quello di lavorare su questi aspetti. Non
so bene come procedere ma del resto mi sembra l’unica domanda che pone Lucio e di conseguenza, al
momento, l’unico spazio di lavoro possibile.
Psicologa: Forse dovresti cercare di costruire un
setting più strutturato per impostare un lavoro con
lui. Non può più chiamarti a tutte le ore e lasciare 14
messaggi in segreteria durante il weekend. Forse non
è più utile che ti cerchi in orari impensabili o occupi
la linea del Servizio per ore. Devi cercare di arginarlo.
Psicologo sul caso: Potrei provare a dare alcune regole come si fa in una terapia, solo che costruisco un
setting telefonico, almeno fino a quando non potrà
uscire di casa. Forse se do alcune regole mi posso sentire anche meno “invaso”. In effetti ho colluso, in modo complementare e onnipotente, con il suo bisogno
assoluto di attenzione. Mi sono mostrato sempre disponibile e questo non lo ha tranquillizzato, non lo ha
abituato ad una alternanza di presenze e assenze. Ero
troppo spaventato e cercavo solo di non procurargli
alcuna frustrazione.
Pedagogista: Visto che lo abbiamo paragonato ad
un bambino mi sento di aggiungere che è un po’ come quando i bambini devono iniziare a frequentare
il nido. Spesso non hanno ancora presente che la
mamma continua ad esistere anche se non c’è fisicamente e infatti piangono disperati; se però sono accompagnati in questo percorso, possono fare l’esperienza di una progressiva autonomia.
Psicologo sul caso: Ci vorrebbe un oggetto transizionale anche per Lucio, che lo consoli nella mia assenza!!
Psicologa: Forse se gli dai un appuntamento telefonico lui sente di avere qualcosa di te quando non ti
sente. Forse la sua mente può sentire il contatto con
te, come elemento che ha una sua continuità.
Psicologo sul caso: Mi sembra un’ottima idea. Si
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Cosimo Sgobba
può provare a metterla in pratica.
Assistente Sociale: (rivolta allo psicologo sul caso)
Hai cambiato espressione del viso, sei meno contratto.
Psicologo sul caso: Mi sento meglio, mi sembra di
aver rafforzato le mie possibilità di essere in relazione con Lucio senza farmi travolgere, anche se la paura rimane.
Psicologa: Nel nostro lavoro è spesso saggio avere
paura. Lavoriamo con persone che possono essere
davvero pericolose. Ma è come se sentissi che la tua
paura è il frutto di un artificio messo in campo da Lucio. Come è riuscito ad ammaliare Giada, facendole
credere di essere un grande saggio, nello stesso modo ti lancia messaggi iperbolici, che servono a riempirti la mente e a fissare l’attenzione su di lui.
Psicologo sul caso: Vuole uno spazio nella mia
mente e lo chiede come può. Lucio è un uomo dalla
personalità davvero molto complessa, hai ragione
forse anche la paura è il frutto di una malia. Senza
escludere la realtà delle cose, forse rischio di mettere
anche in gioco un contratransfert che, se non elaboro, continuerà ad indurmi alla fuga e continuerà a restituire a Lucio il fatto che non può essere in relazione con nessuno. Lucio forse riempie con dettagli
grandiosi il vuoto e la solitudine che invece sono connessi alla sua parte più vera; quella che egli sente solo ad un livello inconsapevole. Più è vicino alla solitudine e più diventa aggressivo. Detta così Lucio riesce quasi a farmi compassione.
Assistente Sociale: In fondo anche Giada prima ha
risposto ai suoi richiami idealizzandolo e poi quando
lui l’ha lasciata sola, ha smesso bruscamente di considerarlo. Lucio è passato rapidamente da una condizione di eroe ad una condizione di reietto.
Psicologo sul caso: È vero, tra i due ci sono stati reciproci giochi proiettivi che sono poi stati bruscamente interrotti. Questa interruzione, prodotta tra le
altre cose da una incapacità di mantenere un’adeguata continuità relazionale, è divenuta esplosiva
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Il sostegno alla genitorialità fragile
proprio perché entrambi hanno personalità, seppur
con alcune differenze, con una spiccata propensione
all’agito e al discontrollo degli impulsi. Ma il crollo di
tutto deve aver provocato un dolore insopportabile
per Lucio.
Pedagogista: Per aiutare Lucio affinché possa svolgere al minimo le funzioni genitoriali, dobbiamo
mettere mano a tutti questi risvolti.
Psicologo sul caso: Posso tentare di dare alcune
piccole restituzioni finalizzate alla possibilità di costruire il suo essere genitore ma non posso fare una
terapia telefonica vera e propria con lui.
Psicologa: Non so se un soggetto così possa fare
una terapia, ma secondo me puoi rimanere in ascolto di ciò che ti porta e puoi decidere progressivamente gli aggiustamenti necessari.
Psicologo sul caso: Certamente devo basarmi sui
contenuti che porta ma mi devo anche dare un obiettivo. Penso che l’unico percorribile sia quello di lavorare sulla sua domanda: “voglio fare il papà di Sofia, mi aiuti?”. Forse inconsapevolmente si chiederà
anche se io lo ritengo credibile in questa sua affermazione.
Pedagogista: Ci hai già risposto a questo, quando
prima hai detto che sentivi che la parte più vera di lui
vuole fare il genitore di Sofia.
Psicologo sul caso: Questo però non glielo ho mai
restituito. Dovrei provare a farlo. Grazie a tutti perché mi sento meno confuso. Credo che darò inizialmente tre appuntamenti telefonici alla settimana a
Lucio e imposterò un lavoro a partire dalle considerazioni che abbiamo fatto. Non so se arriverò mai a
dirgli le cose che abbiamo condiviso, ma sicuramente gli elementi messi in circolo oggi mi danno la possibilità di avere nella mente altri contenuti e non solo la paura. Nella mia mente ho un’immagine di Lucio più completa. Poi deciderò in seguito cosa, di ciò
che ci siamo detti oggi, condividere direttamente con
lui e cosa invece è opportuno che rimanga solo nella
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Figure attuali della genitorialità
Cosimo Sgobba
mia mente. Infondo è come con un bambino: non
dobbiamo spiegargli proprio tutto ma dobbiamo certamente avere ben chiara nella testa una direzione ed
essere consapevoli il più possibile di cosa muoviamo
nella relazione con lui.
Conclusa la sessione legata al caso l’osservatore restituisce alcune considerazioni preziose. In primo
luogo descrive molto chiaramente come il gruppo
reagisca alla presentazione del caso con la messa in
campo di considerazioni molto concrete e di risposte
tendenti alla fuga; infatti nessuno ha abbastanza spazio per aiutare il collega nella presa in carico. L’osservatore ipotizza che la fatica dello stesso Lucio, di
elaborare pensieri più che agiti, influenzi il gruppo
facendolo rimanere su un piano di estrema concretezza. C’è un accoglimento del sentimento della paura di chi ha presentato il caso ma il gruppo è come
bloccato. Lentamente però si apre una parte del lavoro dove passano alcune immagini che disassano il
punto di vista del gruppo. Il gruppo produce infatti
la potente immagine di Lucio come un bambino affamato di attenzioni. Successivamente si attiva un
movimento empatico nei confronti di Lucio; il gruppo riesce a dire che la paura è quello che ci mette
dentro Lucio con il suo bisogno ma in realtà lui sente inconsapevolmente tutta la sua solitudine. Rispetto all’empatia che il gruppo muove nei confronti di
Lucio è prezioso anche il passaggio che amplia la
prospettiva su Lucio che passa dall’essere considerato aggressore di Giada perché “cattivo” all’essere ritenuto aggressore perché “abbandonato” dalla stessa
Giada. Sempre secondo l’osservatore, in tutti questi
passaggi si evidenziano sempre più chiaramente tutti
i giochi proiettivi e tutte le concatenazioni transgenerazionali in azione nel caso. Questo progressivo
svelamento attiva a sua volta le funzioni riflessive del
gruppo e dell’operatore che segue il caso, consentendo la costruzione di un’ipotesi di intervento più
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Il sostegno alla genitorialità fragile
strutturata e meno casuale. Dalla confusione e dal
blocco mostrati all’inizio del lavoro di gruppo si passa ad avere un obiettivo chiaro: trattare in primo luogo Lucio e il suo essere padre e contemporaneamente offrire a Sofia la possibilità, almeno in potenza, di
rapportarsi con una figura che possa quantomeno assomigliare a quella di un padre.
Il confronto con i colleghi durante l’incontro di
équipe ha davvero rappresentato per me un punto di
svolta nella possibilità di costruire insieme a Lucio
una relazione di cura molto più efficace. Non mi sono potuto occupare di lui da un punto di vista prettamente terapeutico ma ho tentato di ritagliare, nel
disastro della sua vita, un’area il più possibile libera
dal conflitto e far crescere le sue possibilità di mettersi in gioco come padre in modo diverso dal passato, più vero e meno megalomanico. Il mio obiettivo
era quello di portare Lucio a sperimentare, insieme a
sua figlia, una relazione senza il bisogno di tenere in
scacco l’altro, con la sua aggressività, per paura di
perderlo.
Lucio ha seguito, anche se all’inizio a fatica, le regole che ho impostato per le sue telefonate. Abbastanza rapidamente non ha più avuto bisogno di mostrare la sua parte aggressiva, anche se il suo livello di
introspezione è sempre rimasto molto scarso. Il gruppo di lavoro del Servizio ha aiutato me a riposizionarmi nella relazione con l’utente, contenendo i vissuti controtransferali che mi avevano invaso prendendo il sopravvento. Solo in questo modo ho potuto stare nella relazione con Lucio e contenere gli
aspetti arcaici da lui messi in campo, rispondendo ad
essi in modo più efficace. La rêverie del gruppo ha
permesso che emergesse anche la mia rêverie nei
confronti di Lucio.
Il lavoro del gruppo durante l’incontro di équipe
è stato prezioso non solo perché ha contenuto i miei
vissuti ma anche perché ha creato nuove ipotesi di la-
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Figure attuali della genitorialità
Cosimo Sgobba
voro attraverso immagini evocative e attraverso la costruzione di uno spazio di riflessione, che ha potuto
favorire l’emersione di un pensiero riflessivo lucido e
consapevole. Queste possibilità, attivate nello spazio
transizionale costellato tra gli operatori del gruppo
di lavoro, hanno favorito anche la nascita di uno spazio transizionale tra me e Lucio. In altre parole posso anche dire che il “terzo analitico”, attivato nel
gruppo e reso visibile dalla restituzione dell’osservatore, ha generato la consapevolezza del “terzo analitico”, in gioco nella relazione tra me e Lucio.
Per concludere il racconto legato a questa famiglia, aggiungo solo alcuni brevi passaggi. Ad esempio,
riferisco il fatto che, dopo circa 18 mesi dall’ingresso,
Giada e Sofia escono dalla Comunità e iniziano una
nuova vita. Giada comincia a lavorare, Sofia viene inserita al nido e vivono insieme in una casa messa a
disposizione dal Comune. Il rapporto tra Giada e Sofia viene monitorato costantemente e si può definire
sufficientemente adeguato e non pregiudizievole per
la minore. Anche se Giada e Lucio non sono più stati insieme, lui riesce a riconoscere legalmente Sofia,
a costo del completo allontanamento da lui della sua
famiglia di origine e della madre.
Il Servizio continua a seguire la situazione offrendo uno spazio di monitoraggio psicologico per la
bambina e sociale per la madre. Giada prosegue nel
suo percorso terapeutico, che la rende sempre più serena e la aiuta a rileggere quanto è accaduto a lei e a
sua figlia. Lucio purtroppo non si è ripreso dalla sua
condizione di disagio fisico ma continua a tenere i
contatti con me e con il Servizio. Si riesce, ad un certo punto, anche a strutturare alcune visite tra la bambina e il padre, lavorando proficuamente sia con Sofia che con Lucio. Gli incontri avvengono a casa di
Lucio con la facilitazione di un’educatrice professionale. Lucio mantiene sempre un atteggiamento ineccepibile durante le visite con Sofia e ha sempre l’accortezza di avvisarci per tempo se non si sente, per
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Il sostegno alla genitorialità fragile
qualche ragione, di affrontare l’incontro.
Sofia e il padre continuano a vedersi per circa un
anno e mezzo con questo modalità protetta. Dal lavoro psicologico con Sofia si evince che ella cresce interiorizzando una figura paterna affettiva anche se
fortemente limitata nelle possibilità. La bambina vive
momenti affettivamente significativi di rapporto con
il padre che favoriscono in lei la sedimentazione di
vissuti e di ricordi positivi, legati alla figura paterna.
Lucio, nell’incontro con la figlia, può finalmente
esprimere una sua parte genuina, assai poco visibile
prima della nascita di Sofia. Egli riesce, pur con tutti
i suoi limiti, a dare qualcosa come padre e il risultato, seppur piccolo e limitato, non è affatto trascurabile. Del resto, in particolare in questo caso, l’obiettivo del mio intervento e del lavoro del Servizio non è
mai stato il raggiungimento di un livello di adeguatezza genitoriale particolarmente elevato ma é stato
quello di portare Lucio all’esercizio di una genitorialità possibile, a partire dalle reali condizioni di tutti
gli attori di questa vicenda. L’obiettivo prioritario è
stato quello di offrire a Sofia la possibilità di confrontarsi con un padre, anche se molto limitato. Essendo Lucio riuscito a contenere gli aspetti aggressivi delle sue modalità relazionali, ha consentito alla figlia di sperimentare una presenza paterna non lesiva
che, anche se breve e circoscritta, è stata pur sempre
meglio di una incomprensibile assenza.
Giada, dopo circa un anno dall’uscita dalla Comunità, conosce un uomo della sua età, molto diverso da Lucio, ed intraprende una relazione con lui.
Purtroppo le condizioni fisiche di Lucio si aggravano ulteriormente, a causa di una improvvisa neoplasia maligna che lo colpisce in un fisico già fortemente debilitato. Una volta saputo del tumore Lucio
si preoccupa subito di capire da me se il nuovo compagno di Giada possa essere un suo valido sostituto
come padre. Vuole molte rassicurazioni in merito
che io naturalmente gli do, anche perché le valuta-
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Cosimo Sgobba
zioni del Servizio in tal senso risultano tutte positive.
Una mattina entrando in servizio ascolto la segreteria telefonica, un po’ come avevo fatto anni prima
e come faccio spesso. Il nastro mi fa ascoltare di nuovo la voce di Lucio. Quest’ultimo mi ha lasciato un
messaggio con un tono molto affaticato. Mi dice solo
poche significative parole, che mi lasciano anche
questa volta un’emozione intensissima ma diversa da
quella dei suoi primissimi messaggi. Provo una commozione profonda nel sentire una semplice frase,
che è però intrisa di tutta la portata emotiva della relazione costruita, seppur attraverso un rapporto prevalentemente telefonico, tra me e Lucio. Quest’ultimo, quasi a voler lasciare un ricordo questa volta positivo di sé, quasi a volermi confermare che gli sforzi
di tutti non sono stati vani e che per la prima volta lui
non si è sentito abbandonato mi dice solo: “grazie
per aver creduto in me!”.
Riprovo a chiamarlo perché mi sembra un messaggio quasi di commiato ma non riesco mai a trovare il suo cellulare acceso. Una settimana dopo Giada
ci comunica che Lucio nella notte se ne è andato per
sempre. Sono profondamente commosso dalla notizia e mi lascio consolare da due distinti pensieri. Il
primo è dedicato a Sofia e alla certezza che ella avrà
per sempre dentro di sé quelle prime immagini di un
padre così affettuosamente fragile. Il secondo invece
riguarda Lucio: lo immagino mentre affronta il definitivo passaggio, accompagnato dall’idea di essere
stato importante, almeno un po’, per la sua bambina.
163
Il sostegno alla genitorialità fragile
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Figure attuali della genitorialità
165
Figure attuali della genitorialità
Francesca Avon: psicologa, psicoterapeuta, analista del Cipa con funzioni di training.
Elisabetta Baldisserotto: psicologa, psicoterapeuta, analista del Cipa con funzioni di training.
Giorgio Cavallari: psichiatra, psicoterapeuta, analista del Cipa con funzioni di Training, docente della
Scuola di Specializzazione del Cipa.
Francesca Cerutti: psicologa, specializzanda in psicoterapia.
Patrizia Conti: psicologa, psicoterapeuta, analista
del Cipa con funzioni di training.
Sarah Francavilla: psicologa, psicoterapeuta dell’età evolutiva, docente universitaria.
Anna Poli: psicologa, specializzanda in psicoterapia dell’età eolutiva.
Cecilia Ragaini: neuropsichiatra infantile, psicoterapeuta, analista Agap, docente universitaria.
Cosimo Sgobba: psicologo, psicoterapeuta, analista del Cipa.
Claudio Tacchini: neuropsichiatra infantile, psicoterapeuta, analista del Cipa con funzioni di supervisione, docente della Scuola di Specializzazione del
Cipa e del Corso di Formazione per Psicologi Analisti dell’Età Evolutiva.
Paola Terrile: psicologa, psicoterapeuta, analista
del Cipa con funzioni di training.
Autori
Norme per gli autori
Gli articoli, corredati di note e bibliografia, vanno inviati alla redazione su carta e su dischetto (floppy disk),
preferibilmente PC compatibile, applicando le seguenti regole:
– programma di scrittura Word, carattere suggerito: Times New Roman;
– testo in corpo 11, allineato a sinistra, senza sillabazione;
– non usare alcun automatismo per le note; numerare le note nel testo in apicale e, qualora ci sia, dopo il segno
di punteggiatura, come nell’esempio;1
– le citazioni vanno poste tra “virgolette”; (il segno di punteggiatura, qualora ci sia, dopo le virgolette di chiusura);
le parti mancanti di una citazione devono essere segnalate da tre puntini posti tra parentesi tonde, come nell’esempio: (...); un eventuale intervento estraneo alla citazione da parte dell’estensore dell’articolo deve essere posto
tra parentesi quadre [intervento dell’autore]; il testo della citazione va esattamente riprodotto come è stato scritto (tondo normale o corsivo) dall’autore citato, a meno che non gli si voglia dare una particolare enfasi; in questo
caso la non fedeltà al testo originale va segnalata tra parentesi quadre, come ad esempio: [corsivo dell’autore];
– le note vanno poste a fine articolo: a) i numeri delle note sono di grandezza normale, seguiti da un punto e da
uno spazio bianco, come nell’esempio: 1. b) Nome e Cognome dell’autore vanno scritti in M/m (Maiuscolo/minuscolo); c) i titoli dei libri, dei film, e i nomi di giornali e riviste vanno scritti in corsivo; d) il titolo di un articolo
all’interno di una rivista, o il titolo del capitolo scritto da un autore all’interno di un libro di autori vari vanno scritti in carattere normale tra “virgolette”; e) in una nota che cita lo stesso volume della nota immediatamente precedente deve scriversi ibidem in corsivo; in una nota che cita lo stesso volume di una nota non immediatamente
precedente deve scriversi op. cit. in corsivo; f) , a cura di, è scritto tra due virgole e non tra parentesi; g) un numero di pagina p.; più numeri di pagine pp.; h) volume vol.; più volumi voll. i) nota n.; più note nn.
Esempi:
1. C. G. Jung (1926), “Spirito e vita”, Opere, vol. 8, Bollati Boringhieri, Torino 1976, p. 353.
2. J. Laplanche, J. B. Pontalis (1967), Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 536-538.
3. Ibidem, p. 302.
4. D. Rosenfeld (1992), “Psychic changes in the paternal image”, Int. J. Psychoanal., 73: 757-771.
5. P. Fonagy (1995), “Comprendere il paziente violento: uso del corpo e ruolo del padre”, in P. Fonagy, M. Target
(2001), a cura di, Attaccamento e funzione riflessiva, Cortina, Milano p. 265.
6. Franco Livorsi, Il mito della nuova terra. Cultura, idee e problemi dell’ambientalismo, Giuffrè Editore, Milano
2000, pp. 54-60.
7. H. Blumenberg (1981), Le realtà in cui viviamo, Feltrinelli, Milano 1987, p. 85.
8. Ibidem.
9. Livorsi, op. cit., p. 83.
– nella bibliografia gli autori vanno posti in ordine alfabetico: a) prima il Cognome in M/m (Maiuscolo/minuscolo) e poi l’iniziale maiuscola puntata del Nome; b) per il resto valgono le stesse regole delle note.
Esempi:
Balint M., L’amore primario, Raffaello Cortina, Milano 1981.
Bolen S., Le dee dentro la donna, Astrolabio, Roma 1991.
Borgna E., I conflitti del conoscere, Feltrinelli, Milano 1989.
—., L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, Milano 2001.
Cacciari M., L’angelo necessario, Adelphi, Milano 1992.
Galimberti U., Gli equivoci dell’anima, Feltrinelli, Milano 1987.
Hillman J., Revisione della psicologia, Adelphi, Milano 1983.
—., Anima, Adelphi, Milano 1989.
—., “Dioniso nelle opere di Jung”, in Pezzella M., a cura di, Lo spirito e l’ombra, Moretti & Vitali, Bergamo 1996.
Kerényi K., Dioniso, Adelphi, Milano 1992.
Jung C. G., Realtà dell’anima, Bollati Boringhieri, Torino 1983.
Schwartz-Salant N., Narcisismo e trasformazione del carattere, La biblioteca di Vivarium, Milano 1996.
Finito di stampare nel gennaio 2013
da Àncora Arti Grafiche, Milano - Italia
per conto di La biblioteca di Vivarium
via Caprera 4, Milano