AR 314 p 126-127

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AR 314 p 126-127
MUSICA IN VINILE
The Temptations
In attività da quasi mezzo secolo, i Temptations ogni tanto pubblicano
ancora un album (l’ultimo pochi mesi fa) e con riscontri commerciali immancabilmente buoni. Vale poco notare che è rimasto uno solo dei fondatori, Otis Williams. Non è come se gli Stones continuassero senza
Jagger e Richards, dacché in tanti hanno girato nei Temptations e gente
entrata tardi nella storia del complesso ha avuto in essa buon peso. E se
vi state chiedendo se la presa di possesso del gruppo da parte di
Williams abbia provocato critiche da parte di altri componenti la formazione classica, quella degli anni Sessanta, la risposta è: no, visto che non
è rimasto nessuno che possa lamentarsi. Alcolizzato, Paul Williams si
suicidò il 17 agosto 1973. David Ruffin se n’è andato per una overdose il
1° giugno 1991. Eddie Kendricks se l’è portato via il cancro, il 5 ottobre
1992. Un infarto ha stroncato Melvin Franklin il 23 febbraio 1995. È dunque una vicenda sì gloriosa, quella dei Temptations, ma tragica come
poche (nel conto va messo il suicidio nel 1967 del paroliere Roger
Penzabene), greve di dolore, lorda di sangue. Lontanissimi i prodromi.
Tardi anni Cinquanta. Un’epoca in cui il gospel può ancora andare in
classifica e il doo wop ci va, benché sia prossimo a essere relegato nei
musei dei nostalgici dell’innocenza.
Si chiamano Distants, sono un quintetto e a Detroit una leggenda, benché i più anziani siano appena maggiorenni, di voci sguscianti e pregne di swing. Fra i pochi in grado di dare loro battaglia ci sono i più
grezzi Primes. Ma l’unione fa la forza, giusto? I più bravi, Melvin
Franklin (David English), Otis Williams (Miles all’anagrafe) e Elbridge
“Al” Bryant, si sfilano dai Distants e lo stesso fanno Eddie Kendricks e
Paul Williams dai Primes. Si esibiscono come Elgins per il tempo che
ci va (poco) perché la Motown li ingaggi, nel 1961. Si ribattezzano
Temptations. Per tre anni nulla si muove, insinuando in Berry Gordy il
dubbio di avere mal valutato il loro potenziale. Ci crede meno di tutti
Bryant, che se ne va ed è allora che irrompe al proscenio David Ruffin.
Nel gennaio 1964, dopo sette fallimenti consecutivi, è una canzone di
Smokey Robinson a lanciare infine in orbita i ragazzi. Si intitola “The
Way You Do The Things You Do” e per conoscerla - dondolante apoteosi che dimostra quanto possa essere ludico il blues - di soul basta
saperne un minimo. Così “My Girl”: perfetti gli archi che vanno a intersecare voci e ottoni, un chiodo che si infigge nella memoria il basso
e una gioia di vivere che attanaglia. Numero uno sia R&B che pop.
Siamo a inizio 1965 e per un lustro nulla potrà fermare i Temptations.
L’anno è tutto di Robinson che, non pago di mietere successi con i Miracles, scolpisce per i nostri eroi pietre miliari come “It’s Growing”, “Since I Lost My Baby”, “Don’t Look Back”, “Get Ready”. Proprio il relativo insuccesso di quest’ultima, oltre agli impegni che si vanno facendo troppo fitti per uno che è anche il vice-presidente della casa discografica,
dà una possibilità a un autore e produttore emergente, Norman Whitfield. Non la spreca. I ragazzi registrano la sua
“Ain’t Too Proud To Beg” e via, di nuovo verso la gloria. Whitfield ne sarà per otto anni (avrete inteso che stiamo parlando di interpreti sublimi di brani cuciti su misura per loro da altri) il deus ex machina. Il 1966 è segnato dall’ecumenica “Beauty It’s Only Skin Deep” e dalla tirata “(I Know) I’m Losing You”. Il 1967 da “All I Need”, “You’re My
Everything”, “I Wish It Would Rain”, oltre che da tre LP, di cui uno dal vivo, che portano a sette il totale dal 1964 (nessuno capitale; fino a questo punto i Nostri erano, e tolti due o tre anni torneranno presto a esserlo, formazione che dà il
meglio di sé sul breve). Contraddittorio l’inizio dell’anno dopo. Mentre un album, brutto e convenzionale, di standard
di Broadway segue i predecessori al numero uno della graduatoria rhythm’n’blues l’onda lunga della Summer Of Love
lambisce quintetto e produttore. Impazzano Sly & The Family Stone e i Parliament hanno appena saltato il fossato fra
doo wop e psichedelia. Otis Williams ne è impressionato. Whitfield no, ma ci ripensa e da quel genio che è assorbe
quanto basta dalla nuova scena per elaborare un brano, “Cloud Nine”, che ne diverrà un simbolo: rigoglìo di chitarre
distorte, percussioni travolgenti, voci alate (i cori) o imperiose (la solista). Esce nell’ottobre 1968 e fa scalpore e così
l’omonimo 33 giri che segue nel febbraio 1969. Zenith cui andranno dietro tanti nadir.
Ruffin avrebbe voluto essere leader, non ha gradito la svolta, se n’è andato. Il cambio con Dennis Edwards sarebbe indolore, non fosse che Edwards stesso preferisce il vecchio stile. Marpionescamente i ragazzi si tengono aperte varie opzioni. Soul slavato in una serie di LP (quattro) a mezzo con le Supremes. Aspetto e suono più adeguati ai tempi e ai gusti
giovanili, oltre che in “Cloud Nine”, in “Puzzle People”. Schizofrenia? Se la cavano benissimo su entrambi i fronti.
“Psychedelic Shack” è nel 1970 il loro capolavoro, a partire dal brano omonimo, funkadelia che scorre sui binari di un
groove mozzafiato. Come affermerà il titolo di un album del 1971, “The Sky’s The Limit”. Si prosegue, dirà quello di un
disco dell’anno dopo, in “All Directions”. Invincibilmente. Finché Kendricks non lascia per giocarsi pure lui la carta solistica. Finché Paul Williams non porta al capolinea la sua vita. Fino al divorzio da Whitfield. La qualità cala, il coinvolgimento nella disco è poco positivo, una momentanea separazione dalla Motown controproducente, altri pezzi (Dennis
Edwards) vengono persi. A fine Settanta i Temptations sembrerebbero finiti. E invece…
I due 33 giri che incorniciarono l’era “psichedelica” del gruppo, “Cloud Nine” e “All Directions”, sono disponibili in
stampe Speakers Corner (distribuzione Sound & Music) impeccabili come da tradizione della casa. Sono dischi un po’
ineguali ma che merita avere, soprattutto in forza di alcune gemme di rado antologizzate: sul primo una “Don’t Let Him
Take Your Love From Me” degna dei migliori Staple Singers e una “Gonna Keep On Tryin’ Till I Win Your Love” più da
Stax che da Motown; sull’ultimo una “Run Charlie Run” fra Isaac Hayes e Curtis Mayfield.
Eddy Cilìa
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AUDIOREVIEW n. 314 settembre 2010
Classica
GUSTAV HOLST The Planets (HI-Q/Sound & Music)
I “Pianeti” di Holst continuano a rappresentare una delle pagine più celebri del Novecento, oltre a confermarsi l’opera di gran lunga più conosciuta del compositore inglese.
Con piacere accogliamo nella nostra più selezionata discografia in vinile la ristampa di
questa storica lettura di Previn con la London Symphony Orchestra, registrazione di alto
profilo derivata da un eccellente master della EMI. A suo tempo era disponibile in quadrifonia, tanto che qualche anno fa ne fu realizzata anche una interessante edizione in
DVD-Audio multicanale da parte della stessa EMI. Si trattava infatti di una delle belle incisioni effettuate (questa è del settembre 1973) nella mitica Kingsway Hall di Londra con
l’équipe tecnica di Christopher Bishop e Christopher Palmer.
Questa lettura di Previn è considerata una delle più attendibili. Il direttore tedesco ne realizzò una molto dinamica successivamente con la Los Angeles Philharmonic per la Telarc, a
proposito della quale si ricorda la recente pubblicazione di una brillante ed energica esecuzione a firma di Paavo Järvi, protagonista in Audiophile Recording qualche mese fa e il mese
scorso recensita nella sezione musicale. In quella occasione abbiamo detto del linguaggio
musicale dei “Pianeti”, contemporanei della rivoluzionaria “Sagra della Primavera” e tuttavia legati alla grande tradizione sinfonica del tardo Ottocento. Come ben ha scritto il nostro
Gonnelli a proposito dei “Pianeti” diretti da Järvi, il “gusto” sonoro di questa suite sinfonica
(Marte soprattutto) è stato saccheggiato in modo più o meno esplicito da generazioni di autori di musica da film. Il più
celebre è proprio John Williams che apertamente dichiara di essersi ispirato a “The Planets” nello score di “Star Wars”.
Più che musica a programma, è opportuno considerare “The Planets” come una sorta di atipica sinfonia in sette movimenti (nel 1914 Plutone non era ancora stato scoperto), che alterna episodi decisamente brillanti ed esteriori a pagine dai
toni delicati e intimistici. Previn e la formazione londinese non si tirano indietro nelle parti più spettacolari. Ben nota l’introduzione sul timbro cupo delle tube di “Marte” (“Bringer Of War”), su un ritmo ostinato che caratterizza questo spettacolare brano. È un crescendo che nell’apice impiega una nutrita sezione fiati, un balenio di ottoni sorretto dalle percussioni e dallo scrosciare fragoroso del tam-tam (gong), ottimo per evocare atmosfere fantascientifiche. Spettacolare l’attacco di “Urano”, con la breve frase sugli ottoni subito punteggiata da una salva sui timpani, resa in modo incisivo e attendibile in questa registrazione. Notiamo la cura anche nelle parti più intime e delicate, come in Venere (“The Bringer Of
Peace”), la cui cantabilità è posta in buona evidenza dal fraseggio morbido e levigato degli archi inglesi.
André Previn (nativo di Berlino ma di origini ebreo-russe come tanti musicisti) è stato per un decennio a capo della
London Symphony Orchestra. Interprete poliedrico ed entusiasta (autore peraltro di molte colonne sonore di successo
e musical, oltre che importante jazzista) ha firmato una vasta discografia. Negli anni Ottanta e Novanta lo abbiamo incontrato più volte in casa Telarc; tra le molte incisioni per l’etichetta di Cleveland dobbiamo almeno citare quelle dedicate ai poemi sinfonici di Strauss con la Filarmonica di Vienna, oggi disponibili addirittura a medio prezzo. Ottima
prova per la label HI-Q, che sta scegliendo bene all’interno di un ricco catalogo. Stampa trasparente e silenziosa.
Marco Cicogna
Jazz
ORNETTE COLEMAN Something Else!!!!, Tomorrow Is The Question! (Doxy/Goodfellas)
Cacciato nel 1949 dal primo impiego stabile da musicista professionista, al seguito di un lunapark, per avere insegnato al
sassofonista che faceva coppia con lui a suonare un brano di jazz e oltretutto, il che rendeva ancora più grave il delitto, in
stile bebop. Ingaggiato nel ’50 da un grande del blues in procinto di diventare rhythm’n’blues quale Pee Wee Crayton
ma, dopo poche date, pagato da costui per non suonare più e sì, avete letto bene. Anche così, a forza di aneddoti, nelle
note di copertina originali di quello che fu nel 1958 l’album d’esordio di Ornette Coleman il buon Nat Hentoff (uno dei
critici meglio informati e più acuti che mai abbiano discettato di jazz) spiegava come mai l’artista di Forth Worth arrivasse a debuttare solo ventottenne quando i primi ingaggi li aveva rimediati a sedici anni. Colpa per così dire di un’originalità talmente spiccata da rendergli a lungo difficile trovare musicisti in grado, se non di capirlo, perlomeno di assecondarlo. Sul serio al tempo la musica dell’alto sassofonista texano era, come annunciava orgogliosamente il titolo del suo primo
LP, qualcosa di diverso, e speciale, e dietro quattro punti esclamativi pienamente giustificati. Se oggi “Something Else!!!!”
ci pare assolutamente godibile, e stentiamo magari a cogliere la carica rivoluzionaria di composizioni già liberate da quelle che erano le convenzioni armoniche e melodiche dell’epoca, è per due ragioni: una è che, in misura rilevante grazie allo
stesso Ornette, certi paletti verranno poi spostati ben più avanti e in mezzo secolo ci si è fatto l’orecchio; l’altra è che nei
nove splendidi brani (tutti del titolare) che vi sfilano la ritmica - Don Payne al contrabbasso, Billy Higgins alla batteria swinga che è un piacere e senza distaccarsi troppo dalla tradizione. Idem il piano di Walter Norris e quasi sfugge, allora,
come il sax e la tromba di un giovanissimo (ventun anni quando queste sedute venivano
eternate) Don Cherry svarino prendendosi libertà inaudite, dentro ma in prevalenza fuori
dalle sequenze di accordi della melodia di base, sull’orlo e spesso oltre della dissonanza.
Lo si noterà tanto di più, da lì a pochi mesi, nel successivo - secondo e ultimo 33 giri per
Contemporary - “Tomorrow Is The Question!”, laddove senza un pianoforte a legarla la
musica di Coleman si fa mercuriale e se tanti gridarono al genio erano molti di più a parlare di un bluff, o tout court di un ciarlatano che se suonava così era per incapacità, figurarsi
un po’. Lode allora a quella lenza di John Lewis che in contemporanea con gli eventi annotava: “Ritengo che la musica di Ornette sia uno sviluppo di quella di Charlie Parker senza
che di Parker riprenda le scale o lo stile. È un qualcosa di assai più profondo e spero che sia
lui che Don Cherry abbiano una vita artistica lunga e fruttuosa”. Ce l’avranno. Già l’anno
dopo (1960) il pazzesco “Free Jazz” dichiarerà sin dal programmatico titolo - a proposito di
consapevolezza e di programmi: “The Shape Of Jazz To Come” si chiamava uno dei tre LP
messi in mezzo nel fecondissimo periodo di permanenza chez Atlantic - che una rivoluzione era definitivamente divampata.
Con queste due ristampe la Doxy ha fatto un lavoro davvero eccellente, dando alla musica
un calore, una nitidezza, un respiro che le fanno preferire ai corrispondenti CD, pure esenti
da qualsiasi apprezzabile difetto. Vinile silenzioso quanto si può pretendere. Vi costeranno
qualcosa di più ma non molto, una ventina di euro invece di quattordici.
Eddy Cilìa
AUDIOREVIEW n. 314 settembre 2010
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