1 A002599 Da LA STAMPA del 30/1/2013, <<PADRI SEPARATI: LA

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1 A002599 Da LA STAMPA del 30/1/2013, <<PADRI SEPARATI: LA
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FONDAZIONE INSIEME onlus.
Da LA STAMPA del 30/1/2013, <<PADRI SEPARATI: LA GUERRA DEGLI
AFFETTI>> di Carlo Grandi, giornalista.
Per la lettura completa del pezzo si rinvia al quotidiano citato.
Un breve racconto, della raccolta "Padri".
Molto attuale, mi sembra.
Non solo perché è ambientato
durante il Carnevale ...
Dedicato a tutti i padri separati, a tutte le persone
separate, distanti.
E anche a chi vive in montagna e la ama.
E soprattutto ai figli, ai bambini: che il loro angelo muova
una piuma, ogni tanto.
--------------------OOOO----------------------------GLI ANGELI DELL’ALEVÉ.
Matteo respirò l’essenza di muschio che saliva dal corpo di
Beatrice.
Da quanto tempo la moglie non veniva così vicina?
Non era più sua moglie, doveva ricordarlo.
Non viveva più con
lui.
Ogni volta che la vedeva doveva fare uno sforzo terribile.
Chiuse gli occhi, il profumo lo sollevò da terra e lo
sospinse due anni più indietro, quando Beatrice dormiva nel suo
letto e loro figlio nell’altra stanza, piena di giocattoli.
Ora il piccolo Luca era davanti a lui, anima, corpo e scarpe
da ginnastica fluorescenti.
Un bel bambino, era cresciuto.
“Due anni che non lo vedo” –ripeteva Matteo, “due anni”.
Finché la frase non volle dire più niente e nel suo cervello
rimase a galleggiare solo il profumo della madre che rassettava il
figlio.
Beatrice si chinò, baciò Luca e gli diede un colpetto sulla
schiena, spingendolo verso il padre.
Era bellissima, laccata,
senza l’anima.
Matteo l’aveva persa da un pezzo.
Beatrice aveva cominciato
con piccoli sospiri, sfogliando la pubblicità delle riviste
femminili.
Guardava le modelle, bellezze anoressiche dagli occhi
vuoti, cerchiati.
A cena gli chiedeva quando sarebbero scesi in
città per il tal vestito, il tal film, la tal festa.
C’erano
sempre una svendita, un nuovo corso per il bambino.
- Luca ha solo cinque anni -rispondeva Matteo- per imparare a
nuotare c’è tempo.
- Deve crescere bene, deve irrobustirsi –ribatteva lei.
-Può venire a camminare nel bosco con me.
Matteo faceva il
muratore, vivevano in montagna.
-Qui c’è la neve fino a giugno– si lamentava la donna.
“Ho
sempre freddo”, diceva.
“Siamo isolati da tutti”.
“Mi sento
sola”.
Matteo non capiva: “Lo sapeva prima di sposarsi” –pensava–
“che quassù d’inverno viene un metro di neve.
E’ nata nella
frazione di sotto, mica in Costa Azzurra”.
Non riusciva proprio a entrarci, nei labirinti del suo cuore.
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“I miei sentimenti sono cambiati”, aveva detto lei un giorno.
E se n’era andata, lasciandolo solo con la montagne, sempre più
immobili e scure.
Ora Matteo volteggiava in una realtà fredda e ostile, come un
astronauta perso nello spazio.
Nella navicella erano rimasti
Luca e la madre.
Lui, poverocristo falegname, fuori a cercar di
rientrare.
Tramortito, deragliato.
Beatrice mi ha lasciato, Biatrìs ha lasciato il paese, è
andata in pianura e s’è portata via il bambino. Biatrìs, che
mazzata.
Forse ha un altro.
Due anni ci aveva messo a ritrovare la strada.
Aveva
cambiato padrone e valle, tornava a casa solo per vedere i
genitori.
Aveva trovato Claudia, occhi neri e spavaldi, cuore e
gambe forti da postina di 25 anni.
Al bambino non voleva rinunciare.
Dell’ultima conversazione
con il figlio ricordava la voce dimessa e il “click” del telefono:
la moglie interrompeva la comunicazione.
Il ritornello era il solito: “Prima i soldi, poi tuo figlio”.
Di soldi Matteo ne aveva pochi, non abbastanza. Nemmeno
l’avvocato poteva permettersi; per la notifica di separazione gli
aveva chiesto 2 mila euro.
Non voleva fare storie, litigare, finire a male parole.
Non
voleva che l’astio e il risentimento facessero breccia e li
portassero a un punto di non ritorno.
Aveva sbagliato, si era arreso.
Era andato a lavorare
all’estero, per più di un anno.
Troppa rabbia, troppa amarezza.
Due anni di vita persi, pensava.
Poi era tornato: “No, non ho perso tutto”, si era detto.
Il rimpianto era stato troppo forte. “Un giorno” –aveva
pensato– “quando mio figlio sarà cresciuto, quando sarà troppo
tardi per tutto, forse mi rinfaccerà.
Dirà che in quei giorni
esisteva anche lui, che era lì ad aspettarmi”.
I figli hanno
diritto ad avere dei genitori, pensava, più ancora che i genitori
ad avere dei figli. Forse Beatrice era sola a crescere il bambino.
***
Beatrice guardò Matteo negli occhi e gli disse a che ora
riportare Luca.
Occhi scuri, nei quali Matteo riusciva sempre a perdersi,
come in una foresta.
Luca era diventato più alto, un ometto.
Matteo non sapeva mica com’è un bambino a sette anni.
Certo
aveva cominciato ad andare a scuola, a far vita regolare in città.
Zainetto, vestiti firmati e tutto il resto.
Aveva orari,
cartelle, ordini cui obbedire senza fare capricci.
Chissà se
ricordava le passeggiate sul torrente, le gite nel bosco
dell’Alevé.
Se continuava ad adorare le uova.
Ricordò le fatiche per metterlo a dormire, le canzoni per
addormentarlo.
-Versa l’acqua, bevi il vino/ tre asinelle col bambino/ tre
che batton la cagliata/ Sant’Antonio, San Bernardo/ stanno in
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fondo alla borgata ... Nuova vita, nuovi amichetti.
Videogiochi,
merendine e nuovi amici di mamma.
Per quella domenica, la prima con il figlio dopo tanto tempo,
Matteo aveva lavato con cura la macchina, acquistata da poco.
All’età di Luca –si era detto- si comincia a far caso a
queste cose, tutti i maschietti guardano le macchine luccicanti.
***
Il bambino non sembrava contento di vederlo.
Neanche un
bacio, gli aveva dato.
Continuava ad ascoltare musica con le
cuffie dell’Mp3, ogni tanto guardava l’orologio e non diceva una
parola.
Matteo scrutava il figlio e accelerava sul rettifilo,
risalendo la valle, con la fretta di vederlo sorridere.
Eccomi qua, pensava, un padre a ore.
Un futuro di feste
comandate, inizio e fine del week-end, inizio e fine dei "quindici
15 giorni di vacanza".
Eccomi qua, a timbrare il cartellino
degli affetti.
-Un quarto d’ora e siamo a Sampeyre– disse -.
Andiamo a
prendere il tè con le paste.
-Mamma non vuole che faccio tardi.
-Ma se siamo appena partiti, abbiamo tutto il pomeriggio …
C’erano dei tacchini in un’aia, Luca tolse le cuffie.
-La canzoncina di mamma che chiama i tacchini, te la ricordi?
-No, non la ricordo.
-Pin-pin-pin-pin ... -bisbigliò Matteo.
E poi?
Come fa?
-Uffa...
Luca girò la faccia verso il finestrino.
Matteo tamburellò sul volante e guardò l’iPOD del figlio.
Un modello costoso.
Immaginò il bambino nella sua cameretta in città, lo vide per
strada, lo pensò a scuola.
Muto, fragile, senza un padre da
esibire agli amici.
“Mi detesta”, pensò.
“Forse me l’ha messo contro”.
-Prendiamo il tè poi facciamo la passeggiata sul torrente,
come quando eri piccolo- disse con un accento disfatto nella voce.
L’Alevé, te lo ricordi il bosco?
- Sì, andavamo io te e la mamma.
Matteo lo rivide a tre anni, salire gattoni sui massi,
abbracciare i cembri, tornare con le mani appiccicate di resina e
il sorriso di Biancaneve nel bosco.
Posteggiarono la macchina, il selciato della piazza era
coperto di coriandoli.
C’era una piccola ressa di fatine e
uomini-ragno.
Un bambino puntò a tradimento lo spadino di gomma contro il
sedere di Matteo, che si voltò di scatto.
Il piccolo era vestito di nero, aveva i baffetti disegnati
col carboncino e la mascherina.
-Ciao!
Chi sei? -chiese.
-Io Matteo, e tu?
-Carmelo Roccia.
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-Ma non sei Zorro?
- Eh ... Magari!
Matteo sorrise.
Lo sguardo di Luca rimase vuoto.
-Dopo la sfilata dei carri prendiamo anche noi il costume di
Zorro.
-No, dopo ascoltiamo le partite.
La mamma mi ha già
comprato la divisa della Juve.
-Della Juve?
Ma come, non eri del Toro?
-Prima.
Da bambino.
Adesso sono della Juve, perché vince
sempre.
Così a scuola la smettono di prendermi in giro.
Anche la squadra, gli aveva fatto cambiare.
-Qualcuno -pensò Matteo- prima o poi dovrà spiegare un po’ di
cose, a questo bambino.
Non la madre.
La rivide giovanissima, sul muretto, che ascoltava la sua
dichiarazione d’amore, nosto modo, come i trovatori: -Janouiét un,
janouiét dui, quouro mai sarén-nous quatre? Ginocchietto uno,
ginocchietto due, quando mai saremo in quattro?
“I vecchi hanno proprio ragione”, pensò Matteo, “per
conoscersi bene marito e moglie devono mangiare insieme 49 chili
di sale”.
“Quarto gol ai danni del Torino” gracchiò una radio. Matteo
avvertì una fitta.
Non andava mica bene, quella domenica lì.
Entrarono in un
bar, Luca bevve un tè alla pesca.
Guardava sempre fuori.
Tornarono alla macchina e salirono alla borgata.
Un vecchio amico, Barba Fasi, uscì dalle case deserte e andò
loro incontro.
Sembrava l’ultimo sopravvissuto di un’epidemia
che aveva svuotato il paese.
Un indigeno, uno di quelli che nei
film si vedono uscire dalla foresta “con fare pacifico”.
Padre e figlio salutarono, proseguirono verso la montagna.
Superato il torrente li raggiunse l’alito fresco e resinoso
del bosco.
L’Alevé era una meravigliosa caramella balsamica, una festa
di pini, di ginepri, sbuffi freddi dell’acqua nei ruscelli che il
sole di febbraio liberava dal gelo.
Luca aveva rimesso le cuffie e saliva in silenzio, lo sguardo
piantato per terra.
Il padre gli lanciava occhiate sempre più cupe.
Le nocciolaie, invisibili fra i rami, li sentirono arrivare e
lanciarono l’allarme.
- Kréekrèee-kréekrèee!
Il bambino si fermò, tolse le cuffie e sollevò la testa.
Intorno avvertì un precipitoso battere di ali, un affanno
gentile di esseri scoperti in fuga.
- Gah-gah-gah-gah-gah-gah.
- Te lo ricordi, lu gai, l’uccello chiacchierone? -chiese il
padre al bambino.
Il ragazzino si era fermato, scrutava un formicaio. Fece tre
passi e si accovacciò in disparte fra gli anemoni, appoggiandosi a
un tronco.
Il padre sedette accanto a lui.
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-In questa stagione le marmotte dormono nelle tane con il
naso nel sedere, lou nas fichà ei cul –disse Matteo.
-Te la ricordi la storia del cacciatore Martin, te la
ricordi?
Luca lo guardò.
Aveva gli occhi lucidi.
“Un cacciatore, appostato sotto un cembro, vide che uno
splendido camoscio si era fermato davanti a lui.
Era la bestia
più bella che avesse mai visto.
Prese il fucile ma si accorse di
aver finito le cartucce.
Allora raccolse dei pinoli, caricò lo
schioppo e sparò con quelli.
Vide la bestia barcollare, sparire
in un balzo.
Il cacciatore tornò a casa e non ne seppe più
nulla.
L’estate successiva, quando tornò, rivide l’animale: era
più bello e più forte di prima, fra le corna gli era cresciuto un
piccolo cembro, con gli aghi verde smeraldo. Luca lo guardava con
gli occhi spalancati.
Dal profondo del bosco arrivò l’eco di una
morbido mitragliare nel legno:
- TTTTTTtttttttrrrrrRRRRRRttttTTTTTT......
-Picchio rosso– disse il bambino, e fissò il padre con uno
sguardo strano, terribile.
Pareva un piccolo Edipo che ha ritrovato il suo regno.
Prestò orecchio ad un altro richiamo.
- Si-Si-ji ... Si-si-ji ... DUIIIII.
- Cincia, disse.
- Gah-gah-gah!
- Gai.
- Boure o biò?, chiese il padre.
- Gai biò - disse -.
Papà, è la ghiandaia!
E guardò nel folto, in attesa del
meraviglioso lampo azzuro, bianco e nero che mandano le piume
dell’uccello.
- Gai, gai, pito leveto, pei t’envai! Gai, gai, mangia i
pinoli poi te ne vai, disse il bambino.
Matteo sentì il cuore balzargli nel petto. Resistette
all’impulso di abbracciarlo.
La mamma come sta?, chiese.
-Papà, per piacere -disse, Luca e fece segno di stare zitto.
-Tzi-i-okru ....-Tzi-i-okru ....- Tzi-i-okru ....-JAIK! cantò una creatura nascosta.
- Gracchio ...
- Tsrr-tic ... Tsrr-tic ... Tsrr-tic ... RRRRR -Scricciolo!
Videro il folletto color sottobosco saltellare su una macchia
di neve, inchinarsi dieci volte col codino diritto, sgambettando
freneticamente.
***
Mentre scendevano, in silenzio, Matteo contemplava se stesso
in miniatura, che tornava verso la città.
Trovò una piuma di ghiandaia e la offrì a suo figlio.
-Il gai è il papà del bosco -disse-.
Raccoglie i pinoli,
qualcuno lo mangia e qualcuno lo nasconde fra i mirtilli e i
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rododendri.
Poi dimentica la scorta, così loro crescono e
diventano alberi.
-Li dimentica e crescono lo stesso?
-Non è che li dimentica, ritorna per prenderli ma non li
trova più.
Però i semini di cembro fanno il loro dovere,
crescono e fanno vivere il bosco.
Padre e figlio camminavano sul sentiero inondato dal sole, un
bel sole caldo.
Gli ultimi raggi della giornata gli piovevano
sul suo collo, sulle mani, sulla schiena.
Una voce lontanissima chiamò tra i larici, giù, vicino al
torrente.
-Gah-gah-gah-gah-gah-gah ...
A Matteo ricordava la morbida
erre di Beatrice, i suoi sospiri.
Luca si fermò, guardò nel
folto ma non riusciva a vedere nulla.
Si chinò davanti al buco di una marmotta.
- Il muret lou nas fichà ei cul!! , disse.
E rise, puerile e limpido come il blu della genziana.
Tornò dal padre e lo prese per mano.
-Papà?
-Sì.
-Torniamo sull’Alevé anche domenica prossima?
-Ogni volta che vuoi.
-Ogni volta che voglio.
In quell’istante una ghiandaia attraversò il cielo. Il
bambino la vide e sorrise incantato, come se avesse visto un
angelo.
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