Lo stile milanese: Bob Noorda

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Lo stile milanese: Bob Noorda
Lo stile milanese: Bob Noorda
UN INCONTRO CON SORPRESE
MARIO PIAZZA
Eccoci da Bob Noorda, limpido testimone di una stagione – gli anni Cinquanta e Sessanta – che
ha visto molti grafici e fotografi stranieri approdare a
Milano, polo attrattivo di una cultura unica del design.
Una cultura sorgiva, che si stava generando, affiancando alle teorie del disegno industriale di matrice funzionalista, una propensione soggettiva, tipicamente italiana, libera e immaginativa. Quello “stile milanese”, come lo ha definito ad esempio Hollis [nota 1 a pagina 105],
che ha saputo dare un volto alla grande industria italiana. Pur non essendoci scuole, disciplinariamente orientate, Milano, con la Triennale come incubatore e cassa
di risonanza della scena mondiale della ricerca, con il
Compasso d’Oro de la Rinascente, le riviste da “Stile Industria” a “Pagina” era una meta, un luogo di approdo
per possibili incontri e scoperte. È stato così per Max Huber e per tutta la filiera migratoria della scuola elvetica
– funzionale e costruttiva – ed è stato così anche per
l’olandese Bob Noorda.
Noorda: “Sono arrivato nel 1955. Dovevo scegliere se
andare in America o restare in Europa, e Milano con le
esposizioni della Triennale avveva un forte richiamo.
Alla fine ho scelto Milano e da allora lavoro qui. Ricordo che quando arrivai ebbi la fortuna di incontrare un
grafico di origine tedesca/cecoslovacca. Si chiamava Pavel Michael Engelmann [2] e lavorava per la Pirelli. Abitava a Milano in via dei Transiti, a due passi da viale
Monza dove aveva sede la Pirelli. Lavorava per Arrigo
Castellani, il responsabile della comunicazione e aveva
fatto un manifesto, Il pneumatico che morde la strada,
usando dei veri copertoni per lasciare le impronte tipiche del battistrada. Così, tramite Engelmann, che quando partì mi lasciò la casa, il contatto con la Pirelli.
Avevo studiato ad Amsterdam: prima all’Accademia
d’arte e poi all’IvKNO, una scuola che trasmetteva e
continuava la lezione del Bauhaus e di De Stijl [3].
A Milano, sono stato fortunato. Ho iniziato subito una
proficua collaborazione con la Pirelli. Nel 1961 ne sono
diventato anche art director. Castellani era un tipo molto energico, chiedeva una vicinanza assoluta. Dovevi essere facilmente reperibile e disponibile per risolvere i
problemi: fare un manifesto, un opuscolo. Allora la Pirelli faceva molte cose non solo per il mondo automobilistico, produceva anche per la casa, per
l’arredamento. E l’obiettivo non era una pubblicità come si intende oggi, anzi c’era una sorta di contesa ‘culturale’ con l’Olivetti. Pintori faceva una grafica di qua-
1. Copertine e retri
per la collana
Economica Vallecchi:
B. Cicognani, La velia,
1966; A. Soffici, Kobilek,
1966; F. Tozzi, Tre
croci, 1966.
Le copertine sono
composte in Helvetica
Ultra compressed, (Max
Miedinger & Edouard
Hoffmann, 1957)
e in Garamond 3,
(Jean Jannon, 1615,
Linotype, 1922).
1.
Per questa serie Bob
Noorda ha disegnato
anche il monogramma
EV, dove le due iniziali
si fondono in un unico
disegno, racchiuso in
un quadrato che viene
stampato nello stesso
colore dell’autore
e del dorso.
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lità, con annunci molto originali e allo stesso tempo molto identificativi, una sorta di stile aziendale. La Pirelli di
Castellani aveva una visione più corale, un approccio un
po’ come quello dello studio Boggieri. Si offriva la possibilità a molti grafici di dare la propria interpretazione
e i nomi di allora sono diventati tutti noti: da Tovaglia a
Vignelli, da Grignani a Fletcher. Credo che Castellani
cercasse una grafica moderna, con molta libertà di ricerca espressiva ma anche contemporaneità da spendere nella comunicazione Pirelli” [4].
In effetti in un numero di “L’Ufficio moderno. La pubblicità”, Arrigo Castellani in un servizio Il grafico del
mese: Bob Noorda scrive a proposito dell’esistenza di
uno stile, un linguaggio Noorda “attraverso il quale
s’esprimono certe persuasioni occulte, certi fatti della
vita collettiva come il libro o il metrò. Si tratta di un linguaggio che ha superato l’epoca del pittore-pubblicitario e che corrisponde a quella del graphic design (‘servire la tecnica’) e stimolato dalla famosa ‘filosofia della comunicazione’” [5].
2.
2. Copertine per le opere complete: R. Ridolfi, I Ghiribizzi, 1968;
R. Ridolfi, I palinfraschi, 1970; G. Papini, Schegge, 1971.
Le copertine sono composte in Times New Roman, tondo e corsivo (Stanley
Morrison-Victor Lardent, 1932).
3. Copertine per la collana La cultura e il tempo: G.C. Buzzi, La tigre
domestica, 1964 e R. Quadrelli, Il linguaggio della poesia, 1969.
Gli autori e i titoli sono composti in Fry’s Baskerville (John Baskerville, 1757,
Isaac Moore, 1764) e l’abstract in Garamond 3.
4. Copertine per la collana Narratori Vallecchi: M. Pomilio, La compromissione,
1965, in copertina: Saul Steimberg All in live; C. Marghieri, Il segno sul braccio,
1970, in copertina: H. Matisse, disegno.
La composizione è in Fry’s Baskerville.
L’esperienza di Noorda muove proprio in questa direzione, l’approccio razionale della formazione olandese,
si esprime in una grafica molto controllata, costruita su
temi visivi se vogliamo semplici, ma chiari e capaci di
tenere il campo, lo spazio dell’artefatto. È una grafica
sintetica, basata sul ragionamento, sulla necessità di un
equilibrio da raggiungere. Ricerca un ordine formale che
non è mai banale, risolto con un approccio iconico prevalentemente astratto (forme geometriche e forme tipografiche) ma anche facile da decodificare. L’orizzonte
visivo di Noorda è davvero lontano dall’approccio figurale e pittoricistico, è una tradizione nuova che sorprendentemente è capace di misurarsi anche con la nascente
cultura dei consumi di massa. Noorda ha fatto annunci
anche per i Pavesini e per i biscotti Plasmon. Usa la fotografia, il documento visivo, ma l’impianto costruttivo
è astratto. E un ordine nascosto e raziocinante che sovraintende e spiega la chiarezza grafica di Noorda, la sua
necessità di lavorare per sistemi e per funzioni.
3.
4.
La Vallecchi: un sistema editoriale
Gli anni Sessanta vedono un profondo rinnovamento
della grafica editoriale. Molti editori, piccoli e grandi,
storici e nuovi vedono nell’apporto professionale del
grafico una maggiore completezza del prodotto, ma anche un efficace modalità per farsi riconoscere, per affermare le proprie diversità, i propri gusti.
Molti grafici sono impegnati in questa opera di progettazione globale del sistema editoriale, che lascerà
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Noorda a Milano
Amsterdam
via dei Transiti
Pirelli
viale Monza
Pirelli
piazza Duca d’Aosta
(Grattacielo Pirelli,
25° piano)
1955
via Melchiorre Gioia
1961
Biglietto augurale
di Bob Noorda e Leen Averink, 1957
Biglietto per cambio di indirizzo in via Melchiorre
Gioia, 137 e biglietto augurale
Foro Buonaparte
via S. M. Fulcorina
1965
Biglietto (esterno e interno) per cambio di indirizzo
in Foro Buonaparte, 48
via Revere
Biglietti augurali di Bob e Ornella Noorda,
1961 e di Bob Noorda, 1962
Busta della Unimark International,
via Revere 9
via Leopardi
Bob Noorda
Unimark International
Noorda Design
Pirelli
5.
profonde radici nella grafica e nell’editoria italiana.
Senza tralasciare la lezione di Steiner per Feltrinelli, già
felicemente impostata dagli anni Cinquanta, vediamo
all’opera Bruno Munari con Einaudi, Mimmo Castellano con Laterza, Anita Klinz con Il saggiatore, Massimo
Vignelli con la Sansoni e le edizioni Schwarz, Giulio
Confalonieri e Ilio Negri con le edizioni Lerici.
Anche Noorda, ne è uno degli artefici, con un progetto molto limpido e originale. Il progetto per le Edizioni Vallecchi si dipana infatti per una decina d’anni a
cominciare dai primi anni Sessanta e comprende una
consistente gamma di linee editoriali. Letteratura, saggistica, storia, attualità, tascabili e perfino delle edizioni per ragazzi.
6.
7.
5. Il marchio per la Vallecchi.
6. Foto di una carbonaia.
La casa editrice era stata fondata dal tipografo Attilio
Vallecchi agli albori del Novecento e diviene molto
nota negli anni Venti grazie alle riviste il “Leonardo”,
la “Voce”, “Lacerba”, “Il Selvaggio”. Il suo catalogo
autori (Soffici, Papini, Palazzeschi, Campana, Tozzi,
Slataper, Marinetti, Ungaretti, Prezzolini, Viviani, Malaparte...) rappresentava un inesauribile giacimento
culturale di rilevanza europea che nel secondo dopoguerra viene gestito grazie alla direzione di nomi illustri della cultura, quali Carlo Bo e Geno Pampaloni.
7. Pagina sulle carbonaie e la produzione del carbone di legna,
da Denis Diderot, Jean le Rond d’Alambert, Encyclopedie, ou Dictionnaire
raisonne des sciences, des arts et des metiers, par une societe de gens de lettres.
“È stato il contatto con Pampaloni, che avevo conosciuto per il progetto della rivista “Questo e altro”. È
sua l’idea del marchio per la Vallecchi” [6].
Infatti è un marchio strano nella serie di quelli che hai
disegnato, è un segno che incuriosisce, ma insolito.
Cos’è?
“Ricordo che Pampaloni mi diede una foto di una sorta
di catasta di legna, una specie di costruzione e mi disse
che gli sarebbe piaciuto molto se fossi riuscito a tradurlo in un segno grafico. Ci ho provato, è forse l’unico marchio che non viene da una mia idea. Però resiste. La durata è sempre stata una mia fissazione. Mi piace progettare cose che restano, che possano navigare nel tempo.
Per questo penso che il segno che si ottiene deve essere
ragionato, non basta l’intuizione, l’emozione del momento. La mano è uno strumento, come oggi il mouse,
che deve accompagnare e rendere visibile un processo,
un’elaborazione meditata. Senza verifiche e ponderazione è difficile disegnare marchi che possano durare”.
8.
8. Due copertine e un retro per i volumi della collana Il Vitruvio. Fonti
e documenti d’architettura moderna. Collana a cura di Alfredo Righi
e Pier Carlo Santini: A. Behne, L’architettura funzionale, 1968; E. Persico,
Scritti di architettura (1927/1935), 1968.
Anche la ‘traduzione’ per il marchio Vallecchi, risponde a queste regole. L’impianto è geometrico, ma non esatto. Mantiene il senso dell’ordine apparente dato
dall’accatastamento di segmenti irregolari. La fonte di
ispirazione era quasi certamente la foto di una carbonaia,
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9.
9. Fronte e retro per la collana Tra guerra e pace,
F. Richards, I vecchi soldati non muoiono mai, 1966;
J.M. De Foville, I tedeschi a Parigi, 1967.
10. Copertine per la collana Cultura libera:
F.A. Hayek, L’abuso della ragione, 1967;
N.J. Smelser, Il comportamento collettivo, 1968;
M. Friedman, Efiicienza economica e libertà, 1967.
Copertine composte in Helvetica.
11. Copertina del libro Sul Confine, a cura
di G. Magherini e G. Zeloni, 1964.
12. Copertine per la collana 14x21 Problemi
del nostro tempo: U. Krige, Libertà sulla Maiella,
1965; I. Origo, Guerra in Val d’Orcia, 1968;
R. Teani, L’automazione, 1964.
Copertine composte in Helvetica Ultra compressed.
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la fornace rustica con cui, dalla legna, si ottiene il carbone. La sua caratteristica costruttiva è appunto la struttura simmetrica ottenuta disponendo il legname attorno
ad un foro centrale. Noorda costruisce un segno molto
ordinato anche se a libera tracciatura. Lavora sul senso
prospettico, una visione zenithale della catasta (come
quella dell’incisione dall’Encyclopedie) ma senza compasso e squadra, anzi lavorando sull’informalità delle linee, che montano il segno finale. Gli anelli concentrici
e gli inspessimenti dei tratti radiali vengono gestiti con
sapienza e calibrati per ottenere un effetto percettivo
chiaroscurale e controllare la ‘dimensione’ tecnica del
marchio. Stampato in nero tipografico sulla porosa carta delle copertine, il marchio sigilla in maniera magistrale le edizioni Vallecchi.
“Con la direzione editoriale di Pampaloni ho potuto
realizzare una grande quantità di copertine. Ho disegnato molte collane. Uno dei miei primi sistemi per
l’editoria. La Vallecchi aveva già una storia nobile, ho
cercato di mantenere questo status, di valorizzare il catalogo con sobrietà ma anche molta personalità”.
In effetti il lavoro di Noorda è fortemente orientato verso una soluzione tipografica con grande attenzione ai
formati e ai materiali con cui sono fatti i libri.
I libri sono manufatti, si devono sentire tra le mani. Si
devono riconoscere al tatto. La collana storica è in un
allestimento cartonato, ma senza sovracoperta, con immagni fotografiche rese grafiche dalla soppressione dei
toni intermedi. Molto bianco e nero opaco. La collana
di documenti di architettura ha una carta porosa, da disegno, e una sottile pellicola di acetato come sovracoperta e protezione. I tascabili economici sono davvero
piccoli, quasi come i vecchi Manuali dell’Hoepli.
L’attezione all’oggetto è il primo livello del progetto. La
soluzione visiva è riconducibile a due grandi approcci,
quasi una divisione nel catalogo: da una parte la saggistica dall’altra la letteratura. Per la prima prevale una
scelta marcatamente tipografica. La copertina è scritta.
La copertina è composta. La copertina è l’annuncio del
contenuto, della missione del testo. Il lettering si impone, modula la pagina, si fa immagine come nella collana di attualità Problemi del nostro tempo. Prevale l’uso
di un Helvetica molto condensato che compone titoli e
autori, colorati con forti toni brillanti sul fondo bianco.
Cambiano i corpi tipografici, emerge una sensazione di
eleganza strillata, da titolazione giornalistica. Per la serie Cultura libera, in formato tascabile l’Helvetica delle
titolazioni organizza la pagina con una composizione a
bandiera che parte dalla mezzeria del fronte, mentre il
nome della collana in un corpo più piccolo è posizionaProgetto grafico 8, giugno 2007
to sulla sommità. I caratteri mantengono le stesse dimensioni di libro in libro, la variante è il colore del fondo, delle scritte e del marchio. Per la letteratura, la narrativa usa una tipografia più classica un Fry’s Baskerville settecentesco, sontuoso e nobile. Le copertine sono accompagnate dalla scelta di un motivo grafico,
un’immagine pertinente con l’atmosfera del romanzo.
Ma questa è l’unica concessione all’immagine. Per la
saggistica letteraria, la scelta è di una copertina-racconto, che sotto il titolo in Fry’s Baskerville, dispone un corposo abstrac del testo. Mentre nelle opere complete (Papini, Ridolfi) sono la brillantezza a tutto campo dei fondi colorati e una perentoria titolazione in Times che fanno la copertina. Variante nella letteratura sono la Economica Valecchi dove viene ripreso l’Helvetica condensato che strilla il titolo in nero lucente, a cui fa sponda l’autore in un colore brillante. Anche qui una nota sul
contenuto, composta in corsivo, del volume completa
visivamente la copertina. Come annota acutamente Castellani, Noorda lavora per “una sottile, continua, insistenza sull’armonia del razionale; è il nuovo che si ritrova immediatamente classico” [7].
L’auto di Noorda
Durante l’incontro con Noorda, a un certo punto emerge e plana sul tavolo una grossa scatola. Rettangolare, bassa, quasi un grande astuccio dove coperchio e
fondo hanno le stesse dimensioni. È foderata con una
vecchia carta da legatoria, su un fondo grigio verde è
stampata la trama irregolare di un lino, ormai reso giallognolo e chiazzato dal tempo. Ha un angolo rovinato,
si vedono con evidenza le anime in cartone kraft vegetale e i rinforzi in metallo.
A fianco un lembo di carta strappata contiene una scritta molto
informale tracciata in blu con una penna a sfera: “Archivio Vecchio Materiali”. È ricomparso da
una cantina, ha girato e accompagnato tutti i traslochi, e come
tutte le cose che non vengono aperte da tempo, contiene delle
sorprese. Sono sorprese anche per Bob. Riaffiorano tra
le sue mani aguzze e magre i lavori dei primi anni milanesi: gli stamponi (le prove che venivano tirate al torchio
per il controllo degli esecutivi) degli annunci per la Pirelli, le copie di opuscoli per il settore farmaceutico, le
prove per le copertine di “Valori”, una rivista di economia, un esecutivo a tempera – rosso vermiglio, bianco
latte e nero opaco – per il marchio, che non venne utilizzato, per la metropolitana milanese. La doppia emme
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13. La scatola
contenente l’“Archivio
del vecchio materiale”.
maiuscola contrapposta, una M(ilano) sopra e una
M(ilano) sotto capovolta, tracciata con linee regolari e
bordi morbidi, una stretta continuità formale con uno degli elementi di maggior riconoscibilità dell’arredo delle
stazioni disegnate da Albini ed Helg: quel corrimano che
ne è diventato un simbolo involontario. (La mostra storica del Compasso d’Oro se lo porta in giro per il mondo come una reliquia auto-esplicativa del sistema architettonico e di arredo della metropolitana milanese).
14.
E poi sorpresa nella sorpresa un corposo fascio di disegni su carta da lucido, accompagnati da eliografie e
da un opuscolo della carrozzeria Ghia di Torino. Che
cos’è tutto questo, Bob?
“È il progetto per la carrozzeria di un’automobile. Un
divertimento, un gioco ma forse neanche tanto. Ha
coinvolto me e Massimo Vignelli. Questi sono i miei
disegni, i miei schizzi. Le mie prove. Dovevo disegnare le linee per una Ford carrozzata da Ghia. Era il
1963, la Ghia era un mio cliente. Ci mandò dei disegni
tecnici degli autotelai, con le misure e tutti i vincoli. E
noi ci mettemmo alla prova. Dovevamo disegnare un
coupé, ma c’era l’altezza del radiatore da rispettare,
quella per l’abitacolo, l’inclinazione dei vetri del parabrezza. Insomma tutti i vincoli costruttivi del modello. Rispettati questi parametri, potevo disegnare
quello che volevo. E così feci.”
15.
14. Un magnifico figurino dell’auto
progettata da Noorda.
15. Noorda sfoglia i disegni per l’auto
durante l’intervista.
16. Depliant della Fiat Club 2300 S
Ghia (a fianco).
Nelle altre immagini i numerosi studi
del profilo e del fronte per la
carazzeria.
16.
I disegni ci mostrano la maestria del segno di Noorda.
Quel segno meditato che è sempre sottotraccia nei suoi
marchi. In questo piccolo campione, possiamo leggere la processualità, il metodo, l’indagine. Noorda procede con grande autocontrollo, una volta interiorizzati i vincoli, il disegno rincorre l’idea. Il carattere di
un’auto, la sua personalità, l’aereodinamica: questa è
un’auto veloce. Certi disegni di Bob ci ricordano i tratti dinamici di una Jaguar, l’auto di James Bond, sono
molto diversi dal depliant della Ghia che accompagna
queste prove nella scatola. Forse un modello cui fare
riferimento. È una brochure del 1962 per una Fiat Club
2300 S (ironia della sorte, rappresentata in una fotografia sullo sfondo di un disegno al tratto di una Typographical Station) carrozzata Ghia, un coupé con profilature segnate e una marcata linearità.
Il cartiglio dello schema autotelaio n. 748-8778 in scala 1:8, ci descrive il tipo: una f.(ord) Fast Beach. La data è il 31/01/63. Il disegno scarno dell’eliocopia sbiadita dal tempo riporta con esattezza le dimensioni e i
fili fissi da rispettare. Con questi unici strumenti la mano di Noorda si abbandona a un’interpretazione futuribile, ma che consente di leggere due possibile linee
stilistiche.
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Una in cui gli elementi caratterizzanti le parti
dell’autovettura vengono come smontati, diventano
quasi dei moduli da assemblare in un insieme. Così abbiamo un frontale, un modulo di coda, una fasciatura
laterale e una scocca per l’abitacolo e le parti finestrate. L’esito ricorda delle tipologie coeve di Ford. L’altro
approccio più fantasioso sembra davvero ispirato
all’auto di 007. Le linee sono più morbide, avvolgenti, i volumi raccordati a sottolineare il senso aerodinamico. Il disegno è molto disinvolto, ma anche raziocinante, come là dove, ad esempio, annota le curve di livello delle calandrature per l’alloggiatura dei fari anteriori. Il frontale del resto in questi disegni appare più
studiato, è la cosa che dà carattere e riconoscibilità al
modello.
Certo, è questo un episodio laterale e non c’è la sapienza scultorea di un Pinin Farina o il genio di un
Marcello Grandini, ma è un sensore, un’evidente indicazione della mano progettante di Noorda, di quel ferreo ancoraggio fra disegno e progetto [8]. È il talento
costruito.
NOTE
1. Richard Hollis, Graphic Design A concise History, Thames and
Hudson, 1964, pagine 138-146.
2. Ne ha parlato Marianna Rossi in: Progetto grafico 6, giugno
2005, pagine 158-159.
3. Instituut voor Kunstnijver-heids Onderwijs (Istituto per
l’educazione alle arti industriali, meglio noto, in seguito, come Accademia Gerrit Rietveld)
4. Per ripercorrere l’esperienza di comunicazione e immagine della
Pirelli si vedano: A.W.M. Johnston, Pirelli, in: “Graphis”, numero
96, July/August 1961, Amstutz & Herdeg Graphis Press, pagine
284-299 e 1872-1972 Cento anni di comunicazione visiva Pirelli, a
cura di Bob Noorda e Vanni Scheiwiller, Libri Scheiwiller, 1990.
5. Estratto senza indicazone di data (presumibilmente 1964-65) di
“L’ufficio moderno. La pubblicità”, con un testo di Arrigo Castellani su Bob Noorda, pagine totali 10.
6. Geno Pampaloni, critico e scrittore, aveva lavorato per le Edizioni di Comunità e aveva diretto con N. Gallo, D. Isella e V. Sereni la
rivista “Questo e altro”, pubblicata a Milano tra 1962 e il 1964 presso l’editore Lampugnani Nigri. Per le stesse edizioni Noorda aveva
progettato la grafica per la rivista di filosofia e di cultura “aut aut”,
diretta da Enzo Paci.
7. Arrigo Castellani, opera citata.
8. Si veda sulla dimensione conoscitiva e progettante della mano,
dell’occhio e del segno il bel volume di Giuseppe Di Napoli, Disegnare e conoscere, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2004.
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Le pene della metropolitana
È in corso da qualche anno un lavoro di
“manutenzione straordinaria” della linea 1
della Metropolitana Milanese. Non si tratta solo di adeguamenti a norme e necessità
tecniche. In alcune stazioni (Duomo, Cadorna) è stato avviato un vero e proprio restyling, un progetto di ristrutturazione che
interessa tutti gli elementi di architettura
degli interni, gli arredi, i supporti di servizio e il sistema segnaletico.
Muove da intenzionalità diametralmente
opposte al progetto di Albini, Helg, Noorda. È il segno dei tempi, dove i luoghi pubblici di attesa e gestione dei flussi (aeroporti, grandi stazioni) oltre a rispondere agli obiettivi funzionali, diventano luogo di
incontro, intrattenimento e consumo. C’è
un grande desiderio di adeguamento ai
nuovi standard, che vedono nel modello da
‘centro commerciale’, e non di funzionalità
al movimento individuale, la ragione dei
progetti di trasporto urbano metropolitano.
E allora bisogna rifuggire dalla spirituale
ombrosità delle sotteranee e ci si deve affrancare alla luce ‘eterna’, anche se totalmente artificiale. Ma tutto ciò è un processo complesso, che il muro di una austera e
ferma ‘resistenza’ alle ragioni del progetto
originale non riuscirà mai a fermare, o almeno a sospendere e riportare su un binario di contrattazione. La difesa del moderno è già un problema lontano, in una società dove i valori dell’antico sono sotto le
scarpe di un marketing ‘schiacciasassi’ e di
un pulviscolo commerciale interstiziale e
a-culturale.
E purtroppo poco servono le anticipatorie
osservazioni di Pier Carlo Santini sul numero quattro della rivista di grafica “Pagina”, [nota 1] vero baluardo di una centralità
del progetto comunicativo degli anni Sessanta, ma anche algida epifania di questo
atteso protagonismo. Le ragioni per la presentazione sulla rivista del progetto di sistema segnaletico di Noorda sono
“l’eccezionalità, almeno per l’Italia,
dell’intervento di uno specialista in una
materia che poteva essere affidata alle responsabilità di un qualsiasi ufficio tecnico,
con conseguenze per il risultato estetico e
funzionale facilmente prevedibili”. E in effetti, gli ultimi sostanziosi interventi, non
sono altro che il virulento assalto a quel
modello autorevole, molto lombardo, laico
e coinvolgente (i milanesi hanno partecipato direttamente al sostegno economico
dell’opera), austero e pragmatico. Gli architetti Albini e Helg, con Noorda hanno
solo dato un volto perfetto a questa razionalità collettiva, una delle poche figurazioni positive del progresso, della maturità capitalistica.
L’efficienza per una mobilità di massa governata da una austerità benedettina. È questa la forza del progetto sistematico di ar-
redo e segnaletica della metropolitana milanese. Oggi tutto ciò è lontano mille miglia, e anche in tutti questi anni di crescita
e di gestione del sistema di mobilità metropolitana le contaminazioni, le ma-nomissioni, le mortificazioni di questo modello
sono state all’ordine del giorno. Ma la forza di un progetto profondo ha preservato in
parte gli statuti originari. Certo Santini vedeva con lungimiranza le debolezze del sistema del progetto italico e allertava: “C’è
da augurarsi solo che la realizzazione rispetti fedelmente il progetto originario,
senza che considerazioni estrinseche intervengano a consigliare varianti e modifiche”. È questa miopia delle pratiche di tutti i giorni, la fedele compagna degli attuali
progetti di restyling, dell’alterazione della
‘notte col giorno’, delle patinature e delle
bianche pavimentazioni, dell’indistinto dei
consumi contro la riservatezza del progetto, tutta fede funzionale e raziocinante. E
quanto sono piccole, ma devastanti, queste
nuove procedure. In esse c’è solo la preoccupazione del momento, il sollievo per le
finte garanzie della sicurezza, la luce che
allontana i ladri, le terre di mezzo
dell’indistinto. No, non c’è l’utopia alternativa e folgorante che prefigura Enrico Filippini, letterato e mitico redattore della
Feltrinelli, in uno scritto di presentazione
della nuova metropolitana su “Domus”, nel
1966, che di seguito pubblichiamo integralmente. Si, perché solo il bianco lucido
e riflettente e non tutta d’oro o tutta mare,
o tutta parco?
1.
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Ecco giustificato l’imbarazzante ‘burocratismo’ nelle risposte dell’atm, azienda municipalizzata dei trasporti di Milano, e della
mm, la Metropolitana Milanese, alle sollecitazioni preoccupate di Italia Nostra e della
cultura milanese. Queste preoccupazioni sono state stigmatizzate in una proficua riunione con Bob Noorda organizzata dal Centro di Studi Grafici, nella figura del presidente, Massimo Dradi, che si è fatto artefice
di un utile coinvolgimento di Italia Nostra,
rappresentata dalla storica del design Anty
Pansera, dell’università, rappresentata da
Giovanni Baule, direttore del corso di laurea
in comunicazione della Facoltà del Design,
e dell’Aiap, rappresentata da chi scrive. Certo il baluardo di una difesa tout court delle
ragioni del progetto originario sono forse una lotta donchisciottesca, ma la concreta
mobilitazione verso il riappropriarsi di una
qualità estetica nella gestione della cosa
pubblica, in anni in cui si parla estesamente
di capitale umano e culturale, è un atto dovuto in una società dove la coscia di un calciatore conta di più del made in Italy, che andiamo da anni sbandierando come valore del
‘sistema paese’. M.P.
NOTE
1. Studi per la segnaletica della Metropolitana Milanese, a cura di P.C.S. (Pier Carlo Santini), in “Pagina”, numero 4, gennaio 1964, Editoriale Metro SpA,
Milano, pagine 4-13.
1. Bozzetto originale a tempera per il marchio
della Metropolitana Milanese, fronte e verso, che
reca i segni di una precedente incollatura e il
timbro dello studio in Foro Bonaparte.
2. Foto dell’attuale uso scoordinato degli elementi
per la segnaletica della Metropolitana Milanese.
La commistione di segnali è solo il dato più
evidente della manomissione del sistema.
Sotto, il disegno originale delle frecce che sono
inscritte in cerchi, una forma geometrica che
permette di far ruotare la figura interna
garantendone sempre la leggibilità. Questa
soluzione aveva una precedente esemplificazione
nella segnaletica dell’aeroporto di Londra.
Perché non le belve?
ENRICO FILIPPINI
Questa proposizione semplice: “La metropolitana è bella” dice incontestabilmente la verità? Certo, vero è
che la proposizione che asserisce il contrario, “La metropolitana è brutta”, dice il falso (nell’orizzonte del
gusto attuale). La descrizione della metropolitana equivale dunque a una precisazione del significato
dell’aggettivo “bella”, che potrà essere fatta dal punto di vista della fruizione quotidiana (da parte di coloro
che, come il mio amico Balestrini, la usano ogni mattina per andare a lavorare), e dal punto di vista del mero
apprezzamento estetico, con le implicazioni che comporta. Dal primo punto di vista, ho un’esperienza
ridottissima: ieri pomeriggio sono sceso alla stazione Duomo dalla scaletta della Galleria, ho percorso il
passaggio che porta alla biglietteria (singolarmente sistemata in un’edicola), ho indugiato a guardare la cartina
del percorso, ho consumato un whisky nel bar disposto sulla destra (pochi signori seduti ai tavolini, intenti a
conversare, chissà come finiti lì) e poi, per una singolare distrazione, ho risalito la scaletta che porta al
marciapiede dal lato della piazza parallelo al Duomo. Duplice stupore: per aver così perfettamente rimosso le
mie intenzioni e per il fatto che la stazione della metropolitana è mirabilmente utilizzabile come
sottopassaggio, pavimentato di una morbida, silenziosa gomma, quando piove, tanto più che l’ingombro è
minimo. Allora sono ridisceso. Dunque: l’accesso è sottilmente antimonumentale; per esempio, quasi non si
vede; le targhe arancione propongono il nome della fermata in un grottesco di cui non saprei precisare la
natura ma che certo è uno dei più regolari che esistano; i passamano sono pure arancione, tracciano un
disegno molto esatto o finiscono con un’incurvatura da cui poi toccano terra, finiscono cioè dove devono
finire; lo zoccolo è di un marmo ruggine a chiazze cilestrine, su cui s’intona il caffé marcio dell’intonaco; la
distribuzione è perfettamente omogenea ai suoi scopi; ci sono pilastri e ci sono architravi; le scritte, sempre
su fondo arancio, sono in negativo e nello stesso carattere, e orientarsi è molto facile, anche perché ci sono
soltanto due possibilità; la cabina di controllo non si vede; il design dei cancelletti e delle barriere è
sommessamente elegante; il bar non ricordo di averlo visto… Dunque: ho acquistato un biglietto da 100 lire
per S. Babila, l’ho infilato nella macchinetta dal lato da convalidare, ho indugiato un istante sulla scala da
scegliere, ho deciso per quella di destra; sul marciapiede ho visto con un certo stupore che nella fossa
c’erano vere rotaie, una vera massicciata; è arrivato un convoglio arancione, carico di ragazze in piedi ma
senza contatti, ciascuna occupando proprio solo la sua dimensione d’ingombro; le porte si sono aperte, poi si
sono chiuse; il convoglio corre molto morbido; lungo la parete della galleria scavata dallo Scudo Milano, c’è
uno striscione giallo spento che sembra tracciato da un pittore americano… La stazione di S. Babila ha uno
zoccolo alto esattamente come quello della stazione Duomo, di un marmo di colore diverso, ma non molto,
l’intonaco del muro e del soffitto è verde marcio, il pavimento è di gomma, ci sono pilastri e ci sono
architravi… Il treno se ne va, si infila nella galleria, la stazione è grande e quasi vuota… Ho salito la scaletta
che porta in Corso Matteotti. Della stazione S. Babila si può dire pressappoco lo stesso di quello che si può
dire della stazione Duomo: la metropolitana è brutta? No, non è brutta. La metropolitana è bella? La
metropolitana è un servizio pubblico impaginato bene, con perfetta pulizia e con raffinato decoro. O è
un’isola, visto che è così silenziosa? O una chiesa, visto che l’atmosfera, forse per il silenzio, tira al sacro?
Oppure: la metropolitana è uno spazio sotterraneo organizzato; organizzato in modo da farsi dimenticare; la
mia esperienza con la metropolitana è una non-esperienza. Evidentemente l’organizzazione e il rivestimento
di questo spazio, l’intervento formativo, l’opzione grafica e cromatica, corrispondono a una concezione di
servizio pubblico: questo dev’essere non-traumatizzante, non-eccitante, non-galvanizzante, non-deprimente.
Un utente che vive al sesto piano, che alla mattina scende al piano terra, percorre il tragitto che lo separa
dalla stazione, scende a otto metri sotto terra, risale, va tetramente a lavorare a un ventesimo piano, rischia
comunque complessi conflitti tra il super-io e l’inconscio; il meglio è attenuare la coscienza dei dislivelli…
Evidentemente, una simile nozione del servizio pubblico riduce al minimo lo spazio espressivo; la riduzione
all’organizzazione comporta la rinuncia a un’effettiva formazione plastica e spaziale, la mortificazione della
frenesia costruttiva. La proposizione che dice: “La metropolitana è bella” è vera nella misura in cui questa
mortificazione è in grado di produrre qualche cosa che possa dirsi “attivamente bello”. Questo
atteggiamento, che, certo, non è entusiasmante, ha un vantaggio: ha dato i suoi frutti a Milano; a Milano, la
metropolitana è esotica perchè è sistemata sotto una città che della non-mortificazione presenta un
campionario orrendo e delirante; soltanto che in questo caso non si tratta tanto di consapevole
prevaricazione espressiva, quanto di inconscia e volgare proliferazione di mostri. Ma ciò contesta l’ideologia,
diciamo, filo-sociale, della metropolitana: poiché la metropolitana è esotica, sia pure nel suo tono di
sottoterra sommesso, è traumatizzante e forse nociva alla salute psico-somatica degli utenti… Trauma per
trauma: in una città così priva di sole, perché non fare una stazione tutta d’oro? in una città così remota dal
mare, perché non pareti-acquario? in una città così povera di alberi, perché non una stazione-foresta, perché
non le belve?...
Questo articolo di Filippini è tratto da “Domus” numero 438, 1966.
Ringraziamo l’Editoriale Domus per l’autorizzazione alla pubblicazione.
2.
Progetto grafico 8, giugno 2007
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