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Lucia Chiappetta Cajola - Anna Maria Ciraci
DIDATTICA INCLUSIVA
Quali competenze per gli insegnanti?
ARMANDO
EDITORE
CHIAPPETTA CAJOLA, Lucia – CIRACI, Anna Maria
Didattica inclusiva. Quali competenze per gli insegnanti? ;
Roma : Armando, © 2013
224 p. ; 21 cm. (I problemi della didattica)
ISBN: 978-88-6677-381-8
1. Didattica inclusiva
2. Competenze degli insegnanti
3. Modelli didattici e politiche europee
CDD 370
© 2013 Armando Armando s.r.l.
Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma
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Sommario
Introduzione
9
PARTE PRIMA: PER UNA CULTURA DIDATTICA
DELL’INCLUSIONE
LUCIA CHIAPPETTA CAJOLA
13
Capitolo 1: Educazione inclusiva e didattica inclusiva
15
1.1 Educazione inclusiva per scuole senza barriere:
l’impegno internazionale
15
1.2 Dalla teoria dell’inclusione alla pratica dell’educazione
inclusiva: la complessità della competenza degli insegnanti 17
1.2.1 Integrazione, Mainstreaming, Inclusione, BES,
Partecipazione
1.3
Per un’etica dell’inclusione
1.3.1 Tra potenzialità e talento: identità e creatività
1.3.2 Tra “errore”, “approssimazione”, “dissonanza” e
“divergenza”: dimensioni inclusive della didattica
1.3.3 Personalizzazione e individualizzazione: dimensioni
inclusive dell’organizzazione didattica
1.4
1.5
1.6
20
24
27
29
1.4.5 Dall’aula al sistema-scuola: ampliare il raggio di azione
36
39
43
La didattica speciale dialoga con le didattiche disciplinari:
l’orizzonte interdisciplinare inclusivo
Per una valutazione inclusiva: alcune riflessioni
44
46
Didattiche e autonomie scolastiche
Capitolo 2: Il contributo dell’OMS alla cultura dell’inclusione:
ICF e ICF-CY
2.1 Il modello biopsicosociale dell’ICF per la progettualità
inclusiva
49
49
2.2
2.3
2.4
2.5
2.6
2.7
2.8
L’ICF: un breve excursus storico
La struttura dell’ICF: categorie e codici alfanumerici
Profilo di funzionamento e analisi del contesto per rilevare
“barriere” o “facilitatori”: il principio di accessibilità
I “qualificatori”
L’ICF-Children and Youth (ICF-CY)
52
53
56
57
59
2.6.1 Analisi comparativa tra ICF e ICF-CY : le nuove categorie 60
2.6.2 L’ICF-CY e il suo apporto alla didattica inclusiva
66
L’ICF per l’individuazione dei BES
67
Special Educational Needs/Bisogni Educativi Speciali
nel sistema tripartito dell’OCSE
69
Capitolo 3: ICT per la formazione degli insegnanti inclusivi:
un’esperienza-modello nel Corso di Studi in Scienze
dell’Educazione-FaD
73
3.1 Rafforzare le strategie didattiche inclusive:
la piattaforma/ambiente e-learning per la formazione
degli insegnanti su posto comune e di sostegno alla classe 73
3.2 Uno sguardo d’insieme alle condizioni di avvio del
Progetto pilota SdE FaD, alle ricerche e ai risultati ottenuti 75
3.3
3.4
3.2.1 Quali competenze degli insegnanti: i dati quali-quantitativi
provenienti dall’attività di ricerca
77
L’uso delle tecnologie digitali
81
3.3.1 L’uso delle ICT per creare sinergie inclusive tra docenti
“su posto comune” e “di sostegno alla classe”
87
Alcune prospettive
96
Capitolo 4: L’autovalutazione di Istituto per orientare la scuola
dell’inclusione verso le priorità per il cambiamento
99
4.1 Autovalutazione e orientamento per lo sviluppo inclusivo
della scuola
99
4.2 Una scuola inclusiva è “una scuola in movimento”
101
4.3 L’Index per l’inclusione: orientare l’ambiente scolastico
verso valori inclusivi
103
4.3.1 L’Index for Inclusion: uno sguardo d’insieme
105
4.3.2 Lo strumento: dimensioni, sezioni, indicatori e domande 107
Bibliografia
109
PARTE SECONDA: LA SFIDA DELLE COMPETENZE
PER UNA SCUOLA INCLUSIVA
ANNA MARIA CIRACI
125
Capitolo 1: Per una società inclusiva e solidale.
Il ruolo dell’istruzione
1.1 Partiamo dall’evidenza
1.2 Istruire per la democrazia o istruire per lo sviluppo?
1.3 La scuola di fronte al problema delle disuguaglianze
127
128
132
136
Capitolo 2: Le competenze degli insegnanti
2.1 Il ritorno degli insegnanti come risorsa cruciale
per l’innovazione
2.2 Il profilo professionale dell’insegnante.
Alcuni importanti riferimenti
2.3 Le principali competenze degli insegnanti
2.4 L’insegnante ricercatore
2.4.1 La formazione degli insegnanti fondata sulla ricerca:
l’esempio finlandese
2.5
L’insegnante professionista “riflessivo”
Capitolo 3: La scuola delle competenze
3.1 In cosa consistono le “competenze”
3.2 Conoscenze e competenze
3.3 Le competenze chiave di cittadinanza per l’apprendimento
permanente
3.4 La via italiana alle competenze chiave
3.4.1 Il Regolamento per l’adempimento dell’obbligo
di istruzione
3.4.2 Il Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento
permanente (EQF)
3.4.3 Strategia Europa 2020: “Nuove competenze per nuovi
lavori”
3.5
3.6
139
139
141
143
155
159
160
163
164
165
169
171
172
174
175
La costruzione del curricolo in funzione delle competenze 176
Il ruolo della valutazione
179
Capitolo 4: Strategie didattiche inclusive per lo sviluppo
di competenze
4.1 Processi di apprendimento e modelli didattici
4.2 Azioni didattiche per lo sviluppo di competenze e
in grado di favorire il processo di inclusione
183
183
185
Capitolo 5: Gli insegnanti nelle politiche europee
5.1 Le riforme del Processo di Bologna
5.2 Il Processo di Bologna e la qualità della professione
insegnante
5.3 La realtà è qualitativamente inferiore al livello
del dibattito scientifico
199
200
Bibliografia
209
Indice dei nomi
219
202
205
Introduzione
Il volume sviluppa l’idea che l’obiettivo di costruire una società inclusiva non possa non partire dalla costruzione di una scuola inclusiva i
cui principi ispiratori, radicati nella lotta alla discriminazione, alla diseguaglianza e all’esclusione dall’istruzione in particolare delle fasce più
deboli, sono tesi alla rimozione delle barriere che ostacolano l’apprendimento e la partecipazione di tutti gli allievi alla vita scolastica.
In questo quadro, e con la diversità come punto di partenza, agli insegnanti è richiesto un investimento educativo sempre più capace di rinnovare e differenziare in modo flessibile e creativo gli itinerari didattici, per
renderli non solo più adatti al tempo presente, ma soprattutto significativi
per le esigenze di ciascuno, con sollecitudine e attenzione costanti alle
caratteristiche personali e ai bisogni individuali affinchè possano emergere e maturare le potenzialità di tutti.
Da tali premesse si rende auspicabile, nell’intento del presente lavoro, non solo riflettere e comprendere pienamente, ma anche confrontarsi
sull’urgenza di un contesto fecondo e diffusamente accogliente, in cui
promuovere, in un’ottica sistemica, il successo scolastico e sociale di
ciascun allievo, attraverso scelte progettuali, metodologiche e organizzativo-didattiche capaci di far vivere davvero l’appartenenza, resa tale da
efficaci relazioni cognitive, socio-affettive ed empatiche.
La realizzazione di una scuola inclusiva riporta però, ineludibilmente,
in primo piano il nodo centrale da sciogliere, ovvero la necessità di una
rinnovata cultura didattica nella e della scuola che sappia trarre dagli
studi pedagogici, dalla ricerca scientifica e dai documenti nazionali e
internazionali, i suoi fondamenti e le sue ragioni. Ma che sappia anche riconoscere gli insegnanti quali agenti strategici dei processi di inclusione
scolastica e sociale, capaci cioè di accogliere in pieno le sfide poste dalla
diversità e dalla prospettiva dell’apprendimento permanente.
9
Una evoluzione in tal senso rinvia non solo alla necessità di adeguate opportunità di formazione di insegnanti inclusivi, anche mediante
l’utilizzo più ampio e sistematico delle tecnologie informatiche e della
comunicazione, ma, soprattutto, a ritrovare l’indispensabile fiducia in
una scuola basata sulla giustizia dei diritti e delle opportunità e dunque
in grado di operare come sistema di cooperazione tra persone libere ed
uguali.
Ciò esige capacità di autoriflessione e di autoanalisi da parte degli
insegnanti al fine di estendere il loro sguardo all’ambiente dove avviene
il processo istruzionale ed educativo, rilevandone e rimuovendone gli
ostacoli e aumentando l’impiego quali-quantitativo di fattori facilitanti.
La complessità che caratterizza la loro competenza è tale che dovrebbe indurli ad una sorta di autosorveglianza teoretica rispetto alle loro
conoscenze e ad una verifica costante delle loro prassi didattiche nella
dimensione dell’inclusione.
Come è noto, infatti, il tema delle competenze attraverso cui ripensare
il modo di fare scuola si è andato affermando, con consapevolezza crescente, a partire dagli anni Novanta ed è stato ampiamente recepito dalla
legislazione italiana soprattutto con la riforma dell’obbligo di istruzione,
in cui il profilo in uscita dello studente non consiste soltanto nel possesso
di contenuti disciplinari, ma prevede una soglia minima di competenze
compatibili con le esigenze della vita sociale e del funzionamento della
democrazia.
Purtroppo a tutt’oggi non è facile rendere operative, e trasformare in
prassi quotidiana, le conoscenze e la consapevolezza a cui si è pervenuti.
La situazione attuale in Europa è piuttosto contraddittoria e la realtà delle
scuole è talvolta molto lontana dagli ideali dichiarati nei documenti e nei
discorsi ufficiali.
La non equità dei sistemi di istruzione, e del nostro nello specifico,
è stata, infatti, chiaramente evidenziata dalle indagini OCSE-PISA: il
nostro sistema formativo ha fallito proprio sul tema delle opportunità
formative delle fasce più deboli della società. Nonostante le ampie possibilità di accesso all’istruzione e alla formazione e le molteplici innovazioni programmatiche e organizzative messe in atto, la disuguaglianza
nell’istruzione non è diminuita.
La scuola è ancora uno snodo di trasformazione delle disuguaglianze
sociali in disuguaglianze scolastiche, che a loro volta si trasformeranno
in disuguaglianze sociali.
10
Si impone, allora, una approfondita e seria riflessione sulla questione
della diversità, in tutte le sue forme. Partendo dal presupposto che il fulcro del problema non risieda esclusivamente nella persona in difficoltà o
nella difficoltà in sé, ma sia determinato dalla relazione con l’ambiente,
che può funzionare da ostacolo o da facilitatore all’apprendimento e alla
partecipazione, determinando quello che l’OMS definisce human functioning, va rimessa in discussione l’idea di un modello scolastico unico
(the one best system).
Di conseguenza, occorre aprire la strada ad una più articolata professionalità degli insegnanti che, sviluppando le potenzialità di ciascuno nel
rispetto delle peculiari esigenze di apprendimento, permetta davvero alla
scuola di formare per la cittadinanza di tutti e, in un’ottica di giustizia sociale, di realizzare, come vuole la nostra Costituzione, «il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
11
PARTE PRIMA
PER UNA CULTURA DIDATTICA DELL’INCLUSIONE
LUCIA CHIAPPETTA CAJOLA
Capitolo 1
Educazione inclusiva e didattica inclusiva
1.1 Educazione inclusiva per scuole senza barriere:
l’impegno internazionale
La rimozione delle barriere che ostacolano l’apprendimento e la partecipazione di tutti gli alunni alla vita scolastica è l’elemento fondamentale dell’educazione inclusiva, i cui principi ispiratori, radicati nella lotta
alla discriminazione, alla diseguaglianza e all’esclusione dall’istruzione
in particolare delle fasce più deboli, sono tesi ad orientare le politiche e
le strategie socioculturali ed economiche dei vari Paesi per rendere reale
l’educazione per tutti.
Dall’anno 2000, Education for All (EFA) rappresenta uno degli obiettivi centrali tra quelli individuati nell’ambito del Millennium Development Goals e definiti nel corso del Millennio Summit contestualmente
all’adozione della Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite.
Gli ambiziosi obiettivi, da raggiungere entro il 2015, muovono dall’affermazione e dall’esercizio dei diritti umani fondamentali (Dichiarazione
universale dei diritti umani) e richiedono una revisione e una rivisitazione di molti aspetti del sistema sociale e formativo.
Education for All è in realtà un programma che, pur avviato fin dal
1990 nell’ambito della conferenza sull’educazione svoltasi a Jomtien
(Thailandia), ha assunto attenzione e rilevanza crescenti dopo il World
Education Forum svoltosi a Dakar nel 2000 e in cui l’UNESCO1 acquisì
1
L’Educazione è uno dei principali settori di attività dell’UNESCO (United Nations
Educational, Scientific and Cultural Organization) e fin dalla sua creazione, nel 1945, i
Paesi fondatori hanno sottoscritto un atto costitutivo per esprimere l’ideale di una “chance
égale d’Education pour tous”, a partire dal quale hanno lavorato per migliorare la diffusio-
15
il ruolo di organo responsabile dell’intero programma, con il compito di
coordinare tutti gli stakeholder coinvolti, sia nel fornire flussi di informazioni e di dati statistici, mediante il Global Monitoring Report, relativi
ai risultati ottenuti, sia nell’individuare linee di indirizzo delle azioni da
intraprendere, mediante l’High Level Group.
I temi al centro dell’attenzione sono quelli dell’analfabetizzazione nei
Paesi in via di sviluppo e delle cause che la determinano, ovvero povertà,
malattie, tradizioni locali di discriminazioni, conflitti armati, catastrofi
naturali, assenza di infrastrutture adeguate.
L’istruzione per tutti, e in particolare l’istruzione di base gratuita e
obbligatoria, è dunque ritenuta un fattore fondamentale per la lotta alla
povertà e per la crescita globale di ogni Paese e l’affermazione dei diritti
di tutti.
L’impegno è quello di garantirla, permettendo ad ogni bambino/a di
riuscire a terminare un ciclo completo di scolarizzazione, aumentando il
livello di alfabetizzazione del 50% e assicurando una più giusta equità
d’accesso all’educazione tra i sessi.
Per quanto riguarda il nostro Paese2, la Cooperazione italiana persegue il raggiungimento degli obiettivi del Dakar Framework of Action
for Education for All, adottato nel 2000 in sede UNESCO di cui è stato
già fatto cenno, ed è impegnata particolarmente nel sostenere l’iniziativa
lanciata dalla Banca Mondiale per “Efa fast-track iniziative” (EFA-FTI)3,
ovvero per la realizzazione di un “percorso accelerato” verso l’educazione per tutti. L’iniziativa, principale strumento di mobilitazione di risorse
in favore dell’istruzione, è stata approvata nel 2002 dal G8 a Kananaskis
(Canada), sulla base dei lavori della Task Force G8, presieduta dall’Itane dell’educazione, in primo luogo quella di base, in tutti i Paesi del mondo, nella convinzione che sia essenziale per un sano sviluppo economico e sociale delle società.
2 Il ruolo fondamentale della Rappresentanza Permanente d’Italia presso l’UNESCO è di
stabilire un legame tra l’Organizzazione ed i Dicasteri italiani (Ministeri degli Affari Esteri
e dell’Istruzione in particolare) creando così uno scambio d’informazioni sui Programmi e
attività svolte nel campo dell’alfabetizzazione che pongono l’UNESCO in una posizione
strategica, al centro delle Agenzie delle Nazioni Unite.
3 L’EFA-FTI è una iniziativa di partenariato nata con l’obiettivo di sostenere le strategie
nazionali per l’educazione nei Paesi in via di sviluppo all’interno di un piano complessivo
di lotta alla povertà. Mediante il sostegno a 36 piani educativi, la Fast Track Iniziative ha
permesso, dal 2002, che più di 40 milioni di bambini e bambine potessero frequentare la
scuola. Nonostante i successi, restano alcuni aspetti da migliorare per rendere l’iniziativa
più efficace soprattutto rinforzando la qualità dell’istruzione, l’istruzione femminile e l’accesso all’educazione nelle aree di conflitto e post-conflitto.
16
lia, svoltisi nel 2001, e che ha dato luogo al documento “A new focus
on Education for All”, in cui particolare evidenza è stata conferita allo
sviluppo delle opportunità digitali (DOT.Force, Digital Opportunities
Task Force).
Rispetto a quest’ultime, la Cooperazione italiana si è impegnata ad
estendere l’utilizzo delle tecnologie informatiche e della comunicazione
(ICT) per la formazione degli insegnanti e per rafforzare le strategie educative (si veda il capitolo terzo della parte prima).
L’educazione inclusiva è dunque l’orizzonte culturale, mai definitivo,
della scuola inclusiva impegnata a promuovere, in un’ottica sistemica, il
successo scolastico e sociale di ciascun allievo, attraverso scelte progettuali e organizzativo-didattiche in grado di valorizzare le diversità, sviluppando il senso di appartenenza (Canevaro 2006, 2007) alla comunità
mediante la costruzione di relazioni cognitive, sociali ed emozionali, e
agendo sul senso di responsabilità individuale e sociale.
È quindi un concetto in continua evoluzione e, attualmente, è un processo in corso all’interno di quei sistemi educativi che focalizzano la
propria attenzione sulle opportunità sia di accesso all’istruzione sia di
successo formativo rispetto ai risultati ottenuti. Nell’ambito della 48ma
sessione della Conferenza internazionale sull’educazione dell’UNESCO, dedicata all’“Inclusive education: the way of the future” (Ginevra,
25 e 28 novembre 2008) è stata sottolineata l’esigenza di precisare con
maggiore rigore la dimensione concettuale dell’inclusione in relazione
al concetto di integrazione e al costrutto teorico dei Bisogni Educativi
Speciali (BES), di cui si parlerà successivamente.
L’obiettivo del successo formativo pone in primo piano l’importanza
strategica di scelte democratiche e solidali per la prevenzione del rischio
di emarginazione e di esclusione da ogni circuito vitale.
1.2 Dalla teoria dell’inclusione alla pratica dell’educazione inclusiva:
la complessità della competenza degli insegnanti
La sistematizzazione e rielaborazione in ambito educativo dei paradigmi teorici dell’inclusione, originatisi in ambito sociologico ed economico (Durkheim 1893; Marshall 1950; Luhmann e Schorr 1988), risale
agli anni Novanta proprio per l’azione convinta di organismi internazionali che hanno posto con forza il tema dell’educazione in una dimensio17
ne mondiale dimostrandone il carattere di emergenza vera e propria in
alcuni documenti finalizzati a promuovere l’educazione per tutti.
Come si è visto nel paragrafo precedente, le azioni dell’UNESCO
sono state di fondamentale importanza in tale contesto, anche per la messa a fuoco della necessità di affrontarne le rilevanti criticità4 in un’ottica
sistemica di decisioni politico-culturali intersettoriali e in una dimensione osmotica di interscambio continuo e costitutivo «fra il sistema educativo, i sottosistemi che vi sono compresi e gli ulteriori sistemi che gli
sono correlati» (Cerri Musso 2002, p. 29).
Come affermano, infatti, Luhmann e Schorr (1988), il compito
dell’istruire e dell’educare implica scelte di insegnamento che hanno a
che fare con un doppio riferimento sistemico, quello personale e quello sociale. Ciò esige una competenza di autoriflessione da parte degli
insegnanti rispetto alla necessità di estendere il loro sguardo sull’ambiente dove avviene il processo istruzionale ed educativo, rilevandone
e rimuovendone gli ostacoli e favorendo l’impiego quali-quantitativo
di facilitatori (OMS, 2001, 2007; Booth, Ainscow 2002). Nello stesso
tempo, tutti gli insegnanti, tra attivazione di riflessività e assunzione di
responsabilità, divengono progressivamente consapevoli della complessità5 della loro competenza, che è tale da costringerli ad una ineludibile
4 Uno degli impegni maggiori dell’UNESCO è diretto a promuovere una profonda revisione dei sistemi educativi e delle politiche riguardanti l’educazione e la cura della prima
infanzia entro il 2015. Dopo la la Conferenza Mondiale sulla cura alla prima infanzia e
all’istruzione tenutasi a Mosca nel 2010, 30 esperti della prima infanzia provenienti da
tutto il mondo si sono riuniti presso la sede dell’UNESCO a Parigi, il 12 e 13 settembre
2011, con l’obiettivo di concordare le modalità di miglioramento della capacità di monitorare i progressi compiuti nella qualità della cura per l’infanzia e nell’educazione di base.
Queste sono infatti le finalità dell’ECCE (Early Childhood Care and Education) che è il
programma dell’UNESCO in cui si inserisce il primo obiettivo dell’EFA. All’interno del
progetto ECCE è stato creato nel 2010 un Comitato tecnico specifico (HECDI, Interagency
Technical Committee to develop the Holistic Early Childhood Development Index) con l’intento di superare la frammentazione esistente riguardante la cura della prima infanzia, in
favore di una visione olistica del monitoraggio sull’educazione di base, ponendosi alcuni
obiettivi fondamentali: promozione di politiche integrate ECCE e programmazione a livello
nazionale e subnazionale; protezione legale dei bambini; protezione sociale e benessere
dei bambini; sviluppo socio-emotivo e cognitivo; accesso e qualità delle cure nella prima
infanzia ed istruzione; salute e nutrizione.
5 Secondo Luhmann (1983) è soprattutto l’educazione a doversi confrontare con la
complessità. Osserva infatti che la rivoluzione educativa, tra le tre moderne rivoluzioni
– industriale, democratica, educativa –, è quella che ha un impatto sociale più rilevante e
ampio e che si trova a dover affrontare e gestire i problemi di più vasta portata.
18
“sorveglianza teoretica” (Cerri Musso 2002, p. 30) relativa alle proprie
conoscenze e ad una verifica operativa delle prassi didattiche.
D’altro canto, il paradigma della complessità richiede una specifica
chiave di lettura delle problematiche educative che prendono corpo nei
contesti della vita associata. È di aiuto in tal senso la definizione di
complessità che fornisce il dizionario della lingua italiana Devoto-Oli,
cioè «modo di essere o di presentarsi che rende difficile l’orientamento
e la comprensione […] dovuto generalmente a profondità, minuziosità o svolgimento necessariamente complicati (oscuri, tortuosi)». La
definizione pone bene in evidenza la difficoltà sia di comprendere gli
eventi che avvengono nel contesto, sia di orientarsi nella collocazione
di questi stessi entro un quadro che li contenga e che conferisca loro
senso.
Per altro verso, l’etimologia di complessità (dal latino complecto,
complectis, complexum, complectĕre che significa abbracciare), rimanda
alla impossibilità di scindere gli elementi che la costituiscono e alla minuziosità del processo entro cui si sviluppa. Da questo punto di vista la
complessità che caratterizza la competenza degli insegnanti (si veda il capitolo secondo della parte seconda) tra tradizione, innovazione e capacità
di cambiamento, riconduce le varie e molteplici competenze a unitarietà
armonica e solidale che trova espressione nella relazione docente-allievo
e dunque nella didattica, ma trova anche espressione nella reciprocità
delle azioni e delle relazioni tra insegnanti che agiscono su un determinato gruppo di allievi, utilizzando le loro specificità come arricchimento
e non come barriere nel loro agire.
A fronte della vasta eterogeneità delle classi nella scuola e delle tante
declinazioni della diversità (disabilità, disagio affettivo-emotivo, svantaggio socioculturale, disturbi di apprendimento, ecc.) diviene quindi
essenziale fornire un’adeguata formazione agli insegnanti in chiave inclusiva soprattutto «se si vuol renderli sicuri e competenti nell’insegnamento a soggetti che presentano molteplici esigenze» tenendo conto che
la complessità è tale da esigere che questa formazione si concentri anche
su comportamenti e valori e non solo su conoscenze e competenze (OMS
2011).
Tuttavia, l’educazione inclusiva è a tutt’oggi un costrutto teorico
soggetto a differenti interpretazioni. In molti Paesi l’inclusione è ancora
percepita come un approccio che si occupa pressoché completamente di
inserire gli allievi con disabilità nelle classi ordinarie; in altri Paesi, è
19
invece assunta nell’ottica più ampia di una riforma formale e sostanziale
che sostiene e valorizza la diversità di e tra tutti gli alunni.
La sollecitazione dell’UNESCO a puntualizzarne un significato condiviso rispetto a quelli di integrazione e di BES ha dunque un senso
preciso e se ne darà conto nel paragrafo successivo.
1.2.1 Integrazione, Mainstreaming, Inclusione, BES, Partecipazione
Il radicale cambiamento che ha caratterizzato la progettualità educativa e le prassi organizzativo-didattiche è stato sostanzialmente determinato dall’accesso alla scuola di tutti gli allievi con disabilità, dalla legge
118/1971 alla legge L. 517/1977, dalla Sentenza della Corte Costituzionale n. 215/1987 alla legge quadro n. 104/1992 e al D.P.R del 19946.
Si tratta di norme di legge che hanno anticipato per certi versi lo
sviluppo della sensibilità pubblica lungo l’itinerario scandito dalle tre
fasi che vanno dall’esclusione e dalla correlativa istituzionalizzazione
separata, all’inserimento e all’integrazione; tuttavia sono state le buone
prassi espresse dalla scuola che hanno promosso le iniziative legislative
stesse.
Tali eventi hanno accompagnato il dibattito e la ricerca del significato di integrazione, prima, di inclusione poi, di BES, e attualmente di
partecipazione, sostenuti via via dalla ricerca scientifica più accreditata in materia e dall’ampia letteratura nazionale e internazionale che su
tali temi hanno dato un rilevante contributo all’arricchimento del quadro
concettuale, pur nelle perduranti incertezze terminologiche. La Pedagogia speciale e la Didattica speciale hanno certamente svolto un ruolo
6
Legge n. 118/1971, Conversione in legge del decreto-legge 30 gennaio 1971, n. 5,
e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili; Legge n. 517/1977, Norme sulla
valutazione degli alunni e sull’abolizione degli esami di riparazione nonché altre norme
di modifica dell’ordinamento scolastico; Sentenza della Corte Costituzionale n. 215/1977,
Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale art. 28, terzo comma, della legge 30
marzo 1971, n. 118: Scuola – mutilati ed invalidi civili – soggetti portatori di handicaps –
diritto alla frequenza delle scuole secondarie superiori – effettiva e concreta realizzazione
del diritto – mancata assicurazione – violazione degli artt. 3.30.31 e 34 della Costituzione
– Illegittimità costituzionale parziale; Legge n. 104/1992, Legge-quadro per l’assistenza,
l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate; D.P.R. 24 febbraio 1994, Atto
di indirizzo e coordinamento relativo ai compiti delle unità sanitarie locali in materia di
alunni portatori di handicap.
20
fondamentale a livello di ricerca e di dibattito culturale, ma le diversificate impostazioni teorico-culturali e la molteplicità degli approcci
metodologici che ineludibilmente le attraversano, hanno fatto sì che su
tali termini-dimensioni venissero elaborate interpretazioni plurime e differenti tra loro.
Lungi dall’essere un problema, in realtà le impostazioni diverse hanno costituito una ricchezza di stimoli che hanno permesso nel tempo un
livello qualificato di confronto e di dialogo nei e tra i diversi sistemi educativi del mondo che hanno saputo coniugare il principio e il significato
di integrazione con quelli di istruzione nelle classi comuni e di inclusione: integration, mainstreaming, inclusion7.
Per quanto riguarda l’uso nel nostro Paese dei due termini “integrazione” e “inclusione” va considerato che l’accostamento del primo
ad un improbabile, quanto errato, processo di “normalizzazione”8 o di
“standardizzazione” degli allievi con disabilità e/o in difficoltà (ai quali
veniva chiesto di adeguarsi al contesto e non viceversa!), ha in qualche
modo fatto attecchire il secondo termine, quello di “inclusione” dando
avvio ad una quarta fase, innovativa nello scenario educativo, dopo quelle dell’esclusione, dell’inserimento e dell’integrazione, già citate.
“Questo processo ha indotto Canevaro ad affermare che occorrerebbe
parlare piuttosto di intreccio, e penso proprio con l’intenzione di non
perdere il senso teoretico dell’integrazione, dato e non concesso che questo concetto e questo termine abbiano perso il loro valore semantico […].
Ma non è tanto importante usare il termine “inclusione” invece di quello
di “integrazione”, che è certo un intreccio e soprattutto un incontro con
la diversità, e quindi un dialogo cogente con essa, ma è importante andar
oltre i nominalismi e cogliere lo spessore antropologico, di antropologia
pedagogica, entro la pedagogia speciale, implicito in un termine che lasci
intravedere la realtà del superamento di ogni barriera che anteponga un
uomo a un altro uomo” (Larocca 2007, p. 41).
7 A questi termini, si aggiungono poi nell’uso comune altri quali inclusive education
in ambito americano; questa stessa dizione è anche adottata preferibilmente nei contesti
inglesi.
8 Il termine “normalizzazione” è stato in uso tra gli anni Cinquanta e Sessanta, inizialmente in Scandinavia, con l’intento di riconoscere l’uguaglianza di diritti tra persone
con disabilità e senza disabilità (Hollenweger e Haskell 2002). All’interno di tale paradigma, il successo dell’appartenenza viene misurato dal grado di normalizzazione raggiunto
dall’alunno e dalla sua capacità di colmare la distanza che lo separa dagli altri in relazione
a un preteso standard di adeguatezza e di prestazione.
21
Per il termine Mainstreaming (Hocutt 1996), il cui significato letterale è “comune”, si risale invece agli anni Ottanta e viene adottato con lo
scopo di affermare che tutti i soggetti, con o senza disabilità, e indipendentemente dalla gravità di quest’ultima, debbano frequentare la scuola
“comune”, che è da rinnovare per adempiere a questo impegno.
Mainstreaming, ovvero “istruzione in classi comuni”, fu avvicinato
semanticamente e culturalmente al termine “inclusione”9, in uso a partire dagli anni Novanta, per il comune riferimento all’accesso alla scuola
da parte di tutti gli alunni, anche se non sempre in concomitanza con un
autentico rinnovamento, in termini di cambiamento, della scuola stessa
(Winzer, Mazurek 2000).
Gli anni successivi furono caratterizzati sia dall’attività del movimento inclusivo che determinò l’ampia diffusione del termine “inclusione”,
sia dall’elaborazione di documenti e dichiarazioni internazionali con i
quali l’UNESCO (2000) sollecitava l’uso dell’espressione “Educazione
per Tutti” (Education for All) al posto di “Bisogni Educativi Speciali”.
Quest’ultima espressione, da tempo al centro del dibattito scientifico,
appare per la prima volta in Inghilterra nel Rapporto Warnock – “Special Educational Needs” (SEN) – e ha costituito un punto di riferimento
verso un approccio inclusivo alle diversità basato sull’individuazione di
obiettivi comuni a tutti gli alunni di una classe, indipendentemente dalle
loro abilità o disabilità, da raggiungere con modalità di apprendimento
individualizzate.
Oltre al suggerimento dell’UNESCO, da sottolineare lo studio di Booth e Ainscow (2002) secondo il quale, nell’ottica dell’inclusione, è riduttivo fare riferimento esclusivamente ad alcuni alunni con problemi
psicofisici o con BES. Il cambiamento di prospettiva che i due studiosi
propongono riduce l’attenzione verso le situazioni di “bisogno” risultante da un approccio prettamente medico-diagnostico, a favore di un
approccio orientato verso un modello bio-psicosociale ed educativo di
disabilità e di difficoltà, così come è andato evolvendosi anche attraverso
le concettualizzazioni dell’International Classification of Functioning,
Disability and Health (OMS 2001, 2007), di cui si tratterà nel capitolo
secondo. Tale presa di posizione concettuale e culturale implica un forte
riorientamento sia della sensibilità diffusa che dell’approccio scientifico
9
Il termine inclusione fu utilizzato per la prima volta in ambito pedagogico nella
Dichiarazione di Salamanca nel 1994 che ne affermò il valore sociale e culturale.
22
al tema delle differenze (Deleuze 1997; Deleuze, Guattari 2003) intese
quali modi di esprimersi della realtà e non come contrapposizioni di categorie, alla luce delle quali tutti «gli alunni possono essere ugualmente
valorizzati, trattati con rispetto e forniti di uguali opportunità a scuola»
(Dovigo 2008, p. 13).
L’ampliamento di prospettiva consentito dalla ricollocazione dei bisogni del singolo nel quadro più ampio della pluralità delle differenze nel
contesto scolastico permette di pensare quest’ultime evitando il tentativo
di uniformarle o di chiuderle in codici linguistici e sigle che rischiano di
diventare autoreferenziali. Permette anche di promuovere lo sviluppo di
una professionalità docente in grado di osservare, conoscere e comprendere la complessità di ciascun alunno e dei suoi bisogni, considerandoli
tutti portatori veri e propri di risorse (Chiappetta Cajola 2010).
Tutti e ciascuno devono quindi poter apprendere e partecipare alla
vita scolastica interagendo positivamente con i fattori ambientali (OMS
2001, 2007): il paradigma teorico dell’accesso all’attività e alla partecipazione scolastica e sociale di ciascuna persona sta così segnando attualmente una fase nuova e innovativa, la quinta, verso la concezione della
scuola inclusiva come diritto di tutti.
«Tutti i bambini e i ragazzi del mondo, con i loro punti di forza e di
debolezza individuali, con le loro speranze e aspettative, hanno diritto
all’educazione. Non spetta al sistema scolastico decidere chi è adeguato
e ne ha diritto. Pertanto è il sistema scolastico che deve adeguarsi in
modo da corrispondere alle necessità di tutti gli studenti» (Medeghini
2006, p. 58).
Il principio della scuola inclusiva come diritto di tutti si accompagna
al principio secondo il quale “la società inclusiva è un diritto di tutti”
(UNESCO 2002)10 e la partecipazione ad essa è espressione della dignità, dell’autonomia individuale, della libertà di scelta, nonché del rispetto
delle differenze, dell’accessibilità e dell’eguaglianza per l’evoluzione
delle capacità di ciascuno e del diritto alla propria identità (Convenzione
ONU 2006).
10
La Dichiarazione di Madrid “Non discriminazione, più azione positiva, uguale integrazione sociale” venne presentata al Congresso Europeo sulla disabilità in vista dell’Anno
Europeo delle persone disabili (2003). La rilevanza della Dichiarazione sta nell’aver ribadito i principi di non discriminazione e di inclusione sociale quali diritti di tutti.
23
1.3 Per un’etica dell’inclusione
La lettura dell’inclusione come diritto universale dell’uomo pone in
rilievo innanzitutto il diritto individuale a usufruire delle condizioni per
fare come gli altri, non come omologazione di comportamenti e aderenza a stereotipi diffusi, ma come modalità inclusiva esistenziale, tensione
valoriale e progettuale che orienta in modo proattivo sia verso obiettivi
da raggiungere e competenze da sviluppare, sia verso l’autonomia e l’indipendenza, la consapevolezza di sé e della propria identità e il proprio
progetto di vita.
L’identità di una persona si struttura, infatti, a partire dalla capacità di
desiderare, di avere aspettative, mete, di esprimere dunque una propria
progettualità esistenziale. Sotto questo profilo l’inclusione è un immancabile “imperativo etico, un diritto di base che nessuno deve guadagnarsi” (Stainback e Stainback 1990, p. 71).
L’inclusione è in definitiva una tensione etica in quanto apre ad una
dimensione nella quale ciascuno partecipa, riconosciuto e coinvolto,
al proprio contesto di vita, con dignità, nel rispetto dei propri diritti,
nell’esercizio della cittadinanza. «L’inclusione accade non appena ha
inizio il processo per la crescita della partecipazione» (Booth, Ainscow
2002, p. 31).
Infatti «solo nelle interazioni sociali è possibile trovare per una persona le connessioni tra sé, gli altri e il contesto e, a partire da queste
connessioni reali e potenziali, avviare un processo identitario» (Lepri
2011).
L’etica dell’inclusione promuove dunque in senso evolutivo la concezione dell’uomo, fornendo un contributo attivo allo sviluppo culturale
e della comunità. Coniugando il benessere psicofisico della persona con
la sua educazione, il processo inclusivo rende infatti possibile il diritto
di ciascuno a fare della propria vita un “capolavoro” (Nicolosi 2005)
rispetto allo sviluppo dei propri personali potenziali e rispetto alla libertà
di “essere” e di esprimersi, di apprendere e di partecipare, attraverso la
quale ogni persona può dare il meglio di sé.
Fare della propria vita un “capolavoro” è un valore progettuale ed
etico teso a realizzare l’originalità irripetibile del cammino della propria
vita individuale insieme agli altri. Ciò è possibile solo se ciascuno può
essere se stesso, nel modo singolare di pensare diversamente, di agire, di
vivere, e di essere felici in senso aristotelico.
24
Primo e fondamentale concetto dell’etica è quello di felicità, e l’etica
di Aristotele è un’etica eudaimonistica, che mira cioè alla felicità che è
legata all’attività, sia fisica sia intellettiva: è l’atto di un’azione ben riuscita, è un momento di partecipazione personale, prioritaria e fondante
esperienza del bene e aspirazione alla vita fiorente (Sen 1987) nel corso
della quale si concretizzano condizioni ottimali per far fiorire le potenzialità di ciascuno intese come talenti personali di cui tutti dispongono,
ma che non tutti possono sviluppare in assenza delle necessarie condizioni favorevoli.
Secondo la tradizione greca, inaugurata da Aristotele, l’espressione
eudaimonìa non corrisponde alla traduzione inglese happiness (felicità),
ma piuttosto è affine semanticamente al termine fulfillment, che vuol dire
realizzazione completa di sé, resa efficacemente con l’immagine vitale
di “vita fiorente” (flourishing life), di una vita in sostanza che fiorisce in
tutte le sue potenzialità.
Secondo Sen, nell’ambito della teorizzazione del capability approach
(Nussbaum, Sen 1993; Sen 2009; Terzi 2005, 2010), lo sviluppo delle
persone e dei sistemi sociali rappresentano una sorta di processo di dispiegamento delle capacità individuali (capabilities) e delle opportunità
di decidere e scegliere, fra una serie di vite possibili, quella vita da vivere
a cui attribuire valore e che, sola, rappresenta il contesto adeguato per
una propria vita fiorente.
Poiché vige una totale “diversità umana”, l’eudaimonìa deve condurre, nell’ottica del capability approach, ad uno sviluppo pluralistico delle
capabilities11.
Rispetto alla diversità umana, esistono dunque situazioni che “risultano maggiormente adatte per alcuni e non per altri individui” (Booth,
Ainscow 2008), ma la risposta ai bisogni di tutti e di ciascuno non può
11 Sen contrappone l’eudaimonìa all’idea di Welfare economics teso al raggiungimento
soltanto del benessere materiale; si contrappone anche all’elaborazione monistica dell’eudaimonìa di Aristotele, che, a suo parere, risente dell’errore di aver definito una “lista”
di funzionamenti valida per tutti gli esseri umani, trascurando di fatto l’individuo e le
sue caratteristiche irripetibili. Con l’espressione funzionamenti (functioning) Sen intende
“stati di essere e di fare”, tali da essere scelti per qualificare lo “star bene” (ad esempio: il
nutrimento, la salute, il rispetto di sé, la felicità, ecc.); con l’espressione capacità (capabilities) intende invece la possibilità di acquisire “funzionamenti di rilievo”, relativi alla
libertà di scegliere la vita da vivere: «Nella misura in cui i funzionamenti costituiscono lo
star bene, le capacità rappresentano la libertà individuale di acquisire lo star bene» (Sen
2010, p. 76).
25
essere, come è stato argomentato in precedenza, quella normalizzazione
che confina l’alterità nell’unicità, l’umano nella categorizzazione e nella
standardizzazione (Gardou 2006), quanto invece la valorizzazione delle
differenze liberate dai nodi della tipizzazione e dell’omologazione.
In questo quadro parlare di felicità all’interno del capability approach permette di affermare che essa è potenzialmente disponibile e raggiungibile da tutti, comprese le persone con difficoltà psicofisiche. Per
quest’ultime, l’ambiente è particolarmente importante: possono essere
felici e in grado di cogliere anche frammenti di felicità (Natoli 1994)
quando sono circondati dall’amicizia e dalla stima, e vivono la “vita fiorente” nella solidarietà, nella gratuità e nell’accoglienza.
«Nessuno di noi direbbe che un albero, una luce, un fuoco possono
essere la felicità, perché noi la felicità la pensiamo sempre nella dimensione dell’acme, mentre noi siamo grati alla vita e ci piace vivere, non
tanto per l’acme, ma perché la bellezza frammentaria della vita, quando
noi neanche ce l’aspettiamo, può irrompere e sviluppare in noi un sentimento profondo, anche inconscio, di gratitudine. L’infelicità involontaria
è, purtroppo, la più piena, perché dall’acme si può cadere; mentre, di contro, questa irruzione, questi piccoli frammenti di felicità, che irrompono
in ogni momento della nostra esistenza, ci fanno amare quest’ultima. Se
poi ci chiedessimo il perché non lo sapremmo neppure dire. Ma questi
attimi sono che nutrono costantemente la vita, sono quegli elementi di
lievito, per cui la vita, nonostante tutto, ci può sembrare davvero bella»
(Natoli 1998).
Il breve brano proposto può essere più o meno significativo per il
lettore; permette però di sottolineare che l’infelicità di qualsiasi persona in difficoltà dipende spesso dall’essere esclusi e isolati, dall’essere
rifiutati dalla società, impossibilitati ad accedere ad alcun frammento di
felicità.
Allo stesso modo, vivere accanto a loro è un arricchimento in umanità
e può far maturare una visione della vita più ampia e profonda, perché
possiedono e trasmettono una “sapienza” e una “intelligenza del cuore”
(Greenspan, Lieff 1997) che non ha sempre modi diretti per esprimersi12,
ma può trovare nel rapporto con gli altri la maniera di manifestarsi, se si
sa ascoltare e vedere. Quello che è certo è che sono persone che possono
12 A tale riguardo, può essere interessante richiamare l’invito ricorrente di Roland
Barthes a recuperare il linguaggio dei sentimenti. Si veda il suo lavoro dal titolo Frammenti
di un discorso amoroso, Einaudi, Torino, 1979.
26
contribuire al miglioramento della società promuovendo un cambiamento di mentalità e di cultura molto importanti per tutti.
1.3.1 Tra potenzialità e talento: identità e creatività
Ma che cosa favorisce la fioritura, lo sviluppo dell’essere umano?
In questo paragrafo viene delineato, tra altri possibili, un filo rosso
lungo il quale si snodano considerazioni, riflessioni e convinzioni che
vengono sottoposte al lettore, auspicando, perché no, un confronto “creativo”.
«Con la parola e con l’agire ci inseriamo nel mondo umano, e questo inserimento è come una seconda nascita, in cui confermiamo e ci
sobbarchiamo la nuda realtà della nostra apparenza fisica originale… Il
fatto che l’uomo sia capace di azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente
improbabile. E ciò è possibile solo perché ogni uomo è unico e con la
nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità.
Di questo qualcuno che è unico si può fondamentalmente dire che prima
di lui non c’era nessuno. Se l’azione come cominciamento corrisponde
al fatto della nascita, se questa è la realizzazione della condizione umana
della natalità, allora il discorso corrisponde al fatto della distinzione, ed
è la realizzazione della condizione umana della pluralità, cioè del vivere
come distinto e unico essere tra uguali» (Arendt 1989, pp. 128-129).
Con questa definizione Hanna Arendt descrive l’assoluta unicità
dell’essere umano, ciascuno distinto da tutti gli altri. Prima di quell’essere umano nessun altro prima di lui era mai nato con i suoi stessi caratteri.
Nella sfera dell’inatteso che da lui ci si può attendere si collocano la sua
creatività, le sue potenzialità e il suo talento. Ogni uomo ha dunque in sé
delle potenzialità da far fiorire e da sviluppare e se non può o non riesce
a svilupparle, è come se rinunciasse al raggiungimento del grado di unicità complessa e completa che gli compete, nel rapporto tra creatività e
identità.
La visione di Arendt reinterpetra in modo originale la visione agostiniana della ricerca e della definizione dinamica dell’identità. Anche
per Agostino è necessaria l’azione per raggiungerla, perché l’uomo deve
mettersi in cammino e compiere un viaggio di ritorno dentro di sé. Ognu27
no compie il proprio cammino individualmente per raggiungere la verità
(Arendt 2004). Questo congiungimento dell’uomo con la verità, corrisponde in Arendt “al fatto della distinzione”, ed è la realizzazione della
condizione umana della pluralità, cioè del vivere come distinto e unico
essere tra uguali.
Queste due visioni delle identità si completano vicendevolmente, riuscendo a tracciare in particolare, nel quadro dei rapporti fra l’azione e i
suoi obiettivi, quelli fra creatività e identità, ove la prima rappresenta il
più alto carattere di individualità nel compimento di questa azione, e la
seconda è la realizzazione della condizione umana della pluralità.
Di conseguenza viene confermato il talento creativo (Taylor 1959;
Andreani, Orio 1972) come caratteristica appartenente a tutti gli uomini
e non come fenomeno elitario di matrice settecentesca che la considerava
appannaggio esclusivo del “genio”.
«Il mito romantico del genio creativo raramente aiuta. Spesso riesce
insidiosamente autodistruttivo. Può sostenere la sicurezza in sé di quegli
individui che credono di far parte dei pochi eletti (forse ha aiutato Beethoven a far fronte ai suoi molti problemi), ma indebolisce l’autostima in
coloro che non lo credono. Chi pensa che la creatività sia un potere raro e
speciale non può ragionevolmente sperare che la perseveranza o l’educazione potranno permettere loro di entrare a far parte della élite creativa.
O uno ne fa già parte o non ne farà mai parte. L’idea monolitica della
creatività, del talento e dell’intelligenza sono ugualmente frustranti. O
si possiedono o non si possiedono. Perché sforzarsi di tentare se i nostri
sforzi possono condurre solo a un livello poco meno deprimente della
mediocrità?… Un atteggiamento ben differente è possibile a chi pensa
che la creatività sia basata sulle capacità ordinarie che tutti abbiamo e su
una competenza pratica alla quale tutti possiamo tendere» (Boden 1990,
pp. 255-256).
Ogni persona possiede quindi il proprio talento individuale, fondato
sul presupposto dell’unicità dell’individuo e inteso non come tratto raro
e riservato a pochi, ma come potenziale posseduto da ciascuno in modo
differente e originale, anche se talvolta in modo nascosto e in attesa di
sentir scoccare la scintilla personale della capacità della scoperta continua e della bellezza nascosta nell’umanità.
Gli insegnanti, certo, sanno e sapranno andare oltre le manifeste noncompetenze, e dedicarsi alla scoperta di senso anche dove esso sembra
non esserci, sapendo invece cogliere l’approssimarsi di nuove potenzia28
lità in una visione dinamica della persona, attraverso occasioni sistematiche di partecipazione attiva ed espressiva.
L’ambiente diventa tutto una “zona di sviluppo prossimale” (Vygotskij 1962) in cui si possono trovare le motivazioni e gli aiuti appropriati
tali da far affiorare il valore relazionale della creatività13, in cui promuovere l’educazione lenta, talvolta faticosa, di potenzialità differenti per
grado e per caratterizzazioni.
Il risultato è la serenità individuale e di gruppo, la crescita di persone
capaci di instaurare un circolo virtuoso i cui effetti finiscono immancabilmente per farsi sentire anche nel contesto sociale in cui si vive. Non c’è
creatività infatti che non sia utile, anzi, che non sia etica e che non persegua il bene dell’uomo e dell’ambiente in cui egli vive (Machiavelli)14.
1.3.2 Tra “errore”, “approssimazione”, “dissonanza” e “divergenza”:
dimensioni inclusive della didattica
Poiché la didattica, da quanto fin qui argomentato, non può certo fare
affidamento sulla capacità descrittiva della nozione di allievo medio soprattutto e sempre di più nella situazione attuale in cui la popolazione
scolastica tende a coincidere con l’intera popolazione compresa in una
fascia di età, è fondamentale da parte del docente assumere l’atteggiamento più adeguato di chi ricerca e indaga in modo sistematico le situazioni sulle quali intervenire.
Spetta infatti alla scuola inclusiva variare la propria proposta di formazione fino a renderla idonea a soddisfare le esigenze individuali e
differenziare l’approccio didattico a seconda delle caratteristiche di chi
apprende (Gagné 1974; Bloom 1983, 1993; Bruner 1990), il che sembra
13 La diade gruppo-creatività è il frutto di una grande presa di coscienza maturata
in particolare con il progresso delle scienze psicologiche. Si vedano, tra altri: Guilford
1950; Taylor 1959; Getzels, Jackson 1962; Mednick 1962; Bruner 1968; Ward 1968;
Andreani, Orio 1972; Beaudot 1977; Lowenfeld 1984; Vygotskij 1972; Gardner 1994;
Sawyer 2012.
14 Tra le innumerevoli definizioni di creatività che sono state date nel corso dei secoli,
particolarmente interessante in questa sede è quella di Machiavelli, tratta dal Proemio ai
Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. Egli intende, infatti, non soltanto la voglia e la
capacità di tentare nuove vie non esplorate o non comprese da altri, ma anche di percorrerle
e approfondirle attraverso la ricerca e l’applicazione pratica delle loro potenzialità, soprattutto ai fini del “comune benefizio a ciascuno”.
29
auspicare il conseguimento di risultati il più possibile omogenei verso
l’alto, seguendo però itinerari che sono invece il più possibile differenziati.
A questa parte della didattica sono interessati la totalità degli allievi
(Gagné 1973) e non solo quelli in difficoltà di apprendimento, come si
potrebbe credere ancora oggi.
La meta del processo educativo, infatti, è rappresentata non soltanto
dall’uguaglianza delle opportunità iniziali, ma anche dall’uguaglianza di
opportunità finali, ovvero di raggiungere risultati ottimali per ciascuno.
Questi ultimi possono realisticamente essere conseguiti dalla maggior
parte degli alunni (Block 1977; Bloom 1979) se gli insegnanti impiegano
sistematicamente e accuratamente modalità e mezzi didattici adattati alle
loro differenze.
Né, peraltro, questa meta pare meno raggiungibile in presenza di
alunni che apprendono ad un ritmo e ad un livello di complessità molto
diverso rispetto alla media, a causa di caratteristiche personali, di fattori
genetici e di influenze derivate dall’ambiente familiare.
Ne consegue che, all’interno di una situazione di gruppo, non omogenea come è quella di qualsiasi classe scolastica, i docenti possono programmare il raggiungimento e l’uguaglianza di obiettivi generali, prevedendo però una diversificazione di compiti e di obiettivi immediati e
intermedi per i singoli allievi.
L’insegnante, in altre parole, assumerà atteggiamenti e comportamenti tali da dar modo a ogni allievo di ricevere la fiducia, l’aiuto e l’incoraggiamento di cui ha bisogno (Huberman 1992; Guskey 1994; Di Blasio
1995; Franta, Colasanti 1999; Becciu, Colasanti 2010), al punto da mettere in atto un trattamento didattico differenziato in termini di supporti
e procedure, di materiali istruttivi, di correttivi se ritenuti necessari in
alcune fasi del processo di apprendimento.
Compito della scuola, dunque, è assolvere in misura sempre crescente
funzioni di sviluppo e non di selezione (Visalberghi 1955, 1958; Young
1962; Bourdieu 1966; Gattullo 1967; Calonghi 1976; Vertecchi 1988;
Maragliano 1989; Giovannini 1994; Domenici 1996; Coggi, Notti 2002;
Bottani, Benadusi 2006), per cui le differenze di apprendimento non possono più costituire la base per classificare gli alunni, dei quali, invece,
bisogna potenziare la capacità di iniziativa e di modificazione attiva dei
dati di conoscenza, dal momento che tutto ciò che viene appreso non
è fine a se stesso, ma serve a ciascuno per acquisire ulteriori apprendi30
menti. È in questo modo che si creano le condizioni tese all’abitudine
ad apprendere, ovvero ad imparare ad apprendere (Dewey 1916, 1963;
Bateson 1976; Delors 1993; Cresson 1995).
Uno dei segnali di innovazione nella interpretazione della didattica
è costituito, da tempo, anche dal diverso modo di porsi nei confronti
dell’insuccesso scolastico momentaneo, cioè dell’errore che l’alunno
compie nello svolgimento delle attività orientate al conseguimento della meta. Proprio l’analisi di quest’ultimo, nell’ambito della multisemia
che lo caratterizza, ha fatto emergere alcune tendenze di interpretazione
(Baldini 1983) e le relative prospettive di intervento nell’ambito di una
offerta didattica differenziata in grado di considerare anche la componente individuale di ansia (Yerkes, Dodson 1908; Taylor, Spence 1952;
Mandler, Sarason 1952; Cattell, Scheier 1961; Eysenck 1982; Galeazzi,
Meazzini 2004) quale fattore che può, tra altri, contribuire a spiegare la
distanza tra le capacità potenziali dell’allievo (Berlini, Canevaro 1966) e
i suoi risultati scolastici effettivi.
È importante che anche nei documenti programmatici nazionali
(MIUR 2007, 2012) venga auspicato l’intervento preventivo all’errore e,
comunque, richiamata la gradualità metodologica. Ma poi può accadere
che, nell’ordinaria prassi didattica, l’errore assuma una connotazione negativa, legata talvolta alla scarsa comprensione del compito da svolgere
e/o ad una mancata consapevolezza di esso.
Apprendimento ed errore sono abitualmente ritenuti antitetici tra loro,
e il secondo termine è il più delle volte un concetto carico di disvalore e
sembra riconducibile ad una visione autoritaria della conoscenza (Egidi
2004, 2005). In realtà l’errore non pare affatto avere il solo carattere di
negatività; esso può rientrare, infatti, nel quadro di una inadeguata applicazione di quanto l’allievo sa, o in quello più generale delle ipotesi che
l’alunno formula in una data situazione di apprendimento, assumendo di
volta in volta un valore orientativo, creativo, oppure un valore di controllo e di verifica (Graziani 1964; Rodari 1964, 1973; Perkinson 1983;
Trisciuzzi 1967; Trisciuzzi, Corchia 1999).
Il suo valore di orientamento e di approssimazione, però, è accettabile nella misura in cui costituisce una situazione dinamica, evolutiva,
cioè una situazione in cui si susseguono varie fasi, l’ultima delle quali
prevede la precisazione e la correttezza della risposta da fornire. In questo senso, nell’ambito della relazione educativa docente-allievo, l’errore
rende possibile, da parte del soggetto che lo compie, la conoscenza dei
31
propri limiti o delle momentanee fragilità nell’apprendimento che, oltre
che divenire un’abitudine operativa, costituisce lo stimolo indispensabile
a sollecitare il feedback, ovvero a ricercare insieme l’esattezza della risposta, al fine di controllare e regolare quella data precedentemente e di
procedere alla correzione degli scarti rispetto ai risultati.
Una prassi educativa così caratterizzata, emancipata da ogni rigida
metodica e improntata invece al dinamismo creativo di strategie didattiche efficaci, alla cooperazione fattiva, alla ricerca continua, è fondata
sull’esperienza scandita da tentativi di ricerca di soddisfacenti soluzioni dei problemi che la viva realtà pone continuamente (Freinet 1962,
1963). Tentativi che, naturalmente, sono guidati da fattori cognitivi, ovvero schemi cognitivi, mappe, aspettative, scopi, assunti, ipotesi, anche
“taciti”.
L’analisi sistematica degli errori compiuta insieme agli allievi contribuisce certamente a rafforzare la loro capacità di capire, rendendoli
progressivamente consapevoli dell’errore come momento di dissonanza nel corso di un processo cognitivo-emotivo (Festinger 1957; Amerio,
Bosotti, Armione 2001) che, se non sempre può essere evitato, va però
sempre rilevato, accolto e dialogato (Piattelli Palmarini 1991; Chomsky
2001)15, in definitiva condiviso.
In questa prospettiva è di grande respiro l’istanza pedagogica di Bruner che, nel rivalutare le capacità intuitive con cui l’individuo formula
ipotesi anche azzardate per risolvere un problema, percependolo nella
sua totalità, avverte che «chi pensa in modo intuitivo… può spesso raggiungere soluzioni errate, ma può anche accorgersi di aver sbagliato,
da solo o grazie all’intervento altrui. Questo procedimento di pensiero
quindi comporta la possibilità consapevole di commettere errori, in tutta
onestà, nell’intento di risolvere problemi» (Bruner 1966, p. 105).
Come è noto agli insegnanti, può invece accadere che, nel tentativo di
produrre la risposta esatta, l’allievo metta in atto una serie di modalità15 Il riferimento a Chomsky è qui proposto per il cambiamento nell’atteggiamento verso
l’errore considerato quale risultato naturale di un processo di produzione linguistica, che,
a partire dalla fine degli anni ’50, è stato determinato dall’affermazione delle nuove teorie
linguistiche. Queste ultime paiono particolarmente significative da richiamare nel contesto
del presente lavoro per sottolineare che l’uso e la produzione della lingua fanno parte delle
modalità creative di ogni essere umano e sono distintivi della propria unicità. Si vedano:
Chomsky N., Su natura e linguaggio, Università degli Studi di Siena, Siena, 2001; Piattelli
Palmarini M. (a cura di), Linguaggio e Apprendimento. Il dibattito tra Jean Piaget e Noam
Chomsky, Jaca Book, Milano 1991.
32
espedienti che vanno dalla ripetizione di frasi fatte, allo studio mnemonico, alla copiatura di informazioni e di dati desunti da fonti considerate
affidabili. Ciò mostra la mancanza di flessibilità e fluidità dell’allievo di
formulare risposte alternative, di ipotizzare soluzioni personali poiché egli
vive in modo unidirezionale la risposta giusta. Ma mostra anche altre cause, quali la distrazione, l’esitazione, vuoti di memoria, difficoltà a mantenere il filo del discorso, interferenze culturali, e tutto ciò può contribuire
alla costruzione di filtri emotivi che bloccano l’acquisizione di apprendimento (Terrell, Krashen 1983; Damasio 1996, 2000; Goleman 1996).
L’alunno dovrebbe, invece, poter distinguere tra dissonanza, approssimazione, divergenza (Guilford 1950, 1967; Festinger 1957; Getzels,
Jackson 1962) ed errore; quanto più si terrà conto, nella pratica didattica,
delle sue potenzialità, delle sue motivazioni, dei suoi interessi e dei suoi
ritmi e stili di apprendimento, tanto più egli stesso si avvicinerà alla comprensione reale del compito da svolgere, nel cui ambito anche l’errore
acquisterà valore informativo e orientativo ad una migliore conoscenza
della realtà. In questo senso, potrà avere anche un ruolo formativo, essere
considerato un fatto normale, positivo, utile, ed «è sorprendente vedere
come gli studenti possano perdere una parte della loro paura di sbagliare,
profondamente radicata in loro, quando si trovano con un insegnante che
non chiede loro di essere nel giusto, ma soltanto di unirsi a lui nella ricerca dell’errore: del suo come del proprio» (Postman 1981, pp. 175-176).
Le learning teories (Bigge, Morris 1964; Birren 1964; Hilgard, Bower, 1983; Boscolo 1986) hanno tentato di stabilire il ruolo dell’errore
nel processo di apprendimento: atto eliminabile o elemento essenziale
della riuscita? E, in questo secondo caso, in che misura? In alcune teorie dell’apprendimento, quest’ultimo è definito come un processo che si
attua mediante tentativi ed errori […], in cui il termine “errori” sta ad
indicare la conseguenza negativa della prova non riuscita, cioè quel comportamento che non conduce all’obiettivo che si voleva raggiungere.
Alcuni studiosi (Bain 2006) ritengono quindi che soltanto il tentativo
riuscito, arrecando piacere al soggetto che apprende, viene ripetuto nel
tempo proprio in virtù della connessione associativa che si stabilisce tra
la gratificazione e il momento che l’ha determinata, aumentandone la
motivazione ad apprendere.
Di contro, il tentativo non riuscito, ovvero l’errore, si identifica
nell’assunzione di un comportamento dispersivo all’interno dell’azione
che l’allievo sta svolgendo.
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