17. Dobson - Funzione Pubblica Cgil

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17. Dobson - Funzione Pubblica Cgil
OSSERVATORIO
William J. Dobson
IL GIORNO
CHE NON HA CAMBIATO
QUASI NIENTE *
C
i avevano detto che il mondo non sarebbe mai più stato
lo stesso. Ma l’11 settembre ha veramente modificato la
situazione del pianeta? Nonostante tutto il clamore e la
furia 1, il mondo si presenta molto simile a come era il 10 settembre. Alle 8,45 am dell’11 settembre 2001, vivevamo in un’era post-guerra fredda. Alle 9,37 am, appena 52 minuti dopo,
mentre il terzo aereo di linea dirottato si schiantava contro il
Pentagono, era iniziata l’era post-11 settembre. Tutti ci hanno
detto che tutto era cambiato.
È stato l’inizio di un nuovo capitolo della storia. L’immagine
di migliaia di persone che morivano mentre le torri gemelle crollavano in una cascata di fuoco e di polvere, in diretta televisiva,
© Copyright 2006 Foreign Policy Magazine 2006. Con il titolo The Day
Nothing much changed, questo articolo (sul quale si è aperta negli USA un’accesa discussione) è stato pubblicato sul fascicolo di settembre-ottobre 2006 di
«Foreign Policy». «Quale Stato» si è trovato nell’impossibilità di richiedere
l’autorizzazione a tradurre e pubblicare prima della chiusura in tipografia, ma si
dichiara disposto sin d’ora a riconoscere i diritti dei detentori del copyright.
Fondata nel 1970 da Samuel Huntington e Warren Demial Manshel,
«Foreign Policy» si definisce «la rivista leader… della politica, dell’economia
e delle idee globali», che si affida la «missione di spiegare come funziona il
mondo – in particolare come il processo di integrazione globale sta trasformando le nazioni, le istituzioni, e, soprattutto, la nostra vita quotidiana».
«Foreign Policy» si pubblica a Washington a cura della Fondazione Carnegie
per la pace internazionale.
William J. Dobson è direttore responsabile della rivista nonché responsabile del suo piano editoriale e dell’esame e revisione dei saggi.
1
W. Shakespeare, Macbeth, Atto V, Scena V: « Life’s...Told by an idiot,
full of sound and fury...» (La vita è... un racconto narrato da un idiota, pieno
di grida, strepiti, furori) (NdT).
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ha segnato una svolta epocale. C’era un mondo prima di quella
tragedia, e poi c’era qualcosa di molto diverso che sarebbe venuto dopo.
È forte la tentazione di supporre che questo atteggiamento sia
stato solo l’ennesimo esempio del narcisismo americano. (Gli
Stati Uniti erano stati attaccati, e per questo motivo il mondo
era cambiato.) Ma le cose non sono andate così. Un sondaggio
effettuato poco tempo dopo gli attacchi alle Torri da parte del
Pew Research Center ha riscontrato un grado straordinario di
concordanza fra gli opinion leaders di tutto il mondo su quello che
rappresentavano gli attacchi dell’11 settembre. In Europa occidentale, il 76% degli intervistati dai sondaggi ha affermato che
gli eventi di quel giorno segnavano un punto di svolta nella storia del mondo. In Russia e in Asia il 73 e il 69% della gente era
d’accordo. In Medio Oriente e in America Latina, la percentuale degli opinion leaders che credevano che l’11 settembre segnasse l’inizio di una nuova era arrivò addirittura al 90%. Ben di rado
in passato tante persone si sono trovate d’accordo sul significato
di un momento specifico.
Cinque anni dopo, è necessario rendersi conto che quella
risposta era dettata dallo shock. Certamente, per alcuni, non
avrebbe potuto esserci un momento in grado di cambiare più
profondamente la loro vita. Complessivamente, avevamo paura
di quello che stava per finire. La globalizzazione sicuramente si
sarebbe arrestata. Le frontiere – in particolare il bisogno di rafforzarle – avrebbero conosciuto una fase di rinascita, dato che i
governi avrebbero cercato di proteggersi dall’attacco successivo.
Il commercio globale, i flussi di capitale e l’immigrazione non
avrebbero più potuto essere gli stessi di prima. Le economie
nazionali si sarebbero indebolite, a mano a mano che si rafforzava la consapevolezza di trovarsi di fronte a uno ‘scontro di civiltà’. Le industrie, segnatamente il turismo e i viaggi aerei, sarebbero stati falcidiate.
Eppure, se si guardano attentamente le linee di tendenza
dopo l’11 settembre, quello che è sorprendente è quanto poco il
modo sia effettivamente cambiato. Le forze della globalizzazione
continuano la loro marcia senza il minimo rallentamento; anzi,
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semmai, hanno accelerato il passo. I problemi d’attualità che
stavamo dibattendo quella mattina di settembre sono in larga
misura gli stessi di oggi. Ampie misurazioni dei dati politici, economici e sociali indicano che le costanti sono più importanti
delle variazioni. E, a cinque anni di distanza, la politica estera
degli Stati Uniti non brilla per chiarezza strategica più di quanto non facesse il 10 settembre 2001.
Gli attacchi contro il World Trade Center e il Pentagono
sono stati un atto di terrorismo spettacolare del tipo peggiore.
Ma, perfino in una età in cui l’immagine solitamente prevale
sulla sostanza, la tragedia di quel giorno non ha segnato l’alba
di una nuova era. No, se c’è stato un giorno che ha cambiato il
mondo per sempre, è stato quindici anni fa, e non cinque: l’ultimo dell’anno 1991. È stato quel giorno, al riparo dalle telecamere, che l’Unione Sovietica si è decisa a gettare la spugna,
dissolvendo se stessa e ponendo fine ufficialmente alla guerra
fredda. Da quel momento in poi, gli Stati Uniti hanno regnato supremi – ‘l’unica superpotenza’, ‘l’iperpotenza’, ‘la potenza
egemone globale’, chiamatela come volete. E da quel momento in poi, il mondo ha perso il suo equilibrio, e non l’ha ancora recuperato. La tragedia dell’11 settembre è stata una manifestazione della malattia unipolare in cui il mondo era già
entrato un decennio prima. Un giorno dopo l’11 settembre,
continuavamo a vivere nell’era post-guerra fredda, esattamente come adesso, ed è proprio questo il nocciolo del problema.
A che punto eravamo rimasti
Se vi trovavate in una delle due città che sono state attaccate
l’11 settembre, forse avete acquistato una copia di uno dei quotidiani locali. Il titolo di testa di un articolo sul «Washington
Post» diceva Carri armati israeliani accerchiano una città in
Cisgiordania. La prima pagina del «New York Times» apriva con
un editoriale intitolato Gli scienziati sollecitano una maggiore disponibilità di cellule staminali. Nelle pagine interne, i lettori avrebbero potuto notare anche un piccolo riquadro dal titolo L’Iran
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nega di possedere armi nucleari. I titoli di quel mattino – prima
che il mondo venisse a sapere degli attacchi terroristici – indicano che le nostre preoccupazioni prima dell’11 settembre non
erano certo tanto diverse da quelle che ci incalzano da preso
ancora oggi.
È stata l’economia globale a presentare i primi segni che non
era sorto un nuovo giorno più preoccupante. Il 10 settembre, la
media industriale del Dow Jones aveva chiuso a 9.605,51. Alla
riapertura dei mercati, il 17 settembre, ci sono voluti solo 40
giorni perché i mercati chiudessero al di sopra di quel livello. Il
valore delle esportazioni mensili degli Stati uniti ha continuato
ad aumentare costantemente, passando da 60 miliardi di dollari
a oltre 75 miliardi di dollari dal 2001 al 2005. Il valore degli
scambi globali è sceso leggermente nel 2001, da 8000 a 7800
miliardi di dollari. Poi, una volta che i mercati si sono rimessi in
carreggiata, hanno ripreso a correre, aumentando un anno dopo
l’altro, fino a superare il livello di 12.000 miliardi di dollari nel
2005. I settori colpiti più duramente, come il turismo, hanno
recuperato con straordinaria velocità. Nel 2001, oltre 688 milioni di turisti si sono recati in viaggio all’estero; nel 2005, quel
numero era salito a 808 milioni – vale a dire con un incremento del 17% in quattro anni. La fiducia è ritornata così velocemente che non esitiamo neppure a costruire altri grattacieli.
Dall’11 di settembre ad oggi sono stati costruiti, progettati, o
sono in fase di costruzione ben quattordici edifici più alti delle
Torri Gemelle.
Un’altra sfortunata vittima dell’11 settembre si riteneva
che sarebbe stata l’apertura degli Stati Uniti nei confronti
degli immigrati. Rettori universitari, amministratori delegati
delle grandi corporations e, naturalmente, tutti coloro che
desideravano immigrare per motivi di studio o di lavoro, si
sono lamentati a gran voce del fatto che gli Stati Uniti erano
in balia di una mentalità da ‘fortezza America’. È una preoccupazione legittima, ma la situazione è molto meno terribile di
quanto essi sostengano. Per esempio, gli Stati Uniti hanno
concesso un numero molto superiore di visti per motivi di
lavoro nel 2005 rispetto al 1998, cioè al culmine del boom di
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un’America trionfante, aperta ad ogni forma di business legato
a Internet. Lo scorso anno, sono stati rilasciati 255.993 visti
agli studenti – soltanto 541 in meno rispetto al 2002. Sempre
nel 2005, gli Stati Uniti hanno rifiutato il visto HIB – il permesso di lavoro concesso a chi ha una esperienza professionale particolare, ad esempio, medici, ingegneri o scienziati – a
un minor numero di stranieri rispetto al 2001; anzi, lo scorso
anno è stato quello con la più bassa percentuale di visti negati nell’arco dell’ultimo quinquennio. Anche il numero di persone che diventano cittadini americani è in aumento. Il
numero di stranieri naturalizzati nel 2005 è superiore a quello
del 1998, il numero di naturalizzazioni è aumentato del 12%
nel giro di un solo anno, dal 2004 al 2005. I livelli complessivi di immigrazione autorizzata forse sono calati leggermente
rispetto al 2001, che è stato un anno record, ma non si può
certo sostenere che gli Stati Uniti si stiano isolando dai cervelli più brillanti del mondo.
E tuttavia, c’è sicuramente una separazione sempre crescente fra l’America e il mondo. Altrimenti, come sarebbe possibile spiegare l’escalation di anti-americanismo registrata negli
ultimi anni? È vero che il sentimento anti-americano è molto
diffuso e profondo di questi tempi, ma è anche vero che non si
tratta di una novità. Alla vigilia dell’11 settembre, gli europei
nutrivano un minimo di fiducia in più in George W. Bush
rispetto al presidente russo Vladimir Putin. Nel sondaggio dell’agosto 2001, effettuato dal Pew Research Center, forti maggioranze – oltre il 70% – in quattro paesi dell’Europa occidentale, definivano unilateralista l’amministrazione Bush. Questo
loro convincimento era maturato prima della guerra al terrorismo e dell’invasione dell’Afghanistan e poi dell’Iraq, che portano la massima responsabilità dell’ostilità che attualmente
circonda gli Stati uniti.
L’anti-americanismo, comunque, data di gran lunga prima
dell’ascesa al potere dell’amministrazione Bush. Affonda le
sue radici nella paura generalizzata del mondo che la preminenza degli USA possa diventare così grande da consentire agli
Stati Uniti di dominare altri paesi. Nel 1983, un sondaggio
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effettuato dalla Gallup per la rivista «Newsweek» ha rilevato
che fra sei paesi – Brasile, Francia, Repubblica federale tedesca, Giappone, Gran Bretagna e Messico – soltanto i brasiliani approvavano la politica del governo USA. Sempre nello
stesso sondaggio, la maggioranza degli intervistati in Brasile,
Giappone e Messico riteneva che una forte presenza militare
degli USA nei vari paesi del mondo avrebbe accresciuto le probabilità di una guerra.
Comprensibilmente, quelle paure sono aumentate allorché
è finito il duello fra le superpotenze. Nel 1995, in una indagine effettuata dalla USIA (United States Information Agency),
la maggioranza nei vari paesi del mondo pensava che gli Stati
Uniti avessero l’intenzione di dominarli. Anche con un presidente amato all’estero come Bill Clinton, l’America era considerata un paese prepotente (A Bully) dall’83% degli intervistati in Israele, dal 77% in Marocco, dal 71% in Colombia e dal
61% in Gran Bretagna. Nel dicembre 2001, il risentimento nei
confronti della potenza USA era ancora il motivo principale di
ostilità nei confronti degli Stati Uniti nei paesi europei, in
Russia e nell’America Latina, e la seconda causa – con un
minimo distacco – in tutti gli altri paesi del mondo. Ma certo,
il fatto che l’anti-americanismo si sia molto rafforzato dopo
l’invasione USA in Iraq è del tutto comprensibile. Per il resto
del mondo, quell’invasione ha dato corpo ai timori di un dominio americano che essi nutrivano già da molto tempo.
Che cosa è cambiato
Nel 2002, la consulente per la sicurezza nazionale Condoleezza
Rice ha detto a proposito della fase successivo all’11 settembre:
«Penso veramente che questo periodo sia analogo agli anni che
vanno dal 1945 al 1947, nel senso che quegli eventi… hanno
messo in moto uno spostamento delle placche tettoniche nella
politica internazionale».
Naturalmente, è forte le tentazione di vedere l’11 settembre
come l’inizio di una nuova era. Una distruzione imprevista e
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drammatica come quella che si è verificata quel giorno, esige
una etichetta o un nome che la distinguano da tutto il resto. Ma
le placche tettoniche si erano già spostate dieci anni prima. Gli
Stati Uniti sono stati un bersaglio l’11 settembre, perché erano
percepiti come la potenza egemone globale. I tentativi di al
Qaeda di rovesciare i regimi arabi negli anni ’90 si erano conclusi con un fallimento catastrofico. Nell’impossibilità di realizzare i suoi obiettivi nel mondo arabo, Osama bin Laden aveva
organizzato una cospirazione per colpire il ‘nemico lontano’, e
cioè gli Stati Uniti. Infliggendo un colpo al gigante che per
decenni aveva contribuito a rinsaldare le fondamenta stesse dei
regimi arabi, bin Laden sperava di rivoluzionare il mondo.
Quella che la Rice ha visto l’11 settembre era un’esplosione che
si andava preparando già da molto tempo.
Gli attacchi dell’11 settembre non hanno alterato i rapporti
di forze: hanno soltanto aggravato le differenze, in uno squilibrio
preesistente da tempo. Forse la cosa più vera che è cambiata a
causa dell’11 settembre è stato il modo in cui è aumentato il
bilancio del Pentagono. Le spese del bilancio per la difesa sono
aumentate addirittura del 39%, dal 2001 al 2006. Oppure, possiamo dire che nel 2001 la spesa militare degli Stati uniti, pari a
325 miliardi di dollari, equivaleva alla somma dei bilanci dei 14
paesi che registravano la maggiore spesa militare. Nel 2005, il
Pentagono superava di ben 116 miliardi di dollari i bilanci di
quegli stessi paesi.
Questo aumento gigantesco delle spese militari ha contribuito a finanziare la guerra degli USA contro il terrore e le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq. E qualcuno potrà sostenere che
queste campagne, e la politica estera americana più generale che
le ha innervate, hanno reso il mondo un luogo molto più pericoloso per tutti – tutti, esclusi gli americani. Basta considerare
che dal 12 settembre 2001 al 31 dicembre 2005, le persone
morte in tutto il mondo per atti di terrorismo sono state 18.994.
Soltanto otto di queste morti si sono verificate nel territorio
americano.
Se il mondo era già inquieto per lo squilibrio tra gli Stati
uniti e tutti gli altri prima dell’11 settembre, è facile capire come
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questo risentimento oggi possa essere divenuto molto più forte.
L’abisso tra gli USA e il resto del mondo non ha fatto altro che
allargarsi e approfondirsi. Nel bene e nel male, soltanto quando
il sistema internazionale raggiungerà una qualche forma di equilibrio – che avvenga in seguito al progresso degli altri, al declino americano, o per entrambi i motivi – l’era post-guerra fredda
potrà dirsi conclusa. Sino allora, il vero spartiacque continuerà
ad essere il 1991.
(Traduzione di Rita Imbellone)
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