ETERODOSSIA - ERESIA e la Chiesa in Italia

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ETERODOSSIA - ERESIA e la Chiesa in Italia
Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa
Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Volume I - Dalle Origini All'Unità Nazionale
Roma 2015
Copyright © 2015
Voce pubblicata il 11/01/2015 -- Aggiornata al 10/04/2015
ETERODOSSIA - ERESIA e la Chiesa in
Italia
Autore: Stefano Cavallotto
Il concetto di eterodossia/eresia sotto il profilo storiografico si presenta problematico, poiché viene
riferito ad una persona/movimento religioso e alle sue dottrine in quanto “devianti” rispetto ad un altro
movimento/istituzione magisteriale della medesima tradizione religiosa. Ciò significa assumere come
criterio di lettura di un fenomeno storico una categoria squisitamente teologica o valoriale (nel senso di
un punto di vista relativo ad una struttura consolidata di valori, credenze, dogmi), qual è appunto quella
dell’ortodossia rivendicata in definitiva dalla parte religiosa dominante o vincente rispetto a ciò che essa
giudica eterodosso/eretico. Peraltro, nell’accezione negativa, il termine è usato in maniera
interscambiabile: nel conflitto sulla fedeltà alla dottrina ogni parte in causa ritiene la propria
interpretazione corretta/ortodossa, che altri all’opposto stigmatizzano come eretica, e viceversa
eterodossa quella degli avversari (così i cattolici vedevano nel protestantesimo un’eresia, mentre i
riformatori bollavano il cattolicesimo come tradimento della dottrina evangelica). Qui opteremo per una
posizione storiografica per così dire “tradizionale”, astenendoci ovviamente da ogni giudizio di valore, ed
indicheremo come eterodossi/ereticali quei movimenti cristiani che l’istituzione ecclesiastica “superiore”
(concili, papi, gerarchia cattolica) ha additato come tali, condannato con sanzioni ecclesiastiche e
combattuto perfino con l’impiego di mezzi coercitivi statali, inclusa la pena di morte. Ancora un limite di
questa rassegna è dover operare una scelta in un arco di tempo fin troppo vasto (secc. II-XIX) tra pochi
movimenti e figure maggiormente rappresentativi e con un’attenzione quasi esclusiva a quelli legati al
territorio “italico”. Ovviamente saranno lasciati fuori anche quei fenomeni di natura puramente
scismatica in quanto attinenti più alla disciplina ecclesiastica che non alla dottrina. C’è da rilevare infine
come nella stessa comunità dei discepoli di Cristo il concetto di haìresis subisce lungo la storia modifiche
non marginali in senso negativo e spregiativo in concomitanza con lo sviluppo del termine ekklesia, a cui
viene abitualmente contrapposto (Schlier), dando vita ad un sistema di provvedimenti sempre più
marginalizzanti e punitivi, dall’ oportet et haereses …esse di 1 Cor 11,19 fino al reato sociale di eresia,
previsto dalla legislazione statale post-costantiniana e di “Ancien Régime”.
Nei primi secoli della storia cristiana è in particolare Roma il luogo dove si sviluppano movimenti
eterodossi. Così nel II secolo si fa strada lo gnosticismo dell’egiziano Valentino (†154-160 ca.). Nei quasi
vent’anni di permanenza nella capitale dell’impero questi, a servizio come diacono dei pontefici Igino, Pio
e Aniceto e aspirante persino all’episcopato, vi fonda un’originale e importante scuola, in cui insegna a
rileggere i dati della fede cristiana alla luce di una speculazione teosofica a sfondo mitico. C’è da dire che
non è facile stabilire il pensiero di Valentino per i pochi frammenti rimastici dei suoi scritti, ma anche per
l’evoluzione/modificazione a cui è stato sottoposto ad opera dei discepoli. Personalmente sembra
interessato in prevalenza per il destino privilegiato degli «spirituali» e per la loro redenzione operata dal
Logos. I suoi seguaci, divisi in “scuola italica” e “scuola orientale” e forniti di grande acribia teologica,
sono fautori della continuità dell’economia della salvezza, dalla creazione all’escatologia,
dell’inconoscibilità di Dio, del dualismo tra mondo spirituale e mondo materiale, risultato quest’ultimo
della degradazione di un essere divino (Sofia), della triplice divisione (non scelta da loro) degli uomini in
materiali, psichici, spirituali, e dell’attesa di uno o più redentori capaci di illuminare gli gnostici sulla loro
identità divina. Una concezione, in cui teologia, cosmogonia e antropologia si fondono e che ben presto
suscita le preoccupazioni della gerarchia: Valentino viene scomunicato più volte prima di lasciare Roma
per Cipro. Contro i valentiniani si rivolgerà soprattutto l’attacco polemico di Ireneo di Lione (†202).
Negli stessi anni è attivo nella capitale un altro capo-scuola, l’orientale Marcione (†160 ca.). Già
scomunicato dal padre, vescovo di Sinope, nel 144 entra in conflitto con la chiesa romana
sull’interpretazione di Paolo e la dottrina dei due déi, uno vendicativo dell’AT (da rigettare assieme alla
bibbia vetero-testamentaria) e l’altro buono e misericordioso del NT. A suo giudizio il canone
neotestamentario va ristretto al solo vangelo di Luca e alle Lettere paoline, in cui scorge la novità
liberatrice dalla Legge mosaica. In Cristo, poi, non c’è alcuna unione sostanziale tra persona divina e
natura umana, essendo quest’ultima corruttibile e causa del male. La morale marcionita è basata su
un’ascesi molto rigorosa e sul disprezzo del piacere carnale fino alla rinuncia del matrimonio e della
procreazione, onde evitare la continuazione del mondo decaduto. Alla dottrina di Marcione si oppongono
bene presto gli autori dei Prologhi ai Vangeli, l’apologista Giustino (†165), il dotto e pugnace presbitero
romano Ippolito († II-III sec.), Rodone l’Asiano e nel III secolo Tertulliano († II-III sec.). Nonostante tali
confutazioni, la corrente marcionita continua a sopravvivere per qualche tempo affiancata da una nuova
tendenza carismatica e rigorista costituita dal Montanismo, condannato a sua volta da papa Zefirino
(†217).
Tra II e III secolo sempre nell’«Urbe reale», divenuta crogiuolo di controversie dottrinali, si diffonde ad
opera di Prassea (†II-III sec.) la dottrina del “monarchianismo”, il cui primo esponente conosciuto è Noeto
di Smirne, vescovo di una città dell’Asia Minore, condannato da un sinodo locale. Alla sua base c’è l’unità
(«monarchia») del concetto di Dio che, di conseguenza, comporta la negazione della Trinità (per i
«Patripassiani» e i «modalisti» è il Padre a soffrire sulla croce sotto il nome del Figlio, essendo questi
nomi dei semplici epiteti o «modi» che servono a qualificare Dio a seconda delle circostanze) e della
natura divina di Cristo. Gli stessi papi Zefirino e Callisto (†222) vi aderiscono, ma con prudenza. Proprio
perciò il dibattito fra i «monarchiani» e i loro avversari, come Giustino (†162/168), definiti i «teologi del
Logos» e accusati dai primi di «subordinazianismo» (il Figlio è subordinato al Padre, e lo Spirito santo ad
ambedue), conosce nella capitale una grande effervescenza fino a coinvolgere l’intero orbe cristiano.
Dibattito che provoca un contrasto tra Ippolito, futuro martire nel 235, e il presbitero Callisto, che nel
217 verrà eletto papa, dagli effetti rovinosi per la comunità romana. Ad ogni buon conto, non risulta che
Prassea abbia subìto alcuna persecuzione o condanna da parte dei pontefici Vittore I (†199) o Zefirino.
Occorre dire che contro di lui, anti-montanista convinto e ispiratore della scomunica papale contro il
«profeta dello Spirito», si scaglia in maniera non sempre obiettiva Tertulliano (Adversus Praxean),
accusandolo di anti-trinarismo. Per confutare le posizioni «monarchiane» si mobilita col trattato De
Trinitate anche Novaziano (†258), un dotto presbitero romano che nel 251 dà origine ad uno scisma nella
chiesa della capitale (contro l’elezione di papa Cornelio si fa consacrare vescovo di Roma) all’insegna di
un rigorismo di origine stoica contrario alla riammissione nella chiesa degli apostati e dei lapsi pentiti. Lo
scopo ultimo della “setta” novaziana è di costituire una chiesa rigidamente fatta di “santi” e di “puri”
(katharoi).
Più ampio è lo scenario “italico” in cui tra il IV e V secolo si svolge la vicenda dell’arianesimo. Nel quadro
del dibattito sui rapporti tra Padre e Verbo incarnato, Ario (†336) sostiene una cristologia ispirata al
medioplatonismo e orientata verso una sorta di «adozionismo» e «subordinazionismo»: il Figlio ha un
inizio, è la prima creatura di Dio, è mutevole ed alterabile, di conseguenza non ha un natura divina come
il Padre né può godere degli attributi divini, quali l’eternità e l’essere ex-Deo. Ben presto simile
concezione si diffonde soprattutto ad Alessandria e nella zona medio-orientale dell’impero, provocando
tensioni e controversie tra le stesse gerarchie locali (alcuni vescovi si schierano a favore di Ario) al punto
che Costantino (†337), fallita ogni possibile ricomposizione, nel 325 affida ad un concilio ecumenico la
soluzione della controversia: a Nicea la dottrina di Ario viene condannata ed è approvato un “simbolo di
fede” che definisce il Figlio homoousios (della stessa sostanza) col Padre. L’arianesimo però continua ad
avere difensori influenti, come il vescovo di Nicomedia Eusebio (†341) e soprattutto l’imperatore
Costanzo II (†361), ma anche a fare vittime illustri tra gli oppositori, basti ricordare Atanasio (†373),
inflessibile sostenitore della fede nicena. Un secondo concilio ecumenico nel 381 sotto Teodosio I (†395),
celebrato a Costantinopoli, conferma il simbolo e la condanna nicena, ma senza per questo riuscire a
debellare l’arianesimo, che anzi sopravvive tra le tribù germaniche e per un certo periodo nella stessa
capitale della corte imperiale occidentale. A Milano, infatti, già dal 355 col sostegno dell’imperatrice
Giustina è vescovo il filo-ariano Aussenzio (†374), il cui potere non viene scalfito neppure dalla scomunica
del 369, fulminatagli da papa Damaso (†384). Cinque anni prima contro la sua doppiezza si è scagliato
pubblicamente Ilario di Poitiers (†367) nel Liber contra Auxentium. La presenza ariana a Milano non
cessa neppure con la morte del vescovo, ma diventa al contrario più aggressiva sotto l’episcopato
ambrosiano. Strenuo difensore della fede nicena, Ambrogio (†397) deve scontrarsi più volte con i seguaci
di Aussenzio. Il successo definitivo verrà con le delibere dei sinodi anti-ariani di Aquileia (381) e Roma
(382), convocati sotto la sua regia dall’imperatore Graziano (†383), e più tardi con l’intervento risolutivo
di Valentiniano II (†392), passato dall’arianesimo alla fede ortodossa.
Di minore impatto è la presenza del manicheismo in Italia. Occorre dire che al tempo del lungo
pontificato di papa Damaso (†367) nell’Urbe pullulano diversi movimenti settari: ci sono i seguaci
dell’antipapa Ursino e poi quelli orientati alla gnosi e ancora i fautori di nuove controversie disciplinari,
come il gruppo rigorista legato al vescovo Lucifero di Cagliari (detti «luciferiani», contro cui Girolamo
scrive l’ Altercatio Luciferiani et Orthodoxi). Ci sono pure due comunità, guidate ciascuna da un proprio
vescovo e ispirate all’intransigenza e alla severità, quella dei donatisti e l’altra dei manichei. Di
quest’ultima è Episcopus alla fine del IV secolo Fausto di Milevi, autore di un’apologia del manicheismo
duramente attaccata da Agostino (†430) nel ponderoso Contra Faustum Manicheum libri 33. Fondata dal
persiano Mani (†277) tale corrente religiosa si era presentata nell’Occidente cristiano come una sorta di
sincretismo di dottrine giudeocristiane e indoiraniche. Il suo fondamento teorico era un rigido dualismo,
che non ammette nessun rapporto tra bene e male, tra il Dio della luce e il non-dio delle tenebre; nel
mondo questi due princìpi si trovano insieme in una mescolanza nefasta dei contrari perennemente in
lotta tra loro. L’organizzazione, caratterizzata da una forte gerarchizzazione dei membri (uditori, eletti,
anziani, vescovi, ecc.), presentava uno schema di gradi da percorrere nel cammino della redenzione con
esigenze crescenti. Condannato varie volte dalle autorità ecclesiastiche come setta “dualistica”, il
manicheismo è bandito dall’impero nel 382 da Teodosio I su sollecitazione di papa Siricio (†399).
Nel novero delle “deviazioni” dottrinali occorre includere, seguendo la lettura polemica datane da
Agostino, quella che fa capo a Pelagio (†420 ca.), un monaco, oriundo della Britannia ma a lungo
residente nella capitale. Divenuto maestro di vita cristiana molto ascoltato negli ambienti colti ed
aristocratici, insegna a riconoscere il bonum naturae (possibilità naturale di evitare il male e compiere il
bene) e ad apprezzare come grandi doni di Dio la ragione e il libero arbitrio, fondamento necessario della
vita morale. L’apporto della rivelazione (Legge mosaica ed esempio di Cristo) consiste a suo giudizio
solamente nel facilitare la realizzazione del bene e il raggiungimento della perfezione. La discussione
causata da queste posizioni si accende oltremisura anche per i numerosi interventi del vescovo di Ippona
sulla questione della grazia, trascinando nello scontro personalità illustri. Pur non mancando di
sostenitori tra l’episcopato italico, Pelagio è costretto dapprima ad emigrare e quindi a subire gli anatemi
dei Sinodi di Cartagine e Milevi (416) e dei papi Innocenzo I (417) e Zosimo (418). Contro i pelagiani
arriva nel 431 la condanna per eresia del Concilio ecumenico di Efeso e si scatena la persecuzione
dell’imperatore Teodosio II (†450), che bene presto porterà alla loro scomparsa.
Tra VIII e IX secolo si accende soprattutto nell’Oriente bizantino un’offensiva contro le immagini sacre
(iconoclastia), nata per motivi politico-culturali e ben presto sfociata nell’eresia. Nel 730 Leone III
Isaurico (†741) ordina la distruzione delle icone e la impone con editto imperiale come dottrina ufficiale,
provocando così una prima condanna del sinodo romano convocato da papa Gregorio III nel 731. Ma è
con i decreti di Ieria (Calcedonia) del 754, sottoscritti da un gran numero di vescovi fedeli alla politica di
Costantino V Copronimo (†775) e giustificati sulla base delle proibizione vetero-testamentarie e di rare
invettive patristiche contro l’abuso delle immagini, che l’iconoclastia divampa, scatenando atti di
vandalismo e cruente persecuzioni in particolare contro i monaci iconofili; decreti iconoclasti che
l’imperatrice Irene (†802) riesce a fare annullare e condannare in quanto fautori di una “perniciosa
eresia” dal II Concilio ecumenico di Nicea del 787: qui i vescovi dichiarano all’unanimità dottrinalmente
legittimo il culto delle immagini, mettendo però in guardia dal rendere loro la latria dovuta soltanto a
Dio. Papa Adriano I (†795) approva la dottrina di Nicea e la difende in Occidente contro gli attacchi dei
teologi di Carlo Magno. Ancora un rigurgito dell’eresia iconoclasta si scatena con Leone V l’Armeno
(†820) nell’815, quando un sinodo da questi riunito a Santa Sofia approva una serie di decisioni contro la
venerazione delle immagini e contro gli iconofili (vescovi e monaci), costretti perciò ad andare in esilio.
La rabbia iconoclasta giunge al suo parossismo sotto il patriarcato costantinopolitano di Giovanni il
Grammatico, maestro dell’imperatore Teofilio (†842). Con Teodora Armena (†867), però, un sinodo locale
torna a legittimare il culto delle immagini e ad anatemizzare i suoi avversari (a perenne ricordo di tale
avvenimento viene istituita la «grande festa dell’ortodossia» tuttora celebrata nella I domenica di
Quaresima). Il tema dell’iconoclastia ha il suo epilogo nel quadro della controversia foziana con ripetute
condanne, in particolare al concilio romano (canone VI) dell’863 e al concilio ecumenico
Costantinopolitano IV (869/70) (canone III). Il problema si riproporrà in Occidente nel XVI secolo a causa
degli attacchi dei riformatori protestanti contro il culto delle immagini, specialmente in seno al
Calvinismo, ai quali risponde il concilio di Trento, approvando nel 1563 il decreto De invocatione,
veneratione et reliquiis sanctorum et de sacris imaginibus.
Sempre in epoca carolingia inizia in Occidente con Pascasio Radberto (†850) (Liber de corpore et
sanguine Domini), Rabano Mauro (†856) e Ratramno (†868 ca) un’altra controversia dottrinale relativa
all’eucarestia, che nel XI secolo porterà alla vicenda di Berengario di Tours (†1088 ca). Questi, in un
momento di estrema confusione nel linguaggio teologico e facendo leva sulla dialettica, difende contro
ogni forma di realismo una concezione simbolica del sacramento dell’altare (le due specie eucaristiche
sono «non il vero corpo e il vero sangue, bensì figura ed immagine [similitudo]»), attirandosi per questo
le condanne di vari sinodi locali (Parigi [1051], Tours [1055], Roma [1059], Poitiers [10575]) e
contravvenendo così alla formula romana da lui firmata nel 1079. In tale data, infatti, un concilio riunito a
Roma da Gregorio VII (†1085) definisce per la prima volta il concetto di transustanziazione come
spiegazione dottrinale del mistero eucaristico («il pane e il vino sull’altare, grazie al mistero della
preghiera santa e delle parole del nostro Salvatore, vengono sostanzialmente trasformati nel corpo e nel
sangue del Signore Gesù Cristo»). Quasi a conferma di tale spiegazione le cronache locali registrano in
Italia alcuni eventi prodigiosi intorno alla presenza reale di Cristo nelle specie consacrate, basti ricordare
i miracoli eucaristici di Lanciano (750), di Ferrara (1171), di Alatri (1228), di Bolsena-Orvieto (1263). Una
dottrina della transustanziazione, a cui l’incipiente teologia scolastica dà una formulazione definitiva e un
fondamento decisivo, ma che nel XVI secolo troverà una radicale contestazione nella Riforma protestante.
Così Lutero (†1546) la rigetta come non biblica e mera opinione delle scuole, pur continuando a credere
nella presenza “reale” di Cristo nel pane e nel vino della S. Cena e prendendo su questo le distanze nel
Colloquio di Marburg del 1529 dall’interpretazione simbolica di Zwingli (†1531); interpretazione
simbolica che di fatto è sostenuta anche da Calvino (†1564) e dalle altre comunità evangeliche. Parimenti
sulla messa intesa come sacrifico il rifiuto dei protestanti è netto ed univoco: per essi è un «abuso
idolatrico» che trasforma il memoriale dell’unico sacrificio di Cristo in una «vergognosa nuova
crocifissione». Contro tali posizioni giudicate eterodosse si pronuncia il concilio di Trento nel decreto De
sanctissimo eucharestiae sacramento (sessione XIII, 1551) e in quello relativo al sacrifico della messa
(sessione XXII, 1562) con i rispettivi canoni di anatema sit: si torna a ribadire la dottrina della
transustanziazione per spiegare la presenza reale e quella sulla natura sacrificale propria della messa da
considerare non come un nuovo sacrifico ma rinnovazione incruenta dell’unico sacrifico di Cristo sulla
croce ad opera delle parole consacratorie pronunciate dal sacerdote in persona Christi.
Correnti eterodosse sorgono anche nell’Italia medievale, diverse tra loro ma con elementi comuni e nuovi
rispetto all’evo antico, quali il carattere popolare e laicale (in opposizione alla chiesa clericale), la forte
vocazione alla profezia e alla predicazione itinerante, l’impegno per un radicale ritorno della chiesa al
modello apostolico e all’Evangelo del Cristo povero sulla base di idee religiose non sempre conformi al
sistema dottrinale consolidato e sovversive rispetto all’assetto politico-religioso della societas christiana
post-costantiniana. In quest’ottica nasce poco dopo la metà dell’XI secolo in seno alla diocesi di Milano un
movimento detto spregiativamente la Pataria (patè=straccione?) con l’obiettivo di combattere la simonia
e il concubinato del clero attraverso una riforma morale e disciplinare e di instaurare una chiesa più
fedele alla forma evangelii in linea con la riforma già portata avanti dai cluniacensi (si ricordi il sinodo
riformatore celebrato in Laterano nel 1059 dal cluniacense papa Nicolò II). Accanto ai fratelli Landolfo ed
Erlembaldo Cotta, appartenenti a famiglia feudale e responsabili dell’assetto politico militare dei gruppi
patarinici, promotore principale della Pataria è il diacono Arialdo (†1066): il suo attacco violento a preti e
vescovi concubini e simoniaci (stigmatizza la simonia come la più perniciosa «eresia» della chiesa
milanese) è all’origine di una prima insurrezione popolare nel 1057 contro la nomina imperiale –
giudicata frutto di compra-vendita – a vescovo della sede ambrosiana di Guido di Velata, seguita dalla più
vasta rivolta del 1066 estesa alle altre città dell’Itala settentrionale. Un forte impulso al movimento
patarinico è dato nel 1061 dall’elezione a papa col nome di Alessandro II di un suo simpatizzante,
Anselmo da Baggio. E tuttavia nel 1066 Erlembaldo e Arialdo sono trucidati dai sostenitori del clero
ambrosiano filo-imperiale (e da quel momento venerati dai patarini come santi martiri), mentre dopo
l’elezione di Gregorio VII (†1085) il conflitto, che in Lombardia si è trasformato in guerra civile, si
ricompone confluendo nel più vasto orizzonte della lotta per le investiture. C’è da dire che solo più tardi il
termine patarino diventerà sinonimo di eretico – ad attestare come l’assestamento della riforma porti con
se l’eliminazione di ogni radicalismo religioso – forse anche per assonanza tra pataro e cataro («Cathari
seu Paterini»). Un movimento, questo dei catari, presente tra XI-XIII secolo con gruppi e comunità
nell’Europa centrale ed occidentale (Albigesi), strettamente legato ai Bogomili della Tracia e ancor prima
al manicheismo tardo-antico con una forte connotazione pauperistica. Il loro sforzo di vivere rationabiliter
la legge del Vangelo li porta a leggere le Scritture neotestamentarie secondo il principio dualistico di
Mani (bene/male; luce/tenebre; Dio/Mammona), seppure con una visione morale fondata sul volontarismo
e non sul determinismo manicheo. Organizzati in chiese composte da due ceti distinti, i perfecti (obbligati
ai doveri morali e ascetici) e i credentes (sciolti da questo obbligo), e con una propria gerarchia, sono
radicalmente nemici della «Babilonia romana». Comunità catare e albigesi operano nell’Italia
settentrionale e centrale già a partire dagli inizi del secolo XI e fino al secolo XIII, quando su di loro si
abbattono, oltre alle crociate del 1209 e del 1229, i decreti di condanna di papa Lucio III (1184) e del
concilio Lateranense IV (1215) e la repressione dell’Inquisizione (1230-1255). Il medesimo anatema
conciliare del 1215 è scagliato anche contro i Valdesi – un altro movimento pauperistico e antiistituzionale con forte propensione alla predicazione itinerante, originato dal commerciante lionese
Valdo, ben diverso però dal catarismo ancorché ad esso erroneamente assimilato dalla censura romana –,
e nei confronti degli «errori» trinitari dell’abate calabrese Gioacchino da Fiore (†1202), profeta della
«terza età dello Spirito» e di una «palingenesi» spirituale. Le attese escatologiche gioachimite e le
interiorizzazioni spirituali di fronte alla mondanità e corruzione della chiesa gerarchica si fanno sempre
più vive specialmente nel mondo dei «mendicanti», convinti come sono di essere il segno della «pienezza
dei tempi». Ed è in particolare la fraternità francescana degli «spirituali» tra XIII e XIV secolo con Pietro
di Giovanni Olivi (†1298), Ubertino da Casale (†1330) e Angelo Clareno (†1337), per ricordare solo alcuni
nomi della folta schiera, ad alimentarle e veicolarle nei vari territori e comunità ecclesiali dalla Francia
meridionale al Sud-Italia. Una fraternità dal cui interno si sviluppano anche posizioni ancor più
estremiste, accusate e condannate con severità dalla gerarchia ecclesiastica per eresia, immoralità e
sedizione, come il movimento dei Fraticelli e degli Apostolici/Dolciniani. I primi, diversamente dagli
«spirituali» rimasti nella chiesa, sono gruppi separati di francescani presenti in alcune parti dell’Italia e
in Provenza, che per le loro aspre critiche alla «carnalità» della chiesa clericale si attirano l’inesorabile
persecuzione e scomunica (1323) di Giovanni XXII e pur di rimanere fedeli all’ideale della povertà
radicale, da estendersi a loro giudizio alla stessa dirigenza ecclesiastica (papa, curia, vescovi), arrivano a
ripudiare l’autorità dei superiori e della gerarchia. Sempre sulla questione della povertà e della vita
comune si è consumato qualche decennio prima il destino degli Apostolici guidati inizialmente da fra
Gerardo Sigarelli di Parma e dopo la sua morte da fra Dolcino. I fratres et sorores apostolicae vitae sono
intenzionati a rinnovare la vita francescana riproducendo il genere di vita degli apostoli quanto a
predicazione, abito e libertà spirituale, ma al di fuori di ogni schema e di ogni struttura. Gli abusi e le
stranezze conseguenti a tale impostazione “libertaria” anche a riguardo della sessualità allarmano il
vescovo locale che alla fine li condanna e mette al rogo il suo fondatore, Gerardo. La medesima sorte
tocca a Dolcino, arso vivo a Vercelli nel 1307 come eretico in quanto predicatore appassionato, in linea
con la profezia gioachimita, dell’avvento dell’età nuova dello Spirito, che avrebbe portato alla sconfitta di
Bonifacio VIII e alla propria elezione a pontefice (il «papa spirituale»). All’ideale del “liberismo”
evangelico si indirizza pure la corrente dei Fratelli del libero spirito, nata nelle Fiandre e nella Renania e
diffusasi anche nel Settentrione d’Italia e soprattutto in Umbria ad opera del francescano Bentivenga da
Gubbio (†1319/33). Molto vicina alla dottrina di Almarico di Béne (†1206/7) («almariciani») già
condannata da Innocenzo III (†1216), la «comunità del libero spirito» rivendica l’indipendenza
dall’autorità ecclesiastica e la possibilità di vivere secondo una vita apostolica (comunanza di beni,
fraternità, ugualitarismo) in forza dell’effusione dello Spirito ricevuta. Concretamente proclama che il
credente, una volta raggiunto lo stadio dello «spirito libero» attraverso rinunce e penitenze, venga
affrancato da ogni legge morale e dalla stessa possibilità di peccare. A tale filone “dissidente” appartiene
la mistica beghina Margherita Porete, bruciata a Parigi nel 1310 come eretica assieme al suo libro Le
miroir des simples âmes. L’anno dopo la “setta” dei Fratelli è condannata da Clemente V e Rainerio,
vescovo di Cremona, è nominato inquisitore nella valle di Spoleto al fine di estirpare l’eresia.
Nel Quattrocento e soprattutto nel Cinquecento l’eterodossia si collega in modo quasi esclusivo a correnti
di pensiero e a movimenti ecclesiali paladini di una reformatio ecclesiae in capite et in membris secondo
l’Evangelo “nuovamente riscoperto” e sfociati in parte nella contestazione radicale e persino nel rifiuto
dell’assetto istituzionale della chiesa “papista”. Possiamo menzionare in proposito l’ecclesiologia
“rovesciata” di Marsilio da Padova (†1342), le cui tesi del Defensor pacis antitetiche alla ierocrazia papale
dell’Unam sanctam di Bonifacio VIII sono condannate da Giovanni XXII, e inoltre le cosiddette “eresie
nazionali” di John Wycliff (†1383) e Jan Hus (†1415), apostoli di un’ecclesia spiritualis o congregatio
praedestinatorum senza clero, senza papato e fondata unicamente sulla Scrittura e per questo
anatemizzati dal Concilio di Costanza (Hus è bruciato nella città conciliare nel 1415) e ancora le invettive
di Girolamo Savonarola (†1498) contro Alessandro VI che perciò lo scomunica nel 1497 e l’anno dopo lo
lascia impiccare e bruciare sul rogo in piazza della Signoria a Firenze come «eretico, scismatico e per
aver predicato cose nuove». Anche la [→] Riforma protestante di Lutero (†1546), Zwingli (1531), Calvino
(†1564), Bucer (†1551), che pure parte dall’assunto della giustificazione per fede (sola fide, sola gratia,
solus Christus) e dal sola Scriptura come principio di verità, finisce per contestare la pretesa inerranza
del magistero ecclesiastico solenne (papa e concili) e negare sostanzialmente la natura gerarchica della
chiesa e la sua dimensione di istituzione visibile e giuridica a favore di un’ecclesia spiritualis quale
congregatio sanctorum (o praedestinatorum), in qua evangelium pure docetur et recte administrantur
sacramenta e per la cui unità è sufficiente l’accordo sull’insegnamento del Vangelo e l’amministrazione
dei sacramenti (Confessio Augustana VII); una chiesa, in ultima analisi, che non si identifica con il “regno
visibile” del papa-Anticristo. A ben vedere, è per l’impossibilità di un accordo sulla dottrina ecclesiologica
che di fatto falliscono tutti i tentativi di riunificazione messi in atto da Carlo V (Colloqui di Religione
1539-41), anche se il concilio di Trento (1545-1563) pronuncerà l’anatema sulle singole “eresie” dei
“novatores”. Lo stesso evangelismo dei circoli valdesiani e del riformismo cattolico, attivo in Italia
assieme alle varie esperienze collegate alla Riforma protestante d’Oltralpe a cominciare dai Valdesi,
propone un’“interiorizzazione” cristocentrica della vita cristiana ed una implicita riforma istituzionale
della chiesa, ugualmente condannate dall’Inquisizione romana. Il controllo sempre più ferreo in materia
dottrinale da parte del Sant’Uffizio post-tridentino, oltre a ridurre i pochi spazi rimasti al libero pensiero
e a rafforzare una massiccia opera di “disciplinamento”, dà vigore ad una prassi di sospetti generalizzati
di eterodossia con lo scopo di tenere sotto scacco gli indiziati, assoggettandoli a volte persino con la
violenza. Sotto la sua azione censoria cadono nel XVII secolo personaggi illustri dell’orizzonte culturale
italiano, come Galileo Galilei (†1633), Giordano Bruno (†1600), Tommaso Campanella (†1639), assieme a
movimenti che dal loro pensiero prendono origine. La nota vicenda del processo e della condanna
dell’astronomo pisano, incolpato di mettere in dubbio la verità della Scrittura perché favorevole alla
teoria eliocentrica, si conclude nel 1633 con un’abiura forzata. Più drammatica è la sorte del domenicano
di Nola messo al rogo a Campo de’ Fiori nel 1600. Giordano Bruno, ammiratore di Copernico e della
teoria sull’infinità dell’universo, è accusato da cattolici, calvinisti e anglicani di attentare alla concezione
di un Dio creatore e personale (in sostanza di cadere nel panteismo), di considerare la conoscenza pura
illuminazione e trasporto amoroso e non invece frutto della ragione e della scienza, di ridicolizzare il
cristianesimo come religione rivelata, riducendolo a freno morale del popolo, e in ultima analisi di
disprezzare l’«autorità dei Santi Padri».
Tra Sei-Settecento è il giansenismo ad essere colpito dalla censura romana con la bolla di Clemente XI
Unigenitus del 1713; un movimento in verità molto complesso, perché dottrinale, politico ed
ecclesiastico, diffuso in gran parte dell’Europa e con sostenitori di primo piano nel panorama cattolico
del tempo (oltre al vescovo Cornelius Jansen, Saint-Cyran, il monastero cistercense di Port-Royal, gli
Arnauld, Pascal, Quesnel), che, professando un agostinismo radicale, riafferma la totale soggezione
dell’uomo alla concupiscenza dopo il peccato originale (solo la grazia divina gli permette di compiere
opere buone) e predica una morale rigoristica ed elitaria (la grazia diventa vincente solo con una rinuncia
totale di sé ed una perfetta conformità alla volontà di Dio). La sua influenza in Italia è abbastanza
limitata. Per promuoverlo Pietro Tamburi (†1827) e Scipione de’ Ricci (†1810), vescovo di Prato-Pistoia,
col sostegno del granduca Pietro Leopoldo nel 1786 riescono ad organizzare il Sinodo di Pistoia,
condannato da Pio VI cinque anni dopo con la bolla Auctorem fidei.
Di pensatori e movimenti “non conformisti” è attraversata l’Europa particolarmente con l’avvento della
stagione illuministica, basti richiamare il Deismo di Antony Collins (†1729), Herman Samuel Reimarus
(†1768) e Gotthold Ephraim Lessing (†1781) e l’“anti-cristianesimo” di Bayle (†1706), Diderot (†1784) e
Voltaire (†1788), aspramente attaccati da un’apologetica cattolica chiusa in difesa e in alcuni casi dagli
interventi punitivi del Sant’Uffizio e dell’Indice. Ma il “dissenso” attraversa anche le fila dei cattolici
intransigenti: Félicité de Lamennais (†1854), passato dall’ultramontanismo ad un vago socialismo
cristiano, difende i principi del liberalismo religioso e politico, ivi compresa la libertà di coscienza, e
sostiene la necessità di una riforma della chiesa, ma viene raggiunto dalla condanna della Mirari vos
(1832) di Gregorio XVI, per cui decide di uscire definitivamente dalla chiesa e dare inizio ad un’opera di
democratizzazione del cristianesimo a sfondo sociale basato sul carattere razionale-filosofico della
religione. In Italia nel 1849 sono posti all’Indice per sospetto di errori dottrinali, ma in realtà per ragioni
politiche (cinque anni dopo saranno «dimessi» alla lettura del pubblico), due scritti di Antonio RosminiSerbinati (†1855): Delle cinque piaghe della Chiesa e La costituzione secondo la giustizia sociale.
L’impegno del teologo di Rovereto, in realtà molto apprezzato dai papi del tempo, è rivolto certo alla
riforma della chiesa (liturgia, formazione sacerdotale, unità dei vescovi e loro nomina), ma soprattutto a
contrastare l’illuminismo anticristiano attraverso il «risanamento della ragione» (progetta
un’Enciclopedia cristiana da opporre a quella francese) e la rigenerazione della teologia riportata ad una
maggiore visione unitaria. I sospetti sulla sua ortodossia, tuttavia, ritornano dopo la sua morte e Rosmini
è nuovamente «condannato, riprovato e proscritto» dall’Inquisizione romana nel 1887 (il suo pensiero
sarà rivalutato e lui sarà beatificato nel 2007). Nelle prime decadi del secolo XX toccherà al modernismo
essere oggetto di censura e di persecuzione da parte del Sant’Uffizio.
In definitiva, la possibilità di errori dottrinali e la necessità di individuarli e debellarli sono in un certo
senso connaturali al cristianesimo inserito nella storia. C’è da dire, però, che dopo il Vaticano II (196265) l’organismo preposto a questa funzione, la Sacra Congregazione per la dottrina della fede, non ha più
il compito di “perseguire le eresie e … reprimere i delitti contro la fede” secondo lo statuto del 1542, ma
più positivamente di “difendere la fede” promuovendo la dottrina “in modo che, mentre si correggono gli
errori e soavemente si richiamano al bene gli erranti, gli araldi del vangelo riprendono nuove forze”.
Fonti e Bibl. essenziale
K. Rahner, Che cos’è l’eresia, Paideia, Brescia 1964; L. Cristiani, Breve storia delle eresie, Milano 1960;
AA. VV., Eresia ed eresiologia nella Chiesa antica, Roma 1985; M. Simonetti, Ortodossia ed eresia tra I e
II secolo, Soneria Mannelli (Cz) 1995; G. Filoramo, L’attesa della fine. Storia della gnosi, Laterza, RomaBari 1993; M. Simonetti, La crisi ariana del IV secolo, Roma 1975; U. Bianchi, Antropologia e dottrina
della salvezza nella religione dei Manichei, Roma 1987; R.F. Evans, Pelagius: Inquiries and Reappraisals,
New York-London 1968; G.G. Merlo, Eretici ed eresie medievali, Il Mulino, Bologna 1989; P. Golinelli (a
cura di), La Pataria. Lotte religiose e sociali nella Milano dell’XI secolo, Milano 1984; G. Rottenwöhrer,
Der Katharismus, 2 Bde., 4 T., Bad Honnef 1982; N.D. Power, Il mistero eucaristico: infondere nuova vita
alla tradizione, Queriniana, Brescia 1997; R. Iaria, I miracoli eucaristici in Italia, Ed. Paoline, Milano
2005; A. Besançon, The Forbidden Image: An Intellectual History of Iconoclasm, Chicago 2009; E.
Iserloh, Compendio di storia e teologia della Riforma, Morcelliana, Brescia 1990; P. Zovatto, Introduzione
al Giansenismo italiano (appunti dottrinali e critico bibliografici), Trieste 1970; A. Giordano, Rosmini e
Lamennais. Fede e politica, Stresa 1989.
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A cura della Redazione
Cantiere Storico: “La Chiesa in Italia”
integrazioni, completamenti, aggiornamenti alla Voce da parte di Autori diversi
Immagine: Basilica superiore di San Francesco d’Assisi, affresco di Cimabue, particolare: la scritta
“Italia” compare sopra la città di Roma