Il cuore e la corda

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Il cuore e la corda
IL CUORE E LA CODA
Cunti Lucia
Romualdo apre gli occhi soltanto quel tanto che basta per fissarmi con fiacca sufficienza. Le sue pupille
sonnacchiose mi mettono a fuoco attraverso la stretta fessura delle palpebre semichiuse ed in
quell’occhiata – che dura per un tempo brevissimo – posso solamente cogliere il muto rimprovero per
averlo svegliato dal suo beato stato di pacifico torpore.
Romualdo! Strano nome per il cane di casa!
Ma quell’espressione di rimprovero sparisce immediatamente. Romualdo salta giù dal divano con una
prontezza insospettata per la sua età non più verde (anche la mia, purtroppo!) e mi viene incontro,
scodinzolando festosamente per mostrarmi il suo affetto come solo lui sa fare.
Quando, quasi tre lustri prima, mi ero recato al canile municipale ben determinato ad adottare il cane
più incarognito che avessero, stanco e stufo dei soliti teppistelli tossicodipendenti che avevano preso il
vizio di intrufolarsi nella mia farmacia, quasi sempre prima dell’orario di chiusura, sovente
minacciandomi con una siringa sporca di sangue, per estorcermi qualche euro per la loro dose
quotidiana - anche se, per mia fortuna, di solito si accontentavano di siringhe nuove e solo quando li
vedevo particolarmente disperati allungavo loro qualche banconota - non immaginavo che sarei uscito
da lì preceduto dal più bastardo dei cani bastardi che fossero mai vissuti sulla faccia della terra dal
tempo in cui l’uomo preistorico addomesticò tali bestie per i suoi scopi venatori, che trotterellava
dimenando la coda felice verso la mia macchina, come se mi avesse conosciuto da sempre e da sempre
fossimo vissuti insieme, voltandosi indietro di tanto in tanto come a voler essere sicuro che lo stessi
seguendo e quasi a sollecitarmi a fare presto ad allontanarci da quel luogo di detenzione, che intendeva
definitivamente dimenticare per il resto dei suoi giorni.
Appena entrato nel canile, avevo subito adocchiato il dobermann, nero come la pece, che stava rinchiuso
da solo in un recinto situato vicino all’ingresso, dallo sguardo torvo, che mostrava dei denti bianchi e
possenti tra le labbra increspate da un sordo ringhiare, che la responsabile della struttura mi aveva
raccomandato per la sua spiccata ubbidienza, nonostante l’aspetto feroce, ideale per l’utilizzo che avrei
voluto farne io. Era stato allevato da un vecchio signore, che viveva da solo, in campagna. Quando era
morto nessuno dei suoi parenti aveva voluto prendersi cura di quell’animale, che incuteva paura solo a
guardarlo, per cui era finito lì; ma era un ottimo cane da guardia, che ubbidiva con prontezza agli ordini
che gli venivano impartiti, soprattutto se si trattava di ordini che riguardavano l’attaccare un
malintenzionato, che avrebbe agevolmente stritolato con le sue possenti mascelle. Mi lasciai
condizionare dalla parlantina della donna, che sembrava una venditrice che stesse decantando la merce
esposta sulla sua bancarella del mercato, anche se non ero del tutto convinto.
Anzi, a dire la verità, non lo ero affatto. Non avevo mai posseduto un cane, ma avevo sempre
immaginato la cosa come un feeling improvviso che si dovesse creare tra uomo e bestia, una specie di
amore a prima vista che sarebbe durato tutta la vita, una questione di cuore, non di cervello. Non avevo
provato nessun sentimento per quel dobermann, nessun colpo di fulmine che me lo avesse fatto amare
fin da subito. Fossi stato appassionato di armi, per i miei scopi di difesa avrei potuto anche comprare
una pistola. Sarebbe stata la stessa cosa. Tra il freddo del metallo di una rivoltella e quello degli occhi di
quel cane non avvertivo differenze.
Mentre mi preparavano i documenti occorrenti per l’adozione, chiesi di fare un giro per il canile e qui
commisi l’errore che sarebbe esagerato dire che mi avrebbe cambiato la vita, ma sicuramente me l’ha
condizionata per tutti gli anni a venire.
Mi avviai da solo, declinando cortesemente l’invito di un solerte volontario, lungo il sentiero inghiaiato,
fiancheggiato dai bassi box recintati nei quali erano racchiusi i cani.
Centinaia di cani, di tutte le razze, misure e colori, mi guardavano dalle loro gabbie. Quasi tutti
abbaiavano al mio passare, ma non lo facevano con atteggiamento ostile. Sembrava volessero attirare
l’attenzione sulla loro condizione di reclusi. Mi venne da sorridere, anche se mi sentivo stringere il
cuore: mi pareva che volessero fare conversazione!
Una volta avevo sentito dire da un mio conoscente che non si poteva entrare in un canile senza uscirne
con un cane. Mi stavo sempre più rendendo conto, sentendo le voci di quelle bestiole, incrociando i loro
sguardi, che quella persona aveva pienamente ragione.
Ero arrivato al punto in cui la stradina che stavo percorrendo incrociava con un’altra, anch’essa
fiancheggiata da box contenenti cani. Mi sembrava che fossero più malandati rispetto a quelli che avevo
visto fino a quel momento. Il canile, gestito dai volontari della Lega Nazionale per la Protezione del
Cane, compatibilmente con la scarsità delle risorse, l’insufficienza del personale e l’abbondanza degli
ospiti, assicurava notoriamente una permanenza ed una qualità della vita agli animali custoditi abbastanza
dignitosa, ma, purtroppo, non poteva surrogare la libertà, l’affetto di un padrone, il calore di una casa.
Mi avvicinai alla prima gabbia, posta proprio all’inizio del sentiero che incrociava con quello che avevo
appena percorso. Quattro o cinque bastardini, di media taglia e dal mantello maculato con chiazze
variegate ed asimmetriche, mi vennero incontro abbaiando, arrampicandosi con le zampe anteriori
lungo la rete di recinzione ed infilando i loro musi nelle larghe maglie. Mi avvicinai e, con un certo
timore, infilai anche la mia mano nella rete per accarezzare la testa di uno di essi. Il loro abbaiare si
trasformò immediatamente in una sorta di lamentoso uggiolìo, mentre il cane che stavo accarezzando,
ritirato il muso dalla rete, mi leccava la mano e l’annusava con il suo naso umido e freddo. Si
accostarono tutti alla mia mano per memorizzare il mio odore e per ricevere la loro dose di carezze,
spingendosi l’un l’altro, per ottenere il privilegio di quel gratuito gesto d’affetto. Poi, come ebbri di
felicità, si staccarono dalla mia mano e dalla rete e presero a rincorrersi per gioco nell’angusto spazio
della gabbia.
Fu allora che vidi un altro cane, accucciato nel posto più nascosto del box, dal lungo pelo nero corvino,
fatta eccezione per il muso, che teneva tristemente abbandonato tra le zampe anteriori distese in avanti,
dal colore di un marrone molto chiaro, quasi giallo, così come la parte terminale delle zampe stesse,
quasi mimetizzato dall’ombra della grande cuccia collettiva serviva da riparo per la notte. Aveva le
orecchie dritte, tranne le punte che erano piegate verso il basso, tanto da sembrare che fossero a metà.
Ma tutto, in quel cane, mi appariva a metà.
Emisi un debole fischio di richiamo al suo indirizzo; mi udì perché tese le orecchie, la cui punta, però,
non si rialzò, e mi guardò con due occhioni scuri, malinconici, colmi di una misteriosa dolcezza infinita;
ma non si mosse.
Avevo già notato che al cancello d’ingresso di ogni gabbia era attaccata una lavagnetta sulla quale erano
scritti con il gesso i nomi degli animali racchiusi. Sulla lavagnetta che avevo ora davanti, oltre agli
scontati nomi che si possono attribuire ad un cane, c’era scritto anche un improbabile “Romualdo”.
Non so perché, ma subito pensai che fosse il nome di quel cane triste e taciturno, che non si univa ai
giochi dei compagni.
Provai a chiamarlo.
“Romualdo!”
Alzò subito il suo muso giallo, mi guardò con i suoi occhioni profondi, ma non si mosse dal suo posto.
Era proprio lui Romualdo!
Romualdo, come il merlo di famiglia in un vecchio film, “San Giovanni decollato”, che aveva Totò come
protagonista. Forse nel canile l’avevano chiamato così proprio perché, con un po’ di fantasia, poteva
assomigliare ad un merlo maschio: il corpo nero ed il muso giallo.
Gli altri cani, stanchi di rincorrersi, mi erano nuovamente venuti incontro. Diedi loro ancora una
carezza e mi staccai dalla gabbia per avviarmi verso il fabbricato che fungeva da ufficio.
“Dottore, siamo quasi a posto.” Mi disse subito, vedendomi arrivare, la responsabile del canile.
“Dobbiamo solo fare la voltura della pratica del microcip, per cui avrei bisogno di un suo documento di
riconoscimento”.
Levai dalla tasca interna della mia giacca il portafogli per prendere la carta d’identità, ma mi fermai a
metà.
“Quel cane che si chiama Romualdo è adottabile?” chiesi alla donna.
“Chi? Romualdo?... Ah, già!... Quel cane nero con il naso giallo che sembra un merlo ... L’abbiamo
chiamato apposta così, ricordando un film di Totò …”
“Bingo!” dissi nella mia testa, quasi non ascoltando più la mia prolissa interlocutrice, che stava
continuando a dire:
“Sa, dottore, anche inventare i nomi per i cani qui dentro è un’impresa! … Non so se possiamo darlo.
E’ un bastardino randagio catturato giorni fa mentre vagava affamato e malconcio per i campi vicino al
paese di ***. Non ha tatuaggio né microcip. Sembra docile, ma ancora non l’abbiamo capito bene ed il
veterinario non lo ha ancora visitato. Con gli altri cani non sembra legare e se ne sta sempre in
disparte… Venga, dottore, che le diamo il suo dobermann. Vedrà che la sua farmacia d’ora in poi sarà più
sicura!”
“Mi sa che non ho bisogno di un cane da guardia, ma di un amico che mi faccia compagnia. Mi dispiace
per il dobermann, ma vorrei … vorrei Romualdo!”
Il sorriso sparì dal volto della donna.
“Ma, dottore, che dice? Quel cane non è adatto a lei. Se lo lasci dire da me che sono un’esperta. E’ un
randagio e poi sarà pure malato …”
“Non importa. Al tempo d’oggi pare proprio che ciò di cui sentiamo veramente il bisogno sia il
superfluo. Me lo affidi e non si preoccupi. Tanto a me le medicine costano la metà del loro prezzo ed il
veterinario è un mio amico!”
Ora ero io a sorridere.
Da quel giorno sono trascorsi quasi quindici anni …
Ora la mia farmacia è gestita da mia figlia, in perenne attesa di un concorso per diventare titolare che
non si espleta – non si riesce a capirne il motivo - dal tempo delle guerre puniche.
Passo il mio tempo e vivo le mie lunghe giornate in compagnia di Romualdo. Non sono e non mi sento
solo. Siamo invecchiati insieme ed anche quando sembrava che fossi rimasto senza nessuno ed il
mondo mi fosse crollato addosso ho sempre avuto il suo affetto incondizionato, anche se – lo ammetto
- non sempre disinteressato. Quando sento il bisogno di toccare con la mia mano ciò che rappresenta la
quintessenza dell’amore, trovo sempre la sua testa,con quelle buffe orecchie dalle punte che sembra che
non vogliano stare su; quanto lui sente il bisogno di una carezza, trova sempre la mia mano, sempre più
stanca, sempre più tremolante, ma sempre prodiga nel dispensare il sentimento che è avida di ricevere,
di rafforzare ancora di più quel legame che è già indissolubile.
Il suo pelo nero non è più corvino ed il muso non è più giallo: sembra che sia diventato tutto sbiadito,
come a volte è capitato al mio bucato infilato alla rinfusa nella lavatrice, ma non è nulla rispetto alla mia
sconsolata rada canizie.
Passa molto tempo stravaccato sul divano come un gatto infreddolito, ma, anche quando sembra che
stia dormendo profondamente, tanto che lo sento perfino russare, è sempre attento ad avvertire la mia
presenza e ad manifestarmi il suo affetto, muovendo la sua coda, che sembra quasi percorsa da una vita
propria.
Si dice che il sentimento dell’amore alberghi nel cuore. Ma il cuore è nascosto nel petto: come possiamo
mostrarlo agli altri?
Può l’uomo esprimere ciò che prova, senza le reticenze e senza le ipocrisie che caratterizzano la razza
umana? Come possiamo mostrare il nostro cuore?
Come siamo meschini, noi umani, che pure ci riteniamo una razza superiore: non siamo nemmeno in
grado di mostrare il nostro cuore ed i sentimenti che esso contiene!
Il cane, invece, unico essere vivente al mondo, può.
Con la sua coda!