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Rete Camere del Lavoro CGIL - Eddyburg - ZONE onlus - Facoltà di Pianificazione del territorio dello IUAV
CITTÀ COME BENE COMUNE
Venezia, 24.11.2008
REALTÀ E PROSPETTIVE PER IL PROBLEMA DELLA CASA
Mauro Baioni
1. Perché parliamo nuovamente del problema della casa.
Negli ultimi dieci anni l’innalzamento dei prezzi di vendita e dei canoni di affitto delle abitazioni è stato di
gran lunga superiore alla crescita dei redditi delle famiglie. Secondo una rilevazione effettuata da CRESME,
nel periodo 1998-2005 i canoni sono cresciuti mediamente del 49% (ma nelle grandi città dell’80%), i prezzi
di vendita del 51% (ma nelle grandi città del 60%) (Calimani). Nello stesso periodo, i mutui per l’acquisto di
una casa hanno spuntato le condizioni migliori di sempre, ma nonostante ciò molte famiglie si sono
indebitate in modo eccessivo e per periodi troppo lunghi. Per di più, non appena si sono verificate tensioni
sui mercati finanziari, l’accesso al credito è diventato più oneroso. Secondo Banca d’Italia, in soli 7 anni, dal
1997 al 2004, l’indebitamento complessivo delle famiglie per acquistare un alloggio è creciuto di ben 4 volte,
passando da 40 a 160 miliardi di euro (Sbetti).
Anche pagare l’affitto è diventato un problema. Dieci anni fa è stata cancellata la legge 392/1978 che
imponeva la moderazione degli affitti e oggi possiamo constatare gli effetti dell’impennata dei canoni1. Si
stima che per 1,7 milioni di famiglie l’affitto incida per oltre il 30% del reddito complessivo. E’ il caso, per
esempio, di una famiglia che guadagna 20.000 euro netti l’anno (una busta paga sola, oppure due lavoratori
precari) e paga un’affitto di 600 euro/mese (Calimani e Caudo 2008).
L’obbligo per i comuni di riservare dal 40 al 70% del fabbisogno abitativo decennale all’edilizia economico
popolare è, di fatto, disatteso, nonostante siano tuttora in vigore le leggi che lo prevedevano (Brenna).
L’edilizia sociale2 è pressoché azzerata: i finanziamenti statali sono esauriti, è stata imposta una stretta alla
possibilità delle pubbliche amministrazioni di contrarre mutui, alcune sentenze della giurisprudenza
particolarmente favorevoli per la proprietà privata hanno reso il ricorso agli espropri più oneroso e
complicato. Secondo i dati ISTAT, nel 1984 le abitazioni costruite con contributi pubblici erano poco meno di
60.000, di cui la metà di proprietà pubblica; nel 2004, rispettivamente, 10.000 e meno di 2.000. (Sbetti e
Calimani).
2. Domanda di abitazioni e mercato immobiliare
In Italia ci sono:
- molte più abitazioni che famiglie (rispettivamente 27 e 22 milioni);
- la più alta percentuale di abitazioni in proprietà dell’Europa, dopo la Spagna (16 milioni di abitazioni al
2001, più del 70%);
- una produzione edilizia molto sostenuta, in particolare nell’ultimo decennio (circa 300.000 nuovi alloggi
ogni anno).
Perché, nonostante questi dati strutturali, la casa è tuttora un problema?
1
La liberalizzazione del mercato degli affitti è stata decisa con la legge 431/1998 che ha soppresso il cosiddetto equo canone. E’
vero che sono stati regolarizzati molti contratti e che sono stati messi in locazione appartamenti prima sfitti, ma è altrettanto
dimostrata l’impennata dei canoni, superiore nelle grandi città alla dinamica dei prezzi di vendita (Sbetti, Calimani).
2
La cosiddetta edilizia sociale comprende l’edilizia residenziale pubblica, nonché l’edilizia convenzionata e agevolata. Da qualche
anno viene utilizzato il termine housing sociale (traduzione impura della locuzione inglese social housing) per definire le politiche
abitative e, in particolare, le iniziative sperimentali che non derivano dai provvedimenti nazionali.
Certamente esiste una domanda crescente. Anche se la popolazione è complessivamente stabile, le
famiglie aumentano in modo significativo e, conseguentemente, cresce il fabbisogno di abitazioni.
Tra il 2000 e il 2007 il numero delle famiglie è passato da 22 a 24 milioni (285.000 nuclei aggiuntivi ogni
anno, dato non troppo distante dalla produzione di alloggi). In secondo luogo, le persone si spostano in
cerca di un lavoro e di un futuro migliore: per questa ragione le montagne e le colline dell’Italia interna si
spopolano, le aree metropolitane si espandono e accrescono i loro abitanti. Cambiamenti così rilevanti
giustificano l’esistenza di un fabbisogno, ma non bastano a spiegare perché le richieste non trovano una
risposta adeguata.
Il nodo centrale sta nel fatto che la liberalizzazione del mercato della casa ha determinato un innalzamento
generale dei valori immobiliari, elevato e continuo nel tempo. Costruire e rivendere le case è da molti anni
un business redditizio e sicuro. Ssecondo diversi esperti, il ciclo immobliare che stiamo attraversando è il
più lungo nella storia del nostro paese. Nei momenti di picco si sono vendute fino a 800.000 abitazioni in un
anno: il mercato delle compravendite, quindi, è di gran lunga superiore a quello delle case in realizzazione
ed è proprio nei passaggi di proprietà (a volte più d’uno per lo stesso alloggio) che si creano ingenti
plusvalori. Il settore immobiliare ha drenato risorse dal sistema delle imprese, distraendole dagli investimenti
nella catena produttiva3, e attratto cospicui investimenti finanziari. In un circolo perverso, la rendita edilizia e
quella finanziaria si sono alimentate a vicenda, fino al crack odierno che ha investito direttamente gli Stati
Uniti e – di riflesso – l’Europa.
3. Chi soffre del disagio abitativo?
Sappiamo tutto dell’Isola dei Famosi. Molto meno della penisola degli anonimi. Per troppo tempo si è
pensato che il disagio abitativo riguardasse solo gli ultimi nella scala sociale e solamente ora ci siamo
accorti che coinvolge anche i “penultimi” e – in prospettiva – anche i “terzultimi”. Il disagio abitativo è spia di
una progressiva retrocessione di strati crescenti della popolazione, confermata peraltro dagli indicatori sulla
disuguaglianza di reddito, molto elevati e in aumento.
Tra gli ultimi ci sono i poveri, ovviamente4. I senza casa sono circa 150.000, ma se guardiamo al reddito,
possiamo considerare al di sotto della soglia di povertà il 12,7% della popolazione, cioè più di 7.000.000 di
persone (la somma degli abitanti di Roma, Milano e Napoli oppure dell’intero Triveneto). Anche gli immigrati
possono essere considerati al fondo della scala sociale: secondo l’ISTAT, sono poco meno di 3.000.000,
ma secondo CARITAS sono ancora di più, quasi 4.000.000 (Caudo 2008, Calimani).
Al penultimo posto possiamo collocare:
- chi ha un lavoro nelle grandi città (magari precario) e cerca casa: come abbiamo detto, i valori immobiliari
delle grandi città sono letteralmente schizzati verso l’alto in pochi anni;
- chi studia in città e non trova un ‘posto alloggio’: gli studenti fuori sede sono circa 650.000, ma i posti letto
istituzionali sono solamente 54.000, appena l’8% della domanda;
- chi rimane da solo (divorziati, single, vedovi…), chi ha troppe persone da mantenere (famiglie
monoreddito, famiglie con molti figli), chi è in difficoltà (oltre ai precedenti, anche anziani, ammalati, famiglie
con disabili) e non può ‘produrre’ a sufficienza per pagarsi mutuo o affitto.5
3
Cartolarizzazioni (cioè vendita degli immobili di proprietà e reinvestimento, di norma nel settore immobliare) e sostegno al credito
hanno letteralmente ‘drogato’ il mercato immobiliare. Negli Stati Uniti, per continuare ad alimentare questo circuito, i crediti sono
stati concessi, aggirando le regole, ad una platea sempre più vasta di famiglie. Come noto, pochi mesi fa – per i troppi casi di
insolvenza – il sistema è saltato. In Europa, il credito viene concesso con maggiore prudenza, ma le banche e i fondi hanno
partecipato alla “lotteria americana” dei mutui, e quindi di riflesso sono entrate in sofferenza (Cuzzi).
4
5
Sul tema povertà e città vedi Boniburini.
Un’ulteriore spia del crescente disagio abitativo è costituita dal numero di sfratti per morosità, passati da 26.000 a 32.000 l’anno,
con un incremento del 25% (CENSIS su dati Ministero dell’interno).
Quest’ultima lista non è affatto stabile. Anche i terzultimi, quelli che per ora non entrano nelle statistiche sul
disagio, non appena il loro reddito dovesse calare potrebbero trovarsi in difficoltà, per l’incidenza del mutuo
o del canone d’affitto. E, in una società selettiva, chi è in difficoltà rimane inesorabilmente indietro.
4. Come viene aiutato chi cerca casa?
Chi cerca casa, oggi, può contare solo sulle proprie forze. La politica della casa, in Italia, è nata agli inizi del
novecento (la legge 251/1903 è il primo provvedimento promulgato allo scopo di facilitare la costruzione di
case popolari), si è sviluppata in modo consistente a partire dagli anni sessanta (leggi 167/1962, 865/1971,
457/1978 – ultimo provvedimento organico di finanziamento), per esaurirsi alla fine degli anni novanta.
Possiamo individuare nella legge 21/2001, riguardante il secondo programma di contratti di quartiere e la
costruzione di 20.000 alloggi in affitto, l’ultimo provvedimento che ipotizza un finanziamento pubblico
statale6. Nel frattempo, con il Dlgs 112/1998 molte funzoni e compiti amministrativi in materia di politica della
casa sono stati trasferiti alle regioni senza però una corrispondente attribuzione di risorse. In un contesto
complessivo di scarsa incidenza della spesa per la casa (nel 2008, 13 regioni su 20 hanno destinato a
questo scopo meno dell1% del PIL regionale), le politiche attivate nelle diverse regioni presentano
differenze crescenti, accentuando la frattura fra il centro-nord e il sud, dove l’investimento è tuttora legato ai
fondi residui ex Gescal (CENSIS-Federcasa).
Possiamo suddividere le politiche della casa in due grandi filoni. Da un lato, si collocano gli interventi volti a
sostenere la domanda. Mediante crediti agevolati, buoni casa, buoni affitto e simili, si aiutano le famiglie a
cercare un alloggio alle condizioni di mercato. Per le ragioni spiegate in precedenza, questo tipo di sostegno
viene – di fatto – vanificato dall’innalzamento dei canoni e dei prezzi di vendita.
Dall’altro lato si collocano gli interventi sull’offerta di abitazioni, consistenti:
- nella costruzione pubblica degli alloggi e loro assegnazione in affitto alle famiglie più disagiate (gli ultimi
saranno i primi, se vogliamo… poi c’è sempre qualcuno che imbroglia, ma questa è un’altra storia);
- nell’agevolazione di imprese e cooperative che si impegnano a costruire alloggi da mettere in vendita o in
affitto a prezzi concordati (edilizia convenzionata);
- nella regolazione degli affitti, mediante una definizione del canone legata a parametri sottratti alle
dinamiche di mercato (il cosiddetto equo canone)7.
La costruzione pubblica di alloggi ha sempre avuto, sotto il profilo quantitativo, un ruolo marginale. Si è
costruito molto meno del necessario, come testimonia lo scarto mai colmato tra domande presentate e
alloggi assegnati. Nel biennio 2002-03, secondo un’indagine a campione condotta dal CRESME (117
comuni aventi una popolazione complessiva di oltre 15 milioni di abitanti), delle 126.671 domande
presentate nel biennio 2002-2003 per l’assegnazione di alloggi di edilizia sovvenzionata, ne sono state
soddisfatte solo 10.156, pari all’8% (Storto). L’edilizia convenzionata ha ottenuto migliori risultati, in
particolare nelle città dell’Italia centrale, ma non è stata in grado di ‘calmierare’ la crescita dei prezzi nelle
aree a maggior tensione abitativa. Sia l’edilizia pubblica che quella convenzionata hanno subito una una
forte contrazione negli ultimi anni: nel 1984 il loro apporto era pari al 23% della produzione edilizia, nel 2004
solamente all’8% (l’iniziativa delle cooperative si è dimezzata, quella del settore pubblico è crollata all’1%).
Per di più, con la legge 560/1993 è stata autorizzata la dismissione di parte del patrimonio immobiliare degli
ex Istituti autonomi case popolari, che – al momento – ha prodotto una riduzione pari al 10%. Infine, la
mancata gestione della legge sull’equo canone ne ha vanificato gli obiettivi e la percentuale di alloggi in
affitto si è progressivamente ristretta: gli alloggi a canone sociale sono il 5% in Italia, contro il 17% in
Francia, il 20% in Gran Bretagna, il 34% nei Paesi Bassi (CENSIS su dati EU).
In buona sostanza, il rapporto tra edilizia sociale e offerta in libero mercato è sempre più sbilanciato a
favore del secondo.
6
La legge finanziaria del 2002 per la prima volta non prevede alcuna erogazione di risorse da parte dello Stato.
7
Sui presupposti, obiettivi e limiti della legge 392/1978 che istituisce il cosiddetto equo canone vedi De Lucia e Salzano.
5. Che fare. Per quali finalità e con quali strumenti rilanciare le politiche della casa.
Il ministro Brunetta, in un suo recente intervento a Urbanpromo 2008, ha sostenuto che il problema della
casa ha dimensioni limitate: durante il quinquennio del suo mandato occorrerebbe reperire 50.000 alloggi
all’anno, una cifra corrispondente grosso modo al 20% della produzione edilizia complessiva. Poiché il
patrimonio pubblico è di circa 1 milione di alloggi, ipotizzato che ai prezzi attuali per realizzare un nuovo
alloggio se ne debbano venderne quattro (stima Federcasa), la svendita dell’intero (!) patrimonio potrebbe
finanziare il soddisfacimento del fabbisogno. Sembra l’uovo di Colombo, ma le cose non stanno affatto così:
- il fabbisogno – come detto – è molto più ampio e tendenzialmente crescente in assenza di significative
correzioni;
- molti inquilini non sono in grado di riscattare l’alloggio;
- il problema del degrado del patrimonio pubblico passerebbe dallo Stato alle famiglie, senza per questo
essere risolto.
Vendere tutto, o meglio cartolarizzare, è necessario, secondo il ministro, per accrescere la possibilità di
investimento della pubblica amministrazione. Questo è il presupposto del combinato disposto del nuovo
piano casa e della valorizzazione degli immobili pubblici stabilito dalla legge finanziaria 133/2008, che a sua
volta darà vita ad una nuova stagione di programmi in deroga ai piani urbanistici, con il loro corredo di
ulteriori incentivi alla valorizzazione immobiliare (varianti urbanistiche, accordi di programma, trasferimenti
di cubature e ulteriori premi edilizi) di cui abbiamo già constatato l’inefficacia e gli effetti negativi sulla
vivibilità delle città.
E’ possibile fare tutt’altro, tenendo presente che certamente le risorse pubbliche non sono molte, ma
nemmeno esigue come si tende a far credere. Innanzitutto le politiche della casa devono essere inquadrate
all’interno di un più vasto e corente programma di azione pubblica che preveda di:
(1) Coniugare politica della casa e politiche per l’inclusione sociale. Casa e città sono intimamente
legate tra loro. Abitare ha un significato molto ampio che non si esaurisce nella mera disponibilità di un
alloggio e comprende la possibilità di fruire di servizi pubblici, di spazi e occasioni di incontro, di iniziative
culturali (non fosse altro per emanciparsi dal pensiero unico ed elaborare un pensiero critico). Per rendere
le persone ‘abitanti’ di una città occorrono politiche di accoglienza, di inclusione, di partecipazione. In
Europa, la spesa media degli stati per finanziare politiche di inclusione sociale – comprendenti il contrasto
al disagio abitativo – è pari al 3,8% del PIL e l’Italia è ultima con lo 0,2% (Calimani).
(2) Coniugare politica della casa e politica del territorio. La pianificazione territoriale non è un inutile
orpello. La deregolamentazione urbanistica ha generato il mostro dello sprawl insediativo8: abitazioni
lontane dai posti di lavoro, pendolarismo sempre più intenso9, collasso del sistema dei trasporti, disagi
nell’organizzazione di vita delle persone. In assenza di risposte collettive, costi aggiuntivi gravano sulle
famiglie, singolarmente costrette ad arrangiarsi. La politica della casa chiede alla politica del territorio di
assicurare le condizioni strutturali del benessere:
- alla scala urbana, prendendosi cura della “dimensione pubblica” della città, affinché quest’ultima non si
riduca ad un mero ammasso di case;
- alla scala territoriale, affrontando con decisione i problemi legati alle relazioni tra casa, luoghi di lavoro,
trasporti e gestione dei servizi pubblici10.
(3) Coniugare politica della casa e riassetto della finanza locale. La stretta finanziaria imposta alle
amministrazioni locali si è scaricata per buona parte sulla politica della casa e della città, nell’errata
convinzione che quest’ultima potesse essere delegata all’iniziativa privata.
8
Su questo tema si veda Gibelli, Salzano.
9
Nel 2007 i ‘pendolari’ sono oltre 13 milioni, con una crescita del 18% rispetto al 2001, e del 50% rispetto al 1991 (CENSIS).
10
Sul ruolo cruciale della dimensione intercomunale, vedi Gibelli.
Gli oneri di urbanizzazione sono stati utilizzati per assicurare il pareggio di bilancio delle amministrazioni
locali, ammettendo in troppi casi la monetizzazione delle opere (meno verde, meno scuole, meno
attrezzature pubbliche) per ragioni di cassa. Anche il contributo corrispondente al costo di costruzione, con il
quale si sarebbe dovuto finanziare il risanamento del patrimonio edilizio esistente e degradato, è di norma
dirottato ad altri scopi 11. Correzioni della politica nazionale sono quanto mai indispensabili, per ripristinare i
canali di finanziamento saggiamente previsti negli anni settanta e incautamente soppressi, senza sostituirli
con alcunché.
Per quanto riguarda la politica della casa vera e propria, si può fare tutt’altro che vendere il patrimonio
pubblico e spingere le famiglie ad indebitarsi ulteriormente. L’obiettivo prioritario può essere riassunto con il
seguente slogan: meno case sul “libero” mercato, più case accessibili. Si deve pretendere un’inversione di
rotta radicale rispetto al ciclo immobiliare che abbiamo attraversato, governato dalla legge dell’offerta,
Occorre ricostituire una quota significativa di abitazioni a canone o prezzo di vendita commisurato alla
capacità di spesa delle famiglie. Oggi un alloggio su 15 è costruito in regime agevolato e uno su 100 è
costruito dal pubblico: si tratta di uno squilibrio non accettabile.
Gli strumenti per riequilibrare l’offerta devono essere diversificati: non è necessario prevedere soluzioni
troppo radicali (grandi acquisizioni pubbliche), troppo semplicistiche (edilizia sociale come standard,
rigidamente fissato), eccessivamente uniformi (occorrono case ‘popolari’, posti letto per gli studenti, case in
affitto per i lavoratori in trasferta; occorrono politiche differenziate per le grandi città e per i territori dello
sprawl, eccetera). Non secondariamente dobbiamo ricordarci che abbiamo alle spalle un secolo di
espansione edilizia. Il patrimonio abitativo si è moltiplicato, quello produttivo ingigantito: il recupero
dell’esistente è prioritario rispetto ad ogni ulteriore crescita. A questo scopo, la riconversione delle aree
dismesse (caserme, aree ferroviarie, altre grandi strutture – pubbliche e private) deve essere orientata alla
realizzazione di edilizia sociale e di servizi pubblici, secondo rapporti equilibrati che tengano conto del
contesto in cui si interviene.
Le grandi operazioni immobiliari devono produrre molti alloggi sociali, redistribuendo una parte significativa
della rendita. A Milano, secondo un’indagine condotta da Roberto Camagni, i benefici pubblici connessi alle
grandi trasformazioni urbane incidono per meno del 10% del valore complessivo degli immobili realizzati, a
Monaco per circa il 30%. Nella città tedesca l’onere sostenuto dai privati ammonta fino a 2/3 (sic!)
dell’incremento di valore stimato a seguito della trasformazione, concretizzandosi in:
- trasferimenti gratuiti di terreni, per realizzare strade e aree a verde e funzioni collettive e per
“compensazione” di impatti, nelle vicinanze del progetto o in altre aree;
- risorse economiche che vanno a finanziare infrastrutture materiali e sociali;
- abitazioni sociali, per 1/3 del totale complessivo.
Ulteriori benefici possono essere prodotti facilitando l’incontro tra offerta di abitazioni non occupate e
domanda sociale: attraverso l’istituzione di fondi di garanzia (il comune prende in affitto dai proprietari gli
alloggi e si fa garante del pagamento del canone) e di agenzie per la casa, i possessori di case possono
essere invogliati ad affittare a canone controllato; peraltro, i redditi derivanti da affitti calmierati potrebbero
essere detassati.
Infine, avendo scelto con attenzione dove intervenire (i piani urbanistici servono a questo), è possibile
puntare ad una nuova stagione di finanziamento:
- della costruzione di alloggi popolari, accompagnata da politiche complessive di ‘accoglienza’ e di
‘inclusione’ per non ripetere gli errori del passato12;
11
Mediamente il contributo corrisponde al 4-6% del costo corrente di costruzione dell’edilizia residenzale e al 10% del costo reale
dell’edilizia direzionale e commerciale. Non deve essere versato da chi convenziona i prezzi di affitto e vendita dell’edilizia
residenziale (Brenna).
12
Nel passato si è costruito attraverso grandi interventi, in troppi casi diventati una sorta di ghetto. Alcuni nomi sono noti alle
cronache (Zen, Corviale, Scampia): avrebbero dovuto essere un modello di città pubblica e sono divenuti sinonimi di degrado.
dell’edilizia ‘convenzionata’ (attraverso apposite convenzioni, è possibile ottenere benefici del tutto
analoghi a quelli del programma promosso a Monaco di Baviera);
- del cosiddetto housing sociale, anche grazie al contributo del cosiddetto ‘capitalismo mite’, costituito da
banche etiche, fondazioni e associazioni che, pur agendo nel mercato, non puntano alla
massimizzazione del profitto ad ogni costo, bensì alla realizzazione di iniziative a sfondo sociale che
assicurino il ‘pareggio di bilancio’ ovvero il ‘minimo rendimento’ necessario per finanziare l’operazione
(DIPSU, CENSIS-Federcasa).13
In molte regioni si stanno compiendo interessanti sperimentazioni che possono essere riprese e
opportunamente trasformate in iniziative ordinarie ed è, probabilmente, dalle regioni più sensibili che può
ripartire una politica della casa degna di questo nome.
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Riferimenti
Ilaria Boniburini (2008), Parole della città, in eddyburg.it.
Sergio Brenna (2008), Reagire allo scandalo degli oneri di urbanizzazione, in eddyburg.it.
Luisa Calimani (2008) Abitare la città. Intervento all’assemblea nazionale degli amministratori locali di
sinistra democratica, Firenze.
Roberto Camagni (2008), Il finanziamento della città pubblica, in Mauro Baioni (a cura di), La costruzione
della città pubblica, Alinea, Firenze.
Giovanni Caudo, (2008) Case di Carta, in Mauro Baioni (a cura di), La costruzione della città pubblica,
Alinea, Firenze.
CENSIS (2008), I nuovi termini della domanda abitativa, relazione di Stefano Sampaolo, Urbanpromo,
Venezia.
CENSIS – Federcasa (2008), Social Housing e agenzie pubbliche per la casa, Dexia Crediop, in
www.federcasa.it.
Vezio De Lucia (2006), Se questa è una città, Donzelli, Roma (1989 1° ed).
DIPSU (2006), Nuova questione abitativa, nuove forme dell’abitare e la prospettiva dell’housing sociale,
contributo al Rapporto sull’economia romana, Comune di Roma.
Maria Cristina Gibelli (2008) La dimensione sovracomunale in Italia e in Europa, in eddyburg.it.
Maria Cristina Gibelli, Edoardo Salzano, a cura di (2006), No sprawl, Alinea, Firenze.
Edoardo Salzano (1998), Fondamenti di urbanistica, Laterza, Roma-Bari.
Francesco Sbetti (2008), Nuovi strumenti e nuovi attori per la politica abitativa. Urbanpromo, Venezia.
Giancarlo Storto (2005), Le modifiche dello scenario istituzionale e le peculiarità del problema abitativo, atti
della Conferenza regionale sulle politiche abitative, Firenze, 15 ottobre 2005, in www.rete.toscana.it.
13
Le 88 fondazioni di origine bancaria presenti in Italia hanno stanziato nell’ultimo bilancio 1, 5 Mld di euro per attività non a scopo
di lucro (il 30% per l’atre e i beni culturali, il 16% per volontariato e beneficenza…). Una parte ancora minima di questi finanziameti è
andata a programmi di housing sociale. Passare dall’edilizia pubblica ad un’edilizia ‘filantropica’ non è affatto privo di
controindicazioni. Su questo punto molto efficace la diagnosi di Brenna, su eddyburg.