LA MISERICORDIA, CAMMINO DI LIBERAZIONE UMANA E

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LA MISERICORDIA, CAMMINO DI LIBERAZIONE UMANA E
La Misericordia, cammino di liberazione umana e spirituale
Anna Bissi
LA MISERICORDIA,
CAMMINO DI LIBERAZIONE
UMANA E SPIRITUALE
di Anna Bissi∗
Introduzione
La parola «misericordia» ha ancora valore e significato per l’uomo d’oggi che, autonomo
e sicuro di sé, si accinge a passare il guado del secondo millennio? Termine desueto per molti,
da altri automaticamente associato ad esperienze ecclesiali dimenticate o «superate», sembra
incapace di far presa sulla mente e sul cuore della maggior parte dei nostri contemporanei.
Tuttavia, se questo è vero per l’espressione «misericordia» che, di fatto, incontriamo
raramente nel linguaggio comune, non così possiamo affermare per l’esperienza esistenziale
che essa indica. Una lunga nota dell’enciclica Dives in misericordia 1 ci spiega le diverse
sfumature semantiche usate per definirla. Il termine hesed si riferisce a un amore
costantemente fedele a se stesso, «più potente del tradimento, una grazia più forte del
peccato» 2 . Il vocabolo rahamim, invece, rimanda a un amore totalmente gratuito, frutto di una
necessità interiore, che «genera una gamma di sentimenti, fra i quali la bontà e la tenerezza, la
pazienza e la comprensione, cioè la prontezza a perdonare» 3 . Tale ricchezza di significati, già
presente nel Primo Testamento, si amplifica ulteriormente nel Nuovo, dove, con l’esperienza
pasquale, la misericordia viene a esprimere un amore totalmente donato, più forte della stessa
morte. Possiamo allora comprendere come tale vocabolo, benché comunemente non usato,
rinvii a un’esperienza esistenziale non solo significativa ma anche fortemente ambita,
desiderata. Chi infatti non vorrebbe essere oggetto di un amore costantemente fedele, forte,
tenero e gratuito? L’uomo d’oggi, come quello di tutti i tempi, non è certo insensibile a tale
prospettiva; anzi, nei modi che lo caratterizzano, sembra disperatamente ricercare una forte
esperienza d’amore, capace di sostenerlo e di infondergli sicurezza e speranza. Parlare di
misericordia, quindi, è riferirsi a una realtà che sta a cuore a tutti e che tutti coinvolge e
interpella. Se solo avessimo il coraggio di farci domande in merito ai nostri desideri più
intensi e profondi, molti, o forse tutti, faremmo riferimento a un amore fedele e gratuito,
capace di bontà e di perdono. Per trattare il tema della misericordia sarà dunque importante
comprendere a che cosa ci riferiamo e ciò che contraddistingue tale amore.
∗
Anna Bissi, psicologa, ha iniziato con alcune consorelle una nuova esperienza di vita consacrata nella diocesi di Vercelli,
dove lavora come psicoterapeuta presso il Centro di Consultazione familiare. Fra le sue pubblicazioni: Maturità umana,
cammino di trascendenza (Piemme, Casale Monferrato 1991), Il colore del grano: crescere nella capacità di amare (Paoline,
Milano 1996), Il battito della vita: conoscere e gestire le proprie emozioni (Paoline, Milano 1998).
1
Giovanni Paolo II, lettera enciclica Dives in misericordia, nota 52.
2
Ibid.
3
Ibid.
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Anna Bissi
L’analisi psicologica sembra individuare l’elemento che lo caratterizza nella presenza e
consapevolezza del limite. Si tratta, infatti, di un amare o un essere amato nella verità, che
comporta l’accogliere anche la debolezza, la colpa, il peccato. È un voler bene o un essere
voluto bene nonostante la presenza di aspetti della personalità che non piacciono, che non
sono desiderabili; anzi, è un essere benvoluti o un amare l’altro nella sua debolezza e nella
sua vulnerabilità, poiché il limite non è prima di tutto percepito come una componente da
eliminare ma come un aspetto della personalità accolto, da amare o in cui si è amati. Chi ama
di amore misericordioso non dice: Ti prendo così come sei, nonostante le tue debolezze, ma:
Ti prendo così come sei, senza riserve. Quest’accoglienza consapevole della totalità della
persona, limite compreso, si distingue da ciò che la psicologia umanistica definisce
accettazione incondizionata. Con tale espressione ci si riferisce a un consenso senza riserve
nei confronti dell’agire di un individuo, accompagnato dalla tendenza ad attribuire all’esterno
(famiglia, scuola, società...) la responsabilità di comportamenti scorretti e a mettere in
opposizione accettazione e correzione, quasi che l’incitamento a cambiare, a eliminare i difetti
rappresenti un mancato rispetto della libertà altrui. L’amare e l’essere amati, di conseguenza,
non sono collegati con la ricerca oggettiva del bene ma con il rimandare un’immagine
dell’altro positiva più che veritiera. Il rischio di tale accettazione incondizionata, però, è che
l’amore si confonda con il permissivismo e la libertà con la spontaneità. Al contrario, ciò che
caratterizza la misericordia è la capacità di coniugare amore e verità, di non disgiungere la
benevolenza dalla percezione del limite, di osservare la persona amata con sano realismo, di
desiderare che cambi per il suo bene e non al fine di imporle la propria volontà.
Cerchiamo ora di individuare quali sono i diversi elementi che caratterizzano tale
esperienza a livello psicologico. Per rispondere a questo interrogativo dobbiamo innanzi tutto
ricordare che essa si snoda lungo due coordinate.
La prima è quella caratterizzata da attività o passività: si può, infatti, essere oggetto di un
amore misericordioso, sentirsi amati, capiti, perdonati, accolti, ma si può anche amare in tal
modo, cercando di esprimere benevolenza, comprensione, fedeltà.
La seconda si riferisce invece alla maggiore o minore complessità dell’esperienza: la
percezione della misericordia può, infatti, essere relegata a un momento particolare della vita
(una situazione in cui ci si sente perdonati o si perdona, per esempio), oppure può
accompagnare in modo costante il cammino di una persona, permettendole di cogliersi con
continuità oggetto di tale amore. L’idea di complessità implica, di conseguenza, la possibilità
di modi diversi di vivere tale realtà, rendendola, come diremo anche in seguito, accessibile a
tutti.
La misericordia ricevuta (esperienza passiva)
Cerchiamo ora di approfondire i diversi aspetti cui abbiamo fatto riferimento. Ci
soffermeremo, prima di tutto, sull’aspetto passivo nelle sue forme meno complesse, su quello
che potremmo definire il «minimo necessario» per potersi sentire oggetto di un amore
misericordioso.
Sono tre, in questo caso, gli elementi essenziali per accedere a tale esperienza.
1. Il primo è dato dal cogliere la bontà dell’altro. La misericordia si colloca sempre
all’interno di un’esperienza d’amore, in cui l’altro è percepito come buono, come qualcuno
che ci accoglie e ci vuole bene. Suo presupposto è la fiducia, intesa come capacità di
credere all’amore di qualcuno, alla sua comprensione e benevolenza. Essa implica quindi il
superamento della paura dell’altro, sostituita dall’attesa di un bene gratuitamente offerto.
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2. Il secondo elemento essenziale è costituito dalla percezione del proprio limite. La
misericordia, infatti, rappresenta una sfumatura particolare dell’amore, che presuppone un
chinarsi sulla debolezza altrui e un trascenderla, non perché questa è assente o non è stata
individuata, ma in quanto diventano possibili il perdono, la fedeltà, l’accoglienza dell’altro
nella sua totalità. Perché ci si possa sentire amati in questo modo è quindi necessario
rendersi conto non solo dell’amore che è donato ma anche che il dono ci è offerto in
presenza di una realtà - quella della nostra debolezza - che, oggettivamente, ci rende meno
amabili. La misericordia, quindi, trascende la mutua attrazione e comporta sempre una
sorta di disparità; mentre l’amicizia, il cameratismo, l’amore sponsale si collocano a un
livello d’uguaglianza, essa esige una differenza, un disequilibrio: la vulnerabilità di una, e
una sola, delle due parti. Può avvenire, naturalmente, che all’interno di un rapporto tale
dono sia vicendevole e che la misericordia accompagni altre forme d’amore. Tuttavia, nel
momento in cui si ama o si è amati di amore misericordioso, la disparità deve
necessariamente essere presente; essa si manifesterà ora da parte dell’uno ora da parte
dell’altro ed accompagnerà altri elementi del rapporto.
3. Possiamo definire il terzo aspetto, quello più qualificante, con il termine sintesi o
integrazione. Per sentirsi oggetto di misericordia è infatti necessario mettere insieme
aspetti discordanti presenti all’interno della relazione. L’amore che si basa sulla reciproca
attrazione (fisica, psicologica, intellettuale o spirituale) non richiede tale sintesi; è infatti
risposta a un bisogno o a un desiderio suscitato dall’altro, nasce dall’apprezzare uno o più
aspetti della persona. Non ci sono distanze da colmare con uno sforzo della volontà da
parte di chi si dona né un abbandono fiducioso da parte di chi accoglie. L’amore di
misericordia, invece, esige uno scarto, il superamento di una distanza, costituita dal limite
da parte di chi lo riceve. Chi si dona ha qualcosa in più da dare: il proprio perdono,
l’accettazione di ciò che nell’altro non piace. Anche chi è oggetto del dono ha però una
distanza da colmare: quella tra la propria immagine positiva, che lo fa sentire amabile agli
occhi altrui, e la percezione della propria fragilità, che lo rende poco attraente e
desiderabile. Perché ci sia misericordia è necessario che l’oggetto di tale amore possa dire:
«Tu sei buono, io sono cattivo, ma credo che tu mi ami lo stesso». Esperienza umanamente
non facile, che comporta un tuffo nel mare della fiducia, sia verso l’altro, nel cui amore si
continua a credere, al di là delle proprie debolezze, sia verso se stessi, per continuare a
sentirsi amati.
La misericordia quindi non costituisce solo una forma di amore oblativo, ma, da parte del
destinatario, implica anche la capacità di amare se stessi in modo maturo. L’amore umano
infatti non si esprime unicamente come dono, ma comporta anche un volersi bene e un saper
accogliere ciò che l’altro vuole donarci. Tale amore non è automatico e spontaneo: tutti ci
sentiamo amati quando prevale la consapevolezza dei nostri meriti e qualità, ma ben diversa è
la percezione di noi stessi e dell’amore che ci è offerto in presenza della fragilità, delle colpe
commesse. Sono questi i momenti in cui è necessario ricuperare quella capacità di sintesi, che
ci permette non solo di credere che l’altro è buono ma anche che noi siamo amabili. Essa ci
obbliga a una duplice integrazione: quella tra la bontà altrui e il nostro limite (Tu sei buono, io
sono cattivo, ma tu mi ami lo stesso) e quella tra gli aspetti positivi e quelli negativi della
nostra persona (Io sono cattivo, ma sono anche buono e quindi amabile). Ritornano in mente,
a tale proposito, le parole che G. Bernanos attribuisce al protagonista del suo capolavoro:
«Odiarsi è più facile di quanto si creda. La grazia consiste nel dimenticarsi. Ma se in noi fosse
morto ogni orgoglio, la grazia delle grazie sarebbe di amare umilmente se stessi, allo stesso
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modo di qualunque altro membro sofferente di Gesù Cristo» 4 . L’essere amati di amore
misericordioso implica l’acquisizione di tale atteggiamento: la capacità di amare se stessi
così, nella semplicità e umiltà di cuore.
La misericordia, quindi, anche nelle sue forme meno complesse, comporta il superamento
di relazioni molto immature e primitive. Essa ci obbliga ad andare al di là di atteggiamenti
molto pericolosi, tipici dell’uomo d’oggi: il narcisismo, il sospetto, l’autodistruttività,
l’onnipotenza, il senso di colpa immaturo. Può quindi rappresentare un’esperienza
contemporaneamente stimolante e terapeutica. Stimolante, in quanto sollecita una
maturazione delle strutture personali, quali la capacità di integrare elementi della realtà che si
oppongono, o di superare atteggiamenti infantili. Terapeutica perché sana ferite interiori,
guarisce le «malattie spirituali», quali la paura di non essere amabili e amati. Un’analisi più
particolareggiata di questi diversi aspetti ci aiuterà a comprendere meglio tale affermazione.
1. La misericordia come liberazione dal narcisismo. - Per dire «Tu sei buono» è
indispensabile sapersi rivolgere a un tu, a una realtà personale differenziata, diversa per
gusti, stile, modo di essere e agire. La misericordia presuppone quindi il superamento del
narcisismo. Con questo termine intendiamo rimandare a un modo particolare di relazionare
con se stessi e con gli altri, caratterizzato da due elementi: la difensività e la funzionalità. Il
narcisista è innanzi tutto una persona che tende a negare il limite e la vulnerabilità: non
vede le proprie debolezze e, se costretto a farlo, ne attribuisce la responsabilità ad altri.
Nello stesso tempo, rinchiuso nel proprio isolamento, riconosce la presenza di coloro che
lo circondano solo in funzione di se stesso, delle proprie necessità e bisogni. Le persone
esistono solo se servono, se gli sono utili; non suscitano attrazione né per il valore
oggettivo, per quanto di bello e di buono è possibile apprezzare, né per il bisogno che
possono creare. Ciò che il narcisista riceve è un suo diritto, mentre il donare è un dovere
che gli altri sono tenuti ad adempiere. Per tale motivo non conosce né apprezzamento né
riconoscenza. La misericordia, al contrario, ci pone sotto lo sguardo di un altro, ci
introduce nel mondo variegato della differenza, dove le persone sono diverse da noi e ci
educano all’alterità come elemento indispensabile, costitutivo dell’esperienza umana.
La percezione della bontà di coloro che ci vogliono bene ci obbliga inoltre non solo a
riconoscerli ma anche ad apprezzarli; non esiste infatti vera esperienza di misericordia che
non sia accompagnata da gratitudine, poiché lo scoprire che qualcuno ci ama non può
lasciarci indifferenti. Tale tipo di amore ci salva quindi da tutti quei tratti egocentrici che
spesso caratterizzano il nostro modo di situarci in relazione: dalla pretesa,
dall’indifferenza, dalle rivendicazioni, e ci apre all’umile gratitudine di fronte a un altro
che scopriamo gratuitamente buono verso di noi.
2. La misericordia come liberazione dal sospetto. -Non basta tuttavia poter dire tu per
parlare di esperienza di misericordia: l’alterità può infatti presentarsi a noi continuamente
accompagnata da una percezione di pericolo, di paura e diffidenza. Per affermare «Tu sei
buono» è quindi necessario superare quel senso di minaccia nei confronti degli altri e della
realtà, che ci porta a guardare ogni persona con occhio guardingo, come se potesse
costituire un potenziale nemico, un rischio per il nostro benessere o sopravvivenza.
Anche a questo livello possiamo vivere la misericordia come un’esperienza di salvezza,
in termini puramente umani: essa infatti ci salva dalla sfiducia, dal sospetto, elementi che si
insinuano persino nei rapporti più profondi e tendono ad avvelenare le relazioni
interpersonali; posti di fronte alle nostre e altrui contraddizioni, non è infatti facile credere
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G. Bernanos. Diario di un curato di campagna, Mondadori, Milano 1994, p. 243.
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all’amore dell’altro per noi. In un mondo in cui sembrano venir meno tutte le certezze e ci
sentiamo spesso insicuri e minacciati, dove i rapporti tendono ad essere brevi e
frammentari, il dubbio, la diffidenza, il sospetto accompagnano anche i legami più
profondi: ci interroghiamo sulle vere intenzioni di coloro che ci circondano, non ci
attendiamo nulla di buono, attribuiamo inconsapevolmente agli altri intenzioni malevole.
La percezione della misericordia ci obbliga a uscire da questo mondo angusto, aiutandoci a
cogliere il bene che ci è donato, la purezza delle intenzioni, la capacità di benevolenza
presente nel cuore dell’uomo; essa ci fa uscire da quell’inferno umano costituito
dall’incapacità di sentirsi amati, costringendoci a vedere la realtà con uno sguardo diverso,
più limpido e trasparente.
3. La misericordia come liberazione dall’onnipotenza. - La misericordia non solo apre
all’altro, ma introduce anche alla verità su se stessi. Essa infatti obbliga a prendere in
considerazione limiti e fragilità, ad accettare che siano riconosciuti da noi e dagli altri. Tale
consapevolezza è indice di ulteriore maturità: essa evidenzia innanzi tutto un’equilibrata
percezione di sé, al di là di ogni velleità di onnipotenza e immagine grandiosa. Comporta
infatti una sana accettazione del limite, con le sue caratteristiche uniche, ma anche con
l’inevitabile debolezza. Ci si scopre amati di un amore misericordioso solo se si accetta,
con la propria vulnerabilità, anche il bisogno della bontà altrui. Si è così invitati ad aprirsi a
un sano realismo, al superamento delle illusioni di onnipotenza e presunzioni di perfezione
e condotti alla presa di coscienza della fallibilità, come esperienza che accompagna il
cammino di ogni uomo, senza costituirne la totalità o esaurirne le possibilità di crescita e di
dono.
4. La misericordia come liberazione dall’autodistruttività. - La scoperta che il limite
non impedisce all’altro di amarci induce a ridimensionare e a porre dei confini alla sua
negatività. Per quanto forte possa essere la debolezza, o grave il peccato, esiste qualcosa di
ancor più forte, che la nostra fragilità non ha il potere di annientare: è la bontà di chi ci
ama, che persiste, nonostante e al di là della nostra vulnerabilità. Ridimensionare tuttavia
non significa negare, evitare la consapevolezza e l’impegno a cambiare. La percezione
dell’amore altrui è terapeutica, in quanto lenisce la profondità delle nostre ferite e, di
conseguenza, rende desiderosi di essere più buoni, non solo più amati, ma anche più
amabili.
5. La misericordia come liberazione dal senso di colpa immaturo. - La misericordia
inoltre salva dalla colpa vissuta in modo patologico e immaturo, per aprirci a una più sana
consapevolezza e realistica valutazione delle nostre responsabilità. Questa emozione, che
siamo abituati a valutare in modo globale, di fatto può esprimersi in forme più o meno
adeguate.
Ci troviamo di fronte a un senso di colpa immaturo là dove la percezione del limite è
accompagnata dalla paura della punizione, dal timore delle conseguenze che la sua
scoperta provocherà da parte delle persone per noi importanti. Quando la misericordia non
è presente, esiste solo la percezione della gravita del proprio errore e delle conseguenze
negative che esso potrà avere su di noi. Oggetto della nostra preoccupazione non sono le
intenzioni che ci hanno indotti a compiere un determinato atto e nemmeno le sue
conseguenze sugli altri, ma, in ultima analisi, il nostro benessere. Al contrario, la
consapevolezza di poter essere ancora amati, nonostante e al di là della propria debolezza,
permette lo sviluppo di un senso di colpa maturo ed altruistico. La fedeltà dell’amore
dell’altro ci aiuta a spostare lo sguardo, che la paura tendeva invece a concentrare su noi
stessi; al centro dell’attenzione non collochiamo più la nostra persona, gli atti sbagliati e le
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loro conseguenze (punizioni, perdita di stima e di affetto), ma gli altri; riusciamo così ad
assumerci le responsabilità di ciò che abbiamo operato, a definire in modo equilibrato
l’entità della nostra colpa, ma anche a guardare in modo oggettivo al nostro limite, senza
negarlo né drammatizzarlo.
La misericordia donata (esperienza attiva)
L’esperienza psicologica della misericordia non si snoda tuttavia solo lungo la coordinata
della passività; la persona umana, infatti, oltre che esserne oggetto, è anche capace di
misericordia, è soggetto attivo di tale modo di amare. Se con questo termine ci riferiamo a
una sfumatura particolare dell’amore, quale si esprime nel saper accogliere l’altro con il suo
limite, le debolezze, il peccato, nel comprendere e perdonare, nel dimenticare lo sgarbo e
l’ingiustizia subiti, poiché il proprio benessere o interesse risultano secondari rispetto al
valore della persona e al ricrearsi di una relazione, non ci sono dubbi sul fatto che l’essere
umano sia capace di tale tipo di amore. Numerose sono, infatti, le esperienze che testimoniano
quanto di frequente nella famiglia, nei rapporti di coppia, tra amici, anche nel semplice
incontro tra persone, sia possibile vivere una relazione in cui la capacità di trascendenza,
intesa come capacità di andare al di là di se stessi e del proprio benessere per cercare il bene
dell’altro, si manifesti in queste forme particolari, quali il perdono, la dimenticanza di sé, la
fedeltà e l’impegno a credere sempre e in ogni modo nell’altro e nel valore della relazione, al
di là di ogni possibile torto o ingiustizia subiti. L’esperienza attiva della misericordia tuttavia
è sempre preceduta da quella passiva, presuppone l’esperienza dell’essere stati accolti con
amore nella propria vulnerabilità. Non c’è misericordia donata che non sia stata prima
ricevuta e non sia quindi accompagnata dalla consapevolezza che presto i ruoli potrebbero
invertirsi, poiché ciò che oggi noi offriamo (il perdono, la fedeltà, la comprensione del limite),
domani potremmo desiderare o aver bisogno di riceverlo. La capacità di trascendenza, che
caratterizza l’amore misericordioso, deve quindi essere sempre accompagnata dalla
consapevolezza della propria vulnerabilità; non ci si può piegare sull’altro, che ha bisogno
della nostra comprensione e benevolenza, con fare altezzoso e senso di superiorità. La
misericordia esige un dono generoso, uno spossessarsi di sé totale: non basta rinunciare al
giudizio e al rancore, bisogna fare a meno anche di quell’effimero senso di superiorità che
potrebbe sorgere in noi di fronte all’errore, al limite, alla debolezza altrui. Ci riferiamo, in
questo caso, all’esperienza che può verificarsi fra persone che, pur assumendo due ruoli
diversi (l’una, quello di chi perdona, l’altra di chi è perdonato), sono entrambe caratterizzate
dalla presenza del limite, dalla necessità di essere oggetto della misericordia di qualcuno.
Diversa sarà invece l’esperienza vissuta nella fede, dove tale parità non esiste, poiché è
sempre la creatura a ricevere e Dio a donare. Nei rapporti interpersonali, al contrario, per
quanto grave sia la colpa che perdoniamo e benché il nostro amore possa essere messo
fortemente alla prova, quando amiamo di amore misericordioso sappiamo di poterlo fare solo
perché anche noi già siamo stati amati in questo modo e ancora lo saremo in futuro. La
misericordia donata deve quindi coniugare amore e umiltà o, se vogliamo esprimerci in
termini psicologici, capacità di dono e percezione della fragilità personale. Il superamento
dell’onnipotenza, di cui abbiamo parlato in precedenza a proposito dell’esperienza passiva,
deve necessariamente verificarsi anche qui. La percezione del limite altrui non può favorire in
noi, per una sorta di fragile compensazione, la negazione del nostro, così come la debolezza
dell’altro non può risvegliare sensazioni di superiorità e onnipotenza; essa deve invece
rimandare alla fragilità di ognuno, alla consapevolezza che anche noi potremmo macchiarci
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delle stesse colpe di coloro che stiamo perdonando e accogliendo con amore misericordioso.
Anche in presenza di un’evidente disparità, colui che dona dovrà ricordare che questo non è
merito suo ma frutto di esperienze positive, spesso vissute durante l’infanzia, che gli hanno
permesso di raggiungere un’adeguata maturità e di crescere nella capacità di stimare se stesso
e di amare gli altri. Chi ama di amore misericordioso, quindi, sa che tale esperienza gli è
concessa solo perché, in precedenza, lui stesso era già stato amato così, nella propria
debolezza, e non può sentirsi esente da peccato e da colpa o superiore, poiché in questo
momento è lui a donare il proprio perdono.
Lo scrittore H.J. Nouwen 5 presenta la bella immagine del guaritore ferito, dove il Messia
è raffigurato come un uomo il quale, seduto in mezzo ai poveri che si tolgono le fasce delle
piaghe nello stesso momento, le rimuove una per volta, per essere immediatamente pronto
quando si avrà bisogno di lui. Questo racconto, oltre a mettere in risalto la disponibilità del
Messia, ne sottolinea anche il suo essere ferito: egli è colui che non solo ha il compito di
guarire gli altri, ma deve anche prestare attenzione alla propria vulnerabilità. Anche noi siamo
tutti potenziali guaritori, poiché capaci di verità e di amore, le due realtà atte a sanare le ferite
del cuore umano. Tuttavia, ancor prima, tutti siamo dei feriti, persone che per lenire le
sofferenze altrui debbono accettare di curare per prime, anche se una per volta, le proprie
ferite.
È allora possibile concludere che l’esperienza della misericordia, vissuta sia in modo
attivo sia in modo passivo, conduce sempre a una realistica percezione di se stessi e degli
altri. Essa esprime una sana antropologia. La concezione di persona umana che da essa
traspare supera, infatti, ogni forma di ottimismo o pessimismo esagerati: la misericordia
implica il limite, l’errore, lo sbaglio, quello evidente, di chi è amato in tale modo, e quello
possibile, di chi vive tale amore. Essa presuppone dunque una presa di coscienza della
fragilità umana: il male, il limite, la vulnerabilità non provengono solo dall’esterno, dalle
strutture, dalla società ma si collocano all’interno della persona stessa, nelle profondità del
suo mondo interiore, in quei dinamismi, consci o inconsci, che portano il nome di conflitto, di
responsabilità, di debolezza e, in termini spirituali, di peccato. Nello stesso tempo però essa
afferma il valore e la grandezza dell’essere umano, percepito non solo come un fascio di
bisogni, un meccanismo di risposta agli stimoli, ma come capace di amare, anche là dove
l’amore si esprime come dono e perdono, generosità, dimenticanza di sé, oblatività.
La misericordia come esperienza
complessa o frammentaria
L’esperienza umana, relazionale, della misericordia può essere descritta in base a ulteriori
elementi rispetto a quelli finora esposti. Il criterio cronologico, che studia tale fenomeno dal
punto di vista della durata e della complessità, può infatti aiutarci a cogliere altri aspetti.
Parliamo di durata in senso interiore, senza riferimento allo scorrere oggettivo del tempo, e ci
riferiamo in particolare alla dimensione passiva, che abbiamo descritto in precedenza.
I criteri sopra esposti ci permettono di individuare due modi diversi di vivere tale
esperienza: l’uno consiste nel limitarla a un momento particolare della vita, in cui ci si scopre
amati in questo modo; l’altro comporta il darle continuità. Nel primo caso ci troviamo di
fronte a un’esperienza parziale e frammentaria, anche se profonda e significativa. I termini
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H.J. Nouwen, Il guaritore ferito, Queriniana, Brescia 1993, pp. 75-76.
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adottati potrebbero apparire contraddittori, poiché l’idea di frammentarietà rimanda spesso a
una certa superficialità o genericità. Non è questo però ciò cui vogliamo alludere quando ci
riferiamo alla maggiore o minore complessità dell’esperienza. È la continuità l’elemento che
qui interessa. Una persona, infatti, può aver vissuto in modo intenso il proprio essere stato
perdonato; esso tuttavia rimane circoscritto a un momento specifico della sua vita. Per altri,
invece, la stessa esperienza è stata custodita nel cuore per un tempo prolungato e ha iniziato a
colorare di tinte diverse la totalità del vissuto.
Proviamo a spiegare con un esempio quanto andiamo affermando. Un marito, dopo alcuni
anni di matrimonio, si invaghisce di una collega e improvvisamente abbandona la moglie,
incinta del terzo figlio. Ritorna a casa di tanto in tanto, per vedere i bambini, di fronte ai quali
spesso reagisce con insofferenza e di cui sembra non voler farsi carico. Dopo due anni la
nuova relazione si rivela fallimentare ed egli decide di chiedere alla moglie di poter tornare a
vivere con lei. Questa lo accoglie di nuovo, lo perdona, e non gli fa mai pesare, né
nell’intimità né di fronte agli altri, le conseguenze negative del suo gesto. Il marito riconosce
il proprio errore ed è grato per la generosità della moglie. Ci troviamo, in questo caso, di
fronte a un’esperienza passiva di misericordia, che può essere vissuta in due modi diversi.
Quest’uomo, per esempio, può ritornare sui suoi passi, sapendosi perdonato, e ricominciare la
vita come l’aveva vissuta prima del tradimento; l’essere stato amato e perdonato si colloca,
all’interno della sua storia personale, come un momento altamente significativo (cosa sarebbe
stato di lui se la moglie si fosse comportata diversamente?), ma parziale. Si tratta di qualcosa
che è avvenuto nel tempo, un evento che ha un inizio e una fine, può essere definito, ha ridato
senso e fiducia alla sua vita, ma non ne ha modificato l’interpretazione della realtà.
La stessa esperienza invece può essere vissuta in modo del tutto diverso: l’essere stato
accolto e perdonato, in questo caso, non si pone solo come evento ben definito all’interno
della storia di una persona, ma come chiave interpretativa della realtà. Questo stesso uomo,
per esempio, sentendosi perdonato, può prendere coscienza della distanza tra il suo amore e
quello della moglie. La capacità che coglie in lei di andare al di là dei propri diritti, il modo di
accoglierlo, perdonarlo, di nascondere le sue debolezze di fronte ai figli, la fedeltà dell’affetto
possono aiutarlo a rendersi conto che la realtà è diversa rispetto a ciò che egli ha sempre
pensato. Egli sperimenta il perdono come una realtà diversa rispetto all’indulgenza e al
compromesso: non per motivi diplomatici, di quieto vivere, per necessità economiche o per
accettazione passiva egli si sente di nuovo accolto fra i suoi, ma per gratuità e fedeltà, in nome
di un amore che non cerca se stesso ma il bene dell’altro. Abituato a pensare all’amore come a
una reciproca attrazione, un «dare e ricevere», attraverso la consapevolezza di essere amato in
modo qualitativamente diverso può prendere coscienza di un nuovo orizzonte che gli si
spalanca innanzi. Questa inaspettata novità lo apre alla fiducia non solo verso la moglie, ma
nei confronti della vita in generale: se questa esperienza è stata possibile per lui, ciò significa
che è possibile per tutti, che la vita non presenta solo situazioni pericolose, in cui siamo
costretti a difenderci dagli altri, ma ci apre alla speranza, all’attesa del bene. La misericordia
di cui è stato oggetto gli offre anche l’occasione di ripensare alla propria stima personale:
l’essere stato amato nella verità gli permette di guardare al proprio limite senza
drammatizzarlo e lo invita a crescere, per non ricadere negli stessi errori. Tale esperienza
inoltre può aprirlo all’amore misericordioso nei confronti degli altri: il bene che ha ricevuto
può far nascere in lui il desiderio di ricambiarlo, diventando a sua volta generoso e ricco di
benevolenza. L’amore di cui è stato oggetto non si colloca più, all’interno della sua vicenda
personale, come un frammento di storia, forse più ricco e più importante, posto accanto ad
altri frammenti, più o meno significativi. Al contrario, esso diventa occasione per rileggere
tutta la propria vita in modo nuovo, per rielaborare il vissuto del passato e guardare al futuro
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con sguardo trasformato. Nell’avvicendarsi di eventi diversi, è presente una lettura dei fatti
che da continuità all’esperienza interiore: la misericordia si pone allora come una luce che
illumina il cammino e rischiara i momenti bui; la gratitudine per ciò che si è ricevuto, l’umiltà
di fronte alle proprie debolezze, la speranza nei momenti difficili diventano i sentimenti che
accompagnano il percorso di chi ha saputo custodire nel cuore tale esperienza e rielaborarla
interiormente per fare di un momento particolarmente ricco di significato un’occasione di
illuminazione di tutta la propria vita.
I luoghi della misericordia
Di fronte alla bellezza e grandezza di tale amore, sorge spontaneo l’interrogativo in
merito alla sua evoluzione, su dove si sviluppa e cresce, quali esperienze lo permettono e
favoriscono. Quali sono, dunque, i luoghi della misericordia, gli ambienti e le forme di
relazione che la promuovono?
1. La famiglia. - Vivere la misericordia significa, prima di tutto, farne un’esperienza
passiva, scoprire di poter essere amati così come si è, non solo nonostante il proprio limite,
ma anche all’interno del limite stesso. Come abbiamo già messo in evidenza, le due
esperienze, benché possano apparire simili, non si equivalgono. La prima, infatti, dice di
un’accoglienza che, nello stesso tempo, ci vorrebbe diversi, migliori. La seconda rimanda
invece a un amore capace di accoglierci così come siamo, con tutte le nostre debolezze,
ferite e vulnerabilità, un amore che ci desidera diversi solo perché vuole vederci crescere e
maturare, ma che, qui e ora, ci accetta incondizionatamente.
Tale esperienza, con tutti i comprensibili limiti da parte di chi ama, non sempre in grado
di accogliere ed accettare le debolezze della persona amata, si realizza in particolare in un
contesto privilegiato: quello familiare. Si sperimenta e si apprende la misericordia perché
si è stati amati e accolti in tale modo dai genitori. Sono il padre e la madre, attraverso la
bontà e l’affetto, con le sfumature proprie del ruolo di ognuno, a introdurci in essa per
primi. Essi pongono così le basi perché in noi tale esperienza non sia vissuta come episodio
momentaneo ma come realtà continuativa, che ci permette di crescere nella percezione
della nostra amabilità e, nello stesso tempo, ci educa, lentamente ma inesorabilmente,
all’amore misericordioso verso gli altri. La capacità dei genitori di accompagnare la
severità con l’accoglienza, la fermezza con la comprensione permette al bambino di
scoprirsi e sentirsi amato e gli offre quell’inestimabile ricchezza che porta il nome di
fiducia; essa ha origine nella misericordia, nel sapersi benvoluti nel proprio limite, poiché
ci si coglie costantemente sotto lo sguardo di qualcuno che continua a volerci bene, nella
verità.
Gli psicologi e i pedagogisti spesso raccomandano ai genitori di equilibrare due
elementi fondamentali dell’azione educativa: la frustrazione e la gratificazione, la severità
e il concedere. Entrambi questi elementi sono indispensabili per una crescita adeguata. Il
secondo permette alla persona di sentirsi amata: ciò che è concesso, infatti, diventa
simbolo dell’affetto donato, della bontà di cui si è circondati. La soddisfazione dei bisogni
- prima quelli fisiologici e poi anche quelli psicologici - crea il rapporto positivo; si
instaura infatti nella prima infanzia un meccanismo che porta a percepire la bontà dell’altro
verso di noi in base a quanto egli (o, soprattutto, lei, la madre) ci concede. L’indulgere
nella gratificazione, tuttavia, non è sufficiente per favorire una maturazione personale:
permissivismo e amore, infatti, non coincidono. Il primo concede, ma solo il secondo cerca
il vero bene. Far crescere non comporta solo assecondare i bisogni di un bambino o di un
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La Misericordia, cammino di liberazione umana e spirituale
Anna Bissi
giovane, ma implica anche il renderlo capace di affrontare la vita, con quanto di gravoso e
di pesante essa porta con sé: porre dei limiti, esigere un impegno, stimolare, aiutare a
rinunciare, favorire una sana consapevolezza del proprio limite, sono tutti modi per
formare una solida struttura interiore, una sana capacità di far fronte ai problemi
dell’esistenza. La misericordia, in termini psicologici, può essere allora pensata come un
bacio tra amore e verità, come una perenne e sempre rinnovata capacità di accogliere, ma
anche di guidare, di indirizzare alla conoscenza oggettiva di se stessi, di porre dei limiti
alla debolezza e all’errore. La famiglia diventa così il contesto in cui, pur nei modi sempre
imperfetti che caratterizzano la persona umana, si è accolti e amati e si fanno le prime
esperienze di amore misericordioso.
Abbiamo evidenziato in precedenza come questo sia mediato attraverso caratteristiche
tipiche del ruolo paterno e materno: i due compiti, infatti, sono reciproci e complementari.
A entrambi i genitori è chiesto di accogliere, amare e perdonare sempre i figli. Il modo
però in cui tale amore si esprime assume sfumature diverse secondo le caratteristiche della
persona e, di conseguenza, anche del suo sesso. Il padre e la madre appaiono allora come i
due volti complementari della misericordia. Il primo, quello che dice soprattutto la forza di
un amore che stimola, incoraggia, fa crescere, lascia liberi ma, sempre fedele a se stesso, sa
anche riaccogliere e perdonare, valutare con giustizia e spronare verso una continua
crescita. Il secondo, invece, incarna il volto più dolce e sensibile, più affettivo e tenero, di
chi sa confortare, calorosamente accogliere e compatire. Due sfumature diverse di un unico
amore, che simbolicamente potremmo esprimere attraverso due immagini geografiche: la
roccia e la terra. La prima, simbolo della paternità come sicurezza, stabilità, protezione,
«luogo» di ancoraggio, riparo sicuro non solo dalle intemperie della vita ma anche dalle
nostre debolezze: la misericordia paterna ci salva, infatti, spesso da noi stessi,
indirizzandoci, ammonendoci, guidandoci e anche impedendoci il male. Lo spazio, la terra,
simbolo evocativo del grembo, ci rimandano invece alla figura materna, «luogo» di
accoglienza, di calore e dolcezza, di protezione, bontà, tenerezza. L’abbraccio di nostro
padre, vigoroso e solido, e quello di nostra madre, caldo e accogliente, sono i due volti di
quell’amore che, pur con tutti i limiti che accompagnano il cammino di ogni uomo, ci ha
permesso di sentirci figli, creature che hanno ricevuto la vita e, con essa, tutto ciò che ci
consente di essere tali, prima di tutto la consapevolezza e la percezione di un amore che
guida, accoglie e perdona: un amore misericordioso. Anche la sessualità diventa allora un
luogo di misericordia: le differenze sessuali, infatti, non si limitano a esprimere funzioni
diverse del corpo umano, in relazione alla capacità generativa dell’individuo, ma indicano
un modo particolare di essere nel mondo, con elementi di reciprocità e complementarità.
Né un sesso né l’altro ha in sé la capacità di esprimere in pienezza che cos’è l’amore
misericordioso, come ci ricorda anche la parabola comunemente definita del figlio prodigo,
in cui si parla di un padre che ha viscere materne. È proprio attraverso le caratteristiche
della femminilità e della mascolinità, per mezzo di quelle sfumature che caratterizzano il
modo di essere madre e padre, che noi sperimentiamo che cosa significa amare ed essere
amati con amore misericordioso.
L’essere figli appare allora come la categoria esistenziale che forse meglio esprime ciò
che abbiamo definito come esperienza di misericordia in senso passivo. Se essa dice il
volgersi, comprensivo e accogliente, del cuore umano verso un altro essere in situazione di
indigenza, di miseria, allora l’esperienza in cui noi abbiamo potuto maggiormente
conoscere tale forma di amore è stata quella di figli, fin dalla primissima infanzia,
soprattutto nella primissima infanzia. Spesso la psicologia sottolinea le carenze, i limiti, gli
stati di conflitto presenti in tali esperienze e le possibili interferenze negative sulla crescita
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La Misericordia, cammino di liberazione umana e spirituale
Anna Bissi
della persona. Tutto questo ha favorito una più adeguata attenzione all’aspetto educativo,
una consapevolezza dell’importanza dei primi anni di vita per lo sviluppo armonico di tutta
la persona. Si è corso tuttavia il rischio di accentuare alcune dimensioni a scapito di altre,
di passare da una sorta di atteggiamento infantile nei confronti dei genitori, ritenuti perfetti,
a una ribellione adolescenziale, dove tutte le difficoltà personali erano attribuite a colpe e
carenze presenti nell’educazione ricevuta. Le fatiche, i sacrifici, le dolcezze, l’amore,
spesso limitato ma pur sempre amore, un tempo esageratamente idealizzati, hanno ceduto il
posto alle rivendicazioni, alle conflittualità permanenti. Spesso, oggi, i genitori di figli
adolescenti si recano dallo psicologo con un solo interrogativo: Dove abbiamo sbagliato?
Si tratta sovente di una domanda che nasce da un dubbio legittimo e ammirevole, ma che
coglie solo parte della verità. L’altra è data dalla realtà dell’amore, un amore spesso
limitato, ma quasi sempre presente, fatto di tenerezza, bontà, di cui i genitori circondano i
loro figli. I bambini rifiutati, gettati nei cassonetti, oggetto di maltrattamenti, fanno
giustamente cronaca e sono segno dell’impoverimento di una società. Se tali notizie
finiscono però in prima pagina, ciò significa che, per natura, l’essere umano è fatto per
esprimere, in quanto genitore, un amore benevolo verso la propria creatura, e, in quanto
figlio, per ricevere tale tipo di amore. È la misericordia ciò che favorisce la crescita e,
ancor prima, il nostro divenire persona: di essa abbiamo bisogno ancor più che dell’amore
sponsale o di amicizia. Essere figli è sentirsi amati così, con forza e dolcezza. Oltre a
individuare i limiti della nostra educazione, il riandare al passato per ritrovare le proprie
radici dovrebbe aiutarci a scoprire l’amore, grande o piccolo, di cui tutti siamo stati
oggetto, a comprendere la misericordia di chi, accogliendoci nella nostra fragilità, ci ha
donato la vita non solo fisicamente ma anche, o soprattutto, psicologicamente,
intellettualmente e spiritualmente.
Essere figli può allora diventare una dimensione strutturale dell’essere umano, un modo
di pensarsi e di esistere. Al di là della relazione vissuta con i propri genitori, il nostro modo
di rapportarci con la vita può esprimere tale atteggiamento di fondo. Esso si traduce in un
guardare alla realtà senza i timori di chi si vede costantemente oggetto di minaccia e
frustrazione e non sa fare altro che difendersi: in un riuscire a cogliere la propria esistenza
come realtà positiva, che ci è stata donata e il cui senso è da interpretare: realtà da
accogliere con fiducia e speranza, poiché accanto alle sofferenze e fatiche che la
accompagnano essa porta con sé anche una promessa di bene e di gioia. Essere figli è
vivere il tempo in una dimensione di serenità e di attesa, poiché il passato non è più letto
nei termini di una costante esperienza di deprivazione (ciò che non ho avuto), il presente
come realtà da fuggire (ciò che mi procura sofferenza) o da godere (il piacere dell’oggi),
nell’attesa di un futuro percepito come minaccia incombente (ciò che mi capiterà). In
questo senso, l’essere figli è sperare nella vita, integrando così anche il problema del male,
quello personale e il male del mondo, all’interno di una visione della realtà in cui la
speranza e la fiducia risultano più forti rispetto a ogni forma di cattiveria, limite, malvagità.
Anche questo è un modo per vivere la misericordia, in tutte le sue dimensioni, compresa
quella più complessa. Come scrive Giuseppe Angelini, è la famiglia che consente al figlio
l’integrazione simbolica di tutta la realtà. Con tale termine ci si vuoi riferire a quella
«complessa operazione mediante la quale è colto il senso di tutte le cose, e dunque è
appunto addomesticato il mondo, è riconosciuto quale spazio suscettibile di essere abitato,
come lo fu fin dall’inizio la casa» 6 . Poiché però ognuno di noi è più sensibile ai messaggi
6
G. Angelini, Il figlio. Una benedizione, un compito. Vita e Pensiero. Milano 1991, p. 196.
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La Misericordia, cammino di liberazione umana e spirituale
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affettivo-emotivi che a quelli razionali, tale integrazione simbolica, che permette di vivere
nel mondo sentendosi a proprio agio come a casa propria, è data prima di tutto
dall’esperienza dell’essere stati amati e perdonati, che ci incoraggia e rassicura, ci fa
sentire «figli».
2. L’amicizia e l’amore. - Può sembrare paradossale ritenere che l’amore tra un uomo e
una donna, così come l’amicizia, siano luoghi in cui si sperimenta la misericordia; le
caratteristiche che li contraddistinguono, infatti, sembrerebbero rimandare a tipi di
relazioni del tutto diverse. L’amore e l’amicizia si basano innanzi tutto su di un’attrazione
o su di un’affinità: l’elemento qualificante, in ogni caso, è un aspetto dell’altro che piace e
suscita un desiderio; è presente un’implicita, e legittima, attesa di gratificazione. La
misericordia, al contrario, non si indirizza verso un polo d’attrazione fisico, psicologico,
intellettuale o spirituale, come nel caso precedente; essa è suscitata proprio dalla realtà
opposta: non il bello e il buono dell’altro, ma il limite, su cui si china per accoglierlo,
anche se esso può aver procurato sofferenza, ferite, difficoltà. La misericordia quindi
implica un livello maggiore di trascendenza, un impegno ad andare al di là del proprio
benessere, della gratificazione, pur legittima, che ognuno di noi attende dall’amicizia e
dall’amore. Questi, inoltre, si collocano a un livello più paritario, si basano su di un
reciproco scambio, su di un dinamismo tra eguali. Al contrario, nella misericordia ci
troviamo di fronte a una disparità, a un amore che si china sulla debolezza altrui, per
accoglierla e sostenerla. È più evidente chi ama e chi è amato, chi dona e chi riceve, in un
dinamismo di relazione dove la reciprocità ha uno spazio maggiormente limitato. I rapporti
umani però non possono essere sezionati in laboratorio: ogni relazione, benché
caratterizzata prevalentemente da alcuni aspetti, ne contiene anche altri. L’amore e
l’amicizia allora conoscono anche l’esperienza della misericordia, anzi, proprio in quanto
esprimono tipi di relazioni particolarmente profonde, non possono esserne esenti. I legami
intensi e basati sull’attrazione comportano sempre un momento doloroso di presa di
coscienza del limite dell’altro: il bisogno e il desiderio devono così «fare i conti» con la
frustrazione, l’insoddisfazione. Si aprono allora due vie: o quella della delusione, nelle sue
forme più svariate, quali la rottura del rapporto, la conflittualità ripetitiva, la rassegnazione,
oppure la via della misericordia, dove il limite altrui è accolto e integrato nel quadro
complessivo della persona, che rimane un valore perenne e la cui preziosità non è messa in
discussione. Nello stesso tempo, l’amico, il partner che amano in questo modo, sanno di
essere, a loro volta, riamati così: ogni relazione interpersonale infatti porta con sé il peso
delle fragilità di ognuno, e la misericordia rappresenta quella forma di amore atto a
trasformare la presenza del limite da elemento distruttivo a occasione per un amore più
grande, amore in grado di accogliere la persona nella sua totalità, senza escludere ciò che
non piace o crea conflitto, di andare al di là di se stessa e delle proprie gratificazioni,
capace quindi di trascendersi, per cercare il bene dell’altro.
3. La conoscenza di sé. - Potrà forse apparire insolito il pensare all’esperienza introspettiva
come a un luogo della misericordia. L’autocoscienza tuttavia è esperienza davvero
maturante solo se comporta la capacità di guardare a se stessi nella verità e nella bontà,
avendo il coraggio di riconoscere il proprio limite, ma anche la capacità di rendersi conto
che esso non costituisce la totalità della nostra persona, che mantiene sempre il suo
significato e valore.
Non è questo, tuttavia, l’unico modo in cui possiamo raggiungere una forma di
consapevolezza di ciò che siamo. Il mito di Narciso ci parla di un guardare a se stessi che è
rispecchiarsi nella propria bellezza: Narciso si incanta di fronte al proprio volto, ne è
affascinato e in esso si perde. Così possono essere i nostri tentativi di autocoscienza: ci
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La Misericordia, cammino di liberazione umana e spirituale
Anna Bissi
osserviamo per vedere ciò che ci piace di noi stessi, eliminando dalla nostra immagine tutti
quegli aspetti che risultano incompatibili con una percezione totalmente positiva della
nostra persona. Sguardo illusorio e non realistico, che finisce col travolgerci e farci schiavi,
col rendere intollerabile, prima di tutto a noi stessi, la nostra fragilità e, di conseguenza, la
nostra umanità, costringendoci a un continuo atteggiamento di autodifesa. Altre volte
possiamo limitare l’introspezione alla sola consapevolezza del limite: noi siamo il nostro
errore, la nostra debolezza, il peccato commesso, il fallimento e tutto quanto di negativo
abbiamo potuto vivere. Non rimane così altro spazio per gli aspetti positivi e soprattutto
non risulta possibile un’integrazione di tutte le componenti della nostra personalità
all’interno di una valutazione complessivamente buona di noi stessi, di una percezione
misericordiosa. La persona matura è invece quella che può osservare se stessa con uno
sguardo incrociato, dove si coniugano bontà e verità, dove la penetrazione acuta del limite
è accompagnata dalla benevola ed equilibrata consapevolezza delle proprie doti e
soprattutto del valore personale. È anche questa una forma di amore misericordioso, quella
che ognuno di noi dovrebbe riservare a se stesso, sapendo che l’aiuterà a guardare anche
gli altri con la stessa pacatezza e bontà.
Esiste un luogo dove si può apprendere questa difficile arte dell’amore misericordioso
verso se stessi? L’amore, l’amicizia, la famiglia sono, come abbiamo già evidenziato, le
situazioni ideali in cui tale capacità può crescere e svilupparsi, il silenzio è l’ambiente in
cui essa matura. Un silenzio non temuto, ma accolto come segno di una solitudine
esistenziale che non dovrebbe spaventarci, in quanto indice della nostra unicità e abitato da
speranza e fiducia. È nel silenzio che emerge allora la verità di noi stessi, come intuizione
o emozione da interpretare, decifrare. Ogni sentimento infatti costituisce una forma di
autorivelazione, ci indica ciò da cui fuggiamo, ciò verso cui andiamo, ciò che ci manca o
contro cui ci opponiamo. La paura esprime ciò che tendiamo ad evitare, la tristezza svela i
vuoti interiori, la rabbia ciò che vorremmo distruggere, eliminare. Le emozioni sono
presenti nella nostra interiorità e attendono di essere accolte e decodificate, ma noi spesso
tendiamo ad ergere barriere difensive, per proteggerci e diventare insensibili alla loro voce,
oppure a prenderle troppo in considerazione, lasciandoci dominare. Non permettiamo loro
di svolgere uno dei compiti principali ad esse affidati: diventare un mezzo di disvelamento
della nostra personalità. Noi siamo ciò che sentiamo: non siamo solo questo, ma anche
questo. Il silenzio che permette al nostro mondo emotivo di esprimersi è ambiente idoneo
per una conoscenza vera e profonda di noi stessi se in esso, oltre che accogliere il vissuto
emotivo, saremo in grado di individuare, dare un nome e accettare benevolmente le
debolezze, gli egoismi, i ripiegamenti su di noi che vi troveremo presenti: le insicurezze e i
dubbi di perdere l’amore che accompagnano ansia, collera, invidia, depressione, gelosia e
tutta la vasta gamma di sentimenti che ogni giorno ci abita.
Si può tuttavia ricordare un altro contesto in cui possiamo essere educati ad acquisire
tale sguardo lucido e comprensivo verso di noi: ad esso possiamo attribuire il nome di
colloquio psicologico o anche di psicoterapia. La nostra mentalità scientifica,
l’efficientismo che caratterizza questa cultura di fine millennio, ci hanno abituati a pensare
all’incontro con lo psicologo in termini puramente clinici, secondo l’attuale prassi medica,
che induce il paziente a rivolgersi a un professionista descrivendo la propria patologia e ad
attendere la soluzione più o meno immediata dei problemi. Il rapporto spesso disumano
che abbiamo con il medico (sovente uno specialista, che consultiamo perché ci guarisca
una parte del corpo) si riflette anche sul nostro modo di pensare alla relazione con lo
psicologo: ci immaginiamo così un ambiente asettico, dove andiamo a lamentarci dei
«nostri mali», cui attribuiamo i nomi più diversi, quali traumi, conflitti, complessi,
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La Misericordia, cammino di liberazione umana e spirituale
Anna Bissi
nell’attesa che un professionista ci dica le parole magiche, capaci di aprirci la strada della
guarigione, della soluzione dei problemi o, in ogni caso, di un maggiore benessere.
Dimentichiamo che esiste una notevole differenza tra guarigione e sparizione dei sintomi.
Possiamo ritrovare il perduto benessere usando un farmaco in grado di eliminare i mali che
ci affliggevano o apprendendo alcune tecniche che ci permettono di affrontare la realtà in
modo più adeguato; la conoscenza del nostro passato può ampliare l’area della nostra
consapevolezza e aiutarci così a non cedere di fronte ad aspetti della nostra personalità che
ora conosciamo in modo più esplicito o a non cercare di ricreare nel presente situazioni del
passato che ancora non siamo riusciti a risolvere.
Il raggiungimento di un maggiore benessere a livello personale non è però sinonimo di
guarigione. Quest’ultima implica degli elementi in più rispetto alla semplice conoscenza e
acquisizione di tecniche. Tale di più è ricollegabile al modo in cui avviene il cambiamento
interiore di una persona: attraverso un contatto umano. Normalmente, infatti, noi non
cambiamo in profondità ascoltando un disco o la voce di un robot e nemmeno leggendo
un’intera biblioteca di testi di psicoanalisi. Cambiamo perché ci poniamo di fronte a
un’altra persona che, attraverso la propria competenza, intuizione, accoglienza e anche per
mezzo di alcune tecniche, ci aiuta a fare la verità su noi stessi e ci stimola a crescere. Tale
cammino trasformante avviene attraverso un incontro fatto di parole, in cui
l’autorivelazione ha un posto centrale: rari sono gli interventi dello psicologo, mirati a
favorire l’apertura e interpretare la realtà, mentre alla persona è chiesto di esprimersi
apertamente, spesso secondo il metodo della libera associazione, che implica il dire tutto
ciò che viene alla mente, senza omissioni. Questo «dirsi in libertà» è essenziale non solo in
quanto il contenuto dell’autorivelazione permette allo psicologo di conoscere in profondità
ciò che abita interiormente la persona che ha preso in carico, ma anche per il modo come
avviene. Esso esige un rivelarsi senza porre limiti e riserve e, di conseguenza, suscita
sospetti, paure, accompagnate da un uso, spesso inconsapevole, di meccanismi di difesa.
Siamo, infatti, tendenzialmente portati a nasconderci, a mascherarci, a impedire a un altro
di coglierci così come siamo, nella verità di ciò che siamo. Abbiamo paura che tale
conoscenza induca al rifiuto, al giudizio: la nostra debolezza posta davanti agli occhi di un
altro è percepita come una vulnerabilità, come lo scoprire una ferita, mantenendo il dubbio
che chi ne viene a conoscenza possa farci del male, usarla contro di noi. È tuttavia proprio
questo coprirci che ci rende sempre più vulnerabili e ingigantisce la nostra debolezza. Solo
le esperienze di autorivelazione ci permettono di scalfire la dura corteccia della nostra
difensività e di fare un’esperienza di accoglienza e di amore misericordioso. Il rapporto
con lo psicologo diventa quindi, innanzi tutto, una relazione che, ancora prima che sulla
parola, sull’ascolto, si basa sullo sguardo. Non basta dire di sé e sapersi ascoltati: ci si deve
anche sentir guardati nella verità e con bontà, e il modo stesso in cui questo avviene ha il
potere di trasformarci, di renderci più o meno «belli dentro». La vera guarigione interiore
sta proprio in questo: nel sapere che non abbiamo bisogno di mascherarci, di difenderci,
perché la debolezza non elimina il nostro valore.
Questa verità profonda non la si acquisisce dai libri, e nemmeno solo sentendoselo dire
all’interno di un contesto freddo e impersonale. Essa esige un rapporto umano. Con questo
non intendiamo affermare che lo psicologo debba essere l’amico del proprio paziente: non
è, infatti, necessaria una reciproca rivelazione per permettere all’altro di sentirsi guardato
con stima e bontà. Assolutamente indispensabile invece è che lo psicologo stesso abbia a
sua volta fatto tale esperienza: non si può, infatti, guardare gli altri con misericordia se non
ci si è sentiti a propria volta guardati così. Solo la bontà nella verità ci permette di
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La Misericordia, cammino di liberazione umana e spirituale
Anna Bissi
smascherare tutti quegli atteggiamenti difensivi che accompagnano costantemente il nostro
cammino e ci impediscono di essere persone libere, di sentirci amati e di amare.
L’esperienza della misericordia nel rapporto con Dio
Quanto descritto fino a questo punto non esaurisce tutte le esperienze di misericordia a
noi accessibili. Per il credente, infatti, il rapporto con Dio rappresenta il paradigma, l’ambito
in cui è maggiormente possibile sentirsi amati così. Una riflessione a tale proposito non spetta
tuttavia alle scienze umane, poiché ciò che viviamo a livello di fede, con Dio, non è
assimilabile a una riproduzione di rapporti umani, per quanto significativi essi siano.
Considerare il sacramento della confessione, per esempio, come un semplice duplicato,
magari più spirituale e anche maggiormente economico, di un rapporto psicoterapeutico
significherebbe privarlo del suo significato più vero e profondo. Tuttavia, proprio perché la
persona umana non funziona a compartimenti stagni ma costituisce un’unità differenziata,
l’esperienza psicologica della misericordia può favorire od ostacolare l’accoglienza della
misericordia di Dio, il rapporto con lui, che, come suggeriscono bene le parabole del capitolo
15 nel Vangelo di Luca, è prima di tutto un lasciarsi trovare, un lasciarsi amare. È importante
allora ricordare che l’esperienza umana della misericordia rappresenta sempre un’esperienza
parziale, rispetto a quanto viviamo nel rapporto con Dio. Per quanto grave possa essere la
nostra colpa e magnanimo il perdono che ci è offerto, la distanza tra il nostro limite e la bontà
altrui non potrà mai essere paragonabile a quella vissuta in riferimento a ciò che definiamo
come esperienza religiosa di misericordia. I nostri rapporti interpersonali riguardano sempre
persone fallibili: anche chi perdona, quindi, non può esimersi dall’essere a sua volta cosciente
del proprio stato di peccatore, di colpevole nei confronti di altri. Inoltre, chi ama di amore
misericordioso sa di essere già stato, a sua volta, amato nello stesso modo o di poterlo essere
in futuro; egli si colloca quindi all’interno di un rapporto reciproco. Ben diversa è invece
l’esperienza religiosa, dove i partner, Dio e la sua creatura, non si pongono sullo stesso piano:
l’uno, il Creatore, è colui che continuamente dona il suo amore misericordioso, mentre l’altro,
la sua creatura, non può che accogliere o rifiutare, ma non certo ricambiare. Dio è pienezza
d’amore e non ha quindi limite o peccato alcuno per cui essere perdonato; egli può essere
soggetto, ma non oggetto di misericordia. È inoltre bene ricordare che, come nell’esperienza
umana essere oggetto della misericordia di un altro implica un cammino, anche nel rapporto
con Dio la capacità di lasciarsi amare nel proprio limite non è automaticamente acquisita.
Strano paradosso della persona umana, così assetata d’amore ma anche così difesa e resistente
di fronte all’amore e dunque bisognosa di imparare non solo che cosa significa donare, ma
anche che cosa comporta l’accogliere il dono e il perdono.
Ritroviamo così nell’itinerario della fede quegli stessi passi essenziali che già avevamo
considerato indispensabili in un cammino umano di misericordia:
1. La percezione dell’alterità come presenza di un Tu personale. - Abbiamo affermato in
precedenza che non esiste esperienza umana di misericordia al di fuori di una relazione
interpersonale, tra un soggetto e un partner (un «oggetto» in termini psicologici)
differenziati, tra due persone distinte e autonome. Lo stesso vale per la dimensione
religiosa, dove diventa impossibile accogliere la misericordia quando il rapporto è
sperimentato in termini impersonali e Dio è colto come una forza, un’energia, una
dimensione del proprio Io più che come un Essere personale e relazionale. La misericordia
invece implica sempre e innanzi tutto un poter dire «Tu sei» e «Io sono». Più che la qualità
di questa relazione, connessa alla bontà del donatore e al limite del destinatario, è
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La Misericordia, cammino di liberazione umana e spirituale
Anna Bissi
importante la presenza di questo requisito, che permette e favorisce la nascita di un
incontro e la creazione di un legame. L’esperienza religiosa quindi non può configurarsi
principalmente come esperienza di illuminazione interiore, di autocoscienza personale, ma
si colloca sempre all’interno di un incontro con una realtà personale differenziata, con un
Tu che è non solo diverso ma anche totalmente altro. Essa obbliga al superamento di
qualsiasi forma di gnosticismo religioso e di ogni idea impersonale di Dio, inteso come
energia, forza, vita, ma non come essere trascendente con cui è possibile instaurare un
rapporto. Proprio per tale motivo, la misericordia ci apre al «totalmente altro» e dunque al
mistero, dimensione del nostro essere così vitale se vogliamo evitare che la nostra esistenza
non si configuri come un cerchio rinchiuso su se stesso, fatto di rassegnazione o di
narcisismo. Scrive giustamente M. de Certeau che «non esiste mistero in un mondo
omogeneo» 7 . Molte forme di religiosità contemporanea sembrano, al contrario, non
prevedere il confronto con qualcosa di diverso ed esterno, che ci obbliga ad andare al di là
di noi stessi. La misericordia appare allora come un antidoto a una religiosità individualista
e ripiegata su di sé, a una nuova forma di idolatria. Essa infatti ci costringe ad accogliere il
mistero, a prendere coscienza di una differenza e di una distanza infinite, poiché ci mette a
contatto con un Dio che non corrisponde alla proiezione dei nostri desideri. In tal modo ci
scontriamo costantemente con una realtà che ci supera, all’interno di un rapporto esigente e
sorprendente, dove veniamo posti di fronte alle nostre responsabilità, non siamo protetti
dalla fatica e dal dolore ma, nello stesso tempo, diventiamo oggetto di un dono
sovrabbondante, che va al di là di tutto ciò che potremmo desiderare o sperare.
2. La percezione della bontà di Dio. - L’incontro con un Dio personale non è sufficiente a
far nascere e crescere un rapporto basato sulla misericordia. È con la sua bontà, con il suo
cuore capace di andare al di là di ogni limite e peccato, di accoglierci pienamente e
incondizionatamente, indipendentemente dalla nostra miseria e con tutto il bagaglio della
nostra miseria, che noi ci incontriamo quando ci poniamo di fronte a un Dio
misericordioso. Tale percezione non è automatica ma frutto della grazia e della
collaborazione umana; essa implica una continua crescita e una costante elaborazione del
cammino di fede. Spesso il nostro mondo emotivo si ribella e non accetta un’immagine di
un Dio buono, cui è difficile credere a contatto con il dolore, personale o del mondo, o
quando le vicende della nostra vita sembrano piuttosto rimandarci il volto di un Dio severo
e punitivo. Lette in chiave psicologica, le parabole della misericordia mettono forse in
risalto proprio tale aspetto, questo scarto tra la mentalità umana e quella divina. Esse ci
pongono di fronte ad atteggiamenti paradossali, così lontani dal sano buonsenso: quale
pastore, o quale padre si comporterebbero come quelli descritti nelle parabole? Ci troviamo
di fronte a un’infinita distanza rispetto alle «normali» attese umane. Ad essa deve
corrispondere, da parte dell’uomo, un salto nel buio, quell’abbandono nella fiducia,
all’interno di una relazione umanamente inspiegabile e che esige l’impegno di affidarsi
all’altro, a Dio, anche quando il credere alla sua bontà potrebbe apparire più un’illusione
che una percezione realistica. Osservata da questo punto di vista, l’esperienza della
misericordia ci obbliga a liberare la nostra fede dai fantasmi del passato, a differenziare tra
immagini parentali e immagine di Dio. Colui che Gesù ci ha insegnato a chiamare con il
nome di Padre si rivela totalmente diverso rispetto a quanto abbiamo potuto sperimentare
nell’infanzia come figli dei nostri genitori. Se la famiglia è stata l’ambiente in cui abbiamo
potuto vivere fin dalla primissima infanzia un’esperienza di misericordia, è anche vero che
i limiti di nostro padre e di nostra madre hanno fatto sì che la certezza di essere amati
7
M. de Certeau, Mai senza l’altro, Qiqajon, Bose 1993, p. 112.
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La Misericordia, cammino di liberazione umana e spirituale
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incondizionatamente si accompagnasse al timore della punizione, del rimprovero, della
freddezza. La misericordia divina ci obbliga allora ad andare al di là dei sentimenti cui ci
induce la precarietà dell’amore umano: al di là del sospetto, del dubbio, dell’angoscia, del
timore di essere puniti, di un senso di colpa immaturo, dell’attesa minacciosa di qualcosa o
qualcuno che verrà a portarci via ciò che abbiamo di più prezioso, in ultima analisi, al di là
della paura della morte e di ogni sua anticipazione. Mentre ci riconcilia con il passato,
aiutandoci ad accogliere serenamente i limiti dei nostri genitori, spalanca il nostro
orizzonte interiore su di una realtà totalmente nuova, anche se già prefigurata in ogni forma
di amore umano: la realtà indicibile della bontà di Dio. In questo modo l’umano si
riconcilia con il divino, la dimensione psicologica con quella spirituale. La prima ci apre la
strada per un cammino di purificazione delle immagini idolatriche sepolte nel profondo
della nostra psiche, ma la seconda, per mezzo della fede, della Parola, dei sacramenti,
semina in noi il desiderio di uno sguardo d’amore e di verità, che ci rivela il volto materno
e paterno di Dio.
La misericordia inoltre rinsalda le nostre certezze e pone alla fiducia delle basi
veramente solide. Essa infatti ci permette di uscire da quella contraddizione tipica
dell’amore umano che, per donarsi, esige dall’altro la garanzia di un amore senza limiti e,
nello stesso tempo, deve venire a patti con la propria e altrui finitezza. Perché credere in
qualcuno che potrebbe tradirmi, o morire, o andarsene? Come percepire ancora la bontà di
fronte al limite dell’altro? Sono questi gli interrogativi che spesso ci poniamo e cui non
sappiamo trovare risposta. Solo la certezza di un amore misericordioso, quale ci è
presentato in primo luogo dalla sua Parola e dai sacramenti, un amore che non delude e va
al di là di ogni nostra aspettativa, ci permette di confidare nella bontà e abbandonarvisi. È
perché possiamo credere all’amore, come realtà più forte del nostro e altrui limite, che ci è
allora possibile rivivere, anche se a un livello diverso, lo stesso atteggiamento di fiducia
all’interno dei nostri rapporti interpersonali.
3. Il bisogno di essere salvati. - L’esperienza spirituale della misericordia infine ci salva
dall’onnipotenza: essa ci pone di fronte al nostro limite, ma nello stesso tempo ci apre
all’esperienza della salvezza come realtà di cui abbiamo bisogno e che ci è donata.
Attraverso di essa siamo innanzi tutto liberati dal bisogno di nasconderci, di presentarci
perfetti agli occhi di un altro, poiché ci sentiamo amati, anche se imperfetti, agli occhi di
Dio. Martin Buber afferma che «ogni uomo è nella situazione di Adamo e, per sfuggire alle
responsabilità della vita che si è vissuta, l’esistenza viene trasformata in un congegno di
nascondimento» 8 . Ciò che tutti vorremmo mascherare e da cui desidereremmo fuggire è
proprio la nostra debolezza, il peccato. Solo se lo poniamo sotto uno sguardo
misericordioso possiamo credere che non ci svilisce né distrugge ma anzi ci trasforma. Nei
rapporti interpersonali possiamo fare esperienza di questa trasformazione operata in noi dal
perdono che ci è offerto. Ciò che viviamo nel rapporto con Dio si colloca tuttavia a un
livello completamente diverso, che non può essere paragonato nemmeno a ciò che avviene
nelle relazioni umane più profonde e positive. Il perdono umano infatti può trasformare la
vita di una persona; il perdono divino la ricrea. Scrive bene J.-C. Sagne: «Perdonare
significa costruire ex novo, trasformando gli elementi che il passato ha lasciato a pezzi e
sparpagliato... Il perdono è il rinnovarsi della creazione, con un moltiplicarsi delle
meraviglie di Dio. Quanto Dio ha edificato lo riedifica in modo più meraviglioso ancora.
La cosa più sorprendente è che Dio si serve persino dei segni della morte per farvi passare
8
M. Buber, Il cammino dell’uomo, Qiqajon, Bose 1990, p. 21.
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la vita» 9 . Ciò cui vogliamo alludere quando parliamo di differenza tra trasformazione e
creazione si riferisce alla distanza tra l’esperienza della misericordia, intesa in termini
psicologici, e quella vissuta nella dimensione dello Spirito, in senso sia attivo sia passivo.
Il termine «trasformazione» rimanda allora al senso utilizzato in precedenza, di
rielaborazione a carattere psicologico o di integrazione simbolica: il coniuge che ha tradito,
il figlio accolto di nuovo in casa, attraverso il perdono acquisiscono un’esperienza del tutto
nuova di che cosa significhi essere amati, un’esperienza che permette loro di riformulare il
significato del proprio essere marito, moglie, figlio, in termini di maggiore gratuità,
generosità, accoglienza e gratitudine. Il concetto di creazione fa invece riferimento a una
realtà qualitativamente nuova, che Dio opera nel cuore della persona, a uno scarto, un di
più, che umanamente potrebbe apparire esagerazione se non «follia». Un figlio che, dopo
essersene andato sbattendo la porta di casa, ritorna chiedendo di essere nuovamente
accolto, mette a dura prova il cuore di suo padre; questi, se saprà perdonare e dimenticare,
si ritroverà interiormente trasformato da padre che pretende, chiede giustizia e rivendica i
propri diritti (tutti comportamenti umanamente legittimi), in padre amabile, accogliente,
capace di coniugare giustizia e amore. Quando leggiamo la parabola del figlio prodigo,
tuttavia, ci troviamo di fronte a una figura del tutto diversa, a qualcuno che va ben al di là
del padre «giusto e buono» cui abbiamo fatto riferimento. Paradossalmente, proprio
dall’umanità di quei gesti così quotidiani traspare una realtà differente, una paternità
divina. Nello stesso tempo la figura di questo Padre ci rimanda a ciò che egli vuole
compiere in noi, a quella creazione nuova che è attuata nel momento in cui riceviamo la
sua misericordia. Se accolta, essa ci trasforma, ci fa nuove creature; avviene in noi, a un
livello superiore, non più semplicemente psicologico ma spirituale, quell’integrazione
simbolica di cui abbiamo parlato in precedenza. La misericordia divina incontra l’unico
luogo in cui può essere accolta ed esprimersi totalmente: la nostra miseria, quella miseria
che ci fa rivendicare diritti, esigere scuse, ragionare in termini di giustizia. Lì, nello
«spazio» delle strutture umane, anche mature, essa agisce e crea in noi quella novità che ci
rende capaci di una misericordia diversa, «fatta a immagine» di quella del Padre
misericordioso. Chi si è sentito amato in questo modo a sua volta si rende conto di poter
amare un po’ così, con un di più che non esprime solo un amore più intenso ma un modo
diverso di amare. L’esperienza della misericordia inoltre ci salva dall’onnipotenza non solo
attraverso la consapevolezza della nostra miseria ma anche presentandoci il volto di un Dio
trascendente, totalmente altro rispetto a noi.
In questo fine millennio notiamo un profondo cambiamento rispetto al passato per ciò
che riguarda l’immagine di Dio e la necessità di salvezza. Semplificando forse
eccessivamente, si può affermare che ciò che prevaleva nel passato era un Dio punitivo,
che avrebbe castigato le nostre colpe e premiato l’impegno e la bontà, presentato come un
padre pretenzioso e severo. Nella nostra epoca il modo di «dire Dio» è notevolmente
cambiato: la catechesi propone ai ragazzi il volto di un Gesù amico, di un Dio padre buono,
che sa sempre accogliere e perdonare.
Tale immagine, molto più evangelica, rischia tuttavia di essere percepita in modo
distorto, più mediata dalle antropologie umanistiche che dal Vangelo. L’essere umano
appare allora più bisognoso di realizzazione personale che di salvezza, se ne pone in risalto
l’innocenza e la bontà intrinseca, piuttosto che il limite o il peccato. Dio rischia così di
assomigliare a un padre permissivo, preoccupato del benessere e della promozione umana
9
J.-P. van Schoote e J.-C. Sagne, Miseria e misericordia, Qiqajon, Bose 1992, pp. 53 ss.
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dei figli, ma non particolarmente interessato alla loro crescita nell’amore 10 . Un Dio troppo
vicino e simile a noi rischia di diventare però un Dio debole, di cui non si coglie nemmeno
la bontà. L’aver eliminato l’immagine del Padre-Padrone non porta automaticamente alla
relazione con un Dio amabile: noi infatti iniziamo a intuire che cos’è l’amore solo quando
ci rendiamo conto di averne un disperato bisogno. È necessario che la creatura si riconosca
debole perché possa nascere in lei una sete di salvezza.
I luoghi della misericordia di Dio
La Chiesa è il luogo per eccellenza dove la misericordia di Dio si manifesta, dove rivela il
suo volto, e la liturgia, i sacramenti, la comunione fraterna e l’evangelizzazione sono i modi
privilegiati attraverso cui tale forma d’amore si esprime. Non compete tuttavia alle scienze
umane una riflessione a questo proposito. Esse possono tuttavia suggerirci qualche spunto in
merito a quelli che potremmo definire i luoghi interiori della misericordia.
Ci riferiamo con questa espressione a quegli ambiti della vita di una persona, soprattutto a
livello relazionale, in cui il dono di Dio si innesta sui dinamismi umani e li trasfigura,
divinizza, ricrea. Quelle stesse esperienze di cui abbiamo parlato in precedenza si ripresentano
allora nel rapporto con Dio, a un livello qualitativamente diverso: essere figli di un padre e di
una madre non equivale infatti a sentirsi figli di Dio, così come la fraternità nella carne non
equivale a quella nello Spirito. Ci troviamo in contatto con una novità che si realizza, un dono
ulteriore che ci è offerto.
1. La filialità. - Esiste una differenza qualitativa tra l’esperienza della misericordia vissuta
fra persone e ciò che avviene nel rapporto con Dio. L’elemento distintivo qualificante è
dato dall’assenza di reciprocità. Ogni essere umano che offre a un altro la propria
misericordia sa bene che anch’egli ha bisogno di essere perdonato. La misericordia divina,
al contrario, è puro dono all’uomo, che deve a sua volta diventare pura accoglienza. Parlare
di misericordia divina non significa allora parlare di un attributo di Dio ma parlare di Dio e
del suo modo di porsi davanti all’uomo, del suo essere Padre e del nostro essere figli, come
di una caratteristica costitutiva della natura umana, poiché «Padre è il nome di Dio, e figlio,
sempre figlio, è il nome dell’uomo... La condizione di figlio non appartiene a un momento
della vita ma a tutta la vita. Rimanere figlio è sempre la giusta posizione dell’uomo davanti
a Dio» 11 . L’essere figli, di conseguenza, non si presenta più come una situazione ben
definita, circoscritta al rapporto con i propri genitori, ma diventa un modo di essere nel
mondo, di porsi nella realtà e di interpretarla. Il figlio è colui che si riceve dal padre, il
quale gli offre la vita, l’amore e il perdono; è colui che si lascia amare, perdonare e che si
sa oggetto di un dono. Teresa di Lisieux, una santa che visse in modo molto intenso la
propria condizione di figlia, capovolgendo il concetto di giustizia quale noi siamo abituati
a concepirlo, spesso associato a immagini di severità e punizione, così scrive: «Quale gioia
pensare che il buon Dio è giusto, cioè che tiene conto delle nostre debolezze, che conosce
perfettamente la fragilità della nostra natura. Di che cosa dunque avrei paura?» 12 . Alla
percezione di un Dio giusto in Teresa si accompagna sempre quella di una creatura che ha
bisogno del perdono, della misericordia. Tale necessità sembra quasi rappresentare per lei
10
A conferma di quanto andiamo affermando, si potrebbe leggere, a titolo esemplificativo, il testo di P. Hannan, I nove volti
di Dio, San Paolo, Cinisello 1994.
11
B. Maggioni, Padre nostro. Vita e Pensiero, Milano 1995, p. 3.
12
Teresa di Lisieux, Gli scritti, Postulazione Generale dei Carmelitani Scalzi, Roma 1979, pp. 223-224.
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una caratteristica strutturale della persona umana, qualcosa che non può non esserci, e
qualora non fosse presente è solo perché Dio si è premurato di evitarlo, rimettendo in
anticipo i peccati ed evitando le cadute 13 .
Tale modo di concepire il proprio essere figli richiede un’integrazione simbolica a
livello superiore, quello della grazia. Non si tratta infatti di guardare con speranza e fiducia
alla realtà umana, di credere alla bontà presente nei rapporti personali e nella vita in
generale, di «sentirsi a casa propria» qui, su questa terra, ma di spalancare il proprio
orizzonte su una realtà che non ha confini, su un amore smisurato, un perdono senza limiti,
un tempo che è eterno. Essere figli è quindi dono di Dio ma anche adesione dell’uomo,
che, pure a questo livello, deve lottare contro le proprie tentazioni. Essere figli è vivere
indifesi, sapendo che la propria vita, con i suoi angoli bui e gli spazi di luce, riposa sicura
nelle mani del Padre.
2. La fraternità. - Un altro «luogo interiore» dove si vive la misericordia è la fraternità,
intesa in senso ecclesiale. Essa spartisce con l’esperienza di fraternità familiare la
consapevolezza di condividere con altri, simili a noi, il dono della vita. Se ne distingue
tuttavia perché non si colloca a livello affettivo, come legame di sangue, ma come vincolo
che nasce dalla comune accoglienza di un amore che ci ha creati, perdonati e salvati. Nella
prima, quella familiare, sono l’aspetto psicologico e quello fisiologico a prevalere: fratelli e
sorelle sono stati portati nello stesso grembo, accolti fra le medesime braccia; hanno
vissuto accanto fin dai primi anni di vita, condiviso le medesime avventure. Tutto ciò,
spesso anche inconsciamente, si è impresso nella psiche e ha creato un legame profondo.
La fraternità che nasce dalla fede, al contrario, coinvolge il livello razionale e spirituale
della nostra persona: essa si basa sulla comune umanità, sull’essere tutti figli di un Padre
che «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16). Ciò che lega il
cristiano a ogni altro uomo è la coscienza di essere oggetto d’amore e di perdono, un
amore e un perdono donati a lui e ad ogni altra creatura. Nell’esperienza di fraternità, di
conseguenza, la misericordia è elemento qualificante, in senso sia passivo sia attivo. Nel
primo caso, fa riferimento alla comune esperienza di ciò che si è ricevuto: la vita, l’amore e
il perdono. Essa nasce dalla coscienza dell’umana fragilità e del sovrabbondante amore di
Dio, della nostra miseria, che diventa spazio per la sua misericordia. La fraternità cristiana
ha quindi un elemento in più rispetto alla solidarietà umana: non consiste solo nella
consapevolezza di un vincolo che ci unisce, quello della comune umanità, ma è un legame
che nasce dal sapersi bisognosi di amore e amati, dal riconoscere che l’amore e il perdono
che ci sono dati sono destinati anche a ogni altro figlio.
Anche la fraternità in senso attivo, intesa come impegno di amore, nasce dall’esperienza
della misericordia: la capacità di amare si basa sulla consapevolezza di essere stati amati e
di aver bisogno di amore. Solo così il dono non diventa segno di superiorità ma umile
consegna di qualcosa che è nostro non perché ci appartiene ma in quanto donato dalla vita,
dagli altri, da Dio. Il perdono diventa allora un’esigenza insita in un rapporto fraterno: esso
trova origine non nella bontà di chi lo dona ma nella comune consapevolezza di essere al
centro di un dinamismo d’amore, dove il dono e il perdono ricevuti esigono di essere a loro
volta donati.
Anche in questi ultimi decenni nella vita della Chiesa si sono verificati stupendi atti di
misericordia, attraverso il perdono: pensiamo, per esempio, ai parenti delle vittime della
mafia, del terrorismo. Ancor più sorprendente e ammirevole però è la testimonianza di chi,
13
Ibid., pp. 125-126.
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in nome di una comune fraternità, sa perdonare il proprio assassino, testimoniando così una
misericordia e un amore capaci di vincere la morte e ogni altra forma di egoismo.
Emblematica e di altissimo valore umano e spirituale è stata l’esperienza dei trappisti
del monastero di Tibhirine, in Algeria, come ci dicono le pagine del testamento del priore,
p. Christian de Chergé, scritto prevedendo la propria morte per mano di un terrorista:
«Ecco che potrò, se Dio vuole, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per
contemplare con lui i suoi figli dell’Islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla
gloria di Cristo, frutti della sua Passione, investiti dal dono dello Spirito, la cui gioia
segreta sarà sempre quella di stabilire la comunione e di ricomporre la somiglianza,
giocando con le differenze.
«Dopo aver perduto questa vita, totalmente mia e totalmente loro, rendo grazie a Dio
che sembra averla voluta tutt’intera per questa Gioia, contro e nonostante tutto.
«In questo grazie in cui tutto è detto, ormai, della mia vita, includo certamente voi,
amici miei di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie
sorelle e ai miei fratelli, e a tutti i miei familiari, con la certezza del centuplo che verrà
accordato come promesso!
«E anche tu, amico dell’ultimo minuto, che non ti sarai reso conto di quello che stavi
facendo. Sì, lo voglio anche per te questo grazie e questo “addio”, programmato da te. E
auguriamoci di poterci ritrovare, ladroni beati, in paradiso, se lo vuole Dio, nostro Padre di
tutti e due. Amen! Insc’Allah!» 14 .
Il clima della misericordia: la gioia
Le parabole della misericordia, nel Vangelo di Luca, sono collocate in un’atmosfera
gioiosa, ripetutamente messa in evidenza dall’autore: la festa, la letizia, esplicitamente
evidenziate o suggerite attraverso gli atteggiamenti dei protagonisti, costituiscono il clima
entro il quale la narrazione si dispiega. Ci riferiamo innanzi tutto a una gioia spirituale, frutto
dell’amore dato e ricevuto: è la gioia della figliolanza e della fraternità, ma è soprattutto
quella dell’amore, che gode di potersi donare e di essere accolto.
Questa gioia, che è dono dello Spirito, si innesta tuttavia su una realtà psicologica, un
sentimento umano. Essa è infatti l’emozione che nasce dalla gratuità e dalla capacità di
accogliere, dal sapersi oggetto di un dono o dal voler farne omaggio a qualcuno. Non conosce
quindi atteggiamenti accaparranti e si differenzia dal piacere, collegato al godimento di una
gratificazione, alla ricerca di qualcosa per se stessi. Come ci dicono bene le parabole della
misericordia, la gioia non può essere cercata; essa accompagna invece il nostro cammino
come conseguenza, come effetto, «dono nel dono», quando scopriamo la presenza del limite,
nostro e altrui, non come ostacolo all’amore ma come occasione per esprimere e accogliere
bontà e tenerezza.
La sua presenza nelle nostre piccole o grandi esperienze di misericordia, oltre a
incoraggiarci, costituisce per noi un segno e una conferma del nostro essere fatti per amare e
per essere amati e ci permette di intravedere e sperimentare, almeno in parte, quella felicità
indicibile che nasce dal contatto con l’Amore misericordioso di Dio.
14
Lettere dall’Algeria, di Pierre Claverie, Paoline, Milano 1998, pp. 306-307.
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