pratiche di dis-identità. la discriminazione

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pratiche di dis-identità. la discriminazione
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Forum cittadini del mondo R. Amarugi
FORUM CITTADINI DEL MONDO R.AMARUGI
SECONDO APPUNTAMENTO CON “TUTTI INSIEME CONTRO IL RAZZISMO!!!”
:Il
“razzismo e le discriminazioni” ai danni delle minoranze rom sinti e camminanti
Iniziativa pubblica promossa dalla “Consigliera di parità provincia di Grosseto” e dal “Forum
Cittadini del Mondo e dalla delegazione Cesvot
“ROMANTICA CULTURA”
INVISIBILITÀ ED ESCLUSIONE DEL POPOLO ROM
SESSISMO E RAZZISMO
PRATICHE DI DIS-IDENTITÀ. LA DISCRIMINAZIONE SESSISTA CONTRO LE DONNE ROMNI
INTERVIENE
MARTINA GUERRINI
(relatrice e curatrice del libro Briciole n. 32/2012 curato dal Cesvot )
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ABSTRACT
TRATTO DAL LIBRO BRICIONE N. 32/2012 A CURA DEL CESVOT
“ROMANTICA CULTURA - INVISIBILITÀ ED ESCLUSIONE DEL POPOLO ROM”
a cura di Valentina Montecchiari, Martina Guerrini, Valeria Venturini. In collaborazione con Centro
Mondialità e Sviluppo Reciproco Livorno- Scarica il libro in pdf (link)
CAPITOLO VIIPRATICHE DI DIS-IDENTITÀ. LA DISCRIMINAZIONE SESSISTA CONTRO
LE DONNE ROMNI IN UNA PROSPETTIVA ANTICOLONIALISTA
Di MARTINA GUERRINI
(relatrice e curatrice del libro Briciole n. 32/2012 curato dal Cesvot
laureata in Filosofia e libera ricercatrice, ha recentemente conseguito un Master in Genere, Intercultura e
Pari Opportunità presso l’Università di Firenze. Da sempre si occupa di studi e politiche di genere, con
particolare attenzione ai soggetti subalterni e ad un ripensamento della categoria di classe nei Gender
Studies, a partire da una inedita riflessione sulla questione sessuale nei Quaderni di Gramsci. Da alcuni anni
è impegnata in un progetto di ricerca sulle donne sovversive e antifasciste. Tra le sue recenti pubblicazioni:
Americanismo e fordismo. La “questione sessuale” nei Quaderni di Gramsci, in “Zapruder. Storie in
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Movimento”, n. 13, 2007; Corpi meccanicamente modificati: “natura” e controllo della sessualità nei Quaderni
del carcere di Gramsci in “Politiques, Sexualités - Politiche, Sessualità”, Milano-Udine, Mimesis, 2009;
Donne di “contegno ribelle” in Cronache Anarchiche. Il giornale Umanità Nova nell’Italia del Novecento
(1920-1945), Milano, Zic 2010.
L’intento di questo intervento è provare a suscitare qualche ragionevole dubbio a fronte della formidabile
entità di certezze che il senso comune sociale e le istituzioni mostrano di avere sulle tradizioni e i bisogni
delle comunità rom1 presenti nel nostro Paese.
Intendo lavorare su un rovesciamento di prospettiva e per introdurne la portata mi rivolgo alla metodologia
comparativa antropologica.
Nel 2011 Michela Fusaschi ha interrogato a lungo, in un testo prezioso che coniuga la passione
autobiografica a quella antropologica, le allusioni e le elusioni sottese allo sguardo italiano verso “il corpo
delle altre” (Fusaschi, 2011). Allora l’occasione era data dalla provocatoria comparazione tra le Mgf,
acronimo di “mutilazioni genitali femminili”, e la Ceigf, ovvero la “Chirurgia estetica intima dei genitali
femminili”.
Entrambe in concreto investono le stesse parti del corpo e funzionalità fisiche femminili, e l’analogia “non si
ferma a questo primo livello descrittivo” poiché talvolta anche nelle analisi delle conseguenze fisiche
“possiamo rilevare elementi simili a fronte di dispositivi diversi (tecnica vs ritualità)”. La provocazione di
Fusaschi è sottile:
cosa succederebbe se le donne immigrate, maggiorenni e consenzienti, invece di ritornare al loro paese
per una clitoridectomia, chiedessero un clitoral lifting al chirurgo estetico? Oppure, cosa succederebbe se un
chirurgo estetico specializzato in ‘designer vagina’ gestisse transnazionalmente le sue competenze, a prezzi
ridotti e/o con pacchetti viaggio, in quei paesi a tradizione escissoria?
In questo modo non si tratterebbe più di paesi dove si mettono in atto ‘mutilazioni dei genitali etniche, ma di
paesi in cui, grazie alla modernità, queste si sono assimilate/ trasformate in operazioni sui genitali ora
tecnologicamente assistite ed esteticamente motivate
1. QUALE SGUARDO IMMAGINA “IL CORPO DELLE ALTRE”?
La questione delle Mgf non riguarda le donne romanì, ma appare illuminante per iniziare a riflettere sul
primo dubbio: se a parità di gesto –tecnologico o ritualesono “gli immaginari ‘a fare la differenza’”, non sarà
che ‘il nostro’ cattivo sguardo verso le donne romni – talvolta sprezzante e impaurito, talvolta ‘liberazionista’
verso malcapitate vittime - interroghi piuttosto ‘il nostro’ immaginario?
Non mi interessa qui indagare se ed entro quali limiti possano essere persistenti alcune caratteristiche
patriarcali e sessiste all’interno delle comunità rom, anche perché probabilmente esistono, così come sono
evidenti nella nostra società che riteniamo “più emancipata” di quella rom. È esattamente quest’ultimo
stereotipo che vorrei provare a distruggere, operando un rovesciamento di prospettiva che metta sotto
osservazione ed esame il ‘nostro’ sguardo.
L’immaginario italiano circa l’identità delle donne romanì è solito oscillare come un pendolo tra lo stereotipo
romantico della ‘zingara’ cartomante e un po’ strega, girovaga felice per il mondo, e la vittima irresoluta di un
antico e superato mondo patriarcale, violento e misogino. Ma è ancora il ‘nostro’ immaginario a stereotipare
e inchiodare “il corpo delle altre” in un dispositivo stigmatizzante ben conosciuto, a scelta tra la femme fatale
e la donna infantilizzata da proteggere (prima di tutto da se stessa). Ancora Fusaschi si chiede
retoricamente come mai “il rapporto tra la donna migrante (e il suo corpo) e le istituzioni che la dovrebbero
accogliere, si gioca su una presunta conoscenza dei bisogni, o meglio dei problemi, di cui sarebbe
portatrice". Questo è tanto più vero nei confronti delle donne romni.
Pur nel dichiarato tentativo di affrontare e risolvere la persistente molteplice discriminazione verso le
donne romanì, le istituzioni non riescono ad abbandonare quello sguardo performante le identità, e quindi le
necessità, delle donne appartenenti a queste comunità.
Non sarà forse un mal celato tentativo di autoassoluzione, ma è comunque significativo che da più parti si
sostenga, con la certezza di chi sa di interpretare la divinatrice ‘voce del popolo’, che le donne romni
soffrono discriminazioni maggiormente persistenti e evidenti all’interno delle comunità di appartenenza.
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Alcune studiose femministe, purtroppo, sposano la tesi a mio avviso ‘scivolosa’ della causa interna: il
patriarcato atavico rom è quindi causa maggioritaria dello stigma di genere ai danni delle donne, relegate “al
ruolo attribuito loro nella cultura e nella struttura familiare propria dei Rom” (Crepaldi, 2010. Il corsivo è mio).
Sebbene si presti giusta attenzione al fatto che esiste una corrispettiva relazione di rafforzamento tra
tradizioni comunitarie ‘interne' e politiche segregazioniste e razziste ‘esterne' -ovvero più una comunità viene
assediata, più essa accresce al suo interno dinamiche tradizionali conservatrici e sessiste- il problema di
fondo resta, ed è la tendenza a costruire universali culturali.
Torniamo quindi alla questione iniziale, quella della identità. Esiste una cultura e una struttura familiare
propria dei Rom? Ne esiste una maggioritaria? È identica tra Rom e Sinti? Sappiamo ad esempio che i
matrimoni combinati non sono praticati dai Sinti. Sappiamo, per conoscenza diretta ed indiretta nella nostra
vita quotidiana, che esistono anche matrimoni misti tra rom/sinti e italiani-e. Esistono, soprattutto, spazi di
negoziazione tra interpretazioni rinnovate e/o conflittuali della tradizione tra e nelle famiglie rom?
Il problema concettuale, immediatamente politico, con le comunità rom è ‘come pensano le istituzioni’, non
‘quale sia/debba essere la tradizione rom’. E le istituzioni –essendo ‘regolari’ sintesi della rappresentatività
democratica, almeno per come la abbiamo conosciuta fino ad ora- pensano di rapportarsi con un’identica
cultura, un identico popolo, una identica appartenenza geografica con identici problemi e urgenze. Purtroppo
o per fortuna questo non è possibile per le tante e differenti comunità ‘irregolari’ rom. La vertigine del non
identificabile, e di ciò che sfugge al ‘nostro’ sguardo abituato a semplificare e creare schemi, laddove la
complessità e l’imprevisto sono la regola quotidiana, ha delle ricadute devastanti in termini etici.
Una delle conseguenze, ad esempio, è il fatto che le comunità rom sono sottoposte a spinte assimilazioniste
o differenzialiste, a seconda della facilità offerta dalla prima o dalla seconda soluzione. Prima differenziamo i
rom dai cittadini italiani, pur essendo spesso forniti della cittadinanza, con il più inquietante dei simboli del
“chiuso”: il campo. Tale dispositivo non risponde solo al bisogno di separare l’erba buona dalla gramigna
cattiva, ma risponde alla ‘nostra’ urgenza di concentrarli, identificarli, definirli, imporre loro il ‘nostro’ sguardo
e la nostra idea della ‘loro’ identità. Una volta separati, possono essere assimilati, se mostrano di essere
capaci di accettare le famose “nostre regole di convivenza”.
Il prezzo da pagare è molto alto: se un bambino rom non mette il pigiama per dormire, sua madre sarà
ritenuta avere scarsa propensione per l’educazione e la cura, e l’assistente sociale – incaricato/a dalle
istituzioni di vigilare sulla cattiva condizione igienico-sanitaria e abitativa che le stesse amministrazioni
prevedono per le comunità rom - potrà disporre l’affidamento dei suoi figli.
L’esempio è noto, per la sua paradossale crudeltà, soprattutto a chi cerca di osservare il mondo rom senza
occhi da gagè: semplicemente il pigiama non è un accessorio compatibile con il rituale familiare dell’entrata
nella notte per quella famiglia rom. Mentre, al contrario, difficilmente viene valorizzato un ‘diverso’ senso di
pulizia che spesso le famiglie rom dimostrano di avere nel separare fisicamente il bagno dal resto della casa.
Se quest’ultimo aspetto ‘sfugge' alle osservazioni degli assistenti sociali, possiamo chiederci se non sia il
‘nostro’ sguardo che fruga e cerca ciò che si aspetta di trovare, mentre al contrario dovrebbe solo
predisporsi a capire?
2. A PROPOSITO DI STEREOTIPI: L’UOMO ROM STUPRATORE E LA DONNA ROMNI SOTTOMESSA.
ROVESCIARE LA PROSPETTIVA SUL SESSISMO
Proviamo ad approfondire maggiormente se il sessismo e la struttura patriarcale delle comunità rom
possono essere ritenuti quasi esclusivamente gli unici elementi discriminatori per le donne romanì.
Intanto abbiamo scoperto che le donne romni sono ‘cattive madri’ perché il loro lavoro di cura si dimostra
carente di quelle attenzioni che contraddistinguono, al contrario, la comunità ‘indigena’ italiana. Mi vengono
in mente due osservazioni. La prima riguarda il fatto che le donne siano le uniche alle quali le istituzioni
chiedono conto dell’educazione dei figli. Non è questo un approccio sessista? Spesso accade di incontrare
donne romanì che chiedono l’elemosina con i bambini piccoli in braccio: parte del senso comune ritiene che
una buona madre debba evitare di coinvolgere minori in ‘attività degradanti’ come elemosinare soldi per
vivere. Ma a quale immagine di ‘brava madre' stiamo facendo riferimento in questa circostanza?
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Forse a una donna che trascorre la propria giornata ad accudire i figli, che non si imbatte nelle difficoltà
dell’organizzazione familiare soprattutto se lavora fuori casa? Non esiste uno sguardo e un immaginario più
sessista di questo.
Ciò nonostante, le donne romni nel chiedere l’elemosina svolgono una mansione professionale, si
occupano di reperire i soldi che i ‘bravi’ gagi, padri e madri di famiglia, rifiutano assai spesso di dare loro
tramite un lavoro, una volta saputo chi sono e dove/come vivono.
Del resto, penso si possa convenire sul fatto che chiedere l’elemosina non è un atto di cui si debba
vergognare se non chi rende impossibile a chi lo compie una eventuale diversa scelta. Oppure, scegliendo
una strada diversa, possiamo chiederci il motivo per il quale i bambini accompagnano le madri nella
quotidiana attività lavorativa. Forse le donne delle comunità rom non hanno nessuno a cui affidare i propri
figli: nessun asilo nido, nessun marito, nessuno che resti al campo ad accudirli.
Tra l’altro, se le stesse donne lasciassero i propri figli nel campo, sarebbero subito stigmatizzate come
‘madri snaturate', colpevoli di abbandono di minore.
La seconda osservazione concerne quanto siamo effettivamente capaci di dimostrare la ‘nostra’ attitudine
morale all’educazione dell’infanzia, mentre mostriamo disinteresse per la sempre crescente emersione
dell’infelicità infantile, o per la persistenza di stereotipi sessisti nell’educazione scolastica2, così come per
alcuni fenomeni di disagio familiare talvolta evidenti in esplosioni di violenza contro minori.
Rovesciamo la prospettiva: l’attitudine alla genitorialità si misura solo e soltanto dal livello di pulizia dei figli, o
non (anche, piuttosto) dalla felicità familiare? Le famiglie ‘indigene' italiane sono tutte felici? Toglieremmo un
figlio vestito con abiti da classe medio-alta ad una madre ‘italiana’ che non gli sorride mai e che mal ne
tollera la presenza?
Si sostiene che una struttura “fortemente patriarcale” come quella delle comunità rom (quali? quante?) abbia
come conseguenza strutturale, oltre alla subordinazione della donna, “ l’accettazione sociale della violenza
domestica quale naturale componente della dinamica familiare”.
Se per naturalizzazione della violenza domestica ci riferiamo all’omertà e complicità maschile all’interno della
comunità, penso che possiamo ritenerla una caratteristica non tanto di “tale” struttura perché “fortemente
patriarcale”, ma perché ‘semplicemente' patriarcale. Anche le donne che non vivono nei campi rom
subiscono violenza domestica dagli uomini della propria famiglia di origine o acquisita (il compagno, il marito,
l’ex fidanzato), e sono vittime della solidarietà di genere che colpisce come un’amnesia tutti i maschi del
luogo in cui vivono (il piccolo paese, la cerchia di amici, i parenti ecc.). Se quindi si deve parlare di
accettazione sociale della violenza domestica lo si faccia, ma rivolgendo lo sguardo simmetricamente alla
propria strage quotidiana, reiterata e condotta da uomini ‘indigeni’ italiani.
Ma la segnalazione significante dell’uomo rom violento e sopraffattore, non perché partecipe di una diffusa
pratica patriarcale che vige ben al di là di tradizioni etniche, linguistiche e/o religiose, bensì incarnata
letteralmente nella sua appartenenza comunitaria, consente lo svilupparsi di politiche istituzionali
“sessualizzate e razzializzate” che una studiosa e attivista femminista antirazzista come Angela Davis
denuncia con estrema chiarezza:
The soon-to-be-released video by Nicole Cusino (assistedby Ruth Gilmore) on California prison expansion
and its economic impact on rural and urban communities includes a poignant scene in which Vanessa
Gomez describes how the deployment of police and court anti-violence strategies put her husband away
under the Three Strikes law. She describes a verbal altercation between herself and her husband, who was
angry with her for not cutting up liver for their dog’s meal, since, she said, it was her turn to cut the liver.
According to her account, she insisted that she would prepare the dog’s food, but he said no, he was already
doing it. She says that she grabbed him and, in trying to take the knife away from him, seriously cut her
fingers. In the hospital, the incident was reported to the police. Despite the fact that Ms. Gomez contested
the prosecutor’s version of the events, her husband was convicted of assault. Because of two previous
convictions as a juvenile, he received a sentence under California’s Three Strikes law of 25 years to life,
which he is currently serving.
I relate this incident because it so plainly shows the facility with which the state can assimilate our opposition
to gender domination into projects of racial—which also means gender—domination.
(Davis, 2000)
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Angela Davis, in questo saggio dal titolo The Color of Violence Against Women, sottolinea come, in
presenza di asimmetrie di genere ed etniche, la radicalità della scelta per chi lotta contro la violenza
maschile contro le donne risieda nel posizionarsi contro chi dispone quelle asimmetrie, contro chi utilizza
una delle oppressioni –in questo caso quella di genere - per rafforzare lo stereotipo sociale del ‘negro
stupratore', e approfondire con largo consenso sociale il ricorso carcerario contro la comunità nera.
2.1 UN ESEMPIO ITALIANO: L’USO POLITICO DEL FEMMINICIDIO
Anche chi ritenesse “troppo radicale” l’approccio della Davis, non potrà facilmente aggirare la contraddizione
esistente in ogni società in cui il razzismo è ormai discorso politico e pratica amministrativa. E, tuttavia,
ritengo che Angela Davis porti una verità che anche l’Italia ha conosciuto, e in parte contribuito a disvelare,
in uno dei momenti forse più alti del movimento femminista degli ultimi anni.
Il 30 ottobre 2007, nella zona di Tor Quinto a Roma, è stata uccisa una donna che si chiamava Giovanna
Reggiani. Quel femminicidio fu immediatamente attribuito ad un rom di nazionalità rumena, abitante in un
cosiddetto ‘campo nomadi’. La notizia fu largamente amplificata dai mass media mainstream, con modalità
lessicali e politiche degne di essere brevemente commentate.
L’omicida fu definito nella maggior parte dei casi “rom-eno”: una scelta non neutra, evidentemente allusiva
all’appartenenza dell’uomo alla comunità rom.
Fu quindi convocata una riunione immediata e straordinaria del Consiglio dei Ministri – era l’epoca del
secondo governo Prodi - e licenziato in pochissime ore un decreto-legge che attribuiva ai prefetti la facoltà di
espellere dall’Italia i cittadini comunitari per motivi di pubblica sicurezza (Rivera 2010). Conseguente e
immediato fu lo sgombero della ‘baraccopoli’ in cui era ritenuto vivere il presunto assassino: duecento
persone, tra cui donne e bambini, furono gettate in mezzo a una strada.
Al contrario, la risposta delle donne fu la convocazione di una manifestazione nazionale molto partecipata
contro la violenza maschile, l’unica voce di saggezza capace di demistificare l’utilizzo del femminicidio della
Reggiani per varare ennesime norme repressive e razziste, incapaci, perché rispondenti ad un’urgenza
diversa, di prendere in carico e benché meno risolvere la “mattanza” quotidiana ai danni delle donne.
Ben sottolinea Annamaria Rivera che i successivi femminicidi “per i quali non fu possibile additare come
colpevoli degli alieni furono quasi ignorati dai media; comunque questi casi non meritarono convocazioni
urgenti del Consiglio dei Ministri”.
Ecco quindi a cosa risponde lo stereotipo del “rom stupratore”, l’identità del quale si costruisce
‘razzializzando’ il crimine e il criminale, come ho appunto provato a spiegare.
3. I MATRIMONI COMBINATI. UNA PRATICA SOLO ROMANÉS?
Una ulteriore questione dibattuta è quella riguardante i matrimoni combinati in giovane età. Mettiamo da
parte per un attimo la questione della giovanissima età degli sposi. La sociologa Daniela Danna sostiene che
si possa e si debba distinguere tra matrimonio combinato e matrimonio imposto (o forzato, secondo
l’accezione anglofona) 3.
Il matrimonio imposto/forzato è una violazione dei diritti umani: l’Art. 16 (2) della Dichiarazione universale dei
diritti umani stabilisce che: “Il matrimonio potrà essere concluso solo con il libero e pieno consenso dei futuri
sposi”. Il tema del consenso è stato disposto in sede Onu con l’Art. 16 (1) (b) della Convenzione per
l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw
Articolo 16
1. Gli Stati parte devono prendere tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione contro le
donne in tutte le questioni relative al matrimonio e ai rapporti familiari e in particolare devono garantire, su
una base di uguaglianza tra uomini e donna:
- lo stesso diritto di contrarre matrimonio;
- lo stesso diritto di scegliere liberamente il coniuge e di contrarre matrimonio soltanto con libero e pieno
consenso; […]
La questione del consenso femminile alla pratica del matrimonio combinato stabilisce il limite “soggettivo”
della distinzione niente affatto nominalistica (e tuttavia “non granitica”) tra legame imposto/forzato e
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combinato. Correttamente, Danna ammonisce dalla tentazione di definire la violenza femminile come un
indicatore di per sé sufficiente a definire la condizione della donna, poiché il rischio concreto è non saper
leggere paradossalmente situazioni di estrema limitazione della libertà femminile. Scrive la studiosa: “se in
un certo luogo non ci sono stupri per le strade, bisogna anche controllare che le donne abbiano la libertà di
uscire, prima di arrivare alla conclusione che la condizione delle donne lì è buona perché questo tipo di
violenza non esiste”.
E quindi la distinzione appare di difficile ma necessaria rilevanza, dato che il problema si può considerare,
essenzialmente, su due piani diversi, o meglio da due punti di vista diversi: quello del vissuto della presunta
o possibile “vittima”, cioè della ragazza cui i genitori prospettano un matrimonio da essi combinato, e quello
della considerazione etica di questa pratica tradizionale, dal punto di vista della promozione dei diritti umani
e della soggettività femminile, cioè dell’etica che condividiamo. I giudizi su ogni caso concreto vanno
espressi tenendo in conto questi due piani: come il soggetto vive la proposta (in pratica: se la rifiuta e ha
bisogno di aiuto esterno per sostenere questa scelta, oppure se la accetta), e come le osservatrici valutano
e giudicano l’azione della famiglia, che è quella di decidere al posto del soggetto come e con chi esso
trascorrerà la sua esistenza familiare, chiedendo solo un’adesione alle proprie proposte.
Si può e si deve riflettere su quanto e come la coscienza della ragazza, soprattutto se molto giovane, si
possa definire ‘formata’, capace di scegliere una volta comprese le conseguenze del suo agire. Tuttavia,
Ciò non toglie all’osservatore la facoltà morale di definire in assoluto certi comportamenti come violenza, ma
se essi non sono considerati tali dalla presunta “vittima”, allora sul piano pratico delle politiche pubbliche
sarà più utile agire in base alla definizione della situazione che la stessa persona dà. Così ci insegna la
pratica pluridecennale dei Centri antiviolenza, che si muovono solo sulla base della volontà precisamente e
personalmente espressa dalla donna che si definisce vittima di violenza e vuole uscire da questa situazione.
Non vi è giustificazione sul piano morale per questa limitazione, ma solo sul piano pratico: se non c’è
consapevolezza e volontà di uscirne (e l’azione dei Centri antiviolenza nel rapporto con la donna rafforza
entrambe) l’intervento in soccorso sarà inutile.
Ferma la convinzione dell’autodeterminazione soggettiva, proviamo a interrogare gli antropologi che si sono
da lungo tempo occupati delle relazioni di parentela tra le comunità rom.
In primo luogo apprendiamo che i gruppi o le comunità rom sono una realtà “molto ‘storica’ e deperibile”,
come sostiene Leonardo Piasere, e che consistono in una sorta di rete di famiglie, le quali interagiscono
variamente tra loro e condividono, in gradi e modi diversi, storie parzialmente differenti.
Ci siamo già brevemente soffermati sulla tendenza del ‘nostro’ sguardo a etichettare i gruppi rom con
denominazioni e identità culturali, quando non linguistiche, che spesso si rivelano del tutto inadeguate ed
infondate. Siamo infatti spesso convinti che il nome di un gruppo/comunità, al pari delle sue regole interne e
dei suoi componenti, siano qualcosa di definito e definitivo, con confini netti, organizzazioni interne chiare:
“niente di tutto questo sono i gruppi zingari nella realtà, anche se tendono a uniformarsi sempre di più al
parossismo della politica dell’identità perseguita dai gagè” (Piasere, 2004). Tutto ciò ha come conseguenza
la negazione di ogni individualità a chi appartiene alla categoria identitaria del “diverso da noi”:
la tendenza a negare a coloro che appartengono a gruppi alterizzati (che siano specie animali, donne,
collettività di ‘estranei’) ogni individualità, singolarità, soggettività: chi è oggetto di categorizzazioni
omologanti e/o squalificanti soggetto; quando è colto individualmente, viene considerato nient’altro che come
un esemplare tipico e intercambiabile di un’entità collettiva omogenea (l’animalità, il sesso, la ‘razza’, l’etnia,
la cultura), in ogni caso utile ad affermare, per contrasto, l’identità del noi.(Rivera, 2010, 68)
In realtà i sistemi di parentela delle comunità rom sono complessi e diversificati. Basti pensare alle comunità
di rom kaldera , che abitano luoghi diversi letteralmente in tutto il mondo, e sono soliti tenere contatti tra loro
e praticare intermatrimoni. In particolare
I rom kaldera sono divisi in vici, gruppi di discendenza ideologicamente patrilineari ma in realtà molto
flessibili, fino a divenire multilineari quando la situazione lo richiede
(…) Praticano un matrimonio per stipula che prevede il versamento della “ricchezza della sposa”, un insieme
di beni (normalmente monete d’oro) che la famiglia dello sposo deve versare alla famiglia della sposa. I
matrimoni sono fondamentali per misurare i rapporti politici interni e l’ammontare della ricchezza della sposa
evidenzia equilibri e disequilibri nel gioco delle uguaglianze/disuguaglianze intervici, più che il valore
monetario assegnato a una sposa”. (Piasere, 2004, 82)
Gli esempi sono numerosi, e rimandiamo ad altro tempo e luogo un maggiore approfondimento.
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Quel che mi interessa evidenziare è che questi sistemi di parentela sono “flessibili, aperti, mai definitivi,
sempre altamente localizzati e mutevoli; sempre influenzati dalle politiche dei gagè nel loro farsi e disfarsi,
ma mai alla completa mercé di quelle stesse politiche”.
Prima di indignarci per la violazione dei diritti umani perpetrata dalla pratica del matrimonio combinato rom,
oltre a riflettere sulle considerazioni sociologiche e antropologiche brevemente riportate, sarebbe forse un
buon esercizio chiederci se nelle ‘nostre' società non avvengano imposizioni di parentela, magari secondo il
lignaggio o la classe.
Potremmo definire matrimoni combinati le nozze tra appartenenti a caste nobiliari o monarchiche?
Eppure non possiamo negare che le nostre riviste di moda e costume sociale sono colme di romantiche
storie d’amore tra principi e principesse, così mostrate e così percepite dalle lettrici e dai lettori. Non ci
scandalizziamo altrettanto della mancanza di libertà di scelta da parte delle donne ricche, perché è
esattamente l’appartenenza alla classe dominante che edulcora e giustifica la regola matrimoniale, così
come il suo implicito ‘consenso’ interno. E infatti proporrei di riflettere anche sull’informalità “combinata” dei
matrimoni delle classi alto-borghesi, nelle quali uomini e donne scambiano i propri corpi assieme a doti
cospicue, utili per non disperdere ed anzi accrescere il patrimonio familiare.
Dunque “la ricchezza della sposa” – previsto ad esempio dal matrimonio dei rom caldera - non è l’unico
esempio di redistribuzione degli averi all’interno della comunità di appartenenza. L’alta borghesia, spesso, si
risolve a non disperdere ‘fuori dalla classe di appartenenza’ il patrimonio accumulato. E possiamo anche
rimandare allo scambio sessuo-economico come struttura del dono-scambio delle donne nel matrimonio,
così come analizzato e proposto dall’antropologa Paola Tabet, per provare a muovere alcuni dubbi sul
nostro ‘sguardo giudicante' nei confronti delle pratiche parentali rom, ritenute così desuete e discriminanti.
Torniamo alla giovane età: certo dodici anni sono decisamente pochi per sposarsi, anche se dobbiamo pur
sempre ricordarci che l’età stabilita convenzionalmente per contrarre matrimonio è soggetta diacronicamente
a mutamenti dati da relazioni sociali, eventi coercitivi esterni (la guerra modifica le relazioni tra i sessi e la
loro ‘formalizzazione'), modi produttivi (le relazioni familiari e sessuali cambiano nel passaggio dall’economia
rurale a quella industriale; ancora oggi viviamo profondi cambiamenti a causa del precariato di massa e della
crisi economica), differenti modelli statali (una dittatura confessionale prescriverà un più rigido rituale
matrimoniale, al contrario, si suppone, di una democrazia rappresentativa matura).
Non si tratta di relativizzare un personale posizionamento a riguardo, si tratta di assumere una prospettiva
relativista con cui osservare e capire, ed è una cosa molto diversa.
Una buona domanda di partenza potrebbe essere la seguente: siamo certi che il biasimo sociale che si lega
alla pratica del matrimonio tra minori rom riguardi il fatto in sé, o sia ancora una volta il prodotto avvelenato
del ‘nostro’ sguardo verso l’altro? Cosa penserebbe la società ‘indigena’ italiana, se a sposarsi in minore età
fossero i figli di due coppie di genitori cattolici consenzienti, magari a seguito della gravidanza precoce della
giovane adolescente della coppia? Riterremmo opportuno sottrarre i minori alla custodia dei genitori?
Non sto sostenendo che le donne romanì vivono il migliore dei mondi possibili.
Forse vivono una segregazione e una discriminazione di genere molto più simile alla nostra di quanto
siamo disposte ad accettare, poiché la convinzione dell’esistenza di un mondo più sessista e arretrato del
‘nostro’ ci rassicura e ci fa sentire, solo per un attimo, meno desolatamente oppresse. Se quindi vogliamo
sostenere che le comunità rom sono spesso attraversate da maschilismo e da una divisione tra i gruppi
maschile e femminile, lo si faccia pure, senza dimenticare che esso è esattamente speculare a quanto ogni
donna gagè sperimenta sulla propria pelle ogni giorno nella
società in cui viviamo.
Le donne romni vivono una discriminazione multipla: legata al genere, alla minoranza di appartenenza,
alla classe. Definiamo il potere politico come espressione della classe dominante, del genere dominante e
dell’etnia dominante: muovendo da questo posizionamento del potere decisionale, spesso performante il
cosiddetto buon senso comune, appare del tutto evidente come qualsiasi intervento studiato per “aiutare” gli
zingari può avere in sé, consciamente o no, i germi dei nostri atteggiamenti di rigetto. È del tutto pretestuoso
che una società (o i suoi membri illuminati) riconosca di avere maltrattato o di continuare a maltrattare un
gruppo minoritario e pretenda poi di sapere come “aiutarlo”, prevedendo unicamente interventi sul gruppo e
non su se stessa.
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(Piasere, 1999, 33)
4. IL PROBLEMA DELLA PRODUZIONE DI “VERITÀ” NEL DISCORSO PUBBLICO. CONTRIBUTI
ELIMITI DEL FEMMINISMO
Il ritardo del femminismo italiano a pensare la buzzword della teoria e ricerca di genere –la categoria critica
della intersectionality, ovvero l’intersezione con sussistente di classe, etnia, genere- sembra arrestarsi sulla
soglia della ‘questione rom”.
Intersectionality, o intersezionalità, com’è noto, è una categoria di determinazione politica emersa nella
riflessione collettiva del cosiddetto Black Feminism e successivamente portata a definizione dalla femminista
africana-americana Kimberlé Crenshaw (1989, 1991). Non mi dilungo sugli sviluppi e i limiti dell’approccio
genealogico e teorico della questione ‘intersezionale' per necessità di sintesi e brevità, tuttavia desidero
affrontare più da vicino alcune questioni interconnesse.
In particolare, se in Italia l’odierno dibattito europeo sulla categoria analitica e politica di intersezionalità è
raramente oggetto di riflessione, ciò nonostante esso presenta lo stesso limite, da ripensare ed affrontare,
emergente in altri Paesi. Seppur contraddistinta da una certa rigidità descrittiva, la distinzione offerta da
Crenshaw tra structural intersectionality e political intersectionality richiede di non essere rimossa ed anzi
riproposta e nuovamente coordinata. Conosciamo infatti molto bene l’aspetto analitico della categoria di
intersezionalità, con la sua risultante di “intersectional subordination”, capace di mettere in risalto la multipla
discriminazione emergente quando i sistemi di dominio di genere, classe ed etnia convergono e si
costruiscono compenetrandosi e completandosi. Ciò che non solo in Italia quasi mai si affronta è il secondo
potenziale della determinazione di intersezionalità, il più propriamente politico e concernente ciò che nei
Paesi anglofoni si è ormai soliti definire political agency: ovvero come si intersezionano le dimensioni
concernenti le strategie politiche di opposizione.
Come notano molte autrici, i lavori di ricerca accademici affrontano generalmentela intersezionalità
strutturale, mentre l’esplorazione della intersezionalità politica nel policy-making è rara. Soprattutto, è
assente una riflessione che muova da un ripensamento reale delle categorie intersezionali in direzione
dell’attivazione di pratiche politiche autenticamente efficaci e capaci di far saltare il legame strutturale delle
molteplici discriminazioni. È inoltre urgente la necessità di rifiutare ogni scivolamento essenzialistico o
naturalistico degli assi incrociati analitici di classe, genere ed etnia, tentando un ri-posizionamento critico
delle stesse categorie in un’ottica pratica e insieme teorica (con ciò intendendo una prassi che si teorizza,
piuttosto che il suo contrario). È infine evidente, come ho provato a spiegare per i rom e le romni, che
l’intersezionalità è un processo “through which ‘race' takes on multiple ‘gendered’ meanings for particular
women and men” (Ferree, 2009, 85), e dal quale prendono vita gli stereotipi intersezionati del rom stupratore
e patriarca e della romanì inferiorizzata e incapace di emanciparsi (ovvero di abbracciare la ‘nostra’
emancipazione).
La caratteristica principale della definizione di intersezionalità come “processo” - talvolta nominata
“constructionist intersectionality” così come “interactive intersectionality”- è ciò che permette di analizzare
tale categoria in tempi e contesti contingenti, piuttosto che fissi e a-storici. Se quindi non può essere
sufficiente rilevare le mancanze e le assenze, nei discorsi pubblici istituzionali e nei provvedimenti europei,
delle interconnesse discriminazioni dei soggetti gendered, occorre saper leggere soprattutto ‘come'
vengono ‘raccontati’ gli stessi soggetti e perché il discorso pubblico sui corpi ‘delle altre e degli altri’ è solito
sviluppare prontamente alcune categorie intersezionali, mentre altre – intenzionalmente o no - sono
costantemente trascurate.
È quindi indispensabile dedicarsi non soltanto alla descrizione della intersectional subordination, in Italia
oggetto di una recente e ricca produzione di pubblicazioni e interventi pubblici sul sessismo e razzismo
pubblicitario (solo per fornire un esempio), ma soprattutto interrogare le “privileged intersections”,
un’evidenza trascurata ma inestricabilmente connessa alla questione della produzione di categorie e discorsi
egemonici.
5. IL GRANDE RIMOSSO: LA CATEGORIA DI CLASSE NELLA ANALISI DELLA INTERSEZIONALITÀ
DELLE OPPRESSIONI
Tra le molte attiviste e studiose delle multiple discriminazioni verso le donne migranti e/o immigrate,
raramente si va oltre il nominare l’ultimo asse dell’intersezione: la classe. Le donne romanì portano lo
stigma della povertà.
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Forum cittadini del mondo R. Amarugi
Elemosinano senza vergogna, fieramente, tra i gagè: vivono po románe, non po gagikáne. L’assenza di
pudore, imbarazzo e pentimento nel mendicare ha come asse portante la distinzione di senso che è per noi
così inaccettabile: non voler essere assimilati dal mondo gagè. Mendicare in romanés è “chiedere”,
esattamente nello stesso significato di richiesta di rapporto commerciale. Significa “vendere”.
Inoltre un siffatto mestiere permette loro di interrompere il legame con il gagè, contestualmente all’atto di
elemosinare.
Scrive ancora Piasere: “un dono a una fondazione è una donazione, benemerita già come nome, un dono al
frate accattone è un’elemosina pure benemerita, un dono all’accattone zingaro è una carità disdicevole”.
Credo che tale paradigma di sopravvivenza suggerisca l’urgenza, per molte attiviste antirazziste, di
riconsiderare fortemente l’impatto dell’appartenenza delle donne romanì alla classe subalterna nell’intreccio
con il genere e l’etnia (termine pur improprio per le comunità rom), ma senza rimozioni di comodo: ovvero,
senza performare la loro identità nell’ennesimo universale, pensando che le romanì non vedano l’ora di
accettare un bel lavoro salariato nel nostro sistema ‘emancipato’ di sfruttamento produttivo.
A meno di non voler equiparare la mendicità femminile con lo sfruttamento patriarcale tout-court, occorre
scomodamente uscire dai panni delle ‘emancipatrici’ delle ‘altre', e comprendere il significato po románe
dell’elemosina, così come il mancato desiderio delle donne e degli uomini rom di partecipare al modo
economico capitalistico gagè. È necessario, inoltre, riflettere e valutare dove e come le nostre
categorizzazioni e pratiche di lotta contro il razzismo mostrano segni di insufficienza, a partire dalla
particolarità dell’approccio rom al mondo gagio, senza contare che in primo luogo neppure lo sfruttamento
del Nord verso i Paesi del Sud, infra-nazionale, inter-nazionale o inter-continentale, è di alcun aiuto a
comprendere una discriminazione ‘qui ed ora’, tutta interna alle metropoli urbane, spesso ai danni di uomini
e donne romanì di cittadinanza italiana.
Per fare un unico ma significativo esempio, occorre problematizzare la questione della “visibilità/invisibilità”
dell’alterità, che nel mondo romanés significa “essere maestri in relazioni transculturali, pronti continuamente
a rinegoziare la propria ‘ziganità’, cioè il proprio non-essere-gage, senza però mai metterlo in discussione”
(Piasere, 1999, 32-2).
e degli altri’, in un’ottica pur autenticamente anti-coloniale e non suprematista, questo approccio è costretto
ad arretrare di fronte al diniego composto delle comunità rom. Può infatti capitare che a seguito di richieste
da parte gagè di “farsi vedere”, “prendere la parola”, “protestare”, i rom assumano un posizionamento
perfettamente antagonista: la ricerca dell’invisibilità, il rifiuto di prendere parte alla guerra gagè delle identità
(che siano etniche, culturali, nazional-nazionaliste o di sola voce maschile).
Se le strade sembrano dividersi, questo suggerisce a chi prova a camminare accanto di mutare sentiero, ed
aggiornare il viaggio. Oppure si può continuare a pensare che le donne romanì sono vittime inconsapevoli
di un dominio patriarcale, a noi ormai del tutto sconosciuto.
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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