Jean d`Ormesson è nato nel 1925 a Parigi ed è uno dei più celebri

Transcript

Jean d`Ormesson è nato nel 1925 a Parigi ed è uno dei più celebri
Jean d’Ormesson è nato nel 1925 a Parigi ed è uno dei più
celebri scrittori e intellettuali francesi. Tradotto in tutto il
mondo, è membro dell’Académie Française ed è stato per
anni direttore del «Figaro». È stato presidente dell’Unesco
e ambasciatore francese all’Onu. I suoi libri più noti in
Italia sono A Dio piacendo, La gloria dell’Impero, Il
vento della sera, Il romanzo dell’ebreo errante. Tra il
2013 e il 2015, Edizioni Clichy ha pubblicato i suoi
La Conversazione, Che cosa strana è il mondo e Un
giorno me ne andrò senza aver detto tutto.
Gare du Nord
La frenesia e la multiculturalità della parigina Gare du
Nord raccontano il carattere composito della collana di
narrativa contemporanea di Edizioni Clichy, dedicata alla
scrittura di stampo letterario, principalmente francofona
ma non solo: storie, esseri umani, vite, colori, suoni, silenzi,
tematiche forti, autori dal linguaggio inconfondibile,
senza timore di assumere posizioni di rottura di fronte
all’establishment culturale e sociale o di raccontare abissi,
sperdimenti, discese ardite ma anche voli e flâneries.
«Comme un chant d’espérance»
de Jean d’Ormesson
© 2014 Éditions Héloïse d’Ormesson - Paris
Per l’edizione italiana:
© 2015 Edizioni Clichy - Firenze
Edizioni Clichy
Via Pietrapiana, 32
50121 - Firenze
www.edizioniclichy.it
Isbn: 978-88-6799-200-3
Jean d’Ormesson
Il mio canto di
speranza
Traduzione di Tommaso Gurrieri
Edizioni Clichy
Il mio canto di speranza
Nel tuo Nulla spero di trovare il Tutto.
Goethe, Faust
Contenendo il Tutto, il Niente designa il Non-essere, e il Nonessere non è altro che ciò attraverso il quale l’essere accade.
François Cheng, Cinque meditazioni sulla morte
Prologo
L’idea, cara a Flaubert, di un romanzo sul
nulla ha a lungo sedimentato dentro di me in
silenzio. Mi è tornata in mente grazie a uno
strano imprevisto. Mentre lavoravo su due
miei recenti libri - Che cosa strana è il mondo
e Un giorno me ne andrò senza aver detto tutto1
- mi sono interessato da neofita a un campo
che mi era estraneo e che ha fatto negli ultimi
cento anni progressi affascinanti: la fisica matematica e la cosmologia.
Arrivando, come per miracolo, dopo aver
seguito percorsi diversi a conclusioni identiche, che cosa hanno scoperto sulla nostra vita
i matematici e gli astronomi, gli uni nella te1 Entrambi pubblicati in Italia da Edizioni Clichy, nel 2014 e nel 2015
[N.d.T.].
9
Jean d’Ormesson
oria e attraverso i calcoli e gli altri attraverso
l’esperienza e l’osservazione? Per riassumerlo
in poche parole, che l’universo ha una storia.
È stato un fulmine a ciel sereno nel cielo della
scienza.
A lungo le grandi menti, Aristotele in testa, hanno pensato che il mondo fosse eternamente immobile. I Greci, che duemilacinquecento anni fa avevano inventato quasi tutto
sulle coste della Ionia, e cioè della Turchia di
oggi - la geometria, la matematica, la filosofia,
il teatro, l’eloquenza, la democrazia... - non
avevano mancato di notare, riferendosi naturalmente ai due astri più brillanti nel firmamento del giorno e della notte, che tutto si
modificava continuamente sotto il sole e in
quello che chiamavano il nostro mondo sublunare. Una formula di Eraclito, nato a
Efeso, è rimasta celebre: pantα reι - tutto
scorre. Ma dietro i cambiamenti che si succedevano nel suo grembo, il mondo in sé non
si muoveva. Restava lì. E questo era tutto ciò
che se ne poteva dire. Rivale di Eraclito, Parmenide nella sua Elea, in Magna Grecia, nota
anche come Italia meridionale, sosteneva che
l’essere è e che il non-essere non è. Il non es10
Il mio canto di speranza
sere non doveva nemmeno essere evocato: era
impossibile parlarne. Per Socrate, per Platone,
per Aristotele, successori di Eraclito e di Parmenide, l’uomo era la misura di tutte le cose e
la Terra sulla quale egli regnava era immobile
ed eterna al centro dell’universo, immobile
come lei ed eterno come lei.
Un certo numero di popoli che a lungo
sono stati considerati primitivi dai greciavevano un’altra visione dell’universo che li
circondava. Il mondo, per loro, era scaturito
dal nulla dopo avventure che assumevano, in
Mesopotamia, in Egitto, nelle Indie, in Cina,
in Africa, in America, nei paesi scandinavi - e
d’altronde anche in Grecia per l’uomo della
strada - le forme più diverse. Innumerevoli
miti, pieni di favolosi animali, di tartarughe
giganti, di cavalli a otto zampe, di serpenti
piumati, di fiori di loto, di alberi incantati,
di fontane magiche, di divini vasai, di complicate genealogie di dee e di dei che si generavano gli uni dagli altri e di lattanti nati
miracolosamente, pretendevano di rendere
conto dell’inizio delle cose che occupavano il
posto della loro assenza e che noi chiamiamo
il mondo.
11
Jean d’Ormesson
Un popolo, in particolare, si era costruito
intorno a un libro sacro che avrebbe giocato
un ruolo considerevole nella breve storia degli
uomini. Era un piccolo popolo arrivato dalla
Mesopotamia sotto la guida di Abramo e che
si era insediato nel Mediterraneo orientale: gli
Ebrei.
Il testo che apriva la loro Torah - la futura
Bibbia dei cristiani - si chiamava la Genesi.
Raccontava la creazione avvenuta in sei giorni, da parte di un Dio nascosto che era proibito rappresentare e al quale era a malapena
permesso dare un nome, di un mondo che
non era eterno. Nella paura e nel tremore, gli
Ebrei chiamavano il loro Dio Jehova, o Jahvé,
o Elohim, o Adonaï. Egli faceva scaturire dal
nulla il cielo e la terra, la luce, gli alberi, gli
animali e infine, con il nome di Adamo ed
Eva, l’uomo e la donna. Le frasi della Genesi
sono tra le parole più celebri di tutta la storia
degli uomini: «All’inizio, Dio creò il cielo e
la terra. Disse: Che la luce sia! E la luce fu...
Dio chiamò la luce giorno e chiamò le tenebre
notte. Così ci fu una sera e ci fu un mattino:
il primo giorno».
Da un centinaio di anni, i calcoli e le osser12
Il mio canto di speranza
vazioni di geniali matematici, fisici e astronomi
- Planck, Gamow, Friedmann, Lemaître, Einstein, Hubble, Bohr, Heisenberg, e molti altri
- hanno stabilito che l’universo è in espansione
in seguito a un’esplosione primitiva, avvenuta
tredici o quattordici miliardi di anni fa. Assai
lontano dal racconto della Bibbia, il mondo
visto dalla scienza è tuttavia, su un punto essenziale, più vicino all’insegnamento della Genesi che alle concezioni di Aristotele: ha avuto
un inizio e avrà una fine. Ha una storia.
*
Quello che più mi ha interessato in questa
formidabile avventura del sapere che va dalla
fondamentale scoperta fatta da Hubble sul continuo e accelerato allontanamento delle galassie
tra di loro, confermato dall’accidentale scoperta del raggio fossile fatta da Penzias e Wilson,
alla scoperta fatta dal Cern di Ginevra del bosone di Higgs, impropriamente e per esagerazione mediatica detto «la particella di Dio», è
l’impossibilità di risalire nel passato al di là - o
al di qua, come preferite - di una frazione infinitesimale di secondo dopo l’esplosione primi13
Jean d’Ormesson
tiva dalla quale scaturisce il minuscolo granello
di polvere che diventerà l’universo.
Sembra uno scherzo. A un milionesimo, o
a un miliardesimo, o a un centesimo di miliardesimo di secondo, non lo so, dopo l’inizio dell’inizio - bisogna immaginare 0 secondi
virgola 000... seguiti da una quarantina di zeri
prima che appaia finalmente un 1 - si eleva
improvvisamente un muro invalicabile. Non
è un muro religioso, teologico, poetico, filosofico, ideologico. No. È un muro scientifico.
Si chiama il «muro di Planck».
Al di là del muro di Planck, le nostre leggi non valgono più. Le leggi universali che si
applicano da un estremo all’altro del nostro
immenso universo non funzionano più. L’onnipotente fisica matematica che ci ha rivelato
tanti segreti procede a singhiozzi, balbetta,
perde terreno e si blocca. E tutto accade come
se un astuto genio sbucasse improvvisamente alle soglie del nostro universo che sta per
sorgere e brandisse un avviso: «Oltre questo
limite la vostra scienza non funziona più».
È l’avviso brandito tredici o quattordici
miliardi di anni fa dall’astuto genio che mi
ha fatto tornare in mente l’idea, formulata dal
14
Il mio canto di speranza
padre di Salammbô e di Madame Bovary, di
un romanzo sul nulla.
*
Flaubert pensava che il romanziere non
avesse bisogno di avvenimenti. Gide non dice
cose diverse in I falsari quando vuole «spogliare il romanzo di tutti gli elementi che non appartengono specificamente al romanzo». «Gli
avvenimenti esterni,» precisa «gli imprevisti, le
trasmutazioni appartengono al cinema. Spetta al romanzo cederglieli». Al cinema, certo, e
al giornalismo. I giornalisti hanno un ardente
bisogno di avvenimenti. Amano soprattutto
ciò che accade di sorprendente e di strano nel
mondo: la guerra, il crimine, gli eccessi del
potere, del denaro, del sesso, le catastrofi, gli
tsunami, gli incidenti aerei, i treni che arrivano in ritardo. Una storia italiana - agli Italiani
non dispiace prendersi in giro con eleganza - illustra l’ideale del giornalismo odierno.
Sul marciapiede della stazione di Palermo o
di Napoli un viaggiatore guarda l’orologio e
dice al capostazione: «Il treno oggi ha soltanto diciassette minuti di ritardo». «Eh no, caro
15
Jean d’Ormesson
signore,» risponde il funzionario «è il treno
di ieri che ha ventiquattr’ore e diciassette
minuti di ritardo». Lo scrittore ha il diritto
d’interessarsi o di non interessarsi ai sussulti
della storia, ai suoi aneddoti, ai suoi sviluppi.
Il suo campo sono le parole. Le parole per
Gide sono al servizio dell’immaginazione: «Il
romanziere di solito scrive, non si affida affatto
all’immaginazione del lettore». Flaubert si
spinge ancora più lontano. Anche l’immaginazione, per il romanziere, è di troppo: la letteratura basta a se stessa.
Quando Flaubert parla di un romanzo sul
nulla, si distingue da Eugène Sue, da Ponson
du Terrail e perfino dal caro Dumas che, nelle
sue Memorie come nei suoi romanzi, ci trascina al galoppo dentro inesauribili avventure.
Contro Jules Verne, che possedeva una sorta
di genio, contro Sherlock Holmes o Arsenio
Lupin o James Bond che tanto ci hanno divertiti, ciò che Flaubert difende è lo stile. I
libri non sopravvivono grazie alle storie che
raccontano. Sopravvivono grazie al modo in
cui sono raccontate. La letteratura è innanzitutto uno stile che risveglia l’immaginazione
del lettore.
16
Il mio canto di speranza
*
Quel romanzo sul nulla che l’autore dell’Educazione sentimentale si proponeva è, in verità, un paradosso, una chimera, una sfida
insostenibile, un’illusione. Anche se sul nulla,
il romanziere è comunque obbligato a raccontare qualcosa. Per quanto scarti il maggior numero possibile di avvenimenti, di aneddoti, di
sviluppi, rimangono sempre dei dettagli, delle
sfumature, dei riflessi, dei niente che sono comunque qualcosa da riportare e da descrivere. Ciò che c’è di propriamente indicibile e
inaudito dietro il muro di Planck, prima della
minuscola frazione a quarantatré zeri che segue la nostra famosa esplosione primordiale, è
che non ci sono né sfumature, né riflessi, né
supposizioni, né ipotesi, né nessuno di quei
niente che ci attirano così tanto. È semplicissimo: non c’è niente.
È questo niente di niente - la sua natura, le
sue conseguenze - che mi è sembrato fornire
il più bel soggetto per un romanzo, il solo che
risponda veramente al malinconico proposito
espresso da Flaubert.
17
Jean d’Ormesson
*
Gli esseri umani si sono spesso interrogati sul nulla. Innanzitutto su quello dopo la
morte. Poi su quello prima del mondo. È lo
stesso? Chi lo sa? E soprattutto, in entrambi i
casi: è veramente un nulla? Non c’è veramente
niente in quello che chiamiamo il nulla? Non
possiamo escludere che ci sia qualcosa. L’unica cosa certa è che niente è sicuro.
Non è sicuro che non resti niente, dopo la
morte, di un passato svanito, di un essere un
tempo vivo, di un uomo o di una donna che
ha avuto dei pensieri, delle passioni, dei ricordi, dei progetti. Non è nemmeno sicuro che il
mondo in cui viviamo sia sorto dal nulla, che
il nostro tutto sia frutto del nulla. E nemmeno il contrario è sicuro. La verità è che sul prima-del-nostro-mondo come sul dopo-la-nostra-morte non sappiamo niente. Possiamo
credere. Possiamo sognare. Possiamo sperare.
Non possiamo sapere. Persi nello spazio e nel
tempo, il nostro sapere e il nostro potere sono
rigorosamente limitati, lassù, nel passato, dal
nostro famoso muro di Planck, e laggiù, nel
futuro, dalla nostra non meno famosa morte.
18
Il mio canto di speranza
La sola cosa che possiamo fare, di qua e di
là, è inventare, sognare, immaginare. Nella
vita di ogni giorno passiamo il tempo a scontrarci con il mondo e con gli altri. Ci sono il
desiderio, il denaro, la passione, la follia, la
carriera, i viaggi, il successo, la disperazione,
la memoria e la storia. È una tragedia, è una
commedia, è spesso una farsa, e a volte un
melodramma. Prima e dopo, dall’altro lato
dei due muri, è immaginazione pura: è un
romanzo. Ben lungi dalla Principessa di Clèves, da Adolphe, dalla Certosa di Parma o dalla
Ricerca, è questo il romanzo che ho cercato di
scrivere.
*
Ogni riferimento a persone esistenti o a
fatti realmente accaduti è puramente casuale. La tradizionale formula assume qui tutto il
suo valore. Se c’è qualcosa - chissà? - dopo la
nostra morte, è certo in ogni caso che può essere solo un’altra cosa. E se c’è qualcosa - chissà? - prima del nostro universo, anche in questo caso può essere solo un’altra cosa. L’unico
problema, quando ci mettiamo a discutere di
19
Jean d’Ormesson
quel nulla di cui secondo Parmenide è impossibile discutere, è che questa altra cosa deve
essere tradotta nella lingua del nostro mondo
e della nostra vita. È questa traduzione che
propongo oggi astenendomi dal dimenticare
che ogni traduzione è sempre un tradimento
- e il più delle volte un errore, uno sbaglio o
un delirio.
20
I
Non c’era niente. E quel niente era il tutto.
Il tutto e il niente si mischiavano l’uno con
l’altro e si confondevano l’uno con l’altro.
Non c’erano stelle. Non c’erano nuvole.
Non c’erano né alberi, né ruscelli, né coccinelle, né soldati. Non c’erano parole. Né sogni. Non c’erano forme, non c’erano colori
e non c’era musica. Non c’erano nemmeno
sfere. Né passato. Né futuro. E non c’erano
numeri. Non c’era niente.
Per dare un’idea di quel niente che era il
tutto, ci vorrebbe una notte oscura. Un silenzio completo. Un vuoto assoluto. Qualcosa di
simile a una pagina bianca in cui la pagina
e il bianco e ovviamente l’occhio per vederli
sarebbero comunque troppo.
21
Jean d’Ormesson
Una notte, un silenzio, un vuoto - non parliamo nemmeno della pagina bianca - possono dare soltanto una vaga idea del nulla prima dell’universo e prima del muro di Planck.
Eliminate gli esseri viventi, le cose, il Sole e
la Luna, le stelle, perfino i colori e i suoni,
perfino l’aria che respiriamo, perfino le onde
e gli atomi, costruite un vuoto e un buio senza
la minima luce e il minimo rumore - rimarrà
sempre qualcosa: rimarrà lo spazio e quel fantasma senza carne e senza ossa, senza la minima presenza eppure implacabile che chiamiamo il tempo.
Prima del mondo e del suo vagare non
c’era spazio e non c’era tempo. Eppure c’era
qualcosa: era l’eternità. L’eternità si confondeva con il tutto e con il niente.
22