1 Ladro di polli - astoria edizioni

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1 Ladro di polli - astoria edizioni
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Ladro di polli
Titolo originale dell’opera:
‫( פתיןו‬Pityon)
Traduzione dall’ebraico
di Elena Loewenthal
© 1991 by Shulamit Lapid
Published by arrangement with
The Institute for the Translation of Hebrew Literature
© 2014 astoria srl
corso C. Colombo 11 – 20144 Milano
Prima edizione: luglio 2014
ISBN 978-88-96919-88-0
In copertina: illustrazione di Annamaria Passaro;
nel tondo: cerchio delle quinte su partitura
del Prometeo di A. Scriabin
Progetto grafico: zevilhéritier
www.astoriaedizioni.it
Mentre si recava al doppio funerale dell’ispettore Avner “Rosi” Rosen e della sua compagna, Tami Simon, Lisi Badichi non
poteva certo immaginare che al suo ritorno si sarebbe trovata il
morto in casa.
Il doppio omicidio di Rosen e Simon era stato certamente
l’evento più sconvolgente di Be’er Sheva da che Birnsweig era
caduto nella voragine che si era aperta di colpo davanti al chiosco della lotteria del nuovo mercato. L’avevano estratto, ormai
defunto, tre giorni più tardi (Lisi classificava la drammaticità degli eventi secondo una scala basata sulla posizione della relativa
notizia nel giornale nazionale). Per la prima volta da quando lei
aveva cominciato a lavorare per “La Gazzetta del Sud”, il suo direttore, Ghedaliah Arieli, e suo cognato, il commissario Benzion
Koresh, si erano trovati d’accordo: copertura più ampia possibile
della notizia.
“Proprio di martedì!” aveva comunque brontolato Arieli,
come se Lisi fosse responsabile della programmazione di omicidi e funerali a Be’er Sheva. “Mandami ottocento parole. Ti
lascio quattro colonne. Voglio panoramiche del luogo dell’omicidio e ritratti delle vittime, o una foto di loro due insieme in
qualche occasione familiare e tutto quello che riesci a ottenere
sul poliziotto e la sua amante. Parla con la polizia, con i parenti,
i vicini.” Arieli attaccò il telefono e lei, come sempre dopo le
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chiamate del direttore, sbatté giù la cornetta con un colpo in stile
karate. Ormai da dieci anni era “la nostra corrispondente” de
“La Gazzetta del Sud” e non aveva mai trasmesso una notizia
senza le opportune verifiche, nessuno l’aveva mai querelata per
diffamazione, nessun esposto contro di lei era mai andato a buon
fine, era persino riuscita a procurare qualche vero e proprio scoop, vuoi al giornale nazionale vuoi all’edizione locale. Ma nulla
di tutto ciò era riuscito a far entrare nella testa di Arieli che Lisi
Badichi era una giornalista professionista. Perché secondo Arieli
il fatto di vivere a Be’er Sheva, scrivere per il foglio locale e per
di più essere anche una donna non era compatibile con lo status
di giornalista professionista.
“Stai parlando da sola,” le disse Dorit, la fotoreporter.
“Arieli,” rispose Lisi liberando una specie di sommesso grugnito.
“Prima o poi lo spaccherai, quel telefono.”
“Vuole delle panoramiche del luogo dell’omicidio e dei ritratti
delle vittime.”
“Embè? Che problema c’è?”
“Niente. Nessun problema.”
Se lui non l’avesse chiamata, lei non sarebbe forse andata a
parlare con i vicini, i parenti, la polizia? E poi, bisogna necessariamente salutare? Da quando in qua lui la saluta? Figuriamoci
il giorno in cui la licenzierà. Ancora grazie che non aveva imprecato al telefono.
Pareva che tutta Be’er Sheva si fosse ritrovata al doppio funerale. Era dai tempi dell’inaugurazione del centro commerciale
che non si vedeva una folla del genere. A parlar bene del defunto
si succedettero il capo della polizia, il sindaco e il rabbino di Be’er
Sheva, che si dilungò sugli “empi figli di malvagità”. Lisi decise
che quello sarebbe stato il titolo del pezzo sul giornale locale,
ma poi le venne in mente che il rabbino aveva già usato quello stesso frasario nella preghiera per i soldati che combattevano
nella Guerra del Golfo contro Saddam Hussein e il suo esercito.
Il capo della polizia giudiziaria promise che le forze dell’ordine
avrebbero preso quegli spregevoli assassini. Di fronte a così tanta
folla il sindaco spiccò il suo volo pindarico, declamando che non
è il luogo a rendere onorevole l’uomo, ma l’uomo a onorare il
luogo, e il luogo avrebbe trovato il modo di confortare le famiglie
Rosen e Simon.
Tutti gli astanti sapevano che le due vittime non erano sposate
fra loro, nelle parole di tutti si avvertiva un certo disagio: formulare le condoglianze congiuntamente o a ognuno per conto suo?
Tanto più che l’ex moglie dell’ispettore Avner Rosen, lì presente,
vestita di nero, era pure riuscita a svenire fra le braccia delle sue
amiche nel preciso istante in cui l’avevano puntata i flash del
fotografo.
Un fervido mormorio, un vivace brusio di pettegolezzi, di curiosità non soddisfatte, avevano accompagnato le elegie funebri:
la tipica animazione delle prime a teatro, dei concerti importanti,
delle rapine in banca. Dorit e Lisi avevano dovuto sgomitare per
raggiungere la tomba.
Dorit Dahan era la figlia del direttore commerciale de “La
Gazzetta del Sud” e lavorava al giornale da quando aveva finito il
servizio militare, circa un anno prima. All’inizio Lisi l’aveva presa
per la tipica figlia viziata in cerca di emozioni e di ispirazione, ma
nel giro di breve tempo aveva scoperto di nutrire nei suoi confronti lo stesso pregiudizio che detestava quando era indirizzato a
lei. Dorit si era fatta le ossa lavorando al giornale “In Caserma”.
E ora era a disposizione della “Gazzetta” a qualunque ora del
giorno e della notte, si sobbarcava sulle esili spalle i borsoni con
le pesanti apparecchiature fotografiche, non esitava neanche un
momento prima di partire per Gaza o per Rafah quando il lavoro lo imponeva, respingeva senza esitazione fotografi stranieri
e macchine da presa quando cercavano di bloccarle la strada.
Dorit non sprecava energie in discorsi superflui, non si lasciava
impressionare dalle autorità, non cedeva mai alla pietà, alla paura o all’ammirazione. Per lei il mondo era ciò che stava dietro
l’obiettivo e basta. Lisi conosceva Dorit sin da quando era una
bambina di dodici anni, e all’inizio aveva fatto fatica a trattare
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come una collega quella bella ragazza con i grandi occhi color
acciaio e i capelli corti color del grano maturo. Prima che arrivasse lei il giornale si avvaleva di fotografi freelance. Dahan aveva
comunicato ad Arieli che avrebbe preso sua figlia a lavorare per
un anno di prova, e che l’avrebbe assunta se si fosse dimostrata
in gamba. Arieli aveva accettato le condizioni di Dahan, e Lisi si
era chiesta come avrebbe gestito da quel momento in poi le sue
tresche, ora che la figlia Dorit lavorava al giornale. Ebbe la risposta il giorno in cui, due mesi dopo, Dahan aveva dato in escandescenze perché aveva saputo che Dorit stava per partire per Gaza
a fotografare due rappresentanti del comitato combattente palestinese, che avevano acconsentito a rilasciare un’intervista a Lisi.
Dorit aveva comunicato a suo padre che stava per affittarsi un
appartamentino nelle vicinanze della redazione. Dahan strillava
“dovrai passare sul mio cadavere”, allora Dorit aveva menzionato giusto la modella russa o l’estetista del quartiere. Dahan non
solo si era arreso, aveva anche pagato l’affitto.
“Sei responsabile tu che non le succeda niente,” aveva detto
a Lisi in tono minaccioso.
“Ma non sono mica stata io ad assumerla! L’hai fatto tu.
Quando l’hai messa a fare la fotoreporter sapevi bene che cosa
comporta il mestiere.”
“Sei stata tu a spifferarle di Tatiana e Jeannette, però.”
“Ma neanche per sogno. Ha occhi e orecchie, di suo.”
Anche Dahan sapeva che era un rimprovero ridicolo. Lavorava con Lisi da dieci anni ormai e lei non aveva mai detto nulla
a nessuno delle donne che si portava in un qualche albergo della
città in cambio di un’inserzione pubblicitaria scontata o di un
servizio redazionale senza alcuna giustificazione giornalistica.
Dorit era diventata alleata di Lisi. Lisi sapeva che avrebbe accettato qualunque missione a qualunque ora, che sarebbe arrivata con il suo motorino, avrebbe buttato la sua attrezzatura nella
macchina di Lisi, avrebbe domandato un laconico “dove?”, senza parole inutili. Insieme tornavano in redazione. Lisi si metteva
a scrivere il suo tot di parole, mentre Dorit andava nel suo labo-
ratorio a sviluppare le fotografie. A volte lavoravano sino a notte
fonda, e all’occorrenza ripartivano per un nuovo servizio dopo
un’ora o due di sonno. Erano bastati un pugno di questi casi,
che Dorit aveva cominciato a imitare Lisi. Si svegliava ficcando
la testa sotto l’acqua corrente fredda, come lei, ma a differenza
di Lisi, che si passava sempre l’untuoso rossetto sulle labbra e
portava quegli enormi orecchini stile Carmen che erano ormai il
suo marchio di fabbrica, Dorit si presentava con la testa bagnata
e i segni del cuscino sul piccolo viso pallido. Aveva un corpo da
adolescente ma era alta quasi come Lisi. Sulla nuca teneva una
sottile treccia bionda che spuntava sulla testa quasi rapata. Estate
e inverno portava delle t-shirt di maglina che angustiavano tanto
i suoi genitori quanto i ragazzi che sporadicamente convivevano
con lei. Lisi si domandava chi fossero, in quali occasioni li conoscesse, che cosa facessero nel tempo libero. C’erano dieci anni
fra lei e Dorit, ma i freni inibitori che l’accompagnavano nei
suoi rapporti con l’altro sesso erano del tutto assenti dalla vita
sentimentale di Dorit. Lisi si teneva per sé questi pensieri. Sin dal
primo giorno i loro rapporti erano stati di ordine esclusivamente
professionale.
“Prendi la folla,” disse a Dorit quando arrivarono al cimitero,
“non solo i parenti.”
“Una panoramica del funerale?”
“Più gente possibile. Dal parcheggio sino alla stanza del lavacro e la fossa. Riesci a prendere tutti i presenti?”
“Sono in cerchio. Qualcuno in particolare?”
“No.”
“Posso fare un giro e fotografarli a gruppetti.”
“Va bene.”
Lisi si domandò che cosa dire a Dorit quando si fosse resa
conto che non intendeva fare alcun uso di quei suoi scatti.
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“Lisi, tesoro,” le aveva detto al telefono suo cognato Benzion
Koresh, quasi soffocato dalla sua stessa melassa, “potresti fare un
salto da me un momento?”
“Che succede, Lisi, che ci fai qui?” chiese sua zia Malka, stenografa alla centrale di polizia.
“Benzi ha bisogno di parlarmi.”
“È andato al funerale.”
“Non è andato al funerale. Mi ha chiamato dieci minuti fa
per convocarmi.”
L’espressione di meraviglia sulla faccia di Malka lasciò Lisi
senza parole. Sua zia sapeva sempre tutto quello che succedeva in
centrale. Benzi avrebbe dovuto già essere al funerale, insomma.
“Vai al funerale con la figlia di Dahan?” chiese Benzi.
“Ciao Benzi, come va?”
“Lisi?”
“Sì, Benzi. Vado al funerale con la figlia di Dahan. Che comunque si chiama Dorit.”
“Dille di fotografare più gente possibile. Se possibile, tutti i
presenti.”
“Il mio direttore vuole dei ritratti dei defunti e uno scatto
della scena del delitto. Perché non chiedi a un fotografo della
polizia?”
“Lo chiedo a te.”
“Perché?”
“Non voglio che si sappia che la polizia è interessata. Nessuno
noterà una fotoreporter, invece.”
“Ma è l’assassinio di un poliziotto! È chiaro che alla polizia
interessa! Dai, bello, che c’è sotto?”
“Niente.”
“Se non c’è sotto niente, non ci saranno neanche fotografie.”
“Lisi!”
“E non urlare. Non sono mica Georgette, io. E neanche uno
dei tuoi arrestati.”
“Non si può escludere che uno o più implicati nell’omicidio
siano presenti al funerale.”
“Hai qualche sospetto in particolare?”
“Non so. Può darsi che qualcuno lì al funerale, qualcuno di
strano, qualcuno che non dovrebbe essere lì, ci dica qualcosa.”
“È naturale che la polizia faccia fotografie al funerale di uno
che è stato ammazzato. Non capisco che cosa vuoi da me.”
“Lisi, non discutere. Non c’è tempo adesso. Bisogna andare
al cimitero.”
“Perché non me lo hai detto per telefono? Avremmo risparmiato tempo tutti e due. Neanche zia Malka sapeva che mi avevi
convocato. Che cosa stai tramando, Benzi?”
“Non fare la furba, Lisi. Non è da te.”
“Non sono una tua subordinata e non ti devo niente, mio
caro Benzi.”
Lisi fece per andarsene, nel senso che girò i tacchi. L’ufficio
del commissario Benzion Koresh era talmente piccolo che per
uscire lei non doveva fare altro che voltarsi e aprire la porta. Le
misure ridotte della stanza e la voce stentorea del commissario
Koresh erano corresponsabili del cedimento di non pochi indiziati. Le persone che soffrivano di claustrofobia erano pronte a
confessare anche delitti mai commessi, dopo una mezz’ora in
quel bugigattolo di cemento.
“Lo chiederò a Benni Adullam.”
Lisi si fermò di colpo e fece un rapido calcolo. Il commissario
Benzion Koresh non voleva si sapesse che era interessato a un
servizio fotografico del funerale. Preferiva che neanche in polizia
lo sapessero. Si era rivolto a lei perché era sua cognata e la conosceva bene e sapeva che lei era di parola, e quando gli prometteva di tenere la bocca chiusa teneva fede all’impegno. La minaccia
di rivolgersi a Benni Adullam, il suo concorrente de “Le Ore del
Sud”, era soltanto una bieca manovra. Ma Benzi sapeva che Lisi
non avrebbe corso il rischio di vedere realizzata quella minaccia,
anche se il rischio era quasi pari a zero.
“Che devo dire a Dorit?”
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“No. Sto andando al funerale di Avner Rosen e Tami Simon.”
“Ci vado anch’io. Ti passo a prendere.”
“Benzi! Che cosa vuoi?”
“Ci vorrà un attimo.”
“Ti fidi di me, Lisi?”
“Certo. Come mi fido di un cobra.”
“Ci credi che sono un poliziotto onesto e responsabile?”
“Qualcuno la pensa diversamente, per caso?”
“Rispondimi.”
“Sì, Benzi, so che sei un poliziotto onesto e responsabile.”
“Ricordatelo, allora.”
“Che è successo?”
“Ho bisogno di te, Lisi.”
“Non preoccuparti. Sarò muta come un pesce.”
“Lo so.”
“Farà domande?”
“Consegnerà in contabilità la fattura di tutte le fotografie.”
“Allora dille che avevi capito male Arieli, e io ti fornisco delle
pellicole nuove al posto di quelle che userà.”
“Vuoi anche che sviluppi?”
“Sì.”
“Allora dovrai pagare anche per lo sviluppo.”
“Ovvio. Da quando in qua sei diventata così venale? Metti in
cattiva luce il giornalismo.”
“Ne ha forse una buona, di luce?” Benzi scoppiò a ridere, lei
proseguì: “Voglio la storia, Benzi”.
“Quale storia?”
“Non avrai le pellicole se non mi prometti che avrò la storia
in esclusiva.”
“Dai, su, andiamo a questo fottuto funerale.”
“Promettimelo.”
“Se scopriamo l’identità dell’assassino o degli assassini, sarai
la prima a cui lo dirò.”
“E per questo mi hai fatto venire qui di nascosto? Potevi dirmelo al telefono. Malka manco sapeva che eri qui e mi avevi
chiamato.”
“Dille che sei venuta da me a raccogliere informazioni sul
doppio delitto, e che non avevo ancora nulla da dirti.”
“C’è cattivo odore nel tuo ufficio, caro il mio Benzion.”
Un’ombra di sorriso imbarazzato affiorò alle labbra di Benzi.
Lei lo guardò, si chiese cosa gli fosse successo. Erano anni che
mercanteggiavano, anni di offese ed estorsioni verbali accompagnate da frecciatine da vecchi commilitoni che avevano imparato
a volersi bene e rispettarsi. Quando aveva una sera libera, Lisi
guardava i bambini di lui e sua sorella, per le feste si spogliavano
regolarmente delle loro tenute da battaglia per ritrovarsi insieme
all’affollata tavola di famiglia, che comprendeva anche l’altra sorella di Lisi, Chavazelet, e il cognato Ilan Sergio Bekhut, braccio
destro di Koresh in commissariato, e sua madre. Qualche volta
anche zia Klara e zio Yakov.
Lisi fece in tempo a fermare Dorit prima che partisse per andare al funerale e le chiese di prendere delle pellicole di riserva.
Ce l’aveva con se stessa e con Benzi. Era riuscito a ottenere da lei
quello che voleva senza svelarle un bel nulla.
Con un giaccone militare, gli occhiali scuri e un berretto da
esploratore, Shaike Simon, padre della vittima, era seduto su una
panchina di pietra. Suo figlio Oded, un ragazzo di ventisei, ventisette anni, era accanto a lui con una papalina nera di carta in
testa. I due erano attorniati da un capannello di persone che avevano l’aria di veterani di un’unità scelta uscita dalla naftalina per
qualche missione segretissima. Sulla panca dirimpetto c’erano le
due sorelle del poliziotto ucciso e una parente con il fazzoletto
in testa che copriva la fronte e arrivava sino agli occhiali da sole;
erano circondate da poliziotte armate di borracce e thermos. Fra
i due fronti si trovavano il sindaco, il capo della polizia, due parlamentari che abitavano nella regione meridionale, dei dignitari
beduini che sembravano veterani della Resistenza, dei veterani
della Resistenza che sembravano dignitari beduini, e un repertorio urbano che comprendeva perditempo e svitati. Da Tel Aviv
erano arrivati il socio della defunta, Menashe Malichi, il suo parrucchiere, due negozianti di vestiti e il proprietario di un rinomato pub, che davano al funerale una certa qual aura cosmopolita.
Fra curiosi per ogni stagione girava una quantità spropositata di
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poliziotti. C’era un’atmosfera come di trepida attesa, un senso di
comunione nell’evento tale da far pensare che chi non vi prendeva parte si perdesse il sale della vita.
Shaike Simon doveva avere sui cinquantacinque anni: era
grande e grosso, diffidente e taciturno. Quando era ancora
nell’esercito lo prendevano in giro sostenendo che si fosse messo dei silenziatori persino sulle suole delle scarpe. Era arrivato
bambino a Be’er Sheva con i genitori, qui aveva frequentato la
scuola, poi si era lanciato nella carriera militare, arrivando al
grado di tenente colonnello. Purtroppo era caduto in disgrazia
poco prima della guerra dei Sei Giorni, quando contrariamente
all’opinione degli americani aveva sostenuto che il dispiegamento
di forze egiziane non aveva scopi esclusivamente difensivi e perciò conveniva valutare seriamente la mobilitazione dichiarata da
quel paese. Levi Eshkol, che a quell’epoca era capo del governo
nonché ministro della Difesa, aveva deciso di convocare il ragazzo e sentire personalmente la sua opinione, o per dirla con parole
sue, in yiddish: “Ich will di yungele oyseheren”. Quella conversazione
a quattr’occhi aveva avuto due effetti. Eshkol aveva spedito il
ministro degli Esteri Abba Eban da Lyndon Johnson e un mese
dopo aveva firmato il trasferimento di Simon all’amministrazione militare di Ramallah. Simon, carrista fino al midollo, aveva
continuato a fare il suo lavoro con piena dedizione, senza tuttavia
nascondere il proprio risentimento. Poi aveva chiesto e ottenuto
di essere mandato a studiare a Gerusalemme (economia e statistica) e alla fine dell’università era stato assegnato alla missione di
acquisti militari presso l’ambasciata israeliana in Francia.
Vivere a Parigi aveva fatto girare la testa a sua moglie Bilha,
una bionda esuberante che era il perfetto contrario di Shaike. La
signora, che adorava ballare, andare alle feste e farsi fotografare,
si era innamorata dell’addetto navale dell’ambasciata di Grecia e
aveva mollato marito e figli. A suo merito va detto che malgrado
il suo carattere espansivo era riuscita a tenere nascosta la relazione. Al ministero della Difesa erano dunque rimasti di stucco
quando, alla fine della missione di Simon, sua moglie aveva se-
guito l’amante ad Atene. Comunque al ministero nessuno si era
stracciato le vesti quando, al suo ritorno in Israele, Simon aveva
dato le dimissioni.
Per qualche mese Simon si era guardato intorno, lasciando
passare un ragionevole lasso di tempo; trascorso un annetto aveva fatto quello che tanti altri avevano fatto prima di lui: sfruttare i
contatti che si era creato durante la missione d’acquisto all’estero
e diventare mediatore per l’industria bellica israeliana. La società
aveva sede a casa di Shaike Simon, e si avvaleva della collaborazione di suo figlio Oded. La casa si trovava su un’altura isolata
del quartiere di Omer ed era protetta da un boschetto di pini
gerosolimitani piantato all’inizio degli anni cinquanta. Una recinzione di ferro piuttosto alta circondava il bosco, e per accedere
al giardino di casa bisognava passare da un cancello in ferro battuto, arrugginito e cigolante. Di lì una stradina di asfalto portava
alla casa: su quella strada c’era la Peugeot 504 in cui la figlia di
Shaike Simon, Tami, e il suo compagno, l’ispettore Avner Rosen,
erano stati assassinati martedì 22 gennaio 1991.
I pochi amici di Avner “Rosi” Rosen sapevano che aveva
divorziato dalla moglie un anno dopo le nozze, quindici anni
prima, ma non erano presumibilmente al corrente che fosse l’amante di Tami Simon. La gente l’aveva saputo solo dopo il delitto. Del resto Rosi non aveva molte conoscenze, e quelle poche
si rendevano perfettamente conto che sapevano di lui solo quello
che lui voleva far sapere. I poliziotti suoi colleghi dicevano di lui
che era troppo furbo, troppo indipendente e testardo: in sostanza
sapevano che sarebbe finita male. Era riuscito a farsi detestare
da subordinati e superiori a forza di rifiutarsi di riconoscere i
casi chiusi e incaponirsi a indagare anche dopo che erano stati ufficialmente archiviati. Di fatto, non è che Rosen odiasse i
delinquenti. “Loro fanno il loro lavoro, io faccio il mio,” diceva
sempre. Sosteneva che la malavita non era più furba o coraggiosa, che tutto quel che c’era da fare per beccarli fosse dar tempo
al tempo. Gli unici delinquenti con cui non voleva avere a che
fare erano quelli divertiti dalla crudeltà fine a se stessa. Dopo
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che una volta a momenti faceva fuori a suon di botte un balordo che s’era accanito con i proprietari del Mikado, un negozio
di oggettistica vicino alla stazione degli autobus, aveva preferito
passare ai colleghi i casi che avevano per vittime anziani, donne e bambini. Preferiva quelli complicati, che comportavano un
certo sforzo cerebrale, ma anche il lavoro di squadra o quello di
routine, quando era necessario. Negli ultimi due o tre anni era
stato molto a Tel Aviv, dove aveva anche un appartamento e dove
evidentemente aveva conosciuto Tami Simon, che si occupava di
antiquariato. A posteriori, i pochi conoscenti di Rosen avevano
deciso che si trattava di un rapporto strano, azzardato. Rosi era
sulla quarantina, statura media, né bello né brutto. Insomma,
uno che passava inosservato. Era miope, portava occhiali con
delle spesse lenti attraverso le quali focalizzava lo sguardo abbassando le palpebre. Ci sentiva pure male dall’orecchio destro
sin da quando era soldato e la jeep su cui viaggiava era montata
su una mina. Dicevano alle sue spalle che era l’unico agente investigativo al mondo sordo e orbo. Tuttavia, quando ogni tanto
metteva una camicia stirata o si prendeva il disturbo di andare
dal barbiere a farsi tagliare i capelli, ci si rendeva conto che era
abbastanza carino. La perenne abbronzatura e un principio di
canizie gli davano quell’aria accattivante da campagnolo approdato in città.
Rosi era nato e cresciuto a Kfar Yakov, dove – oltre a due
sorelle, Chasia e Ziona – aveva anche agrumeti e terreni grazie
ai quali poteva permettersi di non dipendere dallo stipendio della
polizia. Non beveva, fumava moderatamente e anche chi aveva
lavorato con lui più di qualche settimana non era a conoscenza di
avventure femminili. L’unica cosa che lo interessava era risolvere
crimini e acciuffare delinquenti.
Tami Simon invece era sulla trentina, aveva ereditato da sua
madre un bel corpo, i capelli biondi e un viso grazioso. Diversamente da sua madre, però, Tami era tranquilla, posata e pragmatica, anche se non tanto da impedire alle malelingue di star
dietro ai suoi movimenti. Si spettegolava quindi dei suoi corteg-
giatori, di sarti e parrucchieri, di acquisti a Parigi, di puntate ad
Atene, di sciate in Svizzera. Secondo i canoni locali, Tami Simon era quanto di più simile si potesse immaginare a quel qualcosa di misterioso che si chiama aristocrazia. Nessuno sapeva
quando e come avesse conosciuto Rosi, né cosa ci trovasse in lui.
Era evidente a tutti gli amici di lei quanto lui si annoiasse nelle
occasioni mondane a cui ogni tanto lo trascinava, al punto che
negli ultimi mesi si erano visti pochissimo in giro. Nelle cronache
mondane spuntavano ogni tanto titoli poetici sul genere Anche
la stoppia s’accende?, dove si raccontava ai lettori che seguivano
fedelmente le peripezie della radiosa giovinetta di Be’er Sheva
che la nostra bellezza del Sud era innamorata, che le nozze erano imminenti, che aveva finalmente trovato l’uomo giusto. Un
tono di malcelata delusione accompagnava queste notizie. Dopo
tutto quello che avevano investito su di lei, le cronache mondane
si aspettavano qualcosa di meglio. Tami Simon era bella, intelligente e ricca. Aveva trascorso l’infanzia a Parigi, e prima di partire per il servizio militare aveva vissuto quasi un anno ad Atene
con sua madre. Apparteneva a un mondo sconfinato, un mondo
di foreste nere e piste innevate, cascate vertiginose e canoe sulle
rapide: altro che la piatta e arida realtà del nostro paese dove la
luce è bianca e accecante e anche volendo trovare un nascondiglio ci si ritrova sempre sotto gli occhi di tutti, comodo bersaglio
di raffiche d’ogni tipo e specie. Chi aveva avuto a che fare con
lei sapeva che Tami Simon aveva succhiato con il latte di sua
madre anche la capacità di distinguere lo stile Impero francese
dal Biedermeier tedesco. Una ragazza così era inequivocabilmente destinata a sposarsi con un ereditiere di terza generazione
e a dividere il suo tempo fra New York e Be’er Sheva. E invece
era finita con Rosi?! Correva voce che il padre e il fratello non
gradissero affatto l’uomo che si era trovata, ma lei era una donna d’affari di successo, guadagnava bene e aveva del suo, e poi
aveva trent’anni, perciò da un pezzo non si immischiavano più
nella sua vita.
Allo scoppio della Guerra del Golfo, con i missili Scud che
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minacciavano Tel Aviv, Tami era tornata a stare sulla “collina”.
Suo padre aveva accantonato il principio della non ingerenza
per implorarla di tornare a Be’er Sheva finché non fosse passata
la bufera. E così, per la prima volta dopo molti anni, Tami era
tornata a vivere sotto lo stesso tetto insieme al padre e al fratello,
e il primo aveva colto l’occasione e fatto il possibile per separarla
da Rosen e riportare a casa la pecorella smarrita. Come molti
altri, era inoltre dell’avviso che non aveva senso rischiare stando
a Tel Aviv visto che non era indispensabile. A Tel Aviv alle cinque si spegnevano le luci e ci si rinchiudeva terrorizzati dentro
le camere ermetiche, gli affari erano paralizzati, i locali chiusi...
che c’era da fare? Come molte famiglie che si erano spostate a
sud per trovare rifugio dalle bombe, non poteva fare così anche
lei, che oltretutto aveva una casa sua con tutte le comodità? Ogni
giorno Tami faceva i bagagli per tornare a Tel Aviv, e ogni giorno suo padre la convinceva a disfarli.
La casa sulla collina era costruita come un alveare formato da
quattro unità abitative poste intorno a un grande soggiorno. Gli
uffici della Shesek (cioè “Prugna”) erano situati al secondo piano
della casa. L’ala di Tami, al pari delle altre, era concepita come
un appartamento a se stante con ingresso riservato, una stanza
da letto, un soggiorno, bagno e servizi annessi. Oltre a padre e
figlio, abitavano sulla collina anche la cuoca Rivka e la domestica
Naomi, due sorelle nubili sulla cinquantina.
Tami partiva per il suo negozio di Giaffa tutte le mattine
e tornava a Be’er Sheva il giorno stesso, prima che fosse buio.
Quando anche Rosi doveva andare a Tel Aviv, i due partivano
insieme con la sua Peugeot. Lo stesso avevano fatto il giorno in
cui erano stati assassinati. Tami aveva chiamato suo padre e gli
aveva detto che avrebbe tardato un po’, perché avrebbero cenato
all’Escoffier, ad Ashkelon.
Con ogni probabilità i due erano tornati alla collina verso
le otto e mezza, giusto mentre in tutto il paese suonavano le
sirene d’allarme. Tami era scesa dall’auto per aprire il cancello
e qualcuno fra gli alberi le aveva sparato, uccidendola. Poi aveva
mirato a Rosi, seduto al volante. La pallottola aveva attraversato
il parabrezza dell’auto e ferito alla tempia l’ispettore. In seguito,
quest’ultimo era riuscito a estrarre la pistola e sparare verso l’assassino, ma l’aveva mancato, vuoi perché Rosi era ferito, vuoi per
via del buio. L’assassino aveva sparato un altro colpo in direzione
della testa di Rosi, e l’aveva ucciso. In quel momento Shaike e
Oded Simon con Rivka e Naomi erano dentro la camera ermetica, con le maschere antigas e le orecchie incollate alla radio. Il
cessato allarme era scattato alle nove e dieci, quando loro erano
usciti dalla camera. Il tempo passava e Tami e Rosen non arrivavano. Shaike si era seduto davanti al telefono e aveva cominciato
a cercare sua figlia. Aveva chiamato l’Escoffier, casa di Rosi a
Tel Aviv, casa di Tami a Tel Aviv, e poi anche ospedali e polizia.
Preoccupatissimo, Oded aveva deciso di percorrere la statale da
Be’er Sheva ad Ashkelon: forse così sarebbe riuscito a capire che
cosa era successo a sua sorella. Vicino al cancello aveva scoperto
la Peugeot e i cadaveri di Tami e Rosi. Erano le dieci e mezza
di sera. L’ipotesi era che i due fossero stati assassinati fra le otto
e mezza e le nove e dieci. Se fosse successo prima o dopo qualcuno in casa avrebbe udito gli spari. In casa non c’erano segni
di scasso. Tami e Rosi avevano dunque sorpreso l’assassino, o gli
assassini, prima che facessero in tempo a entrare in casa.
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Lisi sapeva che doveva chiedere ai familiari delle foto delle
vittime. Aveva già affrontato in passato situazioni del genere, ma
non ci si era ancora abituata. Capiva e financo giustificava la rabbia e il disgusto che esprimevano gli sguardi dei disperati parenti
a cui si rivolgeva. “Il lavoro è lavoro,” si disse avvicinandosi alle
sorelle di Rosi, mentre si presentava e chiedeva una foto del defunto. Le due erano pallidissime e con gli occhi asciutti, gli spiegazzati foulard di seta che erano scesi giù dal capo sulle spalle.
“Ohi!” gemette Chasia al solo udire la parola “defunto”.
Mentre Ziona, come se non aspettasse altro, cominciò a piangere. “Era un bambino così birichino…” sbottò fra un singhiozzo
e l’altro. “‘Farai una brutta fine,’ gli diceva sempre nostro padre
quando era piccolo. Chi avrebbe mai creduto che sarebbe diventato un poliziotto? A otto anni Rosi aveva rubato delle galline
dal pollaio del villaggio,” gemette. “Nessuno era riuscito a capire
chi era stato, poi un giorno papà sentì un pigolio dal deposito.
In casa avevamo un deposito di armi dell’epoca degli inglesi.
Lo picchiò con la cinghia. Se papà avesse saputo che cosa sarebbe poi successo a Rosi, non l’avrebbe picchiato così con la
cinghia…” Ora anche Chasia piangeva. “Meno male che papà
e mamma non ci sono più,” disse. Poi si asciugò le lacrime con il
foulard e tirò fuori dalla borsa una piccola foto di Rosi. Lisi si segnò sul retro il nome e l’indirizzo di Chasia e promise di rendergliela quanto prima, e intanto pensava che a lei non sarebbe mai
venuto in mente di tenere in borsetta una foto delle sue sorelle.
Con la famiglia Simon ebbe comunque meno fortuna. Il fratello
di Tami sembrava quasi stesse per alzare le mani mentre diceva:
“Levati dai piedi, fila via”.
“Ne pescherò una in archivio,” la consolò Dorit.
“Continua a mitragliare la folla,” le rispose Lisi.
Appena udivano il clic della macchina fotografica rivolta verso di loro, gli astanti mettevano su un’aria di circostanza e smettevano di confabulare. Finalmente si conquistavano un briciolo
di eternità. Tutti conoscevano Lisi. Se non sapevano ancora chi
fosse quella ragazzona che strascicava i grossi piedi come una
pigra foca, con una collanina d’ombra scura imprigionata fra
le belle labbra e gli occhi socchiusi, come se fosse mezza addormentata, lo capivano subito scorgendo Dorit accanto a lei, che
scattava senza sosta.
“E quelle lasagne che mi avevi promesso?” sussurrò Benni
Adullam verso Dorit, soffiandole sulla treccina della nuca.
“Levati dai piedi.”
Stranamente, Adullam ubbidì.
“Che gli è preso?” mormorò Dorit, gli occhi piantati dentro
l’obiettivo.
“Si è dimenticato di prendere un fotografo, è andato a telefonare.”
Le due strinsero le labbra per non scoppiare a ridere. Da
quando Dorit aveva cominciato a lavorare con Lisi, la competizione fra “La Gazzetta del Sud” e “Le Ore del Sud” era diventata grottesca. Il fatto che alla “Gazzetta” lavorasse ormai da un
anno una fotoreporter professionista, mentre alle “Ore” continuavano a usare dei freelance, era una ulteriore dimostrazione
della superiorità di Lisi Badichi rispetto a Benni Adullam. Agli
abitanti di Be’er Sheva non era certo sfuggito il fatto che Lisi aveva ormai una squadra. Una truppa. Mentre Benni continuava a
essere un cavaliere solitario, costretto a barcamenarsi senza alcun
appoggio dalla redazione del giornale nazionale.
L’altoparlante annunciò la partenza del corteo funebre per il
defunto Avner, figlio di Efraim Fishel, e Lisi e Dorit si precipitarono verso la salma.
“Talvolta detesto il mio lavoro,” disse Dorit.
“Anch’io,” disse Lisi.
Il corpo del defunto sembrava piccolo ed esile sotto il sudario nero. Un bambino di otto anni, pensò Lisi dentro di sé, che
ruba delle galline e che con questo gesto non immagina certo di
entrare nella posterità.
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Tornate alla sede de “La Gazzetta del Sud”, Lisi e Dorit scoprirono che l’ingresso era chiuso con l’inferriata e la persiana era
abbassata anche davanti alla porta della tipografia di Prosper
Parpar, situata al primo piano dello stabile. I loro passi risuonarono per il deserto cortile d’asfalto, l’uomo che stava lavando il
retro del supermercato le guardò incuriosito, sorpreso nel constatare che qualcun altro oltre a lui era al lavoro mentre tutta la città
stava correndo a rifugiarsi nelle camere ermetiche. Sembrava un
nuovo immigrato dalla Russia, Lisi pensò che alla prima occasione avrebbe scritto un pezzo sulla nuova manodopera.
Prima di mezzanotte Lisi era riuscita a scrivere e mandare un pezzo di cinquecento parole per il giornale nazionale e
uno di mille parole per il foglio locale. Avrebbe voluto intitolare
quest’ultimo L’amante sulla collina, ma temeva che Oded Simon
l’avrebbe uccisa. Per questo si accontentò di un banale Doppio
omicidio a Omer.
“Posso continuare a sviluppare il resto delle foto domani?”
chiese Dorit.
“Sì,” rispose Lisi. Non osava svelare a Dorit che nessuna delle
foto che stava sviluppando sarebbe mai approdata alla redazione
del giornale.
Le strade erano buie e deserte quando loro due lasciarono la
redazione. Erano stanche, si diressero in silenzio verso il parcheggio in fondo all’edificio, dove secoli prima Lisi aveva parcheggiato la sua vecchia Justin e Dorit la sua motoretta. Lisi si stirò e
respirò a pieni polmoni l’aria fresca e secca, mentre gli occhi si
abituavano all’oscurità.
“Porca miseria,” imprecò improvvisamente Dorit.
“Che succede?”
“Mi ero dimenticata che ho un tizio da me.”
“Piove sempre sul bagnato,” mormorò Lisi, e le due sorrisero
al buio. “Al momento non chiedo altro che una tazza di cioccolata e un letto caldo.”
Lisi entrò in casa, accese la luce in corridoio, entrò in camera,
fece per buttare la borsa verso il divano, quando scoprì che c’era
una persona distesa sopra. Si avvicinò mentre sentiva il sangue
scorrer via dalle vene, stava per urlare ma costui le disse: “Hai il
frigo vuoto”. La voce era tranquilla, pacata. Avner “Rosi” Rosen
sembrava vivissimo.
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