di una malattia idiopatica, come la definisce la

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di una malattia idiopatica, come la definisce la
Nascere e morire in Italia:
tra biografie e disciplinamento dei corpi
di Ermina Emprin Gilardini
Prendo parola dalla cittadinanza più onerosa della malattia1. Nel mio caso, di una malattia
idiopatica. La scienza medica la definisce così, catalogandola, come numerose altre
malattie di cui non conosce l’origine, sotto il nome del medico che le descrive – nel mio
caso, morbo di Crohn,. L’approccio terapeutico largamente empirico tracima nel mio
vivere quotidiano e mi consegna a una strategia di continuo adattamento: l’andamento
clinico della malattia, di tempo in tempo tumultuoso o subdolamente latente nella cronicità,
non è la sola e nemmeno la dimensione prevalente della mia storia di vita, pur
definendone il contesto. La pratica clinica, però, consegna la mia esperienza complessiva
di vita alla sfera del personale e del privato. Intanto, io e chi mi cura ci inerpichiamo sui
due versanti di una frustrazione speculare – quella di non poter guarire e quella di non
saper guarire - provando e riprovando a prevenire, diradare, contenere, limitare le
manifestazioni più violente della malattia, mentre lo spazio si fa stretto: la politica sanitaria
e quella della ricerca sono sempre più incisivamente e globalmente dettate dal mercato e
dal profitto, quella del diritto da indebite confusioni tra diritto e morale e tra morale e
religione 2. La frustrazione è così speculare che mi accade di percepire disagi dubbi e stati
d’ansia di chi mi cura. Ma essi sono l’indicibile della pratica clinica, come la mia storia di
vita. Parlo, naturalmente, della medicina come istituzione, non di singole e singoli medici,
con i quali intrattengo, in qualche caso da oltre trentacinque anni, una relazione di
reciprocità che definisco di adulterio della pratica clinica convenzionale. La misura di
questa relazione, (che viviamo come arricchimento e non come perdita) è data
dall’aggiustamento e riaggiustamento continuo del rapporto tra i protocolli diagnostici e
terapeutici e il mio umano, singolare, concretissimo agio nella loro applicazione. Mi sono
ripetutamente confrontata con la scelta se vivere la violenza della malattia o la violenza di
una terapia. E ho vissuto con dolore la fatica di sofferenze non alleviate dalla
somministrazione di morfina. Parlo, insomma, di una relazione complessa come quello tra
una biografia e una diagnosi, tra il “chi” (la persona incarnata) e un “che cosa” tra i molti3
(la malattia) nel vissuto di una donna “capace di intendere e di volere”, per stare alla
definizione giuridica.
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Su s a n S O N T A G , “Malattia come metafora”, Intr o d u z i o n e , Ein a u d i , To r i n o , 1 9 9 2 .
“La morale, la legge e la politica, proseguiamo il percorso” è il te m a di un inc o n t r o ch e si è te n u t o il 5
no v e m b r e 2006 alla C a s a Inte r n a z i o n a l e dell a do n n a , ap e r t o da un do c u m e n t o di M a r i a Lui s a B O C C I A e
Gr a z i a Z U F F A e pr o m o s s o in colla b o r a z i o n e co n l’ass o c i a z i o n e G e n e r i e G e n e r a z i o n i .
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Ad ri a n a C A V A R E R O Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltri n e lli, Mil a n o ,
1997
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O di autodeterminarsi, per stare all’esperienza sessuata storicamente socialmente
geograficamente e culturalmente situata della mia vita di donna bianca4. La pratica del
partire da se e dell’autocoscienza, la critica femminista alla filosofia, alla storia, al diritto,
alla medicina e alla scienza mi hanno dato molti strumenti, a cominciare dall’analisi del
rapporto tra il corpo sessuato, la storia e la storia dei saperi5. Mi hanno anche convinta,
non da oggi e tanto più nell’era delle biotecnologie applicate e delle nuove significazioni
del corpo che da esse prendono le mosse, della necessità di praticare uno scarto, di fare
spazio a una modalità di confronto di donne e di uomini diversa e a una dimensione “altra”
della politica, attraversata dalla riflessione e dalla pratica molteplice di donne e di
femministe in luoghi e gruppi diversi e dallo scambio narrativo delle esperienze. Sono
anche convinta della necessità che questo confronto sia teso ad aggiungere alla pratica
clinica la reciprocità e la complessità della relazione e a portare uno sguardo più umano
nei confronti di chi esercita una professione sanitaria. Quando si parla di umanizzazione
della medicina si pensa generalmente alla fragilità della persona malata nella sua qualità
di assistita/o, consegnando chi esercita la professione medica a una dimensione
sovrumana, alla quale si richiede non solo un sapere, ma la conoscenza del senso stesso
dell’esistenza umana, di un lasciare o non lasciare nascere vivere e morire che trascende
uomini e donne fatti di carne sangue muscoli ossa storia e cultura, compreso il medico. Si
costruisce così una figura dalla quale ci si attende che detenga e sia nello stesso tempo
responsabile della competenza legittima su questi temi.
Questa costruzione della figura medica e l’attribuzione alla legge di una funzione
espressiva - quella di esprimere uno stigma sociale – sono i due principi di fondo da cui
prende le mosse la legge 40 sulla fecondazione assistita. Già Letizia Gianformaggio aveva
subito osservato che l’ordinamento giuridico e la stessa legge 40 non enunciano i diritti
che si vorrebbero tutelare attraverso gli obblighi e i divieti imposti all’autodeterminazione
femminile sulla nascita. Se la legge 194 ha riconosciuto la decisione di non mettere al
mondo come decisione autonoma delle donne, la legge sulla riproduzione medicalmente
assistita sottrae loro la decisione autonoma di mettere al mondo. Ma questa differenza è
priva di fondamento giuridico, sottolinea Gianformaggio: si riferisce a principi non enunciati
nella legge o nel nostro ordinamento6. Inoltre, la legge 40 attribuisce un ruolo peculiare
alla consulenza medica. L’articolo 6 conferisce al medico la responsabilità di informare
“dettagliatamente” anche “sui problemi bioetici” la “coppia di maggiorenni, di sesso
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Sandra HARDING, ignorata dall’editoria italiana e riportata da Diana SARTORI “Dai margini l'orizzonte si
allarga. Il metodo scientifico nel mondo multiculturale e postcoloniale abitato da due sessi. Sandra Harding a
Bologna e Modena”, Il Manifesto, 23 maggio 2002 e da Alessandra ALLEGRINI “La democrazía che nasce
dagli esclusi. Scienza e politica secondo Sandra Harding, L’Unità, 1 giugno.2002.
D o m i n i q u e M E M M I , Verso una confessione laica? Nuove forme di controllo pubblico del corpo nella Francia
contemporane, in SOCIETA’ ’IT A L I A N A D E L L E ST O R I C H E , Corpi e storia. Donne e uomini dal mondo
antico all’età contemporanea, a cu r a di N a d i a M a r i a FIL I P P I N I , Tizi a n a PL E B A N I , An n a S C A T T I G N O , Vie ll a
Lib r e r i a editri c e , R o m a , 1 9 9 2.
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Le ti zi a GI A N F O R M A G G I O , La riproduzione medicalmente assistita e i diritti dei soggetti coinvolti, te st o
scritt o in pr e p a r a z i o n e di un a lezi o n e qu a n d o la leg g e er a in co r s o di ap p r o v a z i o n e e pu b b li c a t o in su o
rico r d o nel 2005 dal Fo r u m di Q u a d e r n i co s tit u z i o n a l i – w w w . f o r u m c o s t i t u z i o n a l e . it.
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diverso, coniugata o convivente, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi (sic!)”. Il
profilo stigmatizzante della legge e la costruzione della figura medica come depositaria
della competenza legittima su ciò che si intende per “bioetica” (criticata proprio in quanto
disciplina normativa dal carattere falsamente neutrale ed indifferente alle diverse e
stratificate forme di oppressione che attraversano la nostra società, in particolare
all’oppressione patriarcale)7 hanno concorso e concorrono a intercettare e diffondere nella
società italiana la conformità biografica a una norma.
La rapida approvazione da parte del Senato del disegno di legge sul cosiddetto
testamento biologico, attualmente in discussione alla Camera, con il titolo “Disposizioni in
materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di
volontà”8 è stata dettata, come la legge 40, dalla fretta di chiudere lo spazio di confronto e
di dibattito che si era aperto intorno alla narrazione pubblica dei percorsi di fine vita di
Piergiorgio Welby, Giovanni Nuvoli e Eluana Englaro. Ciascuna nella sua singolarità e
unicità, queste esperienze, per quanto abbiamo potuto conoscerle dalla narrazione diretta
o affidata alla memoria delle persone care, hanno portato fuori da un cono d’ombra un
diffuso disagio, quando non un netto rifiuto, a riconoscere una norma a cui uniformarle e
conformarle tutte. Il testo licenziato dal Senato si pone in aperto conflitto con questo
diffuso senso comune: una legge attesa per regolamentare le modalità di manifestazione
della volontà delle donne e degli uomini sul percorso di fine vita si trasforma nel suo
contrario e interroga i limiti del legislatore in uno stato democratico costituzionale, come ha
puntualizzato Stefano Rodotà9, che del resto nel 2006 aveva lucidamente sostenuto che
non era necessaria una legge. La direttiva anticipata di volontà si riduce a dichiarazione di
un “orientamento” che può - deve, nel caso dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali essere ignorato dal medico. Si compie così la trasformazione della figura medica in
detentrice responsabile dell’applicazione delle terapie legittime, mentre le convinzioni di
chi è in cura sono respinte nell’irrilevante giuridico e politico. Si chiude, anche, un cerchio
che la legge 40 aveva lasciato aperto: il disegno di legge esordisce riconoscendo e
assumendo la tutela della vita umana come diritto inviolabile e indisponibile che sovrasta
le persone incarnate e sessuate. Donne e uomini sono ricondotti a una condizione di
minorità giuridica, cancellati dallo statuto della cittadinanza (sia pur contraddittorio e
conflittuale), i loro corpi alla deriva sono consegnati alla sudditanza in uno Stato che si fa
etico, le loro biografie ristrette in protocolli diagnostici e prognostici. La debolezza di
questo impianto sta sullo stesso terreno su cui è stata prodotta: nella potenza espressiva
di biografie narrate nei loro percorsi di riconciliazione con il senso del limite e con la morte,
di esperienze singolari e uniche di donne e di uomini incarnati che vivono in uno stato
occidentale moderno nella complessità del mondo e di questo tempo e li lasciano
esplorando ciò che è norma e normalità nella storia della loro vita e nella rete di relazioni
Si ve d a n o gli atti del Tavolo delle donne sulla bioetica,, co n v o c a t o a Mil a n o il 1 7 m a g g i o 1 9 9 7, pu b b li c a t i
co m e su p p l e m e n t o al n. 29/30 dell’ Ag e n z i a qu o ti d i a n a Il Pa e s e dell e do n n e , co m e qu e lli dei su c c e s s i v i
inc o n t r i itin e r a n t i tra il 1 9 9 7 e il 2000.
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A C n. 235 0, att u a l m e n t e in dis c u s s i o n e alla C o m m i s s i o n e Aff a r i so ci a li dell a C a m e r a , w w w . c a m e r a . i t
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St e f a n o R O D O T A ’ , Il corpo come luogo pubblico, La R e p u b b l i c a , 22 fe b b r a i o 2009
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fondate sull’affetto e sulla fiducia, sul mutuo rispetto e sulla reciprocità di cui sono
circondate.e circondati. Dare e prendere valore e forza da queste esperienze di
resistenza, lasciarci liberare e liberarle dal peso dello stigma, è il modo più efficace per
intercettare e rafforzare un contesto politico e culturale che nel riconoscerle riconosca
anche che nessun ordine del discorso può dirsi egemonico rispetto ai dilemmi etici posti
alle esperienze umane dal vivere: cittadine e cittadini di un altro regno - direbbe Susan
Sontag - restituito al sapere umano delle vite e della convivenza nello scorrere dei luoghi e
del tempo.
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