Questa mattina ci diedero gli esami verbali

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Questa mattina ci diedero gli esami verbali
Francesco De Sanctis
La giovinezza
Chi sa perché questo vicolo di Napoli fu chiamato Bisi? Oggi lo chiamano vico Nilo, ed è
un termine più presentabile. Del resto, esso era degno di quel nome. C‟era lí da impiccarsi
per malinconia. Figurarsi un vicolo stretto stretto, con case altissime, che pare ti si
congiungano sul capo e ti rubino la vista del cielo. Là, in una gran sala oscura, s‟impiantò la
scuola nel modo più semplice: un tavolino nudo, non netto di macchie d‟inchiostro; un
discreto numero di sedie più o meno impagliate, e lunghe file di panche. Le mura bianche e
nude mi recavano alla mente il mio stanzone da studio. La decorazione c‟era, ed era nel cuor
mio e dei miei giovani, che vedevamo lì attaccate a quelle mura tutte le memorie della nostra
vita intellettuale. Quando io entrava colà, e, cambiato uno sguardo coi giovani, mi si
accendevano gli occhi e mi si scioglieva la lingua, quella sala mi appariva splendidamente
decorata dalle immagini generate dalla mia fantasia.
Edmondo De Amicis
Cuore
Questa mattina ci diedero gli esami verbali. Alle otto eravamo tutti in classe, e alle otto e
un quarto cominciarono a chiamarci quattro alla volta nel camerone, dove c'era un gran
tavolo coperto d'un tappeto verde, e intorno il Direttore e quattro maestri, fra i quali il nostro.
Io fui uno dei primi chiamati. Povero maestro! Come m'accorsi che ci vuol bene davvero,
questa mattina. Mentre c'interrogavano gli altri, egli non aveva occhi che per noi; si turbava
quando eravamo incerti a rispondere, si rasserenava quando davamo una bella risposta,
sentiva tutto, e ci faceva mille cenni con le mani e col capo per dire: - Bene, - no, - sta‟
attento, - più adagio, - coraggio. - Ci avrebbe suggerito ogni cosa se avesse potuto parlare.
Se al posto suo ci fossero stati l'un dopo l'altro i padri di tutti gli alunni, non avrebbero fatto di
più. Gli avrei gridato: - Grazie! - dieci volte, in faccia a tutti. E quando gli altri maestri mi
dissero: - Sta bene; va‟ pure, - gli scintillarono gli occhi dalla contentezza. Io tornai subito in
classe ad aspettare mio padre.
C'erano ancora quasi tutti. Mi sedetti accanto a Garrone. Non ero allegro, punto. Pensavo
che era l'ultima volta che stavamo un'ora vicini! Non glielo avevo ancor detto a Garrone che
non avrei più fatta la quarta con lui, che dovevo andar via da Torino con mio padre: egli non
sapeva nulla. E se ne stava lì piegato in due, con la sua grossa testa china sul banco, a fare
degli ornati intorno a una fotografia di suo padre, vestito da macchinista, che è un uomo
grande e grosso, con un collo di toro, e ha un'aria seria e onesta, come lui. Ma bisognava
pure che glielo dicessi una volta che dovevo andar via. Glielo dissi: - Garrone, quest'autunno
mio padre andrà via da Torino, per sempre. – Egli mi domandò se andavo via anch'io; gli
risposi di sì. - Non farai più la quarta con noi? - mi disse. Risposi di no. E allora egli stette un
po' senza parlare, continuando il suo disegno. Poi domandò senz'alzare il capo: - Ti
ricorderai poi dei tuoi compagni di terza? - Sì, - gli dissi, - di tutti; ma di te... più che di tutti.
Chi si può scordare di te? - Egli mi guardò fisso e serio con uno sguardo che diceva mille
cose; e non disse nulla, solo mi porse la mano sinistra, fingendo di continuare a disegnare
con l'altra, ed io la strinsi tra le mie, quella mano forte e leale.
In quel momento entrò in fretta il maestro col viso rosso, e disse a bassa voce e presto,
con la voce allegra: - Bravi, finora va tutto bene, tirino avanti così quelli che restano; bravi,
ragazzi! Coraggio! Sono molto contento. – E per mostrarci la sua contentezza ed esilararci,
uscendo in fretta, fece mostra d'inciampare e di trattenersi al muro per non cadere: lui, che
non l'avevamo mai visto ridere! La cosa parve così strana, che invece di ridere, tutti rimasero
stupiti; tutti sorrisero, nessuno rise. Ebbene, non so, mi fece pena e tenerezza insieme
quell'atto di allegrezza da fanciullo. Era tutto il suo premio quel momento d'allegrezza, era il
compenso di nove mesi di bontà, di pazienza ed anche di dispiaceri! Per quello aveva
faticato tanto tempo, ed era venuto tante volte a far lezione malato, povero maestro! Quello,
e non altro, egli domandava a noi in ricambio di tanto affetto e di tante cure! E ora mi pare
che lo rivedrò sempre così in quell'atto, quando mi ricorderò di lui, per molti anni; e se
quando sarò un uomo, egli vivrà ancora, e c'incontreremo, glielo dirò, di quell'atto che mi
toccò il cuore; e gli darò un bacio sulla testa.
Collodi
Pinocchio
Il giorno dopo Pinocchio andò alla scuola comunale.
Figuratevi quelle birbe di ragazzi, quando videro entrare nella loro scuola un burattino! Fu
una risata, che non finiva più. Chi gli faceva uno scherzo, chi un altro; chi gli levava il berretto
di mano; chi gli tirava il giubbettino di dietro; chi si provava a fargli coll‟inchiostro due grandi
baffi sotto il naso; e chi si attentava perfino a legargli dei fili ai piedi e alle mani per farlo
ballare.
Per un poco Pinocchio usò disinvoltura e tirò via; ma finalmente, sentendosi scappar la
pazienza, si rivolse a quelli, che più lo tafanavano e si pigliavano gioco di lui, e disse loro a
muso duro:
– Badate, ragazzi: io non son venuto qui per essere il vostro buffone. Io rispetto gli altri e
voglio essere rispettato.
– Bravo berlicche! Hai parlato come un libro stampato! – urlarono quei monelli, buttandosi
via dalle matte risate: e uno di loro, più impertinente degli altri allungò la mano coll‟idea di
prendere il burattino per la punta del naso.
Ma non fece a tempo: perché Pinocchio stese la gamba sotto la tavola e gli consegnò una
pedata negli stinchi.
– Ohi! che piedi duri! – urlò il ragazzo stropicciandosi il livido che gli aveva fatto il
burattino.
– E che gomiti!... anche più duri dei piedi! – disse un altro che, per i suoi scherzi sguaiati,
s‟era beccata una gomitata nello stomaco.
Fatto sta che dopo quel calcio e quella gomitata Pinocchio acquistò subito la stima e la
simpatia di tutti i ragazzi di scuola: e tutti gli facevano mille carezze e tutti gli volevano un
bene dell‟anima.
E anche il maestro se ne lodava, perché lo vedeva attento, studioso, intelligente, sempre il
primo a entrare nella scuola, sempre l‟ultimo a rizzarsi in piedi, a scuola finita.
Il solo difetto che avesse era quello di bazzicare troppi compagni: e fra questi, c‟erano
molti monelli conosciutissimi per la loro poca voglia di studiare e di farsi onore.
Il maestro lo avvertiva tutti i giorni, e anche la buona Fata non mancava di dirgli e di
ripetergli più volte: – Bada, Pinocchio! Quei tuoi compagnacci di scuola finiranno prima o poi
col farti perdere l‟amore allo studio e, forse forse, col tirarti addosso qualche grossa
disgrazia.
– Non c‟è pericolo! – rispondeva il burattino, facendo una spallucciata e toccandosi
coll‟indice in mezzo alla fronte, come per dire: «C‟è tanto giudizio qui dentro!».
Marcella Olschki
Terza liceo 1939
27 ottobre. La data, per il profano, non significa nulla. E invece, per noi ragazzi, essa
aveva un doppio significato: di gioia e di noia. Gioia, perché il giorno dopo sarebbe stata
vacanza; noia, perché una ricorrenza dal significato così profondo non avrebbe potuto
passare sotto silenzio, e a noi sarebbe stata inflitta la penosa anteprima della
commemorazione. Da tredici anni. Dalla prima elementare alla terza liceo. Ogni 27 ottobre, in
tutte le classi, si sarebbe improvvisamente aperta la porta, e dopo uno scambio di saluti col
professore seccatissimo per la lezione interrotta, il Preside si sarebbe seduto in cattedra e,
con aria solenne, avrebbe incominciato il discorso di rito. Lo avrebbe cominciato
invariabilmente col pronunciare una grande verità: “Domani è il 28 ottobre”. Questo 28
ottobre! Quanti discorsi, quante chiacchiere, quanta retorica per il 28 ottobre, e quanti temi.
Dal Come avete trascorso la giornata del 28 ottobre di seconda elementare, al Significato
storico ed etico della Marcia su Roma di terza liceo. Il Duce, il Duce, il Duce! Il 28 ottobre, il
28 ottobre, il 28 ottobre!
Quel 27 ottobre era un 27 ottobre come tutti gi altri dodici che lo precedettero. In classe le
attività erano scarse. Presto sarebbe entrati il Preside. La nostra lunga esperienza ce lo
diceva, e lo diceva anche al professore che traccheggiava perdendo tempo. Ogni tanto, nel
corridoio, sentivamo una porta aprirsi, lo scalpiccìo dei ragazzi che si alzavano in piedi, poi la
porta richiudersi. E aspettavamo il nostro turno. Il professore, che avrebbe avuto un
argomento interessante da trattare, sembrava assorbito in contemplazione di un registro
aperto ma per oggi non usato, qua e là si sfogliavano i giornali, qualcuno si puliva le unghie,
un altro incideva due iniziali e un cuore sul banco, la Lisetta e il Marco si scrivevano un
bigliettino.
L‟unico che come al solito non faceva assolutamente nulla era l‟Aulisi. L‟Aulisi era un
sognatore. Stava vicino alla finestra e la finestra era il suo regno. Si nascondeva un po‟
dietro la testa del compagno davanti, poggiava i gomiti sul banco, si prendeva la testa tra le
mani, guardava fuori e sognava. Dalla sua finestra si vedeva Piazza del Risorgimento. Il
giardino con i pini rachitici, le poche panchine, i bambini col cerchio, e poi, tutt‟intorno, le
case bianche, i balconi con le serve che battono i materassi, qualche gatto pigro, e giù in
piazza, ogni tanto, un‟automobile.
L‟Aulisi era la corrente di tutto quello che si svolgeva in Piazza del Risorgimento,
conosceva nomi e fisionomie, aveva simpatie e antipatie, sapeva perfino certi segreti che
nessuno avrebbe voluto fossero condivisi, e che aveva scoperto osservando giorno per
giorno le abitudini di certe persone.
Ma la gioia più grande era di alzare gli occhi verso i tetti. Posato lo sguardo lassù, l‟Aulisi
si sentiva allargare il cuore, dimenticava completamente dove si trovava, chi gli era accanto,
e non sentiva più nemmeno la voce monotona del professore che spiegava, spiegava,
spiegava. Lassù spiegava il volo dei piccioni, l‟incrociarsi dei passerotti, sapeva dove
avevano il nido le rondini; poi gli occhi si levavano ancora più in alto e si sperdeva con tutto
se stesso in contemplazione del cielo così azzurro e terso. E gli veniva da sorridere. Si
vedeva lassù e si sentiva tanto libero e tanto felice.
L‟Aulisi, quel 27 ottobre, era sul tetto. Sorrideva beato. Era ancora sul tetto quando entrò
rumorosamente il Preside, urtando la porta a vetri coi fianchi opimi, e vi rimase anche
quando si sentì in piedi nel banco e alzò il braccio destro nel saluto fascista. Non era, per
l‟Aulisi, giornata da discorso commemorativo. Quello era un autunno ricco e pieno e l‟Aulisi
quel giorno non chiedeva altro se non che lo lasciassero sognare. Fu felice quindi quando il
Preside si sedette pesantemente sulla poltrona dietro la cattedra, giungendo le mani alla
fronte per concentrare meglio il pensiero. Il professore gli stava accanto, sull‟attenti, perché
sapeva che si sarebbe parlato del Duce.
E il Preside, ahimè! incominciò a parlare. Abbracciando con lo sguardo tutta la classe, ci
annunciò che domani sarebbe stato il 28. E piano piano, presa la rincorsa iniziale, si lasciò
andare a scintillanti acrobazie retoriche, a voli pindarici meravigliosi, dimenticandosi di cosa
stesse parlando nell‟ebbrezza delle parole che sgorgavano facili per la lunga abitudine.
Come erano belle le immagini che la sua abilità oratoria creavano in noi! Evocato dalle sue
parole, vedevamo il corteo in camicia nera sfilare davanti ai nostri occhi, tutti questi begli
uomini dall‟aspetto virile e la faccia coraggiosa, il braccio destro perennemente levato in alto,
il sinistro sul cuore. E a poco a poco le camicie nere diventavano d‟oro, e gli uomini rudi
erano circondati da un alone e si moltiplicavano, diventavano centinaia, migliaia, milioni. E
qui, improvvisamente, nei nostri cervelli si formò il vuoto pneumatico. Come quando, la sera,
si cominciano a contare migliaia di pecore, e poi, tutt‟a un tratto, sopravviene il sonno.
Ma il Preside se ne accorse. Capì che si era troppo ubriacato di parole e aveva perso il
filo. Per noi, il filo si era spezzato. Allora il Preside tacque un momento soppesando il
significato di quaranta facce assenti. E in questo breve momento ritrovò il filo. Cambiò il tono
di voce che diventò tonante, colossale, e rimbombò nell‟aula silenziosa. Eravamo giunti al
momento della domanda retorica che, a quei tempi, segnava quasi sempre la fine del
discorso commemorativo. Tutta la classe fece qualche movimento. Ripresero i contatti
interrotti tra gli orecchi e il cervello: eravamo tutti presenti a noi stessi. Ma l‟Aulisi no. L‟Aulisi
era ancora sul tetto, coi passerotti sulle mani e le rondini sulle spalle. E non aveva la minima
intenzione di tornare in classe.
Il Preside rosso per lo sforzo, vibrò un terribile colpo sulla cattedra col pugno chiuso. Il
legno secco rispose come un tuono. “E come si chiama quest‟Uomo”, urlò – e pronunciò
bene l‟ “u” di uomo perché si capisse che era pensato con la maiuscola -, “quest‟uomo che
ha riportato le aquile romane in Roma?”. Pausa. Il compagno davanti all‟Aulisi si spostò un
pochino e si mise una mano sull‟orecchio. Il Preside sfondava i timpani.
“Come si chiama quest‟Uomo”, gridò di nuovo il Preside in un parossismo di fede, “che ha
portato l‟Italia al primo posto tra le nazioni del mondo?”. E a questo punto vide l‟Aulisi sereno,
sorridente, che guardava verso i tetti. Lo fissò. L‟Aulisi continuò a bearsi di sole, lassù in alto.
Il Preside si alzò in piedi, senza perdere d‟occhio l‟Aulisi. “Come si chiama quest‟Uomo”,
disse con la voce sprezzante che usava il Duce prima di buttarsi a capofitto, con un
crescendo potentissimo, nella frase finale, “quest‟Uomo che ha reso all‟Italia il suo Impero?”.
Puntò il dito fremente verso l‟Aulisi. “Come si chiama”? urlò. Nessuna risposta. “Come si
chiama?”, gridò ancora con la gola strozzata.
L‟Aulisi improvvisamente ruzzolò dal tetto. Spaventatissimo si ricordò di essere in classe,
vide il dito minaccioso, sentì l‟eco furibonda della domanda tonante. Si alzò in piedi, rosso,
confuso, sotto una nuova gragnuola di “Come si chiama? Come si chiama?”.
“Aulisi Gaetano”, rispose.
Rossana Rossanda
La ragazza del secolo scorso
Il 2 settembre 1939 non incrinò la mia adolescenza. Era la fine dell‟estate, eravamo in
montagna, i colori sfumavano dopo i temporali di mezzo agosto e scrutavamo i prati
aspettando gli ingannevoli colchici, segno che era ora di partire. Si consumavano i soliti
giorni quando la Germania si spartì con i russi la Polonia. La Polonia era lontana, l‟Urss
ancora di più, il Terzo Reich non eravamo noi.
L‟Italia parve tenersene fuori, non ricordo una mobilitazione né adunate a Milano o più
probabilmente non ci andammo. C‟erano sempre state sullo sfondo vociferazioni e qualche
impresa d‟armi, l‟Abissinia o la Guerra civile in Spagna, ma aquile e gagliardetti convivevano,
almeno nella piccola borghesia intellettuale, con la persuasione di vivere in un paese
secondo, del quale non potevano essere rilevanti né glorie né misfatti. Anche quella guerra
sarebbe passata tuonando all‟orizzonte.
E così in quell‟autunno del 1939 rifiutai di farmi invadere. Eppure l‟anno prima, sarà stato
novembre, la mia compagna di banco mi aveva detto: “Da domani non vengo più a scuola”.
Perché? “Perché sono ebrea”. Giorgina Moll si chiamava, aveva un bel viso quieto, era un
poco più grande di me, bruna e gentile.
Giorgina Moll non la vidi mai più. Mi dico, spero, che i suoi abbiano avuto il riflesso pronto,
sia andata via, fuori dall‟Italia. Che cosa dissero i professori di quei vuoti nei banchi? Niente.
Che cosa chiesi io? Niente. O furono domande e risposte elusive, di quelle che non restano.
Giovanni Mosca
Ricordi di scuola
Siete mai ritornati, da grandi, nella vostra antica scuola elementare?
Io sì, la rividi, l‟altr‟anno, dopo tanto tempo, la scuola dov‟ero stato prima alunno, e poi
insegnante: la bibliotechina, il salone, i maestri…
La bibliotechina sempre la stessa, con gli stessi libri ricoperti di carta canepina, e il titolo e
l‟autore scritti in bella calligrafia: “Ida Baccini – Tonino in calzoni lunghi”, “Emma Perodi – Le
novelle della Nonna”, “Collodi nipote – Sussi e Biribissi”, “Epaminonda Provaglio – Frullino,
ovvero la Trottola meravigliosa”. Libri mai letti, sempre desiderati, ma venivano dati in lettura
solo ai più bravi della classe, e io non ho mai potuto sapere chi fosse Frullino, e che cosa
facesse mai con quella sua trottola meravigliosa. Lo sapeva Maini, il mio compagno di
banco, che aveva dieci in condotta e nove in profitto, e ogni settimana leggeva, per premio,
un libro della bibliotechina.
“Chi è Frullino?”, gli domandavo. “Che fa con la trottola meravigliosa?”.
Ma chi ha dieci in condotta non parla mai con i compagni, e Marini non mi rispondeva; se
insistevo, alzava la mano e m‟accusava presso il maestro.
Oggi Marini fa il droghiere.
Qualche volta lo vado a trovare, mi riceve cordialmente, mi dà gratis un bicchiere di citrato
o un po‟ di polpa di tamarindo, ma non mi dice niente di Frullino e della trottola meravigliosa:
e adesso, non perché non me lo voglia dire, ma perché non se ne ricorda più.
E rividi il salone, il grande immenso salone, dove il giovedì, da scolaro, andavo cogli altri a
cantare „Fratelli d‟Italia‟. So come cantano i ragazzi: solo quelli delle prime file cantano
veramente; gli altri aprono semplicemente le bocche, senza cantare, e se il mastro,
sospettoso, li guarda, gli piantano in faccia, senza turbarsi, due occhi buoni e leali che
sembrano dicano: “Come! Non credi che io canti? Non vedi che apro la bocca come tutti gli
altri?”.
Ma com‟era divenuto piccolo, rivedendolo, il grande immenso salone! E come brutti,
miseri, i meravigliosi dipinti del soffitto e delle pareti!
Come mai?
Forse perché da bambini tutto sembra più grande, più bello; ma anche da maestro, fino a
pochi anni prima, il salone m‟era ancora parso immenso, e i dipinti meravigliosi, e il lume
pendente dal soffitto più splendido di quello di un teatro…
(nonna) Luigina Caponnetto
Appunti di scuola
1° OTTOBRE 1964
Un nuovo anno di lavoro incomincia e mi viene affidata la prima classe; ed eccomi dinanzi
una tenera schiera di bambine, dagli occhi luminosi di freschezza, nel primo importantissimo
incontro con un mondo nuovo: si guardano attorno, impaurite, timide, alcune sorridenti, vispe e
garrule. Qualche bambina arriva piagnucolando e stringe la mano della mamma che
l‟accompagna. C‟è in queste care bambine e nelle mamme che me le raccomandano un‟aria di
trepidazione che, in verità, mi commuove, anche se da anni assisto a quest‟incontro nuovo.
Queste bambine rappresentano un dono meraviglioso della vita. Le accolgo serenamente ed
affettuosamente una per una e lascio in questi primi giorni che ognuna si scelga il banco e la
compagna che desidera; procederò poi, nei giorni successivi, in relazione alla conoscenza dei
singoli elementi, ad assegnare il posto più idoneo alle esigenze di ciascuna bambina.
20 OTTOBRE 1964
L‟alfabetiere illustrato fissato alla parete in tutti i suoi quadri e in tutte le sue lettere, da me
preparato conforme a quello individuale, mi è di grande ausilio. Attacco ai vari oggetti dell‟aula
un cartoncino con il relativo nome. È una gara! Tutte vogliono parlare, scomporre, ricomporre.
Incollo sul banco di ciascuna bambina il cartoncino con il relativo cognome e nome. È una
sorpresa! Tutte vogliono imitare, ma ancora non ci siamo; sono geroglifici indecifrabili.
5 NOVEMBRE 1964
Viene la signora direttrice a visitare la classe. Le alunne sono tutte presenti; ben ravvivate e
col grembiule bianco e collettino rosa. Dai loro quaderni e dalle loro schede rileva il metodo
globale da me adottato e lo trova bene interpretato ed efficacemente applicato. Si compiace che
le bambine, a distanza di un mese di scuola, riescono già a scrivere e a leggere tutte le parole in
corrispondenza delle immagini e analizzano facilmente i nomi di ciascuna parola. Anche nel
calcolo trova che le bambine siano pronte e che si rendano conto del significato dei segni.
15 DICEMBRE 1964
Dopo quasi tre mesi di scuola il Natale arriva come una sosta di gioia, la più bella, la più
commovente, la più santa. È molto bello rinnovare con le mie scolarette la gioiosa e trepida
attesa delle feste natalizie, rivivere con loro le più sentite e suggestive tradizioni. In questi giorni
fervono i preparativi per la costruzione del presepe in classe. Le bambine sono entusiaste e ogni
giorno arrivano a scuola col materiale più vario da utilizzare. E mentre lavoriamo, si parla, si
commenta; il linguaggio si arricchisce…quanti nomi nuovi, quanti disegni, quante parole da
scrivere!
16 MARZO 1965
Oggi le bambine sono giunte a scuola scapigliate, eccitate, ridenti: il vento biricchino di marzo
le ha accompagnate in un giro scherzoso da casa a scuola, le ha investite con la sua ventata
ora lieve, ora violenta. Che vento! Esclamano alcune bambine entrando nell‟aula. Ascolto le
brevi e vive relazioni delle scolarette, guido la loro osservazione e cerco di approfondire le
scoperte, le conoscenze, spiegando loro che cos‟è il vento. Infine invito le bambine a costruire
una girandola per osservare il suo movimento provocato dal soffio del vento.
Stefano Benni
Saltatempo
Gli ultimi tre mesi del liceo studiai giorno e notte, da solo oppure con Fred e Tamara,
drogandomi con litri di caffè freddo. La nostra media di battiti cardiaci era quattrocento a
riposo. Baco prendeva una medicina che si chiamava Plegin, dava una gran spinta ma
anche effetti collaterali, tre ore di studio indefesso e una al cesso, e così via.
Del giorno della maturità ricordo poco. La nostra commissione era definita di media
carogne ria. Ricordo un professore siciliano che mi chiedeva di Pirandello e finì per parlare
sempre lui. Un‟insegnante di matematica piccola che sembrava lo gnomo del bosco, aveva
dei gran sbalzi di umore, comunque era più cattiva con le donne che con gli uomini. Io avevo
studiato e venni fuori da un‟equazione che cercava di dimostrare l‟unicità della Trinità. Poi
affrontai il prof di greco. Aveva una terribile fama e un aspetto spaventoso, col cranio pelato,
folte sopracciglia e una gran barba nera incolta. Sembrava il cattivo dei film di Charlot.
- Odissea – tuonò – libro sedicesimo da questo verso, legga, traduca e commenti.
Lessi, era l‟incontro tra Telemaco e Ulisse: leggendo vedevo ogni parola e ogni immagine,
la stanza scomparve, Itaca mi circondò con i suoi ulivi, vidi il mare di Cesenatico non avendo
mai visto quello greco. Mi sentii stanco come Ulisse, e felice come Telemaco.
- Adesso traduco? – dissi.
- No – rispose lui – mi è bastato sentire come ha letto.
E un grande sorriso si dipinse sul faccione da orco. Pensai, la scuola è noia supplizio e
cose che non resteranno, ma altre riaffioreranno un po‟ alla volta, e altre non le scorderai,
come questo momento di simpatia con un omaccio che conobbi per pochi minuti e non rividi
mai più.