Padre del ciel
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Padre del ciel
Padre del ciel Padre del ciel; dopo i perduti giorni, opo le notti vaneggiando spese Con quel fero desir che al cor s'accese Mirando gli atti per mio mal si adorni; Piacciati omai, co'l tuo lume, ch'io torni Ad altra vita et a più belle imprese; Sì ch'avendo le reti indarno tese Il mio duro adversario se ne scorni. Or volge signor mio, l'undecimo anno Ch'i'fui sommesso al dispietato giogo, Che sopra i più soggetti è più feroce. Miserere del mio non degno affanno; Reduci i pensier vaghi a miglior luogo; Rammenta lor com'oggi fosti in croce. Contesto: "In vita di Madonna Laura", secondo la ripartizione tradizionale. Il sonetto si finge scritto nel giorno di Venerdì santo 1338, undicesimo anniversario dell'incontro del P. con Laura. Mentre il Tassoni ebbe a scrivere, di questo sonetto: "Non è stato considerato dai raccoglitori delle poetiche spazzature, perché non parla d'amore ; ma di certo non è inferiore ad alcuno di quei che ne parlano", il Muratori giunse ad affermare: "Quanto più si andrà considerando, tanto più bello apparirà agli occhi delle persone intendenti). Commento metrico: Si tratta di un sonetto con schema ABBA ABBA CDE CDE (frequente, matrice stilnovista). Gli endecasillabi a maiori e a minori vengono ripartiti in maniera simmetrica (6 per categoria), mentre due versi rimangono ambigui (9 ; 14). Il verso 13 presenta una struttura anomala, con una non canonica finale tronca in quinta sillaba, giustificata dal traino dell'accento canonico di sesta, e magnificata dalla ripresa di uno schema metrico affine in nona e decima (pensier vaghi... miglior luogo). Gli accenti contingui in nona e decima sono d'uso in Dante, specie se interessano bisillabi, come in questo caso. Analisi dei versi: 1-4. Avvio d'orazione, immediatamente disatteso dalla sillaba tronca in quarta sillaba (ciel). Il P. si rivole a Dio, ma la sua non è una preghiera canonica. Chiede salvezza, e il termine della sua prova: l'iterazione della congiunzione dopo significa che è, per esso, giunto il momento di essere salvato, dopo il tempo perduto a "vaneggiare in compagnia di quel desio" (Lodovico Castelvetro). Mirando: "per il mirar ch'io feci" (Carducci), soggetto del gerundio (da intendere, toscanamente, anche quale participio presente) è il P ; gli atti per mio mal si adorni : id. le movenze, il comportamento di Laura, così aggraziati e piacevoli (cfr. CCLXX, 80) da indurre la mente del P. a vaneggiare e a dimenticarsi dell'amor sacro. Vedi anche: "La fera voglia che per mio mal crebbe" LXXIII, 3. 5-8. omai: da ricollegare a "dopo" dei vv. 1-2: è tempo che Dio finalmente soccorra il P. ; ad altra vita et a più belle imprese: a una vita posta sotto il segno della spiritualità e della ricerca del Vero ; il mio duro adversario: duplice interpretazione dei commentatori antichi ; sia esso l'amore (vd "Amor fra l'erbe una leggiadra rete / d'oro e di perle tese" CLXXXI) o il demonio (chiamato "avversaro" nella letteratura religiosa umbrotoscana del sec.XIII e cfr. anche "ti prego/ Che'l tuo nemico del mio mal non rida" nella Canzone alla Vergine CCCLXVI). Nè potrebbe essere argomento per propendere alla seconda ipotesi il verbo scornarsi, che significa "perdere le armi, la potenza". D'altronde amor profano e deviazione diabolica in questo componimento si sovrappongono per via logica. 9-11. Carducci sottolinea come questa prima terzina si colleghi tematicamente alla prima quartina, così come sono in corrispondenza gli altri due membri. Al dispietato giogo: all'amore per L., amore profano, trappola dell'anima e impedimento al raggiungimento della gloria dello spirito. Che sopra i più soggetti è più feroce: cfr. Dante, Vita Nuova XIII: "Non è buona la signoria d'amore perocché quando lo suo fedele più fede gli porta, tanto più gravi e dolorosi punti gli conviene passare". 12-14. Al tono quasi superbo che Petrarca impiega nella seconda quartina, risponde quello supplichevole della terzina di chiusura. Miserere: latinismo già caro a Dante, ben si pone musicalmente insieme al aggettivo mio, in un'alliterazione tipicamente petrarchesca (cfr. "e di me medesimo meco" - I) ; non degno affanno: duplice interpretazione dell'aggettivo degno ; può significare sia "immeritato" (Carducci), sia "indegno, perché avente origine da causa non degna dell'amor sacro"(juxta Tassoni) . Ora, il verso pare ricalcato dal virgiliano "Miserere animi non digna ferentis" Aen.II 144 (Pietà d'una anima che patisce tormenti immeritati), e, se il prestito è totale, allora si dovrà propendere per la prima soluzione. Scrive tuttavia Tassoni, a difesa della seconda: "Essendo cosa indegna che un'anima sia dallì'amore d'una creatura affannata, la quale tutta in quella del creatore dovrebbe essere immersa". E d'altronde come non ricollegare questo indegno ai perduti giorni del v.1? Nell'ottica del penitente, l'affanno è meritato, e anzi, tiene luogo di punizione al quale la salvezza non potrà che seguire. Reduci i pensier vaghi: "vago" è termine spiccatamente petrarchista (cfr. C, CVII, CXXIII, CXXIX, CLXI, CLXIX, CCLXXII etc.), ed è uno dei vocaboli simbolo della cosiddetta "poesia dell'indefinito", di matrice post stilnovista e che avrà suo estremo rappresentante e perfezionatore in Leopardi ; rieccheggia qui il tema della reductio ad unum di elaborazione neoplatonica. Rammenta lor etc.: fai tornare alla mente smarrita l'immagine del tuo tormento, estremo atto d'amore.