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NANNI AMBRA
ESOBIOLOGIA NEL SISTEMA SOLARE
Alla ricerca della vita
La ricerca esobiologica si è rivolta in primo luogo a scoprire la presenza d’acqua (elemento considerato
fondamentale per la vita) su pianeti e satelliti del nostro sistema solare.
Le prime attenzioni sono state rivolte a Marte fin dal 1878, anno in cui l’astronomo Giovanni
Schiapparelli osservò la presenza di canali attribuiti inizialmente a costruzioni artificiali a opera di
extraterrestri.
Nel 1976 le due sonde Viking effettuarono delle analisi chimiche e batteriologiche su alcuni campioni
di materiale prelevato dal suolo marziano che non rivelarono la presenza di batteri.
Nonostante questo, la ricerca di prove dell’esistenza di vita su Marte passata o presente continua: c’è,
infatti chi, come Thomas Gold, professore di astronomia alla Cornell University, ritiene che la vita su
Marte possa essersi sviluppata nelle profondità del pianeta, dove i microbi si sarebbero potuti
sostentare ossidando idrocarburi con l’ossigeno di rocce locali. I campioni analizzati dalle due sonde
furono, invece, estratti non in profondità, ma a pochi centimetri sotto la superficie in una zona
equatoriale probabilmente sterile in quanto esposta per milioni di anni alla radiazione ultravioletta.
Anche Derek Lovley, capo del dipartimento di microbiologia dell’Università del Massachusetts, ritiene
che la vita su Marte possa essere nata solo sotto la sua superficie. Partendo dal presupposto che soltanto
nel sottosuolo si può ipotizzare la presenza d’acqua, egli ritiene che possano sopravvivere
microrganismi in grado di prosperare in assenza di luce solare, sfruttando fonti energetiche alternative.
Una simile ipotesi è rinforzata dalla scoperta di microbi che vivono nella roccia 200 metri sotto la
superficie delle montagne dell’Idaho, ambiente completamente isolato dall’ecosistema terrestre, grazie
alla loro capacità di metabolizzare gas d’idrogeno e anidride carbonica dissolti nell’acqua producendo
metano.
Analisi si svolsero anche su un piccolo meteorite di origine marziana denominato ALH84001 rinvenuto
nel 1996 in Antartide: Colin Pillinger, ricercatore inglese della Open University (i cui scienziati furono
i primi a scoprire nel 1989 inclusioni di composti di carbonio in un’altra meteorite marziana chiamata
EETA 79001) presentò nel meeting di Londra tenutosi nel Novembre del 1996, misure che rivelarono
nel meteorite un bassissimo rapporto tra gli isotopi del carbonio 13 e quelli del carbonio 12 che
implicava la loro origine biologica come derivati del metano metabolizzato da microbatteri. I risultati
delle analisi sui meteoriti non costituirono, però, la prova dell’esistenza di microrganismi sul pianeta in
base alle obiezioni di ricercatori come Jeffrey Bada, geochimico di un istituto oceanografo di San
Diego, che dopo aver esaminato attentamente campioni dell’EETA 79001, concluse che esso era stato
probabilmente contaminato da composti derivati dall’attività di organismi terrestri. L’ipotesi della
contaminazione fu ritenuta probabile anche per l’ALH84001dato che il meteorite, analogamente
all’altro, aveva trascorso un lungo periodo nei ghiacci antartici prima di essere ritrovato.
Sono state elaborate ipotesi anche per quanto riguarda Venere: il pianeta è sicuramente privo
d’acqua in superficie dove raggiunge temperature di quasi 227 K ed è improbabile che vi siano riserve
sotterranee. Potrebbe essere presente sotto forma di vapore nell’atmosfera che un piccolo gruppo di
planetologi come David Grinspoon, del Southwest Research Institute di Boulder (Colorado), reputano
favorevole allo sviluppo di alcuni tipi di microbi e batteri. Il vapor d'acqua potrebbe condensare in
goccioline di dimensioni anche maggiori rispetto a quelle dell’atmosfera terrestre e restare in
sospensione per più tempo dato la densità dell'ambiente atmosferico e il regime dinamico più attivo.
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I batteri potrebbero essere autoctoni se si suppone che in passato il pianeta abbia conosciuto
temperature più favorevoli allo sviluppo della vita, o essere migrati sul pianeta dalla Terra o da Marte
con impatti meteoritici.
E’ inoltre appurato che alcuni batteri sono in grado di sopravvivere in ambienti fortemente acidi
(pH=0), simile a quello dell’atmosfera di Venere ricco di acido solforico. Esperimenti condotti sulle
nubi sopra le alpi, e altri gestiti da un team di ricercatori inglesi diretto da J. Narlikar e da C.
Wickramasinghe su campioni d’aria raccolti in volo in pallone stratosferico a 41 Km di quota in cui
erano stati isolati funghi e batteri viventi, hanno poi dimostrato la normale attività metabolica dei
batteri situati nel vapor d'acqua.
I batteri venusiani potrebbero derivare l'energia per la propria sopravvivenza dalla radiazione solare e
dai composti rilasciati nell'atmosfera dai vulcani: la grande variazione di diossido di solfuro
nell’atmosfera del pianeta, infatti, ha portato alcuni scienziati a ipotizzare che ce ne siano ancora
d’attivi.
Figura 1: immagine radar tridimensionale della superficie di Venere ripresa dalla sonda
Magellano: a destra si può vedere il vulcano Gala Mons, a sinistra il Sif Mons.
(tratta dal sito www.jpl.nasa.gov)
Sono state formulate ipotesi anche sui satelliti gioviani.
Per quanto riguarda Europa si ritiene che al suo interno possa essere presente l’acqua: la
densità media del satellite è, infatti, di 2,97 g/cm³, fatto che porta a pensare che esso sia costituito in
buona parte da questo elemento. La sonda spaziale Galileo ha rivelato, inoltre, che le correnti elettriche
indotte dal campo magnetico di Giove, causano una variazione nel campo magnetico di Europa, fatto
che porterebbe a postulare la presenza di un oceano salato all’interno del satellite in grado di funzionare
come conduttore d’elettricità. L’acqua sarebbe, quindi, presente in superficie allo stato solido a causa
della rigida temperatura superficiale, e forse in forma liquida sotto lo strato di ghiaccio, mantenuta in
questo stato dall’energia mareale di Giove, a cui il satellite è molto prossimo, o da attività vulcanica dei
suoi fondali. Osservazioni spettroscopiche in ultravioletto hanno rilevato, infatti, una debole atmosfera
di ossigeno, sodio e possibili bande d’assorbimento dell’anidride solforosa, attorno al satellite. Secondo
K. Noll della Space Telescope Science Institute, queste sostanze sarebbero emesse da geyser situati sui
fondali del satellite e riuscirebbero a risalire in superficie attraverso fessure del ghiaccio. L’ipotesi di
una attività vulcanica dei fondali dell’oceano di Europa, è stata rafforzata dall’osservazione
morfologica del pianeta grazie alle immagini ottenute con la sonda Galileo: la superficie presenta delle
striature scure, spesso disposte in due bande laterali, aventi bordi esterni irregolari, separate da una
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fessura più chiara (vedi figura 2). Questa morfologia fa pensare che il materiale che forma le striature
sia emesso dalla fessura centrale secondo un meccanismo di natura idrotermale. Sono inoltre presenti
delle formazioni circolari scure con cuore interno chiaro e in rilievo di 1-2 Km rispetto alla superficie
media che fanno pensare a un analogo su Europa dei soffioni d’aria surriscaldati presenti negli oceani
terrestri. Se in queste condizioni si fossero sviluppate delle forme di vita sui fondali del satellite,
sarebbero forse simili ad alcuni invertebrati che vivono nelle profondità marine terrestri proprio vicino
a zone vulcaniche e tettonicamente attive che sfruttando il calore geotermico e la simbiosi con
particolari batteri, ricavano l’energia per sopravvivere dai gas sulfurei.
Se poi la vita fosse appena sotto lo strato di ghiaccio, troveremmo forse microrganismi anaerobi (cioè
in grado di sopravvivere in assenza d’ossigeno) analogamente a quanto avviene nell’ambiente sotto la
calotta artica.
Alcuni scienziati, come Brad Dalton della NASA Ames Research Center, pensano poi che possano
sopravvivere dei microrganismi all’interno della crosta di ghiaccio. Questa ipotesi è stata formulata
dopo aver confrontato lo spettro infrarosso del ghiaccio d’Europa e quello emesso da microrganismi
che vivono in acque calde nel parco Nazionale di Yellowstone, e aver notato la loro somiglianza.
Tuttavia i batteri che vivono nel parco sfruttano il processo fotosintetico per procurarsi l’energia
necessaria per la sopravvivenza e non possono, per questo motivo, esseri simili a quelli che potrebbero
eventualmente vivere su Europa data la lontananza del pianeta dal sole. Successivamente Dalton
osservò anche lo spettro di due tipi di batteri estremofili (il Deinococcus radiodurans e il Solfolobus
shibatae) posti in condizioni ambientali simili a quelle d’Europa, mostrando correlazioni tra questo
spettro e quello del satellite. Nonostante la loro capacità d’adattamento a condizioni particolarmente
inospitali, questi batteri non sarebbero comunque in grado di sopravvivere nell’ambiente d’Europa; sul
satellite potrebbero essersi sviluppate forme di vite batteriche simili a queste aventi uno spettro
infrarosso analogo. Questo risulta ragionevole se si pensa che gli estremofili emettono uno spettro
infrarosso simile a quello del batterio Escherichia coli che vive in condizioni ambientali molto diverse.
Inoltre la colorazione rosa e marrone di alcuni batteri estremofili potrebbe giustificare la colorazione
delle fratture della superficie del pianeta.
Figura 2: Europa con zumata della superficie
(immagine tratta dal sito www.jpl.nasa.gov)
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Anche Callisto si è rivelato simile ad Europa per quanto riguarda la possibilità che esista un
oceano di acqua salata sotto la crosta di ghiaccio che lo ricopre: una sostenitrice di questa teoria è la
Dottoressa. Margaret Kivelson, professoressa di fisica spaziale all’Università di Los Angeles e
principale studiosa delle misure del magnetometro sulla sonda spaziale Galileo. La sonda ha infatti
rivelato che, come per Europa, le correnti elettriche indotte dal campo magnetico di Giove che
fluttuano nelle vicinanze di Callisto causano una variazione del campo magnetico dello stesso. Dato
che non è possibile che il campo magnetico si generi dall’atmosfera estremamente rarefatta o dalla
crosta di ghiaccio che è un cattivo conduttore di elettricità, si pensa che ci debba essere uno strato di
ghiaccio sciolto e salato all’interno del satellite.
Questa scoperta non porta però a formulare ipotesi riguardo un possibile sviluppo di forme di vita
all’interno del satellite, in quanto requisiti fondamentali per lo sviluppo della vita sono la presenza di
acqua e di fonti d’energia e, sebbene la prima condizione sia forse soddisfatta, non lo è, per ora, la
seconda poiché Callisto non risente, come Europa, degli effetti mareali di Giove a causa della grande
distanza pianeta-satellite e non vi sono fenomeni di radioattività al suo interno.
Ganimede, invece, ha una densità di 1,94 g/cm³ che fa dedurre che la sua composizione sia per
il 60% di rocce e per il 40% d’acqua. Le misure di J.Anderson indicano la presenza di un nucleo
metallico, di un mantello roccioso e di un guscio esterno formato da ghiaccio. Il pianeta presenta un
suo campo magnetico oltre a quello secondario indotto da Giove, che si potrebbe giustificare solo
postulando un oceano salato più conduttivo del ghiaccio solido. Questo spiegherebbe anche la presenza
di minerali sulla superficie del satellite che farebbe pensare a una passata emersione in superficie di
acqua salata. Secondo Dave Stevenson, planetologo della California Istitute of Tecnology, l’oceano
sarebbe compreso tra due distese di ghiaccio, estendendosi circa da 150 a 200 Km sotto la superficie e
potrebbe mantenersi liquido grazie alla radioattività dell’interno roccioso del satellite o a ripetuti
fenomeni di riscaldamento mareali dovuti all’interazione con Giove.
Scoperte interessanti riguardano anche un satellite di Saturno: Titano. L’atmosfera del pianeta è
formata prevalentemente d’azoto e da idrocarburi che costituisco i mattoni per la formazione di
aminoacidi che sono alla base della vita. Il materiale organico si formerebbe da derivati del metano che
vengono distrutti dai raggi ultravioletti del sole e reagiscono con altre molecole presenti nell’atmosfera,
precipitando sulla crosta ghiacciata. Alcuni scienziati ritengono che l’ambiente del pianeta sia simile a
quello della Terra prima che iniziasse la vita.
Da dove viene la vita?
Alcuni studiosi come Joan Orò ipotizzano che siano le comete ad aver portato sulla Terra e magari
anche su altri pianeti i precursori delle biomolecole. Tale ipotesi è stata confermata da analisi condotte
sulle comete Halley e Hall-Bopp che hanno rivelato la presenza all’interno del loro nucleo di ossido di
carbonio, cianuro d’idrogeno, metanolo, formaldeide, e molti altri composti ricchi di carbonio che
sembra essere alla base dell’origine della vita.
Recenti esperimenti di laboratorio hanno mostrato, inoltre, come gli impatti con comete possano aver
fornito alla Terra non solo le molecole organiche iniziali, ma anche l’energia necessaria per l’innesco di
reazioni chimiche alla base dello sviluppo della vita. Gli esperimenti di laboratorio sono stati condotti
riempendo un contenitore con una miscela di gas in percentuali analoghe a quelle che si pensa fossero
presenti nell’atmosfera primordiale terrestre e bombardandola con una serie ripetuta di impulsi laser
che hanno fatto raggiungere al gas nella zona colpita dalla radiazione, temperature di poco superiori ai
10.000°C. Dopo questa prova, oltre ai composti originari, sono stati trovati nel contenitore molecole
complesse alcune delle quali appartenenti alla classe di composti delle ammine. Ciò fa pensare che in
una situazione analoga, in cui una cometa formata da gas allo stato di plasma interagisce con
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l’atmosfera terrestre, molto più fredda, potrebbero anche essersi formati gli amminoacidi, composti alla
base dello sviluppo della vita.
Figura 3: immagine della cometa Hall-Bopp
(Tratta dal sito www.astrosurf.com/prosperi/immagini.htm)
Bibliografia
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Articolo “Vita Marziana tra pro e contro” di Corrado Lamberti tratto da “L’astronomia” n° 176,
Maggio 1997;
Articolo “Impatti vitali” di Mario Di Martino tratto da “L’astronomia” n° 181, Novembre 1997;
Articolo “Il primo anno attorno a Giove” di Cesare Guaita tratto da “Nuovo Orione” n° 59, Aprile
1997;
Articolo “L’oceano nella luna di Giove” di Roberto Vanzetto tratto da “Il Cielo” n° 10, Giugno
1997;
Articolo “Da Marte a Europa” di Julian Chela-Flores e Fabio Pagan tratto da “Coelum” n° 1,
Settembre 1997;
Articolo “I microbi di Venere” di Corrado Lamberti tratto da “Le Stelle” n° 5, Marzo 2003;
Articolo “Il gelido destino di Callisto” di Corrado Lamberti tratto da “Le Stelle” n° 5, Marzo 2003;
Articolo “La vita su Marte pare sempre più possibile” di Davide De Martini, 17 Gennaio 2002
tratto da www.coelum.com/notizie/200201/vita/vita.htm;
Articoli tratti dal sito www.astrobio.net:
-“Solar system’s largest moon likely has a hidden ocean” (text base on NASA/JPL Press release);
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-“Life down under” (text besed on a SETI Institute press release);
-“Evidence of bacteria on Europa?” di Leslie Mullen;
-“Titan’s icy bedrock” (based on U. Arizona report);
-“Jupiter’s moon Callisto may hide salty ocean” di Douglas Isbell;
Articoli tratti dal sito www.jpl.nasa.gov:
-“Solar system exploration bodies Saturn moons Titan” di Calvin J. Halmilton;
-“Solar system exploration bodie :Venus”.
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