criteri imputazione soggettiva

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criteri imputazione soggettiva
Laura Pepe
Università degli Studi di Milano
I criteri di imputazione soggettiva del reato di omicidio nel diritto greco
SOMMARIO: 1. Il “diritto greco” e il “reato di omicidio”. – 2. Il lessico greco della “volontarietà”: alcune puntualizzazioni. – 3. L’elemento soggettivo nella legge di Draconte: terminologia. – 4. Il phonos ek pronoias: premeditazione, harmful intent, dolo? – 5. Uccidere in the heat of the moment. – 6. Il
caso del lanciatore di giavellotto: tra colpa e responsabilità oggettiva. – 7. Conclusioni.
1. Il “diritto greco” e il “reato di omicidio”
Il titolo di questo contributo, che si uniforma a quello degli altri presenti in questo volume, rende indispensabile almeno due puntualizzazioni preliminari. La prima di queste è relativa all’ambito di indagine, che non riguarda, né in questo specifico caso può riguardare, il
“diritto greco” nel suo complesso. In termini del tutto generali, infatti – la questione è estremamente controversa, e per evidenti ragioni in questa sede a essa sarà fatto soltanto un cenno
– , è da segnalare innanzitutto la difficoltà di concepire l’esistenza di “un” diritto greco, comune a tutte le poleis. Chiuse nel loro particolarismo, che rese impossibile il formarsi di
un’unità di tipo nazionale almeno per tutta l’età classica, le poleis avevano ordinamenti e istituzioni peculiari, che, se in alcuni casi presentano somiglianze significative ai fini
dell’individuazione di una unitarietà anche di tipo giuridico (in favore della quale parrebbe
peraltro deporre l’affermazione erodotea circa l’esistenza in Grecia di comuni ēthea, “costumi”, e dunque, verosimilmente, anche leggi1), d’altro canto mettono altresì in luce differenze
marcate, tali per cui parlare di un diritto comune sembra a molti alquanto azzardato2. In
un’ottica ristretta al campo di indagine in oggetto, poi, è da segnalare che soltanto per Atene è
possibile ricostruire in modo compiuto una disciplina nel suo complesso abbastanza organica,
1
Hdt. 8.144: τὸ Ἑλληνικόν, ἐὸν ὅµαιµόν τε καὶ ὁµόγλωσσον, καὶ θεῶν ἱδρύµατά τε κοινὰ καὶ θυσίαι ἤθεά τε
ὁµότροπα, «la Grecità, che è comunanza di sangue e di lingua, che è comuni santuari degli dei e riti e costumi
affini».
2
Su questa vexatissima quaestio è tornato di recente, nel corso dell’ultimo Symposion of Greek and Hellenistic
Law tenutosi ad Harvard nell’agosto 2013, PHILLIPS, forth. (a), il quale – dopo una veloce disamina iniziale dello
status quaestionis – ha mostrato che in taluni casi, come per esempio in relazione alla hybris, da considerare quale categoria di diritto sostanziale, parlare in termini unitari e comuni di “diritto greco” è senz’altro plausibile (per
la possibilità che l’unità del diritto greco possa trovare invece una sua giustificazione in ambito procedurale,
piuttosto che sostanziale, vd. GAGARIN, 2005). A partire dalla contrapposizione tra MITTEIS, 1891, fautore della
unitarietà del diritto greco, e FINLEY, 1966, tra i principali e più agguerriti esponenti della corrente opposta, in
Italia la diatriba ha suscitato un ampio dibattito, che ha visto tra i suoi principali protagonisti, tra i primi, TALAMANCA, 1981 (per il quale «la portata della rilevazione di coincidenze e di convergenze va […] precisata in funzione dell’ulteriore accertamento delle loro cause e non si può negare a essa un valore descrittivo delle uniformità riscontrabili nelle risposte date, sul piano giuridico, a determinate esigenze della pratica: sarebbe però erroneo
scambiare questo valore descrittivo con l’accertamento di una cosciente riflessione dogmatica, di cui,
nell’esperienza greca, mancano i presupposti», p. 17), e BISCARDI, 1982, p. 7 ss. (convinto assertore della esistenza di un «fondo culturale unitario» il quale «non poteva non riflettersi in alcuni principi di base, comuni ai
pur diversi ordinamenti giuridici», p. 9; e vd. anche BISCARDI, 1979). Per ulteriori indicazioni bibliografiche vd.
STOLFI, 2006, p. 193 ss.
1
anche se poi non del tutto chiara in alcuni dei suoi dettagli: il “diritto greco” di cui si tratterà
qui sarà, pertanto, il solo diritto ateniese3.
A regolamentare l’omicidio (phonos) ad Atene fu Draconte, il primo legislatore della
città, che sul finire del VII secolo – nel 621/0 a.C. secondo la datazione tradizionale4 –, diede
alla sua polis delle leggi scritte destinate a rimanere in vigore molto a lungo, almeno fino al
IV sec. a.C. Di tali leggi abbiamo notizia grazie alle disparate informazioni fornite da fonti
indirette, in particolare alcune orazioni giudiziarie, ma anche e soprattutto grazie a un documento di fondamentale importanza rinvenuto casualmente intorno alla metà del 1800: si tratta
di una stele marmorea, conservatasi sostanzialmente integra perché riutilizzata in età medievale per la costruzione di un edificio, sulla quale, per il vero soltanto qualche tempo dopo il
suo ritrovamento, si scoprì essere stata ritrascritta, circa duecento anni dopo la sua prima
promulgazione, proprio la legge draconiana sull’omicidio (per la precisione, la ritrascrizione
venne effettuata nel 409/8 a.C.)5.
La seconda precisazione riguarda invece l’incongruità dell’espressione “reato di omicidio”, presente nel titolo dei diversi contributi di questo volume, rispetto al “diritto greco”, rectius attico. In effetti, al phonos, così come disciplinato ad Atene, non può essere applicata la
nostra definizione di “reato” quale «comportamento umano che, a giudizio del legislatore,
contrasta coi fini dello Stato ed esige come sanzione una pena (criminale)»6. È opportuno in
primis specificare che nel diritto attico non esiste nulla di simile alla nostra distinzione sostanziale tra illecito penale e illecito civile, o più in generale extra-penale7, ma esiste piuttosto
una distinzione procedurale che trova il suo fondamento nella particolare tipologia di azione
utilizzata: a tal riguardo, l’illecito è qualificato come “pubblico” quando l’azione disponibile
per perseguirlo è una graphē, la cui caratteristica essenziale consiste nel fatto che essa può essere esperita da qualunque cittadino lo desideri (ho boulomenos); al contrario, l’offesa è qualificata come “privata” quando l’azione, detta dikē, può essere intentata soltanto dalla vittima
ovvero, in casi particolari, da un parente stretto in qualità di rappresentante8. Ora, l’azione per
3
Nulla è noto circa la disciplina dell’omicidio a Gortina, la città cretese sul cui diritto siamo meglio informati,
dopo Atene, grazie all’imponente iscrizione (la cosiddetta “Grande Epigrafe”, pubblicata da GUARDUCCI, 1950,
su cui vd. per tutti MAFFI, 1997) che contiene, tuttavia, disposizioni relative al solo diritto di famiglia. Qualche
notizia relativa a leggi sull’omicidio è riferita a proposito dei più antichi legislatori magnogreci e sicelioti, benché sia poi arduo, considerata tanto la tipologia quanto la natura delle fonti disponibili, ricostruirne in modo attendibile il contenuto: al riguardo vd. PEPE, 2007, p. 28 ss.
4
Cfr. Arist. Ath. Pol. 4.1 (ove punto di riferimento temporale per la datazione della legislazione draconiana è
l’arcontato di Aristecmo); Eus. Chron. 90 Schoene (ove invece l’indicazione è fornita tramite il rimando alla
successione delle Olimpiadi).
5
Per i dettagli circa il ritrovamento, la lettura e le edizioni dell’epigrafe vd. STROUD, 1968, p. 1 ss., nonché, per
la bibliografia più recente, PEPE, 2012a, p. 7 ss. L’iscrizione è riportata in IG I3.104.
6
ANTOLISEI, 1991, p. 152. Per la problematica sottesa alla possibile definizione di “reato” vd., inoltre, FIANDACA, MUSCO, 2008, p. 145 s., secondo cui è opportuno integrare la definizione formale di reato («ogni fatto umano cui la legge ricollega una sanzione penale») con una definizione sostanziale, la quale si sforzi di individuare
le ragioni che inducono a considerare criminoso un dato atteggiamento; in tal senso esso potrebbe essere definito
quale «fatto umano che aggredisce un bene giuridico ritenuto meritevole di protezione da un legislatore che si
muove nel quadro dei valori costituzionali, sempreché la misura dell’aggressione sia tale da far apparire inevitabile il ricorso alla pena e sanzioni di tipo non penale non siano sufficienti a garantire un’efficace tutela» (p. 148).
7
Per la non pacifica individuazione dei criteri che consentano tale distinzione vd., e plurimis, ANTOLISEI, 1991,
p. 153 ss., nonché (per i peculiari aspetti sostanziali, teleologici e formali che distinguono i reati da ogni altro
fatto illecito), RANIERI, 1968, p. 118 ss.
8
Per i motivi della distinzione tra graphai e dikai e le principali differenze tra i due tipi di azione vd., da ultimo,
PELLOSO, forth.
2
omicidio – a quanto pare ascrivibile proprio al succitato Draconte – era una dikē – il suo nome
era dikē phonou –, e dunque un’azione privata9, tesa a reprimere un comportamento considerato lesivo di un interesse non già collettivo ma, quando non individuale, familiare, o per meglio dire genetico, relativo cioè al genos (il gruppo familiare allargato al quale tutti i cittadini
appartenevano): tutto questo, come ben si vede, impedisce a rigore di parlare del phonos come
di un “reato”, dovendosi preferire per esso l’espressione più generica di “illecito”; va da sé
che l’utilizzo del termine “reato” per indicare l’omicidio è possibile purché si tenga presente
che esso ha valenza atecnica, e non pretende di esprimere una definizione circa la sostanza del
phonos.
2. Il lessico greco della “volontarietà”: alcune puntualizzazioni.
Questa indispensabile precisazione terminologica e concettuale, tesa a mettere in luce
l’impossibilità di una omologazione tra l’oggi e l’antichità greca in relazione alla natura
dell’omicidio, serve anche ad aprire uno squarcio sulla difficoltà in termini ben più generali di
un tale confronto: è necessario infatti prendere atto della profonda diversità tra le – lato sensu
– “categorie di pensiero” delle due culture. Una diversità che, tra l’altro, investe nello specifico anche, se non soprattutto, proprio il tema dei criteri di imputazione soggettiva.
Come è ben noto, gli articoli 42 e 43 del nostro codice penale sembrano individuare tre
criteri di imputazione soggettiva: il dolo (il delitto «è doloso, o secondo l’intenzione, quando
l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa
dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della
propria azione od omissione»); la preterintenzione (il delitto «è preterintenzionale, o oltre
l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente»); la colpa (il delitto «è colposo, o contro l’intenzione, quando
l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o
imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline»).
Non spetta naturalmente a me entrare nel merito della questione se sia davvero possibile considerare la preterintenzione – sostanzialmente contemplata in riferimento al solo delitto di
omicidio – come forma intermedia tra dolo e colpa, o se non sia piuttosto più corretto parlare
di un criterio bipartito tra dolo e colpa10.
9
Per la dikē phonou rimane fondamentale lo studio di TULIN, 1996; e cfr. anche RIESS, 2008, p. 91. Alcuni studiosi, per il vero, anche sulla scorta dell’informazione tradita in Poll. 8.40 (ove si parla di γραφαὶ δὲ φόνου), credono nell’esistenza ad Atene di un’azione pubblica, che autorizzerebbe dunque a parlare dell’omicidio come di
un vero e proprio reato (in tal senso, con un accenno sporadico e isolato, BEAUCHET, 1897, p. 453 e, più diffusamente HANSEN, 1976, p. 108 ss., quindi HANSEN, 1981, part. p. 13 ss., in risposta ai – a mio avviso fondatissimi – dubbi circa l’esistenza di tale graphē espressi da GAGARIN, 1979, part. p. 322 s.).
10
A favore della seconda possibilità vd., e.g., ANTOLISEI, 1991, p. 343: «a nostro modo di vedere, non è in alcun
modo possibile considerare la preterintenzione come una forma intermedia tra il dolo e la colpa e ciò per la ragione decisiva che tra volontà dell’evento e mancanza di tale volontà tertium non datur. Del resto, se si esamina
l’unico delitto preterintenzionale esistente nel nostro codice, si scorge agevolmente che si tratta di un delitto doloso, in quanto l’agente ha voluto un certo risultato, e cioè la percossa o la lesione personale»; contra, tuttavia,
CARACCIOLI, 2005, p. 309 ss.: «la norma sull’omicidio preterintenzionale è […] una norma molto rigida e severa, che attribuisce a titolo di responsabilità oggettiva l’evento morte a chi ha realizzato soltanto atti (anche “non
idonei” ed “equivoci”) diretti a percuotere o ledere» (p. 310); e vd. anche FIANDACA, MUSCO, 2008, p. 636 ss.,
che parla di “responsabilità mista”: «il delitto preterintenzionale non delinea un nuovo modello di responsabilità,
ma costituisce piuttosto un’ipotesi di dolo misto a responsabilità oggettiva» (p. 637). Per una disamina della questione, con critiche all’ipotesi dell’appiattimento della preterintenzione sul dolo, vd. GAROFOLI, 2003, p. 616 ss.
3
Quel che desidero sin da ora sottolineare è il fatto che i concetti di “dolo” e “colpa” –
oggetto di approfondita indagine da parte dei giuristi romani tanto in relazione ad alcuni delicta, tra cui in particolare il damnum iniuria datum, quanto in relazione alla responsabilità contrattuale11 – sembrano essere a tutta prima difficilmente ravvisabili in una forma mentis, qual
è quella greca, notoriamente non giuridica12. Ovviamente, già nell’esperienza attica la responsabilità soggettiva è un punto riconosciuto e imprescindibile, che funge da criterio fondamentale per la commisurazione della pena: in relazione al principio di colpevolezza, Demostene
ricorda che nelle leggi di Atene la sanzione da irrogare a chi ha commesso l’illecito dipende
dalla gravità dell’illecito stesso, gravità che è a sua volta definita dal “motivo” (prophasis) –
termine che nel contesto è da riferire tanto alla circostanza contingente, quanto anche più specificamente all’atteggiamento soggettivo – che ha determinato l’azione dell’agente13. E Aristotele apre la propria disamina su “volontarietà” e “involontarietà” nell’Etica a Nicomaco ricordando come la definizione dei due concetti sia massimamente utile ai legislatori, che proprio tenendo conto della loro presenza devono adeguare le sanzioni14. Va tuttavia rimarcato
come al lessico greco manchino tanto dei termini capaci di individuare in modo univoco e
tecnico qualcosa di equiparabile a ciò che noi intendiamo con “dolo” e “colpa”, quanto anche quella specifica idea di “intenzione” – e in senso più lato di “volontà” – che contraddistingue, tanto nei termini positivi del “secondo intenzione” quanto in quelli negativi del “contro intenzione”, il “dolo” e la “colpa”.
11
Per la scarsa elaborazione dei concetti di dolo e colpa nella disciplina romanistica dell’omicidio dalla lex Numae alla lex Cornelia de sicaris et veneficis, vd. il contributo in questo volume di Fabio Botta.
12
Sulla «mancanza di un’elaborazione teorica e di una riflessione scientifica» nell’esperienza giuridica greca
(così TALAMANCA, 1981, p. 19), e sul diritto greco che si caratterizza come «un diritto senza giuristi» (così
CANTARELLA, 1994, p. 14 ss.), benché poi «il fatto che non sia mai esistita una scienza del diritto non significa
per niente la mancanza di una coscienza giuridica» (BISCARDI, 1982, p. 13), vd. tra i molti, oltre agli studiosi già
citati in questa nota, CALHOUN, 1944, p. 1 ss.; JONES, 1956, p. 68 ss.; TRIANTAPHYLLOPOULOS, 1985, p. 31 ss.
13
Dem. Aristocr. 50: πανταχοῦ τὴν πρόφασιν βεβαιοῦσαν τὸ πρᾶγµ’ εὑρήσοµεν, «in ogni caso troveremo che è
la prophasis a determinare i fatti»; prophasis è da alcuni tradotto con “intenzione” (così per esempio in CANFORA, 2000, p. 233; e vd. anche HUMBERT, GERNET, 1959, p. 122: «l’intention comme élément constitutif du délit»), ma in modo a mio giudizio impreciso, e non solo perché, come si vedrà poco oltre nel testo, il lessico greco
manca di un termine indicante in modo univoco ciò che noi intendiamo con “intenzione”, quanto piuttosto perché prophasis è innanzitutto il “motivo” che determina l’azione (vd. LSJ s.v. πρόφασις, II, «motive […] whether
alleged or not»; cfr. infatti la traduzione di VINCE, 1986, p. 245: «motive that fixes the character of the act»), e
che può riguardare tanto le circostanze oggettive quanto l’atteggiamento soggettivo, come si può chiaramente
inferire dalla serie di esempi che Demostene (ibid.) adduce prima di rendere tale dichiarazione. Così, la prophasis si riferisce in primis a delle circostanze esterne quando l’oratore ricorda che non commette ingiustizia chi
risponde a un attacco altrui, mentre la commette chi aggredisce per primo (ἄρχων χειρῶν ἀδίκων); nello stesso
senso va inteso il riferimento a chi oltraggia se dice il falso, mentre è giustificato se dice il vero (“ἄν τις κακῶς
ἀγορεύῃ”, “τὰ ψευδῆ” προσέθηκεν, ὡς, εἴ γε τἀληθῆ, προσῆκον). Al contrario, nei due esempi successivi, relativi il primo all’omicidio e al suo diverso trattamento qualora esso venga commesso “volontariamente” o “involontariamente” (“ἄν τις ἀποκτείνῃ,” “ἐκ προνοίας”, ὡς, εἴ γ’ἄκων, οὐ ταὐτόν), il secondo al danneggiamento
“volontario e ingiusto” (“ἄν τις καταβλάψῃ τινά”, “ἑκὼν ἀδίκως”), la prophasis rimanda senz’altro all’elemento
soggettivo. Per una simile indicazione del rapporto tra pena e principio di colpevolezza cfr. anche Dem. Cor.
274-5.
14
Arist. EN 1109b30-35: τῆς ἀρετῆς δὴ περὶ πάθη τε καὶ πράξεις οὔσης, καὶ ἐπὶ µὲν τοῖς ἑκουσίοις ἐπαίνων καὶ
ψόγων γινοµένων, ἐπὶ δὲ τοῖς ἀκουσίοις συγγνώµης, ἐνίοτε δὲ καὶ ἐλέου, τὸ ἑκούσιον καὶ τὸ ἀκούσιον
ἀναγκαῖον ἴσως διορίσαι τοῖς περὶ ἀρετῆς ἐπισκοποῦσι, χρήσιµον δὲ καὶ τοῖς νοµοθετοῦσι πρός τε τὰς τιµὰς καὶ
τὰς κολάσεις, «poiché la virtù riguarda passioni e azioni, e poiché lodi e biasimi sono rivolti a quelle volontarie,
mentre a quelle involontarie si dà perdono e talvolta anche pietà, distinguere il volontario e l’involontario è necessario per chi considera la virtù, ed è utile per i legislatori per l’attribuzione di onori e pene». Per la traduzione
puramente convenzionale di to hekousion e di to akousion con “volontarietà” e “involontarietà” vd. infra, nel testo.
4
A questo proposito sono ancora una volta opportune due puntualizzazioni. Innanzitutto,
bisogna almeno accennare al carattere “intellettualistico” del lessico greco dell’azione15: là
dove ci si aspetterebbe di trovare una espressione di “volere” non è raro incontrare un termine
relativo al “sapere”, di modo tale che la volontarietà si risolve spesso in una conoscenza, mentre per converso la involontarietà finisce per coincidere con una ignoranza. Tale principio è
per esempio sotteso al motto socratico houdeis hekōn examartanei (nemo sua sponte peccat
nella variante latina), in cui è condensata l’idea che, posta l’identificazione socraticoplatonica tra virtù e conoscenza del bene, e posta altresì la necessità che alla conoscenza del
bene faccia seguito il suo raggiungimento, chi fa del male agisce involontariamente, per ignoranza del bene16. Esso è altresì illustrato – ma in polemica con le posizioni socraticoplatoniche17 – da Aristotele nella già citata Etica a Nicomaco, l’opera nella quale sono elaborate le più esaustive definizioni di ciò che è hekousion e di ciò che è akousion18, “volontario”
e “involontario” (adottiamo tale traduzione convenzionale, anche se approssimativa, degli aggettivi greci, sul cui valore ci si soffermerà più a lungo tra breve). “Involontario” (rectius,
akousion) – dice lo Stagirita – non è solo ciò che l’individuo commette per violenza o costrizione esterna (bia), ma anche quanto egli pone in essere per ignoranza (agnoia)19; per contro,
“volontario” (o meglio hekousion) è ciò che ha il suo principio in un individuo che “conosce”
(eidoti) i singoli aspetti dell’azione20.
In secondo luogo, i significanti hekousios e akousios (ovvero, rispettivamente, hekōn e
akōn, loro varianti con valore predicativo), che nel diritto attico, e più in generale nel diritto
greco, vengono comunemente intesi come “volontario” e “involontario”, non hanno propriamente – come già si accennava – questo significato. Si può in effetti affermare che una traduzione esatta e corretta di questi termini, nella nostra o in altre lingue contemporanee, non esiste, sia per il fatto che essi rimandano a un concetto che non è del tutto sovrapponibile a quello moderno, sia, soprattutto, per l’inesistenza presso i Greci di una concezione di intenzione e
15
Sul punto vd. soprattutto VERNANT, 1976, p. 42.
Cfr. Plat. Apol. 26a; Prot. 345e; Gorg. 488a, 509e; Resp. 336e; Leg. 734b, 860d; Tim. 86d-e; cfr. anche Xen.
Cyr. 3.1.38. Al riguardo vd. GULLEY, 1965, p. 82 ss., con le critiche di O’BRIEN, 1967, p. 217 s. nt. 15; per le
origini del principio socratico vd. CALOGERO, 1957, p. 12 ss.
17
La polemica antisocratica, che informa di sé l’intero libro III dell’Etica a Nicomaco, è palesemente espressa in
1113b6-25.
18
I due aggettivi compaiono per la prima volta, nell’Etica a Nicomaco, al principio del III libro, quando Aristotele specifica la necessità, per coloro che esaminano la virtù, di τὸ ἑκούσιον καὶ τὸ ἀκούσιον […] διορίσαι, «distinguere il volontario e l’involontario» (EN 1109b32-33); nel libro precedente (EN 1105a31-32) il filosofo aveva impiegato i termini eidōs e proairoumenos, “consapevolmente” e “per scelta”, per definire chi pone in essere
azioni virtuose. Ora, mentre eidōs e proairoumenos qualificano l’atto o l’evento considerato in sé, hekousion e
akousion indicano invece la qualità del soggetto agente (NATALI, 1999, p. 468 nt. 174).
19
Arist. EN 1110a1: δοκεῖ δὴ ἀκούσια εἶναι τὰ βίᾳ ἢ δι’ ἄγνοιαν γινόµενα. Dopo aver chiarito che alcune azioni
commesse per ignoranza, le quali non provochino pentimento in chi le commette, non sono “involontarie”, akousia, ma piuttosto “non volontarie”, ouch hekousia (EN 1110b18-24), Aristotele specifica che sono involontarie
(akousia), meritevoli di pietà e di perdono, le azioni causate da ignoranza relativa a singoli aspetti, che investono
«le persone e le cose rispetto alle quali avviene l’azione» (EN 1110b33-1111a1: ἐν οἷς καὶ περὶ ἃ ἡ πρᾶξις; per
esempio, uccidere il figlio credendolo un nemico, colpire con una lancia che si creda spuntata o far morire una
persona somministrandogli una pozione letale ritenendola un medicamento: cfr. EN 1111a12-14) ovvero «quel
che si fa» (EN 1111a9: ὃ δὲ πράττει; per esempio, dichiarare pubblicamente qualcosa ignorando che si trattasse
di un segreto o far inconsapevolmente scattare una catapulta nel corso di una dimostrazione: EN 1111a9-12); cfr.
EE 1125a36-1125b10.
20
Arist. EN 1111 a 22-23: τὸ ἑκούσιον δόξειεν ἂν εἶναι οὗ ἡ ἀρχὴ ἐν αὐτῷ ε ἰ δ ό τ ι τὰ καθ’ ἕκαστα ἐν οἷς ἡ
πρᾶξις. Cfr. Arist. Rhet. 1368b9-10 (e ibid. 1373b32-33): ἑκόντες δὲ ποιοῦσιν ὅσα ε ἰ δ ό τ ε ς καὶ µὴ
ἀναγκαζόµενοι, «si compie un’azione volontaria quando si è consapevoli e non si viene forzati».
16
5
di volontà che possa essere equiparata a quella attuale21. Noi intendiamo oggi l’intenzione –
in termini generali – come orientamento della volontà a un determinato fine, e la volontà, a
sua volta, come capacità del soggetto, considerato come origine e causa producente, di autodeterminarsi per realizzare un’azione diretta a quel fine specifico. Tale idea di volontà come
autodeterminazione è tuttavia del tutto estranea alla mentalità greca22, e un veloce sguardo alla trattazione aristotelica dei due concetti nell’Etica a Nicomaco basta a renderne conto. Ciò
che è hekousion e ciò che è akousion si definiscono, afferma Aristotele, rispetto al momento
dell’azione (καὶ τὸ ἑκούσιον δὴ καὶ τὸ ἀκούσιον, ὅτε πράττει, λεκτέον, EN 1110a14-5), di
modo tale che è hekousios l’atto che trova il suo cominciamento, il principio del movimento
delle parti strumentali del corpo, in se stesso (ἡ ἀρχὴ τοῦ κινεῖν τὰ ὀργανικὰ µέρη […] ἐν
αὐτῷ, EN 1110a16-17). È dunque evidente che l’akousion e l’hekousion non sono definiti sulla base di un criterio di autodeterminazione, ma piuttosto di causalità e di origine meccanica
dell’azione: è hekousion ciò che trova il suo inizio nel soggetto, ed è akousion, al contrario,
ciò che ha il suo inizio al di fuori di esso23. Muovendo da tale premessa, per Aristotele è pacifico affermare il carattere hekousios delle azioni di animali e fanciulli24, asserzione dalla quale
scaturisce nel modo più evidente la non equipollenza tra la nostra “volontarietà” e l’hekousion
greco25.
21
La difficoltà (se non addirittura la impossibilità) di una corretta traduzione dei termini greci hekousios (hekōn)
e akousios (akōn) è ampiamente segnalata in dottrina; vd. e.g. VERNANT, 1976, p. 36: «l’antitesi corrente in greco, nella lingua comune e nel vocabolario giuridico, tra hekōn, hekousios da una parte, akōn, akousios dall’altra,
non corrisponde affatto alle nostre categorie del volontario e dell’involontario»; RICKERT, 1989, p. 2 s.: «even a
glance at some of the translations commonly used to render ἑκών group words (ἑκών or ἑκούσιος and ἄκων or
ἀκούσιος) reveals these are difficult words: willingly and unwillingly, voluntarily and involuntarily, intentionally and unintentionally, deliberately and accidentally. These words are themselves ambiguous and involve a wide
range of psychological features, both cognitive and affective. They are clearly not synonymous and extensive
analysis would be required in order to distinguish them and determine how they are related to one another even
in our own language»; l’a. conclude (p. 168): «I will offer no specific suggestions, except to say that no one
word will be appropriate in all cases even if the old standbys “willingly” and “unwillingly” turn out to be useful
frequently, and that the translator must use her own judgement about how important it is in any particular case to
make especially clear that the words describe the attitude of the agent or victim acting or acted on under particular circumstances». Nello specifico, sul valore dei due termini nell’Etica aristotelica, osserva NATALI, 1999, p.
468 nt. 174: «non è possibile evitare in italiano l’uso di termini come “volontario” e “volere” nella traduzione,
ma ciò non implica affatto che si attribuisca ad Aristotele l’esistenza di una facoltà come la “volontà” distinta da
ragione e desiderio, logos e orexis».
22
«La volontà non è un dato della natura umana. È una costruzione complessa, la cui storia appare altrettanto
difficile, molteplice, incompiuta di quella dell’io con cui essa è in gran parte solidale. Bisogna dunque guardarci
dal proiettare sull’uomo greco antico il nostro sistema attuale di organizzazione dei comportamenti volontari, le
strutture dei nostri processi decisionali, i nostri modelli d’impegno dell’io nelle azioni» (VERNANT, 1976, p. 30).
23
Cfr. Arist. EN 1110a2; 1110b2-3; 1110b15-6; 1111a23;1113b21;1135a24. Per la teoria della volontà di Aristotele vd. RICKERT, 1989, p. 96 ss.
24
Arist. EN 1111a26 (e cfr. EE 1225b25-27); il riferimento all’agire hekousiōs di fanciulli e animali è inserito
dopo l’affermazione, sulla quale ritorneremo tra breve, circa l’opportunità di considerare hekousia anche le azioni commesse «per impeto e desiderio» (τὰ διὰ θυµὸν ἢ δι᾽ἐπιθυµίαν, EN 1111a25).
25
Il principio meccanico dell’origine dell’azione permette inoltre di comprendere il motivo per cui Aristotele
ritiene, se non giocoforza, almeno consequenziale (EN 1110a4-8) escludere dalla categoria dell’akousion le
azioni che di per sé il soggetto non sceglierebbe mai di compiere, ma che tuttavia egli compie per paura di un
male peggiore (l’esempio è relativo all’atto turpe commesso per ordine di un tiranno che ha in ostaggio delle
persone da lui minacciate di morte nel caso che quell’atto non sia compiuto): egli infatti osserva che si tratta di
azioni “miste” (µικταὶ µὲν οὖν εἰσιν αἱ τοιαῦται πράξεις, EN 1110a12), in quanto, anche se in termini assoluti
tali azioni meriterebbero la qualifica di akousiai, tuttavia esse non possono che essere ritenute hekousiai perché
la loro scaturigine è interna al soggetto, e dipende da lui se compierle o no (EN 1110a15-19); cfr. anche EE
1225a10-11, ove si riafferma il principio che il soggetto compie hekōn anche ciò che non vuole (ἃ µὴ βούλεται),
se il compierlo sta a lui (ἐφ᾽αὑτῷ). Per una discussione dei diversi passaggi aristotelici (non solo delle Etiche ma
6
Anche a prescindere dalle categorizzazioni aristoteliche, peraltro, l’impossibilità di una
simile identificazione emerge altresì dalla complessa relazione, che è dato riscontrare nelle
fonti greche in generale, tra ciò che è hekousion o akousion, da un lato, e ciò che è conseguenza di una violenza attuale o minacciata (bia), o di una qualsivoglia necessità o condizionamento esterno (anagkē), dall’altro26. Se è vero che la regola prevede un’opposizione tra
l’agire hekōn e l’agire a seguito di condizionamento esterno o di violenza (di modo tale che
l’atto determinato da tali fattori è qualificato akousios), è vero anche, tuttavia, che tale regola
presenta alcune cospicue e significative eccezioni: anche in presenza di bia o di anagkē, cioè,
il comportamento del soggetto può essere ritenuto hekousios27, di modo tale che l’hekousion,
più che riferirsi alla “volontarietà” dell’atto, sembra fare piuttosto riferimento al suo essere
compiuto “secondo l’inclinazione” del soggetto.
Dell’impossibilità di una precisa sovrapposizione tra il nostro concetto di
“(in)volontarietà” e quello espresso dai termini greci hekousios e akousios è necessario tenere
conto quando, muovendo su un terreno più propriamente giuridico, si riscontra che proprio
questi due aggettivi vengono impiegati in modo sostanzialmente stabile per indicare rispettivamente gli illeciti più gravi, “volontari”, e quelli meno gravi, “involontari”. Da quanto è stato detto risulta infatti difficile un’identificazione univoca – che pure è ricorrente in dottrina –
dei primi con quelli che noi chiameremmo “illeciti dolosi”, e dei secondi, per converso, con i
nostri “illeciti colposi”. Non vi è dubbio che vi siano casi, attestati nelle fonti, in cui
l’assimilazione dell’illecito hekousios con l’illecito che noi qualifichiamo doloso sembra non
essere fuori luogo, considerato che l’aggettivo è riferito a comportamenti nei quali si può in
definitiva ben ammettere la presenza di “rappresentazione e volontà del fatto materiale tipico”. È così, se non mi sbaglio, in un passaggio dell’orazione demostenica Contro Midia, in
cui si rammenta che le leggi ritengono meritevoli di più severa pena coloro che commettono
un reato volontariamente (hekousiōs) e con hybris rispetto a chi trasgredisce in altro modo
(ossia, evidentemente, akousiōs)28: hybris consiste infatti nell’atteggiamento mentale di chi fa
ad altri del male ben sapendo di farlo, e inoltre con la chiara consapevolezza di disonorare la
anche di De Anima e De Motu Animalium) relativi alla definizione di akousion ed hekousion vd. RICKERT, 1989,
p. 99 ss., 103 ss., 118 ss.
26
Per le definizioni di bia e anagkē nella loro relazione con gli aggettivi hekōn e akōn vd. RICKERT, 1989, p. 7
ss.
27
Sul punto vd. soprattutto l’esaustivo studio di RICKERT, 1989, p. 35 ss., che raccoglie una amplissima casistica
di passaggi della letteratura greca arcaica e classica in cui non risulta operante quella che l’a. chiama FOV, ovvero “Functional Opposite View”, la quale «is based on the consistency with which ἄκων and negative forms are
conjoined with circumstances of ἀνάγκη, and ἑκών and positive forms are opposed to such circumstances» (p.
35). L’a. conclude dunque (p. 71) che «the evidence does not sustain the FOV claim of a strong relationship
between ἑκών group words and βία and ἀνάγκη such that a person is automatically ἄκων under circumstances of
βία or ἀνάγκη or authomatically ἑκών if these circumstances are absent. It is neither pleonastic to say that a victim of βία or ἀνάγκη is ἄκων, nor does the fact that circumstances of βία or ἀνάγκη pertain exclude a person or
character from being ἑκών. Because a victim of force and necessity may be ἑκών or ἄκων we can infer that ἑκών
group words do something other than reflect the circumstances at hand».
28
Dem. Mid. 42-43: καὶ θεωρεῖθ’ ὅσῳ µείζονος ὀργῆς καὶ ζηµίας ἀξιοῦσι τοὺς ἑκουσίως καὶ δι’ ὕβριν
πληµµελοῦντας τῶν ἄλλως πως ἐξαµαρτανόντων, «e considerate di quanto maggiore ira e pena essi ritengono
meritevoli coloro che commettono illeciti di proposito e con insolenza rispetto a chi trasgredisce in qualche altro
modo».
7
propria vittima29. Pertanto, posto che tertium non datur, nel passo in esame akousios rimanderebbe per converso alla nostra categoria del “colposo”. Non va tuttavia dimenticato, a conferma della irriducibilità degli aggettivi antichi a univoche categorie moderne, che vi sono anche casi in cui akousios sembra invece ristretto alla sola azione che è conseguenza di una pura
casualità randomica – quella che i Greci chiamavano tychē –30: pertanto, se davvero akousios
qualifica solo l’offesa provocata accidentalmente, si dovrebbe conseguentemente inferire che
l’antipodico hekousios finisse per designare non soltanto l’illecito che noi qualifichiamo come
“doloso”, ma anche quello che noi riteniamo “colposo”.
3. L’elemento soggettivo nella legge di Draconte: terminologia
Fatta questa indispensabile premessa, passiamo finalmente a parlare dell’omicidio. Le
leggi di Atene distinguevano tra due tipi di omicidio31; e, come generalmente si ritiene, tale
distinzione, che individua – pur con le puntualizzazioni in precedenza messe in luce – due diversi criteri di imputazione soggettiva, va ascritta a Draconte32, che abolì il precedente regime
di vendetta privata nel quale non era attribuita rilevanza alcuna all’atteggiamento psichico
dell’agente, e nel quale a qualunque uccisione, comunque cagionata, il gruppo dell’ucciso
reagiva vendicandosi33. Draconte designò con l’ormai noto aggettivo akousios – senza naturalmente definirlo – il phonos socialmente e giuridicamente meno grave, da punire con
l’esilio34; nella sua legge, tuttavia, la forma più grave di omicidio non è indicata dal consueto
opposto di akousios – ossia, come già sappiamo, hekousios – ma piuttosto dalla locuzione –
apparentemente più forte, nel senso di meglio connotata – ek pronoias: ed ek pronoias da quel
momento in poi viene impiegato quale nome tecnico per qualificare il phonos sanzionato più
29
La principale definizione della hybris si trova in Arist. Rhet. 1374a13-15, 1378b23-30; su questi passaggi, e
sulla hybris in generale, vd. MACDOWELL, 1976; FISHER, 1976, p. 177 ss.; FISHER, 1979, p. 32 ss.; FISHER,
1992; CANTARELLA, 1983; CAIRNS, 1996; PHILLIPS, forth. (a); PHILLIPS, forth. (b).
30
Ant. Her. 92: ἔπειτα δὲ τὰ µὲν ἀκούσια τῶν ἁµαρτηµάτων ἔχει συγγνώµην, τὰ δὲ ἑκούσια οὐκ ἔχει. τὸ µὲν
γὰρ ἀκούσιον ἁµάρτηµα, ὦ ἄνδρες, τῆς τύχης ἐστί, τὸ δὲ ἑκούσιον τῆς γνώµης, «le colpe involontarie meritano
perdono, quelle volontarie non lo meritano. La colpa involontaria, giudici, è conseguenza del caso, quella volontaria dell’intenzione».
31
E non tre, pace CANTARELLA, 1975; CANTARELLA, 1976, p. 105 ss. (nonché BISCARDI, 1982, p. 287 ss.); per le
critiche a tale orientamento dottrinale, che postula l’esistenza di una categoria intermedia (il phonos mē ek pronoias) tra omicidio “volontario” e “involontario”, vd. infra, par. 5.
32
Va tuttavia segnalata l’esistenza di una opposta corrente di pensiero secondo la quale nelle leggi draconiane
all’elemento soggettivo non era attribuita particolare rilevanza: il primo legislatore di Atene avrebbe semplicemente disciplinato l’omicidio nel solco della tradizione precedente, con una serie di disposizioni nelle quali, proprio come in passato, la valutazione dell’atteggiamento mentale dell’omicida era del tutto marginale: in questo
senso vd. soprattutto GAGARIN, 1981, p. 111 ss.; MODRZEJEWSKI, 1991, p. 8 ss.; HUMPHREYS, 1991, p. 35 s.;
THÜR, 1991, p. 53 ss.; CARAWAN, 1998, p. 45 s. e 79 ss.; LEWIS, 2007, p. 66.
33
L’epica omerica, l’unica testimonianza che renda possibile una ricostruzione del trattamento dell’omicidio
prima di Draconte, conosce senz’altro la distinzione tra atti “volontari” e “involontari” (per un’analisi terminologica vd. soprattutto MASCHKE, 1968, p. 2 ss.), benché poi tale consapevolezza in genere non influisca in modo
sostanziale sulla reazione vendicativa del gruppo a cui l’ucciso apparteneva: vd. GLOTZ, 1904, p. 48; ADKINS,
1964, p. 90 ss.; GIOFFREDI, 1974, p. 39 ss.; GAUDEMET, 1962, p. 486 ss.; CANTARELLA, 1976, p. 50 ss.; CANTARELLA, 1979, p. 237 ss.; WILLIAMS, 2007, p. 63 ss.; PEPE, forth.
34
L’aggettivo akōn si legge chiaramente alla l. 17 della legge di Draconte, ed è stato ripristinato con attendibile
congettura, in caso accusativo (akonta), nella parte finale della medesima linea; in tutte le fonti l’omicidio meno
grave è designato in modo stabile come phonos akousios. L’indicazione della pena si legge, e.g., in Dem. Aristocr. 73.
8
severamente, con la morte35. È opportuno ora domandarsi se, al di là degli ormai noti problemi di sovrapposizione tra concezioni antiche e contemporanee relative alla “volontarietà”, sia
possibile stabilire, sulla base delle informazioni fornite dalle fonti antiche, in che cosa si concretasse l’elemento soggettivo indicato dalle due espressioni. In particolare: ek pronoias può
essere ritenuto sinonimo di hekousios, oppure i due termini hanno un significato differente? E,
in quest’ultimo caso, come può essere definita la pronoia? Ancora: a quale specie di “involontarietà” rimanda l’aggettivo akousios quando è riferito al phonos?
4. Il phonos ek pronoias: premeditazione, harmful intent, dolo?
Definire la pronoia, stabilendo al contempo che tipo di relazione – se sinonimica o meno – si ponga tra le espressioni ek pronoias ed hekousios, è questione estremamente controversa, in relazione alla quale sono osservabili principalmente due ben distinti, e tra loro nettamente contrapposti, orientamenti dottrinali36.
Una prima corrente di pensiero postula che la pronoia indichi qualcosa di diverso, e in
particolare di più specifico, rispetto alla semplice “volontarietà” indicata dall’aggettivo
hekousios: giusta il suo valore etimologico (il verbo pronoeō indica il fatto di “pensare
[noein] prima [pro]”), pronoia infatti rimanderebbe a qualcosa di simile alla nostra “premeditazione” (o a quella che in common law si definisce malice aforethought, tipica del reato di
murder e non di manslaughter)37: il diritto attico avrebbe dunque giudicato meritevole di condanna capitale soltanto chi avesse ucciso premeditando, di modo tale che la premeditazione
non potrebbe affatto ritenersi, come è invece nel nostro ordinamento, quale aggravante rispetto all’ipotesi ordinaria di dolo. Ne consegue che, posta (benché poi non sempre ammessa,
come vedremo: vd. infra, par. 5), la bipartizione draconiana phonos ek pronoias vs. phonos
akousios, risulterebbe akousios (anche qui, convenzionalmente, “involontario”) qualsiasi
omicidio privo di premeditazione: dovrebbero pertanto rientrare nella categoria phonos akousios non solo gli omicidi colposi, ma anche gli omicidi che noi diciamo essere commessi con
dolo d’impeto, oltre a quelli commessi con dolo indiretto o eventuale, e ancora quelli preterintenzionali. Infatti, poiché in essi l’illecito viene perpetrato in assenza di uno specifico piano
preordinato a uccidere, tutti questi casi sarebbero accomunati dal fatto di essere privi
dell’elemento soggettivo necessario a integrare gli estremi della pronoia.
35
Per la disamina delle fonti da cui si evince che nelle leggi di Atene l’omicidio più grave era qualificato non
come hekousios, bensì come ek pronoias, vd. PEPE, 2009-2010, p. 70 s.; PEPE, 2012a, p. 88 ss. Peraltro, tanto per
il valore non tecnico dell’espressione phonos hekousios, quanto anche per l’inesistenza di un’autonoma categoria
di phonos mē ek pronoias (cfr. infra, par. 5), non mi pare affatto giustificata l’equiparazione, posta da parte della
dottrina, tra phonos ek pronoias = hekousios, da un lato, e phonos akousios = mē ek pronoias, dall’altro (così
LOOMIS, 1972, p. 90 s.; PHILLIPS, 2008, p. 59 nt. 4).
36
Durante la redazione della presente comunicazione è apparso l’originale contributo di Carlo Pelloso (PELLOSO,
2012) sulla pronoia, teso da un lato a mettere in dubbio la bontà delle conclusioni a cui sono giunti gli esponenti
di entrambi gli orientamenti dottrinali, e dall’altro a reinterpretare in chiave del tutto differente la pronoia, superando le teorie fino a ora avanzate che – a parere dell’autore – fanno indebitamente riferimento ai «dogmi della
“teoria della volontà”» (p. 188). Delle sue conclusioni verrà dato conto nelle note che seguono.
37
In tal senso vd. GERNET, 1917, p. 350 ss.; MASCHKE, 1968, p. 53 ss.; STROUD, 1968, p. 40 s.; CANTARELLA,
1976, p. 97 ss.; WALLACE, 1989, p. 98 ss.; CARAWAN, 1998, p. 36 s., 223 ss. Per i limiti entro cui è opportuno
intendere l’equiparazione della pronoia alla premeditazione (che, come si vedrà più oltre nel testo, può essere
accostata al nostro dolo intenzionale e/o diretto) vd. PEPE, 2009-2010, in una con le precisazioni gli approfondimenti svolti in PEPE, 2012a, p. 99 ss. Per le più recenti critiche all’orientamento in oggetto vd. PELLOSO, 2012, p.
196 ss. e rell. ntt.
9
L’opposta ipotesi dottrinale, per contro, pur riconoscendo da un lato che senz’altro nel
linguaggio comune pronoia poteva nel caso indicare la “premeditazione”, dall’altro tuttavia
esclude che nel vocabolario giuridico, e in particolare con riferimento all’omicidio, il termine
rimandasse a una “programmata volontà di uccidere”. Di conseguenza, la locuzione ek pronoias non presenterebbe affatto un valore diverso, più specifico e ristretto, rispetto a hekousios; piuttosto, le due espressioni vanno intese come equivalenti, di modo che il phonos ek
pronoias (o hekousios) sarebbe l’omicidio connotato da un mero e generico harmful intent,
implicante volontà della condotta ma non dell’evento38. Sarebbe infatti inverosimile, afferma
chi aderisce a questa posizione, che gli Ateniesi, il cui sistema criminale – “draconiano”, appunto39 – era senza dubbio più severo del nostro, punissero non con la morte, ma soltanto con
l’esilio, omicidi chiaramente (ma più corretto sarebbe dire: che a noi appaiono chiaramente)
“volontari”, anche se poi privi di premeditazione, tra cui in particolare gli omicidi commessi
in the heat of the moment. Come ben si può inferire, questa seconda corrente di pensiero presuppone una notevole estensione della categoria dell’omicidio “volontario”, ek pronoias, sanzionato con pena capitale: con la conseguenza che, per converso, gli omicidi meritevoli della
più lieve pena dell’esilio sarebbero ben pochi, risultando la categoria del phonos akousios,
“involontario”, circoscritta ai soli accidental killings, ossia agli omicidi in cui la morte è il risultato di un atto a cui manca l’elemento soggettivo dell’harmful intent.
Per orientarsi e cercare di prendere una posizione tra queste due differenti ipotesi è naturalmente opportuno rivolgersi alle fonti; i passaggi che saranno qui presi in esame – in una
rassegna non completa che tuttavia, a parere di chi scrive, è comunque in grado di dare conto
delle testimonianze principali e più importanti – appartengono a due generi: quello filosofico,
da un lato; e quello oratorio, potenzialmente più insidioso se pensiamo al fatto che le orazioni
sono composte da esperti non di diritto ma di retorica, e che si collocano dunque all’interno di
una dinamica processuale naturalmente tesa a fare uso di argomentazioni di parte.
38
L’idea, accennata da MACDOWELL, 1963, p. 60, viene svolta in modo compiuto da LOOMIS, 1972, p. 86 ss. (in
un articolo ove, nonostante il titolo – The Nature of Premeditation –, l’a. intende appunto dimostrare che il termine pronoia nella legge ateniese sull’omicidio non corrisponde affatto alla “premeditation”), e, quindi, abbracciata da buona parte della dottrina più recente: cfr., e.g., GAGARIN, 1981, p. 31 ss.; TULIN, 1996, p. 24 nt. d;
PHILLIPS, 2007, p. 75 ss.; PHILLIPS, 2008, p. 59 nt. 4 e p. 213 ss.; LANNI, 2006, p. 89 nt. 69. Per le critiche a tale
corrente di pensiero vd. PEPE, 2009-2010, p. 81 ss.; PEPE, 2012a, p. 100 ss. e 111 ss.; PELLOSO, 2012, part. p.
203 ss., ove giustamente si sottolinea che, «a voler aderire all’opinione in parola, si finisce, più o meno consapevolmente, a dover altresì credere che, ai fini dell’integrazione di una data fattispecie nominalmente prevista, ossia, in concreto, il φόνος, sia sufficiente e necessario l’elemento soggettivo proprio di un altro nomen delittuale,
vale a dire la meno grave figura dell’αἰκία» e che «il sintagma “φόνος ἐκ προνοίας” connette inequivocabilmente
il polo del φόνος […], mediante la preposizione ἐκ in funzione di complemento di origine […], al polo definiendum rappresentato dalla πρόνοια […], di talché, se non altro al livello della terminologia giuridica, è chiaro che
l’oggetto del “dolo” di omicidio […] non concerne – come invece sostengono gli studiosi patrocinanti la tesi qui
in discussione – un quid minoris (lesioni, percosse, mero nocumento) rispetto al fatto materiale che, una volta
ideato, viene realizzato (condotta umana eziologicamente connessa, in un rapporto di causa ad effetto, all’evento
morte)».
39
Della proverbiale severità draconiana si trova menzione soprattutto nel noto aneddoto di Plut. Sol. 17.2-4, secondo il quale il legislatore avrebbe scritto le sue leggi con il sangue, e avrebbe previsto la pena capitale anche
per i reati più veniali (e cfr. anche Lyc. Leocr. 65; Arist. Pol. 1274b16 e Rhet. 1400b21); tuttavia, che tale (tarda)
tradizione sia da ritenersi più leggendaria che reale è stato di recente ribadito da WOHL, 2010a, p. 121 nt. 14.
10
Incominciamo dunque dalle prime, dalle testimonianze filosofiche. Sarà qui indispensabile ritornare alla già citata Etica a Nicomaco aristotelica, e inoltre alla sua Etica a Eudemo40,
ossia le opere nelle quali, come si è già accennato, lo Stagirita cerca di definire che cosa è
akousios e che cosa è hekousios e di individuare le caratteristiche costanti delle azioni che
gli aggettivi qualificano. Considerata la natura stessa dell’opera – la discussione sulla volontarietà prende le mosse dalla constatazione che virtù e vizio possono essere oggetto soltanto delle azioni “volontarie”, le uniche di cui l’individuo è responsabile e principio41 – le sue riflessioni investono prevalentemente il piano morale, anche se poi il filosofo non manca di sottolineare l’importanza che la distinzione tra hekousios e akousios presenta sul piano giuridico, e
la necessità che di essa tengano conto i legislatori per stabilire premi e punizioni42. Si è già
detto (supra, par. 2) che per Aristotele l’atto involontario (akousios) è quello che ha il suo
cominciamento, il suo principio (archē), all’esterno del soggetto, e che viene compiuto per
forza (bia) o per ignoranza (agnoia), mentre per converso sono volontari (hekousioi) tutti i
comportamenti il cui principio sia interno al soggetto e da questi dipenda. Ora, Aristotele aggiunge che all’interno del genus dell’hekousion trova posto la species delle azioni che sono
frutto di proairēsis, ossia di “scelta consapevole”, “deliberazione”, che riguarda non già il fine, ma piuttosto i mezzi che portano a un determinato fine43, di modo tale che tutto ciò che è
frutto di proairēsis è hekousion ma naturalmente non è vero il contrario: non tutto ciò che è
hekousion è frutto di proairēsis; per esempio, gli atti compiuti da fanciulli e animali sono
hekousioi, come pure gli atti che vengono posti in essere “d’improvviso” – tra cui rientrano
quelli commessi per impeto o desiderio (dia thymon ē di’epithymian)44 –; tuttavia, essi non
sono frutto di proairēsis45. Giunto a questo punto, in un passo dell’Etica a Eudemo, Aristotele
– spostando il discorso dal piano etico a quello più propriamente giuridico – specifica che
questa distinzione è ben presente ai legislatori, che infatti discriminano tra ta hekousia, “atti
volontari”, ta akousia, “atti involontari”, e atti ek pronoias 46 . La legge draconiana
sull’omicidio non è qui citata, benché il riferimento possa dirsi implicito dal momento che
l’espressione ek pronoias era impiegata principalmente in relazione al phonos (e inoltre a un
solo altro illecito qualificato come trauma ek pronoias, di competenza del medesimo tribunale
atto a giudicare il phonos ek pronoias, ossia l’Areopago47). In ogni caso, il passaggio già da
40
Per i complessi rapporti – contenutistici e cronologici in primis – tra le due distinte Etiche aristoteliche, aventi
sostanzialmente la medesima struttura e, come oggetto, la stessa materia, si rimanda, per tutti, alla breve ma
esaustiva sintesi di DONINI, 1999, p. V ss.
41
Arist. EN 1109b30-35; EE 1123a9-20.
42
Arist. EN 1109b34-35.
43
Per la definizione di proairēsis vd. Arist. EN 1111b11-1112a17 (nonché EE 1125b24-1126b36): essa non appartiene agli esseri irrazionali, a differenza di impulso (epithymia) e desiderio (thymos): di modo tale che chi non
sa dominarsi agisce in conformità di desiderio (epithymia) ma non di scelta (proairēsis), mentre chi si sa dominare agisce per scelta (proairēsis) ma non per desiderio (epithymia). Ancora, la proairēsis non può identificarsi
con la “volontà” (boulēsis), perché, mentre la boulēsis può riguardare le cose impossibili, la scelta non può
orientarsi su di esse; principale differenza tra proairēsis e boulēsis sta nel fatto che, mentre quest’ultima riguarda
il fine, la prima è relativa ai mezzi che portano al fine, e non può essere disgiunta da “ragionamento” (logos) e
“pensiero” (dianoia, su cui vd. infra, nel testo). Per il significato e la possibile traduzione di proairēsis vd.
CHAMBERLAIN, 1984.
44
Arist. EN 1111a22-25; 1111b9-18.
45
Arist. EN 1111b6-10 (e cfr. EE 1123a18-19).
46
Arist. EE 1226b36-1227a1: ἅµα δ’ἐκ τούτων φανερὸν καὶ ὅτι καλῶς διορίζονται οἳ τῶν παθηµάτων τὰ µὲν
ἑκούσια τὰ δ’ ἀκούσια τὰ δ’ ἐκ προνοίας νοµοθετοῦσιν.
47
Sul trauma ek pronoias vd. infra, nt. 59.
11
solo potrebbe indurre a escludere la possibilità di un’identificazione pedissequa dell’ek pronoias con la più ampia e meno definita categoria dell’hekousion: ek pronoias rappresenterebbe l’equivalente, nel linguaggio giuridico, di ciò che nel vocabolario morale aristotelico è significato da non già da hekousios, bensì da ek proaireseōs, “frutto di deliberazione”. Pertanto,
se davvero ek pronoias è qualcosa di distinto dall’hekousion e dotato, rispetto a quello, di un
quid pluris, sarebbe già messa in luce la debolezza della seconda delle succitate ipotesi dottrinali, propensa, come si è visto, a sovrapporre le espressioni ek pronoias ed hekousios.
Ammessa dunque la non sinonimia tra hekousios ed ek pronoias, in che modo è possibile definire che cosa gli Ateniesi intendevano quando, con riferimento all’omicidio, parlavano
di pronoia? Un primo spunto in questo senso si trova in un’altra delle opere morali di Aristotele (rectius, del corpus Aristotelicum), e nello specifico in un importante passaggio
dell’Ethica Megale ove si tratta di una donna convenuta in giudizio nell’Areopago (il tribunale ateniese competente proprio in materia di phonos ek pronoias) per la morte del compagno,
deceduto dopo e per aver bevuto una pozione, nello specifico un filtro d’amore, che lei gli
aveva somministrato. In quel caso, i giudici si pronunciarono per l’assoluzione, riconoscendo
che nel suo agire non vi era stata pronoia, o più correttamente – posto che i giudici ateniesi
non fornivano alcuna motivazione della loro sentenza – esprimendo un voto favorevole alla
difesa, la quale doveva evidentemente aver sostenuto che, poiché la dazione del filtro da parte
della donna era finalizzata unicamente ad attirare o a rafforzare l’amore (philia) del compagno, nel comportamento dell’imputata non era ravvisabile pronoia alcuna. Ora, dal momento
che il racconto del caso concreto è preceduto e seguito dall’enunciazione dei principi teorici
che definiscono e distinguono le categorie dell’akousion, dell’hekousion e dell’ek pronoias, è
opportuno riportare l’intero passaggio:
ἐπεὶ δὲ τὸ ἑκούσιον ἐν οὐδεµιᾷ ὁρµῇ ἐστίν, λοιπὸν ἂν εἴη τὸ ἐκ διανοίας γιγνόµενον. τὸ
γὰρ ἀκούσιόν ἐστι τό τε κατ’ ἀνάγκην καὶ κατὰ βίαν γιγνόµενον, καὶ τρίτον ὃ µὴ µετὰ
διανοίας γίγνεται. δῆλον δ’ ἐστὶ τοῦτο ἐκ τῶν γιγνοµένων. ὅταν γάρ τις πατάξῃ τινὰ ἢ
ἀποκτείνῃ ἤ τι τῶν τοιούτων ποιήσῃ µηδὲν προδιανοηθείς, ἄκοντά φαµεν ποιῆσαι, ὡς τοῦ
ἑκουσίου ὄντος ἐν τῷ διανοηθῆναι. οἷόν φασί ποτέ τινα γυναῖκα φίλτρον τινὶ δοῦναι
πιεῖν, εἶτα τὸν ἄνθρωπον ἀποθανεῖν ὑπὸ τοῦ φίλτρου, τὴν δ’ ἄνθρωπον ἐν Ἀρείῳ πάγῳ
φυγεῖν· οὗ παροῦσαν δι’ οὐθὲν ἄλλο ἀπέλυσαν ἢ διότι οὐκ ἐκ προνοίας. ἔδωκε µὲν γὰρ
φιλίᾳ, διήµαρτεν δὲ τούτου· διὸ οὐχ ἑκούσιον ἐδόκει εἶναι, ὅτι τὴν δόσιν τοῦ φίλτρου οὐ
µετὰ διανοίας τοῦ ἀπολέσθαι αὐτὸν ἐδίδου. ἐνταῦθα ἄρα τὸ ἑκούσιον πίπτει εἰς τὸ µετὰ
διανοίας48.
Dunque, dopo aver detto che “volontario” (hekousion) è ciò che è commesso con dianoia, e che conseguentemente akousion è ciò che è privo di dianoia – oltre a ciò che è commesso per necessità o per forza –, Aristotele afferma che agisce involontariamente, akōn, an 48
Arist. EM 1.16.1-2: «poiché l’hekousion non consiste in alcun impulso, conseguirebbe che esso è ciò che avviene in seguito a dianoia. L’akousion è tanto quanto avviene per necessità (anagkē) o per forza (bia), quanto
anche in terzo luogo ciò che non avviene con dianoia. Ciò è chiaro dai fatti. Qualora una persona colpisca
un’altra, la uccida o faccia qualcosa di simile senza intendere preventivamente (prodianoētheis) alcunché, diciamo che agisce in modo involontario (akōn), dal momento che l’azione volontaria consiste nell’intendere (dianoēthēnai). Per esempio si racconta che un giorno una donna abbia dato al compagno un filtro da bere, e che in
seguito l’uomo sia morto a causa del filtro. La donna venne convenuta in giudizio nell’Areopago, ove i giudici la
assolsero, per nessun’altra ragione se non per il fatto che non aveva agito ek pronoias. Infatti aveva somministrato il filtro per amore, e in questo aveva commesso un errore; perciò il suo atto sembrava essere non volontario
(hekousion), per il fatto che aveva somministrato il filtro senza intenzione (dianoia) di uccidere. In tale contesto
dunque il volontario ricade in ciò che è compiuto con intenzione (dianoia)».
12
che chi colpisce o uccide mēden prodianoētheis; per contro, l’atto hekousios (ma non ek pronoias) è caratterizzato dalla presenza di un dianoēthēnai (non, dunque, di un prodianoēthēnai). Entrambi i verbi, che volutamente non sono stati tradotti, derivano dal sostantivo dianoia; questo ricorre immediatamente dopo, quando si specifica che il comportamento
della donna, che venne infatti assolta dall’Areopago, non può essere ritenuto hekousios – ed è
necessario aggiungere: né tantomeno, a fortiori, ek pronoias – perché nel suo agire non era
ravvisabile alcuna dianoia tou apolesthai, alcuna “dianoia di uccidere”. Ora, è senza dubbio
arduo individuare nella nostra lingua un preciso corrispettivo di ciò che Aristotele intende con
dianoia: il termine, a sua volta composto da nous, “mente”, rimanda in primis, nell’ambito
della filosofia morale aristotelica, a un processo di intellezione49; ma è un processo di intellezione che, in questo caso, sta alla base di una specifica condotta, giudicata nell’Areopago. Se
la donna fu assolta, ciò significa che i giudici ritennero non ravvisabili nel suo comportamento né la intellezione (dianoia), o meglio la pre-intellezione (pro-dianoia) delle conseguenze
letali della propria azione, né la presenza della volontà dell’evento, ossia di provocare la morte del destinatario della pozione. Se volessimo fare ricorso a categorie attuali potremmo concludere che per aversi pronoia non era sufficiente la volontà della condotta, ma era altresì indispensabile la volontà del fatto tipico che il soggetto si è rappresentato in anticipo50.
49
Per una sintesi della valenza del termine nous/noos vd. da ultimo PELLOSO, 2012, p. 235 s. nt. 99.
PELLOSO, 2012, part. p. 229 ss. (approfondendo alcuni spunti presenti in CARAWAN, 2000, p. 212 s.), usa principalmente questo passaggio aristotelico per dimostrare che il concetto sotteso al termine pronoia non può essere
in alcun modo spiegato – come fanno, pur giungendo a conclusioni opposte, i sostenitori dei due principali orientamenti dottrinali sulla pronoia – con il ricorso a categorie volontaristiche moderne (vd. supra, nt. 36). Posta infatti dallo studioso l’«equazione […] del segno “διάνοια” con il segno “πρόνοια”, nonché la – anche etimologicamente – inequivoca rilevanza dei due testé citati termini, in una con i rispettivi verbi denominativi, entro la
sfera intellettiva» (p. 233), «è oltremodo chiaro come, con riguardo alla teoria etica di Aristotele, la διάνοια non
sia in alcun modo passibile di essere esaurita in un “atto di volontà” […], rilevando essa solo quale “aspetto intellettivo” della προαίρησις» (p. 231). Poiché dunque «il sostantivo greco “πρόνοια” […] lungi dall’indicare la
volontà diretta al cagionamento di una lesione o la volontà preordinata al cagionamento della morte, [è] foriero
di un concetto del tutto diverso, vale a dire di quello di semplice “pre-visione, sul piano intellettivo, dell’eventomorte”» (p. 239), non vi sarebbero ostacoli «a considerare quale elemento soggettivo del φόνος ἐκ προνοίας (data nelle fonti per implicita la volontà della condotta) la sola “rappresentazione intellettiva dell’evento delittuoso”» (p. 234 s.). Di conseguenza, prosegue l’autore, «nella πρόνοια draconiana, quale minimum richiesto legislativamente in termini di elemento psicologico ai fini dell’integrazione del “Tatbestand” del φόνος ἐκ προνοίας,
possono dirsi confluiti e ad unum ridotti (in quanto aventi come cifra comune, per l’appunto, la rappresentazione
dell’evento) stati mentali affatto eterogenei, che, nel variare della loro intensità indifferente sub specie poenae
(ossia, per diritto draconiano, sempre la morte), sono all’oggi etichettati sotto plurimi nomina: se non anche la
preterintenzione “tout court”, in termini di πρόνοια sicuramente sono suscettibili di essere qualificati il dolo intenzionale, il dolo diretto, il dolo indiretto e/o eventuale, la colpa cosciente o, rectius, con previsione, nonché,
per impiegare categorie proprie del “common law”, la “recklessness”, fermo restando, di poi, che possono dirsi
incluse – come è consequenziale alla definizione proposta nei termini sopraddetti – non solo ipotesi di “dolo di
proposito” […], ma altresì ipotesi di “dolo d’impeto”» (p. 241). Ora, a me pare che l’equiparazione tra pronoia e
dianoia, presupposto fondante dell’originale ricostruzione del Pelloso, richieda alcune indispensabili puntualizzazioni, relative anche, in termini più generali, all’esegesi del passo aristotelico dell’Ethica Megale appena analizzato, assunto dall’autore come testo principale a testimonianza della veridicità di detta corrispondenza (al riguardo vd. anche le considerazioni da me svolte in PEPE, 2009-2010, p. 77 s.; PEPE, 2012a, p. 106 ss.). Tale passo, innanzitutto, non mi sembra affatto autorizzare la necessità, e per il vero neppure la possibilità, di interscambio tra dianoia e pronoia: infatti, dopo aver innanzitutto definito l’hekousion come ciò che è provvisto di dianoia
(τὸ ἐκ διανοίας γιγνόµενον), e, per contro, l’akousion come ciò che è commesso non solo per anagkē o per bia,
ma anche senza dianoia (ὃ µὴ µετὰ διανοίας γίγνεται), Aristotele introduce – come si è detto in corpo di testo –
quella che a mio avviso è una contrapposizione a fortiori, specificando che è akousion anche ciò che è privo di
pro-dioanoia (pro-dianoia che evidentemente è qualcosa di distinto e di “di più” rispetto alla dianoia tout court,
la quale, di conseguenza, non può essere identificata con pronoia, pace PELLOSO, 2012, p. 230 nt. 77: «è il passo
stesso che induce a credere che il rarissimo verbo “προδιανοεῖσθαι” venga qui impiegato per indicare la presenza
50
13
Le conclusioni tratte dalla testimonianza aristotelica appena letta, che sembrano a tutta
prima consentire l’identificazione della pronoia con il “dolo”, paiono ulteriormente indebolire, se non in definitiva mostrare sostanzialmente priva di fondamento, la tesi di chi ritiene che
l’elemento soggettivo implicito nell’espressione ek pronoias fosse la mera volontà di condotta
lesiva, harmful intent, posto appunto che, come si è detto, dianoia tou apolesthai sembra implicare la volontà dell’evento, oltre che la sua rappresentazione51. Tuttavia, tali conclusioni
devono trovare conferma in altre fonti, il cui esame servirà peraltro anche a sottoporre a dovuto vaglio l’ipotesi alternativa che, come si ricorderà, considera necessaria all’integrazione del
phonos ek pronoias la premeditazione.
I passi che verranno di seguito analizzati sono tratti dall’unica orazione giudiziaria rimastaci relativa a un caso di phonos ek pronoias, e dunque a un processo celebrato
nell’Areopago: si tratta della prima orazione di Antifonte, tradizionalmente nota come Contro
la matrigna (κατὰ τῆς µητρυιᾶς) discorso di accusa pronunziato dal figlio di primo letto della
di διάνοια, e che, pertanto, quest’ultima stia per πρόνοια»; si può certo condividere quanto egli afferma subito
dopo, quando specifica che «se τὸ ἑκούσιον πίπτει εἰς τὸ µετὰ διανοίας, allora τὸ ἀκούσιον è tanto assenza di
προδιανοεῖσθαι, quanto assenza di διάνοια», ma nel senso, differente rispetto a quello inteso dallo studioso, che
l’akousion si qualifica tanto per l’assenza di dianoia che contraddistingue l’hekousion quanto anche, conseguentemente, per l’assenza della pro-dianoia che contraddistingue la pronoia; l’esempio di seguito addotto da Aristotele riguarda infatti il caso giudiziario relativo alla donna perseguita nell’Areopago per phonos ek pronoias, la
quale è giudicata innocente perché il suo comportamento, privo di dianoia tou apolesthai, non è hekousion, e
dunque, a maggior ragione, non è neppure ek pronoias: δι’ οὐθὲν ἄλλο ἀπέλυσαν ἢ διότι οὐκ ἐκ προνοίας).
L’impossibile identità tra dianoia e pronoia mi pare inoltre dimostrata dalla distinzione, su cui Aristotele – come
già sappiamo (vd. supra, par. 2) – insiste a più riprese nelle diverse Etiche, tra ciò che è semplicemente hekousion e ciò che, rientrando nel genus dell’hekousion, è inoltre conseguenza di proairēsis: una proairēsis che non
può essere liquidata come «categoria implicitamente rilevante più in punto di esagerazione logografica che immediatamente sub specie iuris», ovvero come «quid pluris rispetto a quanto richiesto da diritto positivo ateniese
per l’integrazione di un illecito quale è l’omicidio ἐκ προνοίας», come, a mio avviso troppo sbrigativamente, asserisce Pelloso (p. 231 s.), se solo si considera che proprio la tripartizione sul piano etico tra akousion, hekousion
ed ek proaireseōs è presa dallo Stagirita come paradigma della tripartizione, posta dai legislatori, tra akousion,
hekousion ed ek pronoias; talché, come è stato in precedenza sottolineato nel testo, pronoia dovrebbe essere
semmai considerato l’equivalente, sul piano propriamente giuridico, di quanto nel lessico morale è significato da
proairēsis. È peraltro notevole che, mentre nel passo dell’Etica a Eudemo sopra citato (1226b36-1227a1: vd. nt.
46), l’espressione di segno “etico” ek proaireseōs è sostituita con quella, di segno più squisitamente giuridico, ek
pronoias, in un passaggio dell’Ethica Megale di poco successivo a quello che si è appena analizzato, e che ben
può dirsi parallelo rispetto a quello dell’Etica a Eudemo, tale sostituzione non ha luogo, e si asserisce che i nomoteti distinguono tra hekousion ed ek proaireseōs, ponendo per i comportamenti hekousia pene minori di quelle
stabilite per i comportamenti kata proairesin (EM 1.17.7: φαίνονται δέ τινες ὀλίγοι καὶ τῶν νοµοθετῶν διορίζειν
τό τε ἑκούσιον καὶ τὸ ἐκ προαιρέσεως ἕτερον ὄν, ἐλάττους τὰς ζηµίας ἐπὶ τοῖς ἑκουσίοις ἢ τοῖς κατὰ προαίρεσιν
τάττοντες). Se è dunque vero, come i passaggi aristotelici sembrano inequivocabilmente dimostrare, che la pronoia va semmai accostata alla proairēsis, l’applicazione delle regole della proprietà transitiva dimostra ulteriormente l’impossibilità della sovrapposizione tra pronoia e dianoia, stante l’irriducibilità della proairēsis alla dianoia (EM 1.17.4: οὐκ ἄρα οὐδὲ διάνοιά ἐστιν ἡ προαίρεσις); ergo, non è neppure possibile concludere che la
pronoia afferisce esclusivamente alla sola sfera intellettiva, posto che la proairēsis è definibile non già come
semplice intellezione (dianoia), ma piuttosto come appetito volontario che implica a monte un processo di intellezione (EM 1.17.5: ἡ προαίρεσις ὄρεξίς τις βουλευτικὴ µετὰ διανοίας).
51
Non posso mancare di sottolineare come alquanto strano il fatto che il passo aristotelico appena analizzato non
venga preso nella dovuta considerazione dagli studiosi che sostengono la tesi dell’equivalenza tra pronoia e
harmful intent; LOOMIS, 1972, p. 89, per esempio, fa riferimento a esso solo per sottolineare la corrispondenza
ivi posta tra chi agisce mēden prodianoētheis (che egli intende come equivalente di mē ek pronoias) e chi agisce
akōn, e per inferire, di conseguenza, l’identità tra le forme positive delle due espressioni, ossia ek pronoias ed
hekōn (vd. anche supra, nt. 35). Manca tuttavia del tutto, nel suo studio, una seppur minima esegesi del passaggio.
14
vittima contro l’ultima moglie di quest’ultimo52. La donna, accusata di aver avvelenato il proprio marito, nonché padre dell’accusatore, doveva difendersi, tramite i figli che la rappresentavano in giudizio, asserendo che la pozione era un filtro d’amore53: somministrandolo, dunque, ella non intendeva affatto uccidere, ma soltanto recuperare l’amore perduto del proprio
partner. Il caso appare chiaramente identico a quello già noto di cui Aristotele dà conto
nell’Ethica Megale, benché poi l’assimilazione tra i due non sia possibile per via di un particolare sul quale in questa sede si può senz’altro sorvolare: nella dinamica entro cui si inserisce il discorso di Antifonte la dazione del filtro non era stata fatta personalmente
dall’imputata (come nel caso descritto da Aristotele) ma da un’altra donna (Ant. Nov. 15-20);
tuttavia quest’ultima, del tutto ignara del potenziale effetto letale del farmaco, è qualificata
come semplice esecutrice di un piano messo a punto proprio e soltanto dalla matrigna, che è
dunque presentata come unica vera responsabile (aitia, Nov. 20) dell’accaduto. Ora, mentre
nel succitato resoconto aristotelico si chiariscono i principi astratti utili a escludere che nel
comportamento dell’imputata vi fosse stata pronoia, e a giustificare dunque la sua assoluzione, nel discorso di accusa antifonteo sono posti in luce gli elementi che in concreto servono a
dimostrare l’esistenza di pronoia. L’accusatore ripete con insistenza alcuni termini chiave,
quali le espressioni ex epiboulēs / ek proboulēs, indicanti la “trama” e il “piano premeditato”,
oppure i verbi mēchanaomai, “macchinare”, o bouleuō, “progettare, prendere una decisione
meditata”, a significare il fatto che la donna voleva e, soprattutto, pianificava da tempo
l’uccisione del proprio marito54; ella era stata addirittura sorpresa ripetutamente in flagrante a
52
In realtà molti particolari legati al contesto entro cui iscrivere questa orazione sono estremamente controversi.
In primo luogo, la questione della collocazione nell’Areopago del processo a cui il discorso si riferisce non è pacifica in dottrina, come sarebbe provato da due principali indizi: in primo luogo, l’oratore apostrofa i giudici non
già come boulē, appellativo normalmente utilizzato nelle cause svolte nell’Areopago, bensì come andres o dikastai, di norma riservato ai giudici non areopagiti; in seconda istanza, sulla base della considerazione che
l’imputata non aveva personalmente ucciso, in quanto il farmaco letale era stato materialmente somministrato da
un’altra donna coinvolta a sua insaputa nel piano criminoso della matrigna, si suppone che l’accusa a lei mossa
fosse non già di phonos ek pronoias, ma piuttosto di bouleusis, ossia di “istigazione”, illecito che – stando ad
Arist. Ath. Pol. 57.3 – era di competenza dei giudici riuniti nel Palladio, il tribunale a cui spettava anche il giudizio del phonos akousios. Incerta è inoltre la relazione tra accusatore e accusata: che quest’ultima fosse “matrigna” del primo si desume solo dal titolo attribuito successivamente al discorso, nonché dal contenuto
dell’hypothesis premessa all’orazione in età alessandrina, benché poi nessun elemento presente nell’opera induca
a credere che l’imputata fosse, rispetto all’accusatore, realmente tale. Per una disamina dei diversi punti critici
dell’orazione, e una soluzione nel senso della ambientazione areopagitica del processo in esame, senza dubbio
relativo a un caso di phonos ek pronoias, e dell’identità di pallakē della madre dell’accusatore (il quale pertanto
non avrebbe alcun legame pseudoparentelare con l’imputata), vd. PEPE, 2012a, p. 123 ss., e più diffusamente PEPE, 2012b.
53
Le donne ateniesi, a cui non era consentito difendersi personalmente, erano rappresentate in giudizio dal parente prossimo (sul punto vd., e plurimis, FOXHALL, 1996, p. 133 ss.). Per la ricostruzione degli argomenti della
difesa nel processo in questione vd., con posizioni differenti, CARAWAN, 1998, p. 229 ss.; GAGARIN, 2002, p.
151. In termini generali, le argomentazioni della difesa possono essere facilmente desunte dal discorso di accusa
pervenutoci, visto che le orazioni erano composte dopo che le parti avevano appreso, nel corso delle udienze preliminari (prodikasiai) e dei giuramenti (diōmosiai), che delle prodikasiai erano verosimilmente parte integrante,
le argomentazioni dell’avversario; al riguardo vd., e plurimis, LIPSIUS, 1915, p. 831, 845 nt. 2; BONNER, SMITH,
1938, p. 167 ss.; CARAWAN, 1998, p. 138 ss.
54
Ant. Nov. 3: ἐπιδείξω ἐξ ἐπιβουλῆς καὶ προβουλῆς τὴν τούτων µητέρα φονέα οὖσαν τοῦ ἡµετέρου
πατρός, «dimostrerò che la madre di costoro (scil. dei figli che difendono l’imputata in giudizio), dopo aver
disposto un preciso piano, è stata assassina di nostro padre»; 5: τοῦ µὲν ἐκ προβουλῆς ἀκουσίως
ἀποθανόντος, τῆς δὲ ἑκουσίως ἐκ προνοίας ἀποκτεινάσης, «l’uno moriva senza volerlo a seguito di un piano, l’altra lo uccideva volontariamente e con pronoia»; 26: ἡ µὲν γὰρ ἑκουσίως καὶ βουλεύσασα τόν
θάνατον ἀπέκτεινεν, «lei lo uccise volontariamente, dopo aver tramato la sua morte».
15
“preparare la sua morte”55 – altrimenti detto, ma questo è naturalmente il punto di vista
dell’accusa, a testare la pozione sulla vittima per verificare in quali dosi il farmaco fosse in
grado di produrre effetti letali –. Già questo breve resoconto sembrerebbe fornire una conferma del fatto che il phonos poteva essere qualificato come ek pronoias quando nell’agente fossero ravvisabili rappresentazione e volontà dell’evento-morte; ma non solo: esso parrebbe anche deporre a favore di una equiparazione tra pronoia e premeditazione, se è vero che per
aversi premeditazione – figura peraltro ancora oggi notoriamente controversa e di problematicissima determinazione – occorrerebbe: a. un intervallo temporale ampio tra l’insorgere e
l’esecuzione del proposito criminoso (anche se poi non è poi chiaro quale sia il distacco temporale necessario e quali siano i criteri per la sua determinazione); b. un consolidamento nel
tempo di tale proposito; c. una persistenza, tenace e ininterrotta, del medesimo56. Elementi,
questi, sui quali l’accusatore della matrigna insiste con grande forza.
Ma è poi davvero legittima tale identificazione tra pronoia e premeditazione? In effetti,
a proposito dell’orazione alla quale si è appena fatto riferimento, si può lecitamente inferire
che il suo essere di parte possa implicare l’insistenza del logografo, per fini retorici di persuasione della giuria, su elementi che a fortiori sono tesi a dimostrare la sussistenza della semplice rappresentazione e volontà dell’evento tipico: in altre parole, se B (premeditazione), in
quanto “più” comprende A (rappresentazione e volontà), dimostrando la presenza di B si sarà
automaticamente data per dimostrata A, benché poi non sia necessario che A richieda e presupponga B57. Nel passo sopra letto di Aristotele, relativo a un caso simile, non si allude in
alcun modo alla premeditazione come elemento caratterizzante della pronoia; e, peraltro, in
altre orazioni la pronoia viene riempita di contenuti che non rimandano in modo altrettanto
netto alla nostra premeditazione e macchinazione preordinata: talora infatti si insiste sul fatto
che un forte indizio, se non addirittura una vera e propria prova, di pronoia è l’esistenza di
una pregressa inimicizia tra vittima e assassino (era un suo nemico, ergo lo ha ucciso58: ma è
evidente che la pregressa inimicizia di per sé non può bastare a dimostrare l’esistenza
dell’elemento soggettivo, anche perché di regola i riferimenti all’odio pregresso sono generici, e dunque non rimandano in modo specifico all’esistenza di un piano preordinato a uccidere); qualche altra volta si indugia invece sul fatto che la pronoia è la volontà di uccidere che
può essere ritenuta sussistente soltanto qualora l’assassino usi un oggetto idoneo a uccidere
che egli porti con sé proprio per quello scopo (pertanto, se uccido tirando un sasso raccolto
per strada non si può dire che io abbia ucciso con pronoia, mentre se uccido con un’arma da
taglio appositamente portata da casa si può legittimamente dire che ho ucciso con pronoia59:
55
Ant. Nov. 3: µὴ ἅπαξ ἀλλὰ καὶ πολλάκις ἤδη ληφθεῖσαν τὸν θάνατον τὸν ἐκείνου ἐπ᾽ἀυτοφώρῳ
µηχανωµένην, «non una ma più volte è stata sorpresa in flagrante a macchinare la sua morte».
56
In questi termini MANTOVANI, 2007, p. 520, che pure sottolinea la difficoltà di definire che cosa esattamente
debba intendersi con il termine; nello stesso senso vd. anche GAROFOLI, 2003, p. 524 ss.
57
Cfr. in termini simili, anche se con conclusioni diverse rispetto a quelle qui prospettate, PHILLIPS, 2007, p. 85.
58
Tale argomento domina, per esempio, nella prima orazione lisiana, Per l’uccisione di Eratostene. Eufileto,
processato nel Delfinio (ossia nel tribunale ateniese ove si giudicava chi ammetteva di aver ucciso, ma asseriva
di averlo fatto legittimamente: cfr. Arist. Ath. Pol. 57.3), nel dimostrare di aver ucciso l’amante (moichos) della
propria moglie kata tous nomous, ossia in una delle circostanze a cui le leggi accordavano impunità, deve al contempo ribattere all’argomento dell’accusa di aver ucciso con pronoia, e nello specifico di aver simulato a bella
posta l’esistenza di una relazione tra la vittima e la propria moglie per togliere di mezzo un proprio antico nemico (Lys. De caed. Erat. 4).
59
Così Lys. 4.6-7. È stato tuttavia sottolineato (vd., e.g., CAREY, 1989, p. 105 s.) che tale testimonianza – nella
quale l’imputato ricorda a proprio vantaggio che la presenza di pronoia è rivelata dall’uso di un pugnale piutto-
16
in questo caso si suppone l’esistenza della macchinazione, benché poi questa non implichi né
l’esistenza di un lasso temporale ampio, né il consolidamento nel tempo, né la persistenza nel
tempo del proposito).
Questo sintetico quadro basta a dare conto della difficoltà di identificare la pronoia con
la premeditazione: da quanto or ora detto, infatti, è chiaro che gli Ateniesi non guardavano, o
almeno non necessariamente guardavano, al tempo impiegato per formulare il proposito60. Ma
è allora legittima l’equiparazione tra pronoia e dolo tout court, suggerita dal succitato passaggio aristotelico che sembra giustificare, per la prima, una definizione in termini di rappresentazione e volontà, per cui il risultato deve essere preveduto e voluto dall’agente come conse sto che, come nel suo caso, di un coccio raccolto da terra e utilizzato poi per colpire – sembra essere in contraddizione con quanto si dice in un’altra orazione avente a oggetto un caso simile, e per la precisione in Lys. Sim.
28, ove al contrario risulta che anche l’uso di un ostrakon per uccidere costituisce pronoia (ma in questo caso è
soltanto riferito il contenuto dell’accusa, alla quale la difesa non ribatte, per cui la contraddizione non è necessariamente esistente). Si deve peraltro ricordare che in entrambi i discorsi lisiani appena citati la pronoia non è relativa a casi di phonos, bensì di trauma ek pronoias, anch’esso di competenza dell’Areopago (cfr. Arist. Ath.
Pol. 57.3) Con che cosa debba essere identificato l’illecito di trauma ek pronoias è peraltro controverso: mentre
una parte della dottrina tende a ritenere che esso consistesse nel tentato omicidio (correttamente, a mio vedere,
come inequivocabilmente si evince da Lys. Sim. 41, citato poco oltre, e 42: ὅσοι ἐπιβουλεύσαντες ἀποκτεῖναί
τινα ἔτρωσαν, ἀποκτεῖναι δὲ οὐκ ἐδυνήθησαν, “quanti, tramando per uccidere qualcuno, si limitarono a ferire e
non furono in grado di uccidere”), altri sono invece propensi a credere che si trattasse di ferimento intenzionale.
Anche in questo frangente, l’adesione all’una o all’altra delle ipotesi dottrinali dipende dal significato che si attribuisce a pronoia (ammettendo che, come mi pare ragionevole, il termine abbia il medesimo valore con riferimento tanto al phonos quanto al trauma: in questo senso PHILLIPS, 2007, p. 85; contra, GAGARIN, 1981, p. 33, e,
sulla sua scorta, PELLOSO, 2012, p. 188 nt. 14): nell’un caso, essa sarà da intendere come “premeditazione”, o al
più come “intenzione di uccidere”, mentre nel secondo come “intenzione di ferire”; per la disamina dello status
quaestionis si rimanda da ultimo a PHILLIPS, 2007, p. 74 ss., rispetto alle cui conclusioni non posso tuttavia esimermi dal dissentire. Lo studioso, che come già noto (vd. supra, nt. 38) identifica – sulla scorta di LOOMIS, 1972
– la pronoia con il semplice harmful intent, sostiene che il tentativo di entrambi gli oratori dei discorsi lisiani in
esame, cioè di dimostrare che la pronoia del trauma «required not simply an intent to wound (intent as to act)
but an intent to kill (intent as to result)» (p. 86), non va inteso alla lettera, giacché «it was not a legal necessity»
(p. 85); esso va semmai assunto come argomento a fortiori per ottenere l’assoluzione, dal momento che
l’Areopago avrebbe difficilmente inflitto una condanna grave – l’esilio e la confisca dei beni, prevista per i colpevoli di trauma ek pronoias (cfr., e.g., Lys. Sim. 42, 47; Lys. 4.20) – a imputati nei quali non fosse ravvisabile
una chiara intenzione di uccidere. Ciò tuttavia, aggiunge Phillips, «reflects (if true) the casuistic application of
the trauma law by the Areopagite jury, not the wording or intent of the law itself» (p. 87), come dimostrerebbe il
fatto che nessuna legge è citata al riguardo, e che l’oratore di Lys. Sim. è il primo ad ammettere che
l’intendimento di pronoia nel senso di “intenzione di uccidere” è frutto di una sua propria interpretazione (Lys.
Sim. 41: οὐδεμίαν ἡγούμην πρόνοιαν εἶναι τραύματος ὅστις μὴ ἀποκτεῖναι βουλόμενος ἔτρωσε, “and besides, I thought there was no intent of wound if someone wounded without intending to kill”; la traduzione del
passo e il corsivo sono di PHILLIPS, 2007, p. 87). Ora, a me pare innanzitutto che la mancata citazione della legge
non costituisca affatto un argomento determinante: il nomos di riferimento doveva già essere noto agli Areopagiti in quanto incluso nell’egklēma, ossia nel documento presentato dall’accusatore al momento della richiesta
dell’azione; e al riguardo possono anche valere le considerazioni di LANNI, 2006, p. 96, per la quale l’assenza di
una esplicita citazione e richiesta di lettura di leggi da parte degli oratori nelle cause svolte davanti ai tribunali di
sangue può essere assunta come spia della competenza dei giudici che sedevano in essi, e che, in quanto Areopagiti, erano tutti ex magistrati. In secondo luogo, la legge di certo non doveva offrire una definizione di pronoia;
e, in assenza di tale definizione, era in primo luogo l’interpretazione offerta ai giudici dai logografi (una interpretazione che doveva naturalmente apparire attendibile e non forzata, e il più possibile fedele ai propositi del legislatore) a determinare i contorni e la portata della pronoia stessa (sul punto vd. GAGARIN, forth.). Pertanto, visto
che – come del resto lo stesso Phillips è propenso a credere – è verosimile ritenere che entrambi gli imputati
vennero assolti, e che dunque i giudici riconobbero che essi non avevano agito con intenzione di uccidere, mi
chiedo se non sia corretto ritenere che la definizione della pronoia doveva di fatto coincidere con
l’interpretazione comune che del termine si dava (e dunque essa valeva come “intent to kill”, non già come “intent to harm”).
60
Corretta, in tal senso, l’osservazione di LOOMIS, 1972, p. 94: «When the Athenians spoke of πρόνοια they
were thinking of the quality of that intent rather than the time spent in its formulation» (corsivo dell’a.).
17
guenza del suo agire? In effetti, tanto il caso aristotelico della Ethica Megale, quanto quello
simile dell’orazione antifontea, sembrano dimostrare che la pronoia poteva dirsi presente solo
qualora l’agente agisse per realizzare finalisticamente l’evento morte e solo quando in lui
fosse ravvisabile la rappresentazione delle sicure conseguenze letali del proprio atto; se questo
è vero, è lecito inferire che la pronoia vada semmai identificata con il nostro dolo intenzionale
(o tutt’al più con il nostro dolo diretto61), e che non si poteva parlare di pronoia in presenza di
una semplice e generica “accettazione del rischio” che configura oggi il dolo indiretto o eventuale62. In definitiva, non credo sia fuori luogo concludere che il pro di pronoia, come anche
di pro-dianoeomai, rimandi, più che al fattore temporale insito nella nostra “premeditazione”,
piuttosto alla “consapevole prefigurazione” o “figurazione anticipata” delle conseguenze fatali del proprio comportamento, che porta il soggetto ad avere come fine della propria condotta
esattamente la realizzazione del fatto illecito. Questa conclusione dovrà essere ulteriormente
approfondita, in primis verificando quale fosse, in diritto ateniese, il trattamento degli omicidi
perpetrati con quello che noi definiremmo “dolo d’impeto”, ossia con una volontà che, senza
alcuna precedente prefigurazione, si forma al momento stesso della commissione dell’illecito,
che è di conseguenza il risultato di una decisione improvvisa e immediatamente eseguita.
5. Uccidere in the heat of the moment
Nel lessico ateniese il termine che designa l’omicidio commesso da chi agisce
d’improvviso, per “impeto”, come si legge in particolare nelle Leggi di Platone, è phonos
thymō (o dia thymon)63.
Come è ormai noto, la corrente dottrinale che sostiene la necessità di una interpretazione in chiave estensiva di pronoia fa rientrare l’omicidio perpetrato in the heat of the moment
nella categoria del phonos ek pronoias. Le fonti addotte a dimostrazione construens di tale tesi sono, principalmente, due64: l’orazione demostenica contro Conone; e la Terza Tetralogia
di Antifonte. Nella prima, discorso di accusa pronunciato da tale Aristone nel corso di una
dikē aikeias (“azione per percosse”), l’attore ricorda dapprima le ripetute aggressioni organizzate ai suoi danni dall’imputato65, quindi sottolinea en passant che, se egli fosse morto a se 61
Per la distinzione tra dolo intenzionale e dolo diretto vd., e.g., GAROFOLI, 2003, p. 504 ss.; FIANDACA, MUSCO,
2008, p. 361: «il dolo è definibile intenzionale (o diretto di primo grado) quando il soggetto ha di mira proprio la
realizzazione della condotta criminosa (reato di azione), ovvero la causazione dell’evento (reato di evento) […].
La realizzazione del fatto illecito costituisce, dunque, l’obiettivo finalistico che dà causa alla condotta, lo scopo
in vista del quale il soggetto agisce […]. Questa forma di dolo è caratterizzata dal ruolo dominante della volontà,
che raggiunge l’intensità massima […]. Il dolo è diretto (più precisamente, di secondo grado) tutte le volte in cui
l’agente si rappresenta con certezza gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice, e si rende conto che la
sua condotta sicuramente la integrerà. Esso si configura quando la realizzazione del reato non è l’obiettivo che
dà causa alla condotta, ma costituisce soltanto uno strumento necessario perché l’agente realizzi lo scopo perseguito […]. Questa figura di dolo è caratterizzata dal ruolo dominante della rappresentazione» (corsivo dell’a.).
Contra, per la sostanziale identità tra dolo intenzionale e diretto vd. RANIERI, 1968, p. 308; ANTOLISEI, 1991, p.
309, 316; MANTOVANI, 2007, p. 362.
62
Cfr., e.g., FIANDACA, MUSCO, 2008, p. 263: «la configurabilità del dolo eventuale ha, innanzitutto, per presupposto che il soggetto agisca senza il fine di commettere il reato: altrimenti, egli agirebbe con dolo intenzionale.
Piuttosto, l’agente deve rappresentarsi la commissione di un reato soltanto come conseguenza “possibile” di una
condotta diretta ad altri scopi».
63
Plat. Leg. 866d5-867c1, ove si tratta diffusamente della disciplina che dovrà essere riservata a chi uccide
thymō.
64
Per una rassegna completa vd. LOOMIS, 1972, p. 92 ss.
65
Dem. Con. 3-12.
18
guito dell’ultima e violentissima aggressione – come era verosimile date le condizioni estremamente precarie in cui era stato ridotto –, Conone avrebbe potuto essere convenuto in giudizio con un’azione per omicidio davanti ai giudici dell’Areopago, e dunque con una dikē phonou ek pronoias66. Ciò – in assenza di qualsiasi riferimento tanto alla premeditazione quanto a
una specifica volontà di uccidere – sarebbe spia del fatto che gli omicidi commessi in the heat
of the moment, caratterizzati inoltre da un semplice intent to harm, sarebbero stati considerati
ek pronoias67. Quanto al caso della Terza Tetralogia – opera di scuola così chiamata perché in
essa sono presentati i quattro discorsi normalmente pronunziati nelle cause di omicidio, ossia
l’orazione dell’accusa, l’orazione della difesa e le due rispettive repliche –, esso ha come oggetto l’uccisione di un uomo che, dopo avere per primo aggredito l’imputato, era stato da questi a sua volta colpito a morte; anche in questa circostanza, l’omicidio era considerato ek pronoias anche se «the fatal act was committed in sudden rage», e anche se, inoltre, lo stesso accusatore specifica a chiare lettere l’assenza di volontà di uccidere nell’imputato (che infatti
«fece più di quanto voleva», µείζω ὧν ἤθελε πράξας, 3.4)68.
Ora, a me pare che nessuna delle due fonti possa dirsi probante ai fini della dimostrazione che nel diritto ateniese gli omicidi d’impeto erano compresi nella categoria del phonos
ek pronoias. Nel primo caso, infatti, mi pare innanzitutto di non poco momento rilevare da un
lato che il cursorio accenno da parte di Aristone all’utilizzo condizionale dell’azione per omicidio ek pronoias può ben essere inteso come espediente retorico per amplificare le colpe e le
responsabilità dell’imputato, e dall’altro che, non inerendo il discorso a un’azione di omicidio
ek pronoias, l’accusa non ha motivo di insistere sulla volontà di uccidere dell’imputato. E,
comunque sia, nell’ambito della azione per percosse mossa dall’accusatore, i riferimenti insistenti al carattere ripetuto degli assalti da parte di Conone e compagni, all’organizzazione
dell’ultima e solo per caso non fatale aggressione, all’esistenza di un odio risalente
dell’imputato verso l’attore, alla natura profondamente hybristica di Conone, sono argomenti
che, seppure nella loro natura estrinseca, dovevano generare nei giudici la convinzione che
l’imputato aveva macchinato un piano per togliere di mezzo lui, Aristone; un piano che non
aveva avuto successo soltanto perché quest’ultimo era riuscito, miracolosamente, a salvarsi69.
In buona sostanza, Conone non aveva affatto agito d’impeto70.
Quanto alla Terza Tetralogia – ammesso e per nulla affatto concesso che il caso ivi presentato fosse giudicato nell’Areopago in quanto phonos ek pronoias71 – a me sembra che
66
Dem. Con. 28.
LOOMIS, 1972, p. 92 s., quindi PHILLIPS, 2007, p. 85, 86.
68
LOOMIS, 1972, p. 93.
69
Dem. Con. 12: il medico che aveva soccorso Aristone dopo l’aggressione aveva infatti stabilito che egli sarebbe morto nel giro di breve tempo per emorragia interna, a meno che il sangue non fosse spontaneamente defluito
all’esterno; cosa che, per fortuna di Aristone, avvenne.
70
Per ulteriori considerazioni rimando a PEPE, 2009-2010, p. 81 ss.; PEPE, 2012a, p. 111 ss.; vd. anche WALLACE, 1991, p. 77.
71
Per la controversa questione circa la ambientazione del processo fittizio oggetto di questa Tetralogia vd. PEPE,
2012a, p. 118 ss. In questa sede mi limito soltanto a segnalare, come argomento sfavorevole allo svolgimento del
processo nell’Areopago (pace LOOMIS, 1972, p. 93; PHILLIPS, 2007, p. 86; GAGARIN, 1978 – contro cui vd. part.
PEPE, 2008, p. 161 ss. – e da ultimo PELLOSO, 2012, p. 215 ss.), che, nella stele che riporta la legge di Draconte,
il caso dell’uccisione per legittima difesa di un uomo colpevole di aver aggredito per primo (che è esattamente
quanto accade nella Tetralogia in esame) è oggetto di una disciplina autonoma, la quale trova spazio nella sezione della legge (almeno a partire dalla l. 33) dedicata a quelli che comunemente vengono detti phonoi dikaioi, ossia “omicidi legittimi”, per i quali era prevista impunità. È dunque plausibile, a mio parere, ritenere che il caso
67
19
l’accusatore esplicitamente riferisca all’imputato non solo la volontà della condotta lesiva, ma
nello specifico la volontà dell’evento morte:
εἰ γὰρ αἱ χεῖρες ἃ διανοούµεθα ἑκάστῳ ἡµῶν ὑπουργοῦσιν, ὁ µὲν πατάξας καὶ µὴ
ἀποκτείνας τῆς πληγῆς βουλευτὴς ἐγένετο, ὁ δὲ θανασίµως τύπτων τοῦ θανάτου· ἐκ γὰρ
ὧν ἐκεῖνος διανοηθεὶς ἔδρασεν, ὁ ἀνὴρ τέθνηκεν72.
Dunque, mentre la vittima, che colpì e non uccise, deve essere ritenuta soltanto autore
intenzionale del colpo, l’imputato, che colpì mortalmente, deve essere ritenuto autore intenzionale della morte, giacché la vittima morì proprio a seguito di quanto l’imputato fece deliberatamente (rectius, con dianoia: dianoētheis; al riguardo non può essere evitato il confronto
con la dianoia tou apolesthai necessaria, secondo l’Ethica Megale aristotelica, alla condanna
nell’Areopago: vd. supra, par. 4). Quanto poi all’ammissione stessa di parte attrice circa
l’assenza nell’imputato di una specifica volontà di uccidere, in quanto egli di fatto fece “più di
quanto voleva”, è opportuno osservare quanto segue73.
Nel suo discorso principale l’imputato cerca di dimostrare la propria innocenza con tre
diversi argomenti: innanzitutto, egli non può essere ritenuto responsabile sulla base di un mero nesso di causalità, dal momento che la morte va semmai causalmente ascritta al medico incapace e inetto, alle cui cure, dopo la rissa, la vittima fu affidata (2.3-4); in secondo luogo,
egli non agì intenzionalmente, in quanto l’intenzione va ricondotta a chi agì per primo; al più,
egli è disposto ad ammettere di aver avuto contro la vittima la stessa intenzione che quella,
per aver aggredito per prima, aveva nei suoi confronti (2.5); infine, egli non può essere neppure accusato di aver causato la disgrazia (atychia) o di essere autore della imprudenza (aboulia)
che eventualmente determinarono la morte della vittima (2.6). Ora, a ciascuna di queste tre
argomentazioni l’accusa ribatte in questo modo: in primo luogo, quanto al nesso di causalità,
è ridicolo ritenere colpevole dell’accaduto il medico, sia perché per legge egli non è punibile,
sia anche perché il suo intervento fu reso necessario dalle percosse dell’imputato; pertanto, se
il medico non fosse intervenuto, l’imputato avrebbe potuto sostenere che la vittima era morta
per mancanza di cure adeguate (3.5). Quanto poi all’intenzione, la vittima, colpendo, dimostrò
solo la propria intenzione di colpire, laddove l’imputato, uccidendo, rivelò la propria intenzione di uccidere (3.4, riportato supra). Infine, con riferimento alla sventura e alla negligenza,
non fu la vittima, ma l’imputato a commettere l’errore (hamartia, sinonimo, anche se più generico, di aboulia) a seguito del quale la vittima morì, di modo tale che, se il primo fece più di
quanto volle (µείζω ὧν ἤθελε πράξας), la atychia dell’uccidere chi non voleva è ascrivibile a
lui soltanto. Come ben si vede, dunque, la frase in oggetto si inserisce nel tentativo di parte
attrice di smontare l’argomento dell’imputato di non poter essere ritenuto colpevole per “colpa” (come pure per “dolo”, ovvero ancora sulla base di un mero nesso causa-effetto), e non
fittizio oggetto della Terza Tetralogia si svolgesse piuttosto nel tribunale del Delfinio, che aveva appunto il
compito di verificare la sussistenza delle circostanze che avrebbero esentato da pena l’imputato, pur riconosciuto
come autore materiale del fatto; in questo senso vd. anche MACDOWELL, 1963, p. 75; DECLEVA CAIZZI, 1969, p.
12; CARAWAN, 1998, p. 177, 199 ss., 301 ss.
72
Ant. Tetr. III 3.4: «se le mani compiono per ciascuno di noi ciò che ci proponiamo (dianooumetha<dianoia),
l’uno, colpendo e non uccidendo, fu autore intenzionale del colpo, mentre l’altro, colpendo in modo mortale, lo
fu della morte. L’uomo, infatti, morì per ciò che l’imputato fece deliberatamente (dianoētheis<dianoia)».
73
Pace LOOMIS, 1972, p. 93; PHILLIPS, 2007; PELLOSO, 2012, p. 227 s. (e part. nt. 74); sul passaggio vd. anche
HARRIS, 2004, p. 249 s.; WOHL, 2010a, p. 150.
20
può essere affatto intesa come dimostrazione della possibile sussistenza della pronoia anche
in assenza di una specifica volontà di uccidere.
Escluso dunque che il semplice uccidere in the heat of the moment potesse essere qualificato come phonos ek pronoias, e confermato di conseguenza l’assunto che la pronoia non
potesse consistere in un semplice harmful intent, dovremmo concludere che – stante la bipartizione phonos ek pronoias vs. phonos akousios – esso fosse qualificato come phonos akousios. Tuttavia, prima di analizzare le – per la verità sporadiche – attestazioni che in positivo
depongono in favore di tale inclusione, è da segnalare che una parte autorevole del filone dottrinale che identifica la pronoia con la “premeditazione” è propensa piuttosto a inquadrare il
phonos commesso thymō non già nel genus del phonos akousios, bensì in una categoria ulteriore, intermedia rispetto a phonos ek pronoias e phonos akousios, che nelle fonti sarebbe individuata dall’espressione phonos mē ek pronoias, ossia, alla lettera, “omicidio senza pronoia”74. In buona sostanza, chi sostiene questa ipotesi postula per diritto ateniese, auctore
Draconte, non già una bipartizione, ma una tripartizione delle tipologie di omicidio; e ritiene
altresì che il genus tertium qualificabile come phonos mē ek pronoias sia individuato al principio stesso della legge epigrafica di Draconte, ove infatti si legge (IG I3.104, 11): […] ἐὰµ µὲ
᾽κ προνοίας κτένει τίς τινα κτλ., da intendere «se qualcuno uccide un altro senza premeditazione (mē ek pronoias)».
A me sembra tuttavia che la debolezza di tale posizione – rivelata peraltro dalle aporie
che essa solleva nell’ambito della complessiva interpretazione tanto della frase iniziale della
legge quanto della legge nel suo complesso75 – sia ascrivibile in primis a mere ragioni sintattiche: la negazione mē non può riferirsi infatti alla locuzione ek pronoias, ma deve piuttosto
appoggiare sul verbo, ktenei. In altre parole, la frase non va intesa “se qualcuno uccide un altro senza premeditazione (mē ek pronoias)”, ma piuttosto “se qualcuno non uccide (mē… ktenei) ek pronoias”76. Il che sarebbe peraltro confermato dal fatto che le fonti parlano stabilmente e univocamente di due sole tipologie di omicidio, appunto ek pronoias e akousios77. Se
74
CANTARELLA, 1975, p. 295 ss.; CANTARELLA, 1976, p. 105 ss., sulla scia di un accenno in STROUD, 1968, p.
41; cfr. anche BISCARDI, 1982, p. 287 ss.
75
Infatti, ammettendo (in una con la tendenza dominante soprattutto negli anni passati) che la legge draconiana
conservata sull’epigrafe si apra con la disciplina dell’omicidio involontario (o più specificamente, secondo
l’ipotesi di Cantarella, del phonos mē ek pronoias), sarebbe necessario trovare una risposta soddisfacente circa la
possibile collocazione delle norme relative all’omicidio ek pronoias, che pure, per esplicita ammissione delle
fonti antiche (Ant. Her. 14-5, Chor. 2; Dem. Lept. 158, Aristocr. 51, Euerg. et Mnes. 71; Arist. Ath. Pol. 7.1),
furono oggetto della regolamentazione del primo legislatore ateniese ed erano ancora in vigore nel V-IV sec.
a.C. Tuttavia, le possibili soluzioni fornite al riguardo (ossia: che le norme relative al phonos ek pronoias fossero
state pubblicate su una differente stele, oggi perduta; ovvero che esse fossero state abrogate prima della ritrascrizione della legge draconiana del 409/8; o ancora che esse non necessitassero di ritrascrizione sulla stele del
409/8 perché in buono stato di conservazione) incorrono in obiezioni consistenti, in primis perché contraddicono
quanto si legge nel decreto introduttivo che precede, sull’epigrafe, la ritrascrizione della legge stessa: qui è infatti
scritto a chiare lettere che sulla stele doveva essere ritrascritta “la” legge di Draconte (IG I3.104, ll. 4-5: τὸν
Δράκοντος νόµον τὀµ περὶ τõ φόνο), dunque nella sua integralità e senza omissione alcuna (per lo status quaestionis e una disamina più approfondita delle diverse ipotesi vd. da ultima PEPE, 2012a, p. 18 ss., a cui rimando
anche per una possibile ipotesi circa il valore complessivo della problematica frase iniziale della legge epigrafica; per conclusioni simili vd. altresì PHILLIPS, 2008, p. 51 e nt. 74; MIRHADY, 2008, p. 16 s.; PELLOSO, 2012, p.
193 s. nt. 24).
76
In questo senso, persuasivamente, GAGARIN, 1981, p. 30 s., 36; cfr. anche PEPE, 2012a, p. 131 s.; PELLOSO,
2012, p. 192 s. nt. 23.
77
Cfr., e.g., Arist. Ath. Pol. 57.e; Dem. Mid. 43, Aristocr. 45, 50; il silenzio delle fonti circa l’esistenza
dell’autonoma categoria di phonos mē ek pronoias, intermedia tra phonos ek pronoias e phonos akousios, è giu-
21
è così, è evidente che l’omicidio d’impeto non possa essere qualificato come mē ek pronoias,
“non premeditato”, per il semplice fatto che tale categoria autonoma non esisteva78.
Dimostrata pertanto in negativo l’impossibilità di includere il phonos thymō tra omicidi
ek pronoias e mē ek pronoias, va osservato che le testimonianze che in positivo provano la
sua qualifica di phonos akousios sono di fatto esigue. Anzi, sembrerebbero deporre in senso
contrario i passaggi aristotelici ai quali si è fatto in precedenza cenno (vd. supra, par. 4), nei
quali il filosofo designa le azioni thymō non già come akousiai, “involontarie”, ma piuttosto
come hekousiai, “volontarie”, benché poi escluda che esse siano ek proaireseōs (ossia determinate sul piano morale da quella proairēsis, “scelta deliberata”, che in termini giuridici, come si è visto, può essere considerata l’equivalente della pronoia). È giusto tuttavia ritenere
che sul punto la classificazione aristotelica presenti notevoli elementi di novità rispetto a quella, sostanzialmente coeva, elaborata sul punto da Platone nelle Leggi, ove, nella trattazione
dedicata al phonos thymō, il filosofo sostiene che chi agisce in preda all’ira, quando la sua
azione sia immediata e istintiva, commette un atto, se non propriamente akousios, comunque
simile all’akousios79. E che su questo punto il pensiero di Platone rispecchi la convinzione
tradizionale è confermato tanto dal fatto che in diversi testi letterari chi uccide in preda a raptus è detto agire “involontariamente”80, quanto anche da un passaggio – sulla cui storicità e
attendibilità è tuttavia giusto ricordare che si nutrono diversi sospetti – che ha specifica attinenza con un processo: nell’anonima Vita di Tucidide si racconta infatti che lo storico diede
in gioventù una prova eccellente del suo straordinario talento oratorio facendo assolvere un
cittadino di nome Pirilampe, accusato dell’omicidio ek pronoias del proprio amante, dimostrando che egli aveva ucciso per repentino accesso di gelosia, e dunque non con pronoia81.
stificato da CANTARELLA, 1976, p. 107 s., con l’argomento che gli autori antichi si limitano a contrapporre «la
forma in cui si esprimeva il massimo della volontarietà e quella in cui, invece, si esprimeva il minimo di essa richiesto per la punibilità dell’atto».
78
Al riguardo vd., da ultimi, PEPE, 2012a, p. 130 ss.; PELLOSO, 2012, p. 206 s. nt. 42. Sull’unicità della categoria
dell’involontario, ma nei termini di una sinonimia tra le espressioni mē ek pronoias e akousios, vd. anche, tra gli
altri, GERNET, 1917, p. 352 s.; MASCHKE, 1968, p. 53 ss., 60 (secondo il quale i due termini, equivalenti in Draconte, più tardi si differenziarono, a indicare rispettivamente il Totschlag e l’unvorsätzliche Tötung); LOOMIS,
1972, p. 94.
79
Per la verità il pensiero platonico sul punto è ben più articolato e implica una distinzione tra l’agire thymō,
cioè “per ira”, d’improvviso, da un lato, e a distanza di tempo, dall’altro; afferma infatti il filosofo (Leg. 867a3b7): ὁ µὲν τὸν θυµὸν φυλάττων καὶ οὐκ ἐκ τοῦ παραχρῆµα ἐξαίφνης ἀλλὰ µετὰ ἐπιβουλῆς ὕστερον χρόνῳ
τιµωρούµενος ἑκουσίῳ ἔοικεν, ὁ δὲ ἀταµιεύτως ταῖς ὀργαῖς καὶ ἐκ τοῦ παραχρῆµα εὐθὺς χρώµενος
ἀπροβουλεύτως ὅµοιος µὲν ἀκουσίῳ, ἔστι δὲ οὐδ’ οὗτος αὖ παντάπασιν ἀκούσιος ἀλλ’ εἰκὼν ἀκουσίου. διὸ
χαλεποὶ διορίζειν οἱ τῷ θυµῷ πραχθέντες φόνοι, πότερον ἑκουσίους αὐτοὺς ἤ τινας ὡς ἀκουσίους νοµοθετητέον,
βέλτιστον µὴν καὶ ἀληθέστατον εἰς εἰκόνα µὲν ἄµφω θεῖναι, τεµεῖν δὲ αὐτὼ χωρὶς τῇ ἐπιβουλῇ καὶ ἀπροβουλίᾳ,
καὶ τοῖς µὲν µετ’ ἐπιβουλῆς τε καὶ ὀργῇ κτείνασιν τὰς τιµωρίας χαλεπωτέρας, τοῖς δὲ ἀπροβουλεύτως τε καὶ
ἐξαίφνης πρᾳοτέρας νοµοθετεῖν, «colui che conserva la sua ira (thymon) e non si vendica subito, d’improvviso,
ma a distanza di tempo e deliberatamente assomiglia a un omicida volontario (hekousios), mentre colui che agisce senza controllare la sua ira, d’improvviso, subito e senza premeditazione assomiglia a un omicida volontario
(akousios); e questo non è del tutto involontario, ma assomiglia all’involontario. Per questo è difficile definire gli
omicidi perpetrati per ira (thymō), se per legge essi debbano essere definiti come volontari o involontari. La cosa
migliore e più vera è classificarli entrambi come somiglianze, e distinguerli sulla base della presenza o
dell’assenza di intenzione, e stabilire per legge pene più aspre per chi uccide per ira ma intenzionalmente, pene
più lievi per chi uccide senza intenzione e d’improvviso». È evidente che l’omicidio thymō di cui si sta qui trattando nello specifico, risultato di una decisione improvvisa immediatamente eseguita, è assimilabile al secondo
dei tipi di omicidio thymō individuati da Platone, quello “simile all’involontario” e per questo veniale; sul passo
vd. PEPE, 2012a, p. 105 s.
80
Per la rassegna di questi testi vd. PEPE, 2012a, p. 134 ss.
81
Thuc. Vit. 6, su cui vd. CARAWAN, 1998, p. 114, 300 s.; PEPE, 2012a, p. 139 s.
22
La combinazione di tutte le testimonianze fin qui analizzate porta dunque a concludere
che, mentre noi assumiamo che l’omicidio d’impeto è doloso in quanto esso non esclude la
volontà del soggetto, la quale si forma nel momento stesso della commissione dell’illecito, al
contrario per i Greci esso non può essere ritenuto tale perché l’accesso improvviso di ira o di
gelosia si riteneva togliesse all’individuo la capacità di intendere e di volere: nella sua azione
manca di conseguenza tanto la volontà quanto anche la “consapevole prefigurazione” delle
conseguenze del proprio agire che, come si è visto, integrano l’elemento soggettivo della pronoia. Chi uccide thymō, dunque, commette un omicidio che, se non è ek pronoias, non poteva
altro che essere akousios.
6. Il caso del lanciatore di giavellotto: tra colpa e responsabilità oggettiva
Il genus dell’akousion non si limitava tuttavia a comprendere soltanto il phonos thymō;
esso – naturalmente considerato nella nostra ottica – è infatti una sorta di categoria residua,
atta a ospitare tutti gli omicidi sprovvisti di pronoia. E l’opera che meglio di ogni altra può
servire a chiarire quali potessero essere i requisiti minimi perché l’omicidio fosse ritenuto
akousios è la Seconda Tetralogia di Antifonte: come già noto, dunque, non un discorso giudiziario ma un’opera di scuola, avente questa volta a oggetto un caso di phonos akousios che si
immagina discusso davanti al Palladio, il tribunale ateniese competente appunto per questo
tipo di omicidio82.
Il caso oggetto della Seconda Tetralogia è il seguente: un giovane lanciatore di giavellotto, nel corso di una seduta di allenamento in palestra, scagliando la sua asta colpisce e trafigge a morte un compagno incaricato della raccolta dei giavellotti già lanciati; egli è dunque
convenuto in giudizio dal padre della giovane vittima, che formula la sua accusa in termini
concisi, lapidari e, a suo parere, incontestabili: poiché suo figlio è morto dopo essere stato
colpito al fianco dall’imputato, questi è chiaramente responsabile di phonos akousios83, e deve
pertanto incorrere nella pena dell’esilio prevista dalla legge. Dal canto suo la difesa, rappresentata dal padre del giovane imputato, concorda sul fatto che l’omicidio fu involontario,
akousios, ma ritiene che di esso il proprio figlio non possa essere ritenuto responsabile: lo sarebbe, infatti, solo se si riconoscesse che egli aveva agito in preda a violenza e mancanza di
controllo (ὕβρει [καὶ] ἀκολασίᾳ, 2.3), oppure che il giavellotto era stato da lui scagliato oltre i
limiti della traiettoria (2.4), o ancora che egli aveva effettuato il suo lancio non obbedendo a
un ordine (evidentemente impartito dal maestro di ginnastica) ma contravvenendo a un divieto, e inoltre da una posizione scorretta, dopo essersi allontanato dal gruppo dei lanciatori
(2.7). Poiché, tuttavia, nessuna delle precedenti affermazioni può essere dimostrata come vera, e poiché inoltre è corretto ritenere colpevole di phonos akousios colui nel cui comportamento sia ravvisabile un hamartēma – alla lettera “errore” ma più propriamente, come si vedrà tra breve, “colpa” (2.6) –, si deve inferire che l’imputato, per non aver commesso alcun
hamartēma (2.7; 2.11), vada assolto, per il semplice fatto che egli «lanciò il giavellotto, ma
82
Sulla Seconda Tetralogia e sulla particolare sottigliezza con la quale è in essa indagato il nesso tra causalità e
responsabilità vd. GAGARIN, 1979, p. 303; GAGARIN, 2002, p. 120 s.; WOHL, 2010a, p. 122.
83
Ant. Tetr. II 1.1: οἶµαι µὲν οὖν οὐδὲ ἀµφισβητήσειν πρὸς ἐµὲ τὸν διωκόµενον· ὁ γὰρ παῖς µου ἐν γυµνασίῳ
ἀκοντισθεὶς διὰ τῶν πλευρῶν ὑπὸ τούτου τοῦ µειρακίου παραχρῆµα ἀπέθανεν. ἑκόντα µὲν οὖν οὐκ ἐπικαλῶ
ἀποκτεῖναι, ἄκοντα δέ, «penso che neppure l’imputato sarà in disaccordo con me; mio figlio infatti, colpito al
fianco nel ginnasio dal giovane qui presente, morì sul colpo. Io non lo accuso di averlo ucciso volontariamente
(hekōn), ma involontariamente (akōn)».
23
non uccise nessuno» (ἔβαλε µέν, οὐκ ἀπέκτεινε δὲ οὐδένα, 2.3). Né bisogna per questo ritenere – prosegue – che in tal modo l’omicidio risulti impunito: gli eventi denunciano infatti come
autore di hamartēma lo stesso giovane rimasto ucciso, che, muovendosi per la raccolta dei
giavellotti in un momento inopportuno, si frappose tra il giavellotto che veniva scagliato in
quel momento dall’imputato e il bersaglio che questi doveva raggiungere (2.5; 2.7-8; 4.5); la
morte è dunque la conseguente (anche se eccessiva) autopunizione per l’hamartēma da lui
stesso commesso (4.8); se così non fosse, sarebbe giusto considerare corresponsabili in solido
della morte del giovane tutti i lanciatori presenti, i quali non colpirono a morte la vittima non
già perché non lanciarono, ma perché nessun ostacolo si frappose tra il loro lancio e il bersaglio (4.6).
Il ricorso del padre del giovane imputato ad argomentazioni che egli stesso non esita a
definire λεπτὰ δὲ καὶ ἀκριβῆ, «sottili e acute» (4.2) sollecita la risposta dell’accusatore, colto
alla sprovvista dall’inaspettata e audace presa di posizione della controparte (3.1-3): questi,
sottolineando l’impudenza di chi giunge addirittura a negare che chi scagliò e uccise non colpì
nè uccise, ribadisce che, poiché la vittima morì non per cause indipendenti dal lancio, ma in
conseguenza del lancio stesso, l’imputato è chiaramente da ritenersi omicida, in forza della
legge che prescrive di punire, sic et simpliciter, chi uccide (3.5-8)84.
Da quanto detto è chiaro che il convergere di accusa e difesa sull’uso del significante
akousios per indicare il phonos di cui il giovane è stato vittima non implica affatto il loro
accordo sul significato da attribuire all’aggettivo. Con tutta evidenza, nella Tetralogia si
scontrano due diverse concezioni della “involontarietà” indicata da akousios: in forza della
prima, di cui si fa portavoce l’accusa e che ben può essere definita “tradizionale” in quanto
senza dubbio radicata nella mentalità greca più antica, responsabile di phonos akousios deve
essere ritenuto chi abbia anche solo meccanicamente commesso il fatto; anche la semplice responsabilità oggettiva deve essere pertanto sanzionata, in forza del principio che l’omicidio
deve sempre avere un colpevole, pure nel caso in cui questi vada identificato con colui che ha
procurato la morte sulla base di un mero rapporto causa-effetto85. Sull’opposto versante, per
84
Gli argomenti del discorso di replica dell’accusa sono in effetti più complessi: invitando i giudici a non farsi
persuadere dall’infida sottigliezza delle parole della difesa (πονηρᾶς λόγων ἀκριβείας, 3.3), e a credere piuttosto
alle sue meno ingannevoli, ancorché meno efficaci, dichiarazioni (ἀδολώτερον καὶ ἀδυνατώτερον, 3.4), egli, assumendo soltanto ex hypothesi per valida la definizione della difesa che colpevole di phonos akousios è colui nel
cui comportamento sia ravvisabile hamartēma, ricorda che neppure il proprio figlio è colpevole di hamartēma,
secondo quanto sostenuto da controparte, visto che si mosse per ordine del maestro di ginnastica (3.6); in tal caso, tuttavia, l’eventuale responsabilità del maestro è esclusa in radice (3.7; diversa invece la possibile risposta a
un caso simile di cui si dà conto in Plut. Per. 36.3: nel passo si racconta della lunga discussione tra Pericle e Protagora intorno a chi – se il lanciatore, i giudici di gara o il giavellotto medesimo – dovesse essere considerato responsabile di phonos akousios nel caso in cui il giavellotto scagliato da un concorrente nel corso di una competizione avesse causato akousiōs la morte di qualcuno; per l’analisi di tale passaggio e per i principali riferimenti
bibliografici vd. da ultima PEPE, 2012a, p. 154 ss.). Assumendo poi per vero, ancora ex hypothesi, che il proprio
figlio abbia commesso hamartēma per non essere stato fermo ed essersi dunque posto sulla traiettoria del giavellotto, è tuttavia necessario considerare colpevole di hamartēma anche il lanciatore, per il sol fatto che anche egli
non rimase fermo ma lanciò il giavellotto (3.10). Per il valore di un simile ragionamento di mera replica alle hypotetical antitheses dell’avversario vd. GAGARIN, 2002, p. 120.
85
In questo senso vd. anche Plat. Leg. 865 b-c. Sul punto cfr. ADKINS, 1964, p. 164 ss.; WILLIAMS, 2007, p. 73
ss.; WOHL, 2010a, p. 123 ss. (con interessanti rilievi sul tema del miasma, “contaminazione”, che, nel discorso
dell’accusatore nella Tetralogia in esame, giustifica l’eliminazione di ogni possibile riferimento all’intenzione
per determinare la responsabilità: «as a theory of justice […], pollution functions according to the same presuppositions as govern the plaintiff’s first speech: every act has an agent; liability for the act rests with the agent; the
wrong of the act can be righted only by punishing the agent. Miasma cares no more for motive or intention than
24
contro, si propone una concezione chiaramente più nuova rispetto a quella sostenuta
dall’accusa – una concezione che verosimilmente si delineò proprio negli anni in cui le Tetralogie vennero composte, verso la fine del V secolo a.C.86 –, in forza della quale aitios, “responsabile”, di phonos akousios è da ritenere soltanto colui nel cui comportamento sia riconoscibile una mancanza di controllo, e dunque una imprudenza (akolasia), ovvero una imperizia
(lancio nella direzione sbagliata o dalla posizione scorretta), o ancora il mancato rispetto di un
ordine (impartito, nel caso specifico, dal maestro di ginnastica). In tale concezione, il phonos
akousios può ben dirsi corrispondere al nostro omicidio colposo.
Questo naturalmente è ben lungi dal significare che quando parlavano di phonos akousios gli Ateniesi avevano in mente quello che noi definiamo omicidio colposo: tanto perché,
come si è visto, è opportuno ritenere quella del phonos akousios una categoria residuale comprendente tutti gli omicidi privi di pronoia (e dunque, come si è visto, anche l’omicidio, per
noi doloso, commesso d’impeto); quanto anche perché nell’opera di cui si è fin qui parlato, la
Seconda Tetralogia, le due definizioni di akousios sostenute da accusa e difesa (ossia, rispettivamente, responsabilità oggettiva vs. responsabilità per colpa) sono, secondo quanto richiesto dalla stessa natura antilogica dell’opera, equipollenti; d’altro canto, come si è visto, la difesa è la prima ad ammettere che la propria interpretazione, decisa a escludere una responsabilità di tipo oggettivo e a fondare la responsabilità unicamente sulla presenza nell’imputato
di un hamartēma, è “sottile e acuta”, sviluppata cioè con quegli argomenti tipicamente sofistici che sono alla base delle Tetralogie stesse.
7. Conclusioni
Ciò nonostante, diversi indizi nelle fonti – filosofiche, retoriche, tragiche, nonché anche
logografiche – coeve o successive rispetto alle Tetralogie inducono a ritenere che la definizione di akousios sostenuta dal padre del lanciatore di giavellotto non fosse affatto isolata.
Simili indizi dimostrano infatti l’esistenza di un vivace dibattito volto a mettere in discussione
il concetto tradizionale di responsabilità, tanto – genericamente – morale, quanto – più nello
specifico – penale; un dibattito che tendeva in definitiva a escludere che responsabile (morale
e penale) di un’azione potesse essere colui al quale essa andava solo meccanicamente ricondotta – giacché in simili frangenti si ammetteva che il soggetto in realtà subiva l’azione, più
che compierla –, e che pertanto propendeva a qualificare come tale soltanto colui che, colpevole di hamartēma, avesse contribuito attivamente a porla in essere87. In tale contesto, è notevole che nel giro di qualche decennio, all’interno ben nota classificazione aristotelica dei
“danni” (blabai), la nozione di hamartēma accolta e sviluppata nel discorso di difesa della Seconda Tetralogia finisca per assumere connotati che ben possono essere definiti tecnici:
does the plaintiff», p. 124); per la contiguità delle argomentazioni dell’accusa nella Seconda Tetralogia con il
motivo tragico del drasanta pathein (in forza del quale chi agisce è costretto a subire in ogni caso le conseguenze della propria azione) vd. WOHL, 2010b, p. 40 ss.
86
Prescindo qui dalla vexatissima quaestio circa la datazione delle Tetralogie, che si riconnette all’altrettanto
dibattuta questione circa la loro paternità (per la principale bibliografia di riferimento vd. PEPE, 2012a, p. 146 s.
nt. 33; DE LILLO, 2012, p. 46 nt. 6), e do in questa sede per scontato che l’opera sia da attribuire all’oratore Antifonte, e che vada dunque collocata nell’ultimo quarto del V secolo a.C.
87
Per le testimonianze circa l’esistenza, nell’Atene di quegli anni, di un vivace dibattito intellettuale su colpa e
responsabilità vd. PEPE, 2012a, p. 157 ss.
25
ἔστιν ἀτυχήµατα µὲν γὰρ ὅσα παράλογα καὶ µὴ ἀπὸ µοχθηρίας, ἁµαρτήµατα δὲ ὅσα µὴ
παράλογα καὶ µὴ ἀπὸ πονηρίας, ἀδικήµατα δὲ ὅσα µήτε παράλογα ἀπὸ πονηρίας τέ
ἐστιν88.
Dunque – afferma Aristotele nella Retorica, con considerazioni che ricorrono in termini
sostanzialmente identici nell’Etica Nicomachea –, alcune blabai sono meritevoli di indulgenza in quanto, più che “danni”, sono in effetti “sventure”, atuchēmata, del tutto impreviste (paraloga) e scevre da qualsivoglia malvagità (mē apo mochthērias). Altre blabai, procurate
anch’esse senza malvagità (me apo ponērias) da un soggetto che tuttavia avrebbe potuto prevederne le possibili conseguenze (e che dunque sono mē paraloga), sono hamartēmata, “errori”; infine vi sono gli adikēmata, “azioni ingiuste”; ossia i danni procurati “con cattiveria”
(apo ponērias) da un soggetto perfettamente consapevole delle conseguenze della propria
azione. La stringata sintesi aristotelica è eloquentissima: è vero che i Greci non avevano né un
concetto né un lessico della volontà paragonabili, né tantomeno sovrapponibili, ai nostri; ma è
anche vero che nelle brachilogiche definizioni appena lette di adikēma, hamartēma e atychēma, un’idea embrionale di “dolo” e “colpa” viene, senza dubbio, abbozzata.
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