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ISSN 2284-0354
periodico di cultura dell’Università del Salento
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ISSN 2284-0354
giugno | luglio
www.ilbollettino.unisalento.it
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giugno|luglio
Salomè e le altre
PIETRO GUIDA
T
Nato a S. Maria Capua Vetere (Caserta) il 14 luglio 1921. Dopo il liceo classico si iscrive nell’ottobre 1939
all’Accademia di Belle Arti di Napoli, ma la chiamata alle armi e lo scoppio della guerra lo costringono presto ad
abbandonare gli studi. Consegue il diploma di scultura all’Accademia di Belle Arti di Napoli nel 1947. In quegli anni
aderisce al “Gruppo Sud”. Comincia nel frattempo la sua attività espositiva. Dal 1960 è titolare della cattedra di
scultura all’Accademia di Belle Arti di Lecce; mentre dal 1971 al 1989 dirige il Liceo Artistico “Lisippo” di Taranto.
Si inserisce da subito nel panorama artistico pugliese. La sua produzione figurativa è esposta in importanti mostre
personali. Dal 1960 al 1975 la produzione è caratterizzata dall’abbandono del dato naturalistico per adoperare
materiali industriali grezzi. Crescono nel frattempo la notorietà dello scultore, i premi, le commesse prestigiose.
Dalla seconda metà degli anni ‘70 e per circa tre lustri, Guida sceglie di rinunciare all’attività espositiva; ritorna nel
frattempo alla figura, realizzando grandi statue in scabro cemento. Nel 1993 interrompe il silenzio espositivo con la
mostra personale allestita presso il Castello Carlo V di Lecce. Seguono altre mostre personali. Su tutte, l’importante
mostra antologica allestita nel 2008 presso il Monastero degli Olivetani di Lecce.
Sue opere figurano presso la raccolta delle stampe del Museo Sforzesco, Milano; Galleria del Cavallino, Venezia;
Collezione Deana, Venezia; Presidenza del CONI, Roma; Collezione Finkelstein, New York; Collezione Civica
d’Arte Modena, Bari; Fondazione T. Balestra, Longiano; Collezione Schulte, Dusseldorf; Museo della Scultura
Contemporanea -MUSMA - di Matera; Museo Pagani di scultura all’aperto, Legnano; Novecebto a Napoli, Castel
Sant’Elmo Napoli.
ra le donne di Pietro Guida
ho fantasticato, guardando le sue opere in ferro
e galpomice del periodo costruttivista o quelle figure
1:1 in cemento di tanto tempo fa e di qualche giorno fa;
disseminate tra l’alberato giardino o presenze misurate
tra le mura casalinghe, dove prevalgono a vista gli scaffali
ingombrati da libri e riviste d’arte e d’altro genere;
oppure affastellate sui ripiani, passaggi di svariati stadi
e materiali di elaborazione, e traboccanti sul calpestìo
e sui basamenti in polistirolo nello studio in cui lavora,
impolverato dal cemento residuo che penetra le narici
dell’ospite; o altrimenti ordinate a mo’ di galleria d’arte
tra la scarsa luce nell’umido seminterrato della villa
manduriana.
Ho ancora fantasticato su quale potrà essere un giorno
il loro destino. E mi sono chiesto e mi chiedo tuttóra se
qualche angoscia abbia mai preso Pietro sulla ventura
che toccherà, dopo di lui, a quelle prove sicure di tanta
feconda attività creativa, che ancor oggi caparbio
novantatreenne lo vedono cimentarsi a modellare, a
impastare, a dare forme plastiche alle sue creature. Forse
è quella preoccupazione che dà regola agli allestimenti
delle sculture nella contiguità dei suoi spazi domestici
e lavorativi: una sistemazione apparentemente casuale
ma, a mio avviso, di grande attenzione. E come se
fossero ordinate e catalogate in funzione di una casamuseo per proseguire a memoria tra loro quel dialogo
ispirato quotidianamente dall’autore.
Periodo remoto appresso a periodo attuale. Costruzioni
in ferro-acciaio, nudo o colorato, e composizioni
geometriche di galpomice sono riposte accanto a gessi e
terrecotte o a cementi tridimensionali, talvolta patinati.
Linguaggi aniconici e strutture modulari di fianco al
linguaggio figurativo.
Testimonianze
che
ci
sopravviveranno
e
compenseranno un giorno l’assenza dell’artista, dei suoi
mèntori passati e presenti. Di sicuro suoi fan mai faranno
difetto. Alcuni lui li conosce e appartengono alla sfera
di quanti gli hanno assicurato una solida reputazione
artistica e umana. Tanti altri sicuramente li ignora.
Sono tra coloro che hanno lambito occasionalmente il
cancello che affaccia sul suo giardino e si sono spinti a
curiosare, disorientati dal pullulare di elementi plastici
in quello che oggi chiameremmo un parco di sculture;
e a congetturare sul responsabile di quelle statue che
vegliano come custodi intorno alla casa, in contrada
Campo Freddo, tra le campagne appena fuori Manduria.
Chiunque passa dalle sue parti, a fargli visita, lo trova
intento a leggere o ad ascoltare la musica di cui è colto;
oppure impegnato ora a fissare nell’argilla un’idea ora
a ripromettersi l’ultimazione di quelle due o tre o più
sculture cui lavora contemporaneamente, inedite o già in
là con gli anni e bisognevoli d’esser risistemate, in modo
che ogni sua creatura plastica sia al meglio di sè.
Mai ha ricorso la precisione del tratto realista, la
meticolosità descrittiva delle sembianze; tanto meno
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la perfezione; le sue sculture,
scabre come sono, palesemente
la rifuggono. Per Pietro Guida
la perfezione sta nella ricerca
di continuità del lavoro ovvero
nella matita che tratteggia
una
figura,
nelle
mani
costantemente imbrattate di
materia che trasforma in opera
d’arte ; e con tanta lunga vita
alle spalle ora come ora non è
cosa scontata.
Mai si è lasciato persuadere
che le sue opere dovessero
procurargli lauti guadagni;
nessuna agiatezza; solo il
valore giusto; e, se possibile,
lui chiederebbe l’equivalente
per essere tradotte nel bronzo,
consapevole che gli impasti
cementizi - cui ha riservato
tantissime fatiche - nel tempo
medio e lungo potranno
degradarsi, mentre la fusione
nella lega nobile lascerà
inalterata nei decenni la sua
produzione.
Pietro Guida è da considerarsi
un
patriarca
dell’arte
che
convenzionalmente
chiamiamo contemporanea, di
cui è uno degli artefici da oltre
settant’anni: ha attraversato
quasi quattro generazioni,
dal
periodo
figurativo
della
fine
della
guerra
all’immediato
dopoguerra,
allo studio, nei primi anni
sessanta, di nuove immagini
costruite
mentalmente
e
progettualmente - tra i primi
scultori non figurativi se non
proprio il primo a esporre
alla galleria Il Sedile di Lecce
nel lontano 1965 - e quindi al
ritorno alla figurazione nella
maturità, come continuazione
dell’esperienza tradizionale, non convinto che il nuovo
sia migliore apoditticamente.
Nell’universo di soggetti dislocati qua e là in quella
che continuo a definire casa-museo (non me ne
voglia Pietro), proprio perché nel trascorrere dei
decenni di attività assume sempre più il carattere di
luogo di memorie, non si può fare a meno di notare
che prevalgono le rappresentazioni muliebri in un
instacabile rimbalzo tra il mito e la quotidianità che è
motivo conduttore della sua poetica. Una annotazione
che mi viene facile avendo avuto occasione solo qualche
anno fa di redigere un catalogo monografico sulla
sua opera, rinforzata quando di tanto in tanto vado a
trovarlo.
Il titolo classico, il tema mitologico, il ritratto, l’atleta
di disciplina sportiva, la musicista, la madre di famiglia
e persino la prostituta, senza gerarchia alcuna, si
susseguono in un repertorio di rimandi costanti, tra
ricordo arcaico e modernissime invenzioni. Guida
racconta così le donne.
Sin dalle sue produzioni iniziali il soggetto è
palesamente caro all’artista campano pur tra molte
varianti tematiche. Compaiono donne, floride, in scene
comuni di vita quotidiana, madri allattanti, nei disegni
di cui v’è testimonianza in illustrazioni degli anni 1950
e 1951, o una coppia di «donne, nude, sedute su di
una panchina in atteggiamento di stanco abbandono,
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ritratte nel più schiètto verismo» (L. Flauret, Artisti
pugliesi alla Quadriennale, in “Il Corriere del Giorno”,
16 marzo 1956) della composizione “Riposo” esposta
alla VII Quadriennale. Si ricordano La rematrice,
L’acrobata, La tennista, per citare opere elette a esempi
da Franco Sossi (Ventotto pugliesi alla “Taras”, in “La
Voce del Sud”, 11 gennaio 1958). Immagini che evolvono
nel corso della sua vicenda artistica, per tornare dalla
metà degli anni settanta con la forza della materia
cementizia a rinsaldare una nuova stagione artistica su
quella sponda figurativa che giunge sino a oggi.
Sono soggetti descritti in modo sintetico, dai corpi
di forme morbide -a dispetto del solido cemento- con
spalle, braccia e gambe tornite, in una fissità della posa
ben salda. Non di rado i giovani nudi femminili, senza
titolo, appena sfiorati dalla vanitas, sono cristallizzati
in una posa seduta o distesa a riposare o eretta in
un’azione usuale, come raccogliersi i capelli, poggiare
melanconicamente il mento sul palmo della mano.
Le sensuali nudità, in opere che vanno da Donna
distesa (1990), ora nella collezione dell’ateneo
salentino, alla recentissima Ragazza in ginocchio
sulla sedia (2011), sono per Guida occasione per
suggerire posture finemente seducenti, verso le
quali è fortissima la tentazione tattile per via di quel
disaccordo tra la durezza del cemento e la percezione
di malleabilità delle carni, di una compattezza
tenera su cui paradossalmente potremmo affondare
le dita. Ritroviamo le divinità, mai ieratiche, colte
nella tensione plastica che rende concretamente la
narrazione del mito in una personale rivisitazione
secondo coordinate più attuali (Euridice tra le più
reiterate e imborghesite e Leda mai sazia del cigno,
poi Europa che cavalca il toro, e Dafne, Selene, le
tre Grazie). Le sportive e le circensi, che trovo tra i
soggetti più intriganti per le posture tese in equilibri
estremi quanto straordinarie, mescolano alle sue
consuete reminiscenze della statuaria arcaica, agli echi
novecenteschi, mariniani e martianiani, fino a Manzù
e Greco, una sensibilità e un’acutezza squisitamente
moderne, se confrontate con l’assortimento iconico
contemporaneo che, dal cartaceo al satellitare e al
web, divulga le gesta agonistiche o del mondo delle
spettacolo, in cui il protagonismo femminile è ordinario
(tra queste: Atleta, del 1989, Pattinaggio artistico, del
1992, Salto in alto, del 1995, e la rinnovata versione
dell’Equilibrista, 2010).
Nè mancano gli esempi attinti ai tanti gesti della
quotidianità, che traggono ispirazione da emozioni
intime fermate in un istante di vita o nell’interpretazione
di un normalissimo atto. Penso al metafisico
smarrimento di Balcone (1991-1992) -già da qualche
tempo dichiaro che è opera tra le mie preferite- o
Tenda e figura (2009); alla compostezza formale delle
musiciste, enigmatiche nelle loro severe immobilità
mentre ci guardano, concentrate per l’imminente inizio
del concerto; alla maternità dalle forti implicazioni
psicologiche, perché le prolifiche madri in posa accanto
ai figli sono metafore dell’affetto umano. Queste donne,
che sin qui ho citato, non derivano da una modella certa,
perché i volti sfuggono a caratterizzazioni somatiche
per un indefinito espressionismo. Queste donne e cento
altre, tutte insieme, potrebbero considerarsi amate e
amanti di Pietro Guida, vuoi perché incarnano il suo
ideale di bellezza femminile o perché le ha realizzate
per impersonare un sentimento amoroso che per lui
assume valore assoluto.
Nel suo studio ho da poco visto dare forma all’ultima
Donna che si spoglia. Qualche giorno fa Pietro mi ha
comunicato telefonicamente di averla terminata. Non si
è detto pienamente convinto dell’esito. La mostra leccese
imminente - ha aggiunto - gli ha messo fretta. Per me,
osservandola è indubbiamente un esempio coerente
della sua arte. Nella composizione, che trattiene la cifra
della rotondità e solidità della forma tridimensionale a
suo modo classicheggiante, l’artista cerca di esprimere
un gesto, uno sforzo plastico naturale con le braccia
impegnate a svestirsi. Il corpo, dall’anatomia non
troppo dettagliata nella materia ruvida, si allontana
da un’idea realistica per diventare simbolo di vitalità,
richiamo all’eros.
Forse siamo all’atto finale? La Donna non propriamente
si spoglia; appena ultimata dallo scultore, lei smette i
panni della modella ideale e per contrastare lo scorrere
del tempo si accomoda da statua tra le sue simili nella
casa-museo di contrada Campo Freddo, appena fuori
l’abitato di Manduria.
Massimo Guastella
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D
ue biglietti per la >Salomè<
Le due potenti Salomè di questa mostra sono
state realizzate da Pietro Guida a novantatré anni.
L’artista ha sfidato se stesso. Ha sfidato la fatica fisica
e ha racchiuso in due figure il tempo della narrazione
e i moti dell’animo. L’animo è quello della principessa
di Giudea del poema di Oscar Wilde (1891) che
innamoratasi di Giovanni Battista, da questi ricusata
e denigrata, ne ordina la testa su un vassoio d’argento.
La prima Salomè di Guida sembra cogliere il
momento immediatamente successivo alla danza dei
sette veli: il corpo flessuoso e quasi matido di sudore,
i capelli scomposti e il volto voluttuoso e fremente
trasmettono alla testa inerte di Giovanni Battista un
ultimo, inutile anelito di vita. Salomè interroga quegli
occhi terribili che poco prima aveva descritto come
“due buchi neri prodotti da fiaccole su un arazzo di Tiro.
Due caverne nere covo di dragoni”. Le mani affondano
nella chioma selvatica, resa con ciocche scomposte e
rapide: lo scultore nel “fuggir l’affettazione” fa ricorso
alla “sprezzatura” di memoria cinquecentesca; ricorre
con disinvoltura alla sua sedimentata conoscenza delle
fonti del passato, siano esse letterarie o figurative.
Nella seconda Salomè, sorta di Maddalena “consumata
dai digiuni e dalle astinenze”, si impongono forme
geometriche e schematiche: un rigor mortis che dalla
testa sembra trasmettersi al corpo della principessa,
rigida statua di “sale”; trasfigurazione materica, simbolo
dell’irreversibilità dell’accaduto.
L’efficacia della narrazione artistica, pur nella fedeltà
al tema trattato, bandisce ogni forma di illustrazione
didascalica. L’interpretazione si appella piuttosto alla
teoria e alla prassi del mestiere di scultore che per gli
storici dell’arte rimanda al dibattito sul confronto/
scontro tra momento ideativo e momento operativo
ripercorso da Ferdinando Bologna nella sua lettura
storica e metodologica della storia dell’arte (1979).
La fase della realizzazione di un’opera d’arte è
questione assai cara al nostro scultore il quale talvolta
non si sottrae a una ironica e compassata polemica
verso l’arte e la critica del presente.
“L’arte un tempo era difficile da fare, facile da capire”.
Oggi l’aforisma sembra capovolto: l’arte è facile da
fare, difficile da capire (Crespi 2013). Una difficoltà
che spesso nega l’esistenza stessa dell’opera in quanto
oggetto materiale a vantaggio di un mercificabile
processo di natura intellettualistica e postconcettuale.
L’opera sovente scompare nei giochi di prestigio di una
certa critica che sostituisce il pensiero, l’idea, il concetto
ad oltreanza a quell’imprescindibile e storicamente
fondato momento realizzativo. A questo momento
Pietro Guida, che nella prospettiva storica della fine
degli anni cinquanta non ha mancato di sperimentare il
linguaggio astratto, oppone una rigorosa ed etica difesa
dell’arte come “il giusto criterio di realizzare le cose”.
Ma altresì come sguardo su verità retrospettive fatte di
studio e recupero dei maestri del passato.
La prima Salomè nella torsione del busto, la cui linea
di contorno continua non subisce cesure, si immette
nel lungo corso di rielaborazione della classicità dei
corpi e delle proporzioni: dall’antico a Michelangelo
fino ad Ingres. La seconda figura segue l’altra via della
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ricerca formale incentrata sulla frantumazione della
superficie: linee spezzate e taglienti accentuano la
drammaticità del tema rapprensentato e richiamano
alla mente l’Assetata (1277-1281) di Arnolfo di Cambio,
la scarnificata e consumata Maddalena (1454 c.a.) di
Donatello già in precedenza citata, ma altresì l’illustre
modello della Lupa (1930-1931) di Arturo Martini,
opere e nomi che appartengono al museo immaginario
di Guida; un museo da intendersi non come comodo
serbatoio di idee per citazioni, bensì come solida
dimensione storica.
Nella stratificazione di conoscenze è contemplato
il punto di avvio del soggetto in questione, intorno al
quale Pietro medita da molti decenni. Risalgono alla
fine degli anni quaranta i disegni e gli schizzi sulla
Salomè generati dall’impatto forte ed emozionante con
l’opera di Strauss e Wilde vista al teatro San Carlo di
Napoli. Dell’opera teatrale messa in musica da Strauss
ho avuto il privilegio di conoscere particolari di quella
lontana rappresentazione grazie alla capacità dell’artista
di descrivere e restituire le impresioni visive della
magnetica attrice Salomè, mentre io gli ho raccontato
della suggestiva interpretazione del regista Ken Russel
di cui nel 1988 esce il visionario e scandaloso L’ultima
Salomè. Gli ingredienti delle atmosfere decadentiste
wildiane nella versione cinematografica si potenziano di
ritmi e colori ossessivi nel contrasto di amore e morte.
Da ciò la decisione di ritornare insieme al San Carlo a
novembre prossimo per vedere ancora Salomè.
Letizia Gaeta
“
Com’è bella la principessa Salomè questa sera”
Nel marzo del 1948 andava in scena al teatro San
Carlo la Salomè di Richard Strauss interpretata da
Ljuba Welitsch. Ed è stata proprio la visione di questo
spettacolo, dominato da una protagonista dal fascino
magnetico e seducente, che ha suscitato in Guida la
prima idea di realizzare le opere esposte in mostra.
Osservando le immagini della Welitsch, una figura
avvenente con occhi chiari e una fiammeggiante
chioma rossa, ben si comprende come il ruolo della
biblica seduttrice, passionale e vendicativa, le fosse
particolarmente congeniale, tanto che l’interpretazione
di Salomè le valse un posto tra i grandi artisti a livello
internazionale, anche se forse riusciva a conquistare
l’uditorio più per il talento istrionico e la presenza
scenica che per le sue doti canore.
Sicuramente l’incontro con Strauss fu determinante
per la carriera della cantante: questa infatti, appena
ventenne studiò la parte e debuttò in Salomè sotto
la direzione dello stesso compositore sviluppando
un’identità pressoché assoluta con il personaggio
che interpretava. Strauss invece, all’epoca della
composizione della Salomè aveva da poco superato
i quarant’anni ed era già un musicista popolare
e affermato, sia in Germania, sia all’estero. Per
dare compiutezza al suo successo mancava però
la consacrazione in campo teatrale. L’occasione si
presentò nel 1903, quando a Berlino fu allestita, nella
traduzione tedesca di Hedweg Lachmann, la Salomè
che Wilde aveva scritto in francese per Sarah Bernhardt:
Strauss ne rimane folgorato e decise di musicare tout
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court, senza mediazione librettistica, un dramma
nato per il teatro in prosa. Anzi, il processo creativo
del compositore fu proprio innescato dalle immagini
musicali generate dall’articolazione verbale del testo e
dalla sua scansione drammatica. Così annota Strauss
«Un giorno mi domandai perché non comincio subito,
senza aspettare altro, da “Com’è bella la principessa
Salomé questa sera!”», il verso d’esordio del dramma.
Sulla suggestione di queste parole prende vita una linea
melodica sinuosa, guizzante e seducente espressa dal
clarinetto e che si identifica con la protagonista, mentre
«il soggetto orientale ed ebraico... [ispirano a Strauss]
un’armonia veramente esotica, variegata di insolite
cadenze, come seta cangiante. Questi elementi, che
trovano il loro punto culminante nel crescendo finale,
contribuirono indubbiamente alla fama di Salomè, che,
fin dalla sua prima esecuzione del 1905, rapprensentò
il più grande successo dell’opera in lingua tedesca
dopo Wagner e, nonostante i divieti e le limitazioni
della censura, rimase una delle più popolari e più
frequentemente rapprensentate.
La figura biblica di Salomè ha suscitato profonda
emozione e interesse sempre, in tutte le epoche, e
numerose versioni si trovano nelle arti figurative.
La pittura ci ha lasciato veri capolavori, a partire dal
Banchetto di Erode di Giotto, le Salomè di Rubens, fino
alle versioni di Moreau e Klimt. Questo tema è invece
molto raramente trattato nella scultura, forse anche per
la difficoltà di rendere i movimenti della danza e i riflessi
fisici della passione e della sensualità che caratterizzano
il personaggio di Salomè.
Daniela Castaldo
P
ietro Guida, l’antichità classica, l’archeologia
Non è mai stato difficile far comprendere ai
giovani laureandi di Archeologia il peso che ebbe nella
formazione di Michelangelo la conoscenza diretta del
gruppo scultoreo ellenistico del Laoconte. Ben più
complesso è far capire che le opere di Pablo Picasso
non sarebbero esistite senza la consapevolezza dell’età
classica.
Anche il percorso formativo di Pietro Guida è legato
al mondo greco-romano nel richiamare i temi e nel
superarne le rigide regole per la costruzione della figura
umana.
A partire dalla fine degli anni ‘80 egli adotta il
cemento nella modellazione delle figure umane,
ricollegandosi a precedenti esperienze in gesso. Forse
è proprio in questo che Guida mostra una connessione
con l’archeologia della sua terra: giovane studente
napoletano, certamente rimase affascinanto dai calchi
in gesso dei cittadini di Pompei sorpresi dall’eruzione
del Vesuvio. Nel 1863 Fiorelli aveva intuito la
possibilità di recuperare le testimonianze dirette di quel
drammatico evento intuito la possibilità di recuperare
le testimonianze dirette di quel drammatico evento
colando il gesso nelle cavità di cenere corrispondenti
ai corpi scomparsi. L’aspetto “non finito” delle sculture
in cemento è imputabile al materiale, e al tempo stesso
è una testimonianza delle origini dell’artista. Ma le
sculture di Guida non rappresentano corpi senza vita:
le figure sono vive nel movimento e nei pensieri che
animano i loro sguardi e i loro silenzi.
I miti della classicità, conosciuti attraverso le
opere esposte al Museo di Napoli, si rivestono di una
modernità che li rende più vicini ai nostri giorni. Orfeo
ed Euridice sono due persone comuni che camminano
tenendosi teneramente per mano e Orfeo, vanamente,
cerca di nascondere l’amata alla sua vista.
Talora il classicismo è mediato attraverso opere
distribuite tra il ‘500 e l’800: Apollo e Dafne sono
immortalati mentre si avvia la trasformazione della
ninfa, come in Bernini, J. Auer e Tiepolo; Leda con il
cigno ricorda i gruppi di B. Ammanati e di A. Clésinger.
In altri casi l’impronta classica è fortissima, come nelle
Tre Grazie. Il senso della “paideia” permea un altro
gruppo di opere: gli atleti. Ciclista, Salto ad ostacoli,
Il pattinaggio artistico, Il salto in alto, Il calciatore,
Il giocatore di baseball ed altri sono anch’essi una
rivisitazione in chiave moderna di un tema centrale
nella scultura del V e IV sec. a.C.: le statue di vincitori
dei giochi olimpici e di altre feste panelleniche. Da un
lato la capacità dell’artista di riprodurre il campione
nel momento più intenso della sua disciplina, dall’altro
la volontà di celebrare un concetto fondamentale
per gli antichi. I greci lo esprimevano con la formula
“kalos kai agathos”; più tardi i Latini dicevano “mens
sana in corpore sano” per orientare correttamente la
formazione del Civis Romanus; il senso comune è che
a un fisico allenato corrispondono integrità morale e
sapienza.
All’ideale maschile corrisponde la trattazione di
quello femminile rappresentato dalle forme morbide e
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generose dei nudi che si rifanno all’intuizione
di Prassitele, il primo a scolpire Afrodite al
bagno.
Passato il tempo della polis in cui la donna
incarnava valori fondanti della civiltà greca,
in quanto sposa e madre, nei regni ellenistici
si sviluppa un erotismo complesso che arriva
a concepire la figura dell’ermafrodito e che
genera gruppi scultorei con virtuosistici
movimenti a spirale. Il richiamo a temi
erotici si coglie in opere come Gli amanti
(1980,1988) e Il bacio (1996); l’avvenenza
delle forme della Donna nuda inginocchiata
sulla sedia, attenuata da una pudica torsione,
trova un riscontro diretto nell’Afrodite
Callipigia.
Giovanni Mastronuzzi
UniSalentoStore
il merchandising di
UniSalento è in vendita
online e presso le officine cantelmo