Appunti di laboratorio di Chimica Fisica
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Appunti di laboratorio di Chimica Fisica
DIPARTIMENTO DI CHIMICA Corso di Laurea in Chimica Appunti di laboratorio di Chimica Fisica -Modulo termodinamico(Aggiornati al 15-10-2008) Daniele Gozzi Professore Ordinario di Chimica Fisica Alessandro Latini Ricercatore in Chimica Fisica Piazzale Aldo Moro, 5 00185 Roma INDICE MISURE DI TENSIONE………………………………………………………………………1 LA MISURA DELLA TEMPERATURA………………………………………………….5 - - SCALE TERMODINAMICHE DI TEMPERATURA……...………………………….5 SCALA PRATICA INTERNAZIONALE DI TEMPERATURA…..………………….5 INTERPOLAZIONE TRA I PUNTI FISSI………………………………………………6 TERMOMETRI A RESISTENZA……………………………………………………….8 MISURA DELLA RESISTENZA DI TERMOMETRI A RESISTENZA…………….9 TERMOCOPPIE…………………………………………………………………………10 MISURA DELLA F.E.M. DI UNA TERMOCOPPIA…………………………………..12 CONSEGUENZE PRATICHE DELLE LEGGI TERMOELETTRICHE………….13 Legge dei conduttori intermedi………………………………………………..13 Legge dei metalli omogenei…………………………………………………...13 Compensazione del giunto freddo…………………………………………..…14 Montaggio della sola termocoppia………………………………………….…14 Montaggio con cavo di compensazione…………………………………….…14 Montaggio con conduttori di rame……………………...…………….………15 Analisi e ricerca della f.e.m. globale prodotta in un circuito termoelettrico….15 Errore nella scelta del giunto freddo…………………………………………..18 Inversione del cavo di compensazione………………………………………...18 Non-isotermicità delle giunzioni………………………………………………18 ASSEMBLAGGIO DI TERMOCOPPIE…...……………………………………………19 TERMOCOPPIE PIU’ COMUNI E TABELLE DI RIFERIMENTO……………..…20 TERMISTORI……………………………………………………………………………23 PIROMETRIA OTTICA…………………………………………………………………24 Leggi fondamentali della pirometria ottica…………………………………..25 Stefan-Boltzmann……………………………………………………25 Planck………………………………………………………………..25 Wien....................................................................................................26 Kirchhoff.............................................................................................26 Lambert...............................................................................................26 Riflessione, assorbimento e trasmissione………….………………..27 Fattore d’emissione (emissività)…………………………………….28 Esempio di costruzione di un corpo nero……………………………28 I pirometri……………………………………………………………30 Pirometro ottico monocromatico a scomparsa di filamento…...…….30 Correzione della temperatura……………..…………………………31 Correzione dovuta al fattore di emissione……………………31 PRODUZIONE E MISURA DEL VUOTO………………………………….………33 - FLUSSO VISCOSO→ →FLUSSO MOLECOLARE……………………………………..33 - FLUSSO VISCOSO………………………………………………………..……………..34 - VELOCITA’ DI POMPAGGIO………………………………………….………………35 - FLUSSO MOLECOLARE……………………………………………………………….36 - PRODUZIONE DEL VUOTO…………………………………….……………………..38 Pompe meccaniche per basso vuoto……….……………………………38 Tempo di pompaggio………………………………………………….....40 Pompe a diffusione……………………..………………………………..41 I - Scelta della pompa da basso vuoto da accoppiare con una pompa a diffusione……………………………..45 Pompe turbomolecolari………………………………..……………..45 Pompe a sublimazione di titanio………..……………………………47 Pompe ioniche…………………...……………………………………48 SISTEMI DI MISURA DEL VUOTO………………………………………………….49 A termoconducibilità………………………….…………………….49 Strumento a termocoppia………………………..…………………50 Strumenti a ionizzazione………………………………….………..50 Ad effetto termoionico………………………………………….50 A catodo freddo…………………………………………………52 TERMODINAMICA DELLE SOLUZIONI………………….……………………..54 - ABBASSAMENTO DEL PUNTO DI CONGELAMENTO………………….…………54 - INNALZAMENTO DEL PUNTO DI EBOLLIZIONE………………...……………….56 - PRESSIONE OSMOTICA………………………………………………….…………….57 - LEGGE DELLA SOLUBILITA’ IDEALE………………………………………………58 - SOLUZIONI REALI……………………………………………...……………………….59 - SOLUZIONI REGOLARI………………………………………………………….……..62 - QUANTITA’ PARZIALI MOLARI……..……………………………………………….63 - METODO PER OTTENERE UNA QUANTITA’ PARZIALE MOLARE DA UN’ALTRA……...…………………………………………………………………………66 - ENERGIA LIBERA DI FORMAZIONE DI UNA SOLUZIONE……………….…….68 - QUANTITA’ TERMODINAMICHE DI ECCESSO…..………………………….……69 - REGOLA DELLE FASI……………………………..…………………………….……..70 DIFFUSIONE NELLE SOLUZIONI ELETTROLITICHE…………………….72 - APPLICAZIONE DELLE LEGGI DI FICK ALLE SOLUZIONI ELETTROLITICHE………………………………………………………………………73 VISCOSITA’ DEI LIQUIDI……………………………………………...……………..76 - MISCELE……………………………………………………………………………….….77 - DIPENDENZA DELLA VISCOSITA’ DALLA TEMPERATURA…………..……….77 ESERCITAZIONI…………………………………………………………………………79 APPENDICE CENNI DI ANALISI DEGLI ERRORI (IN INGLESE)…………..…………….110 II MISURE DI TENSIONE Un gran numero di misure sperimentali producono un segnale elettrico in forma di tensione, corrente, resistenza o capacità che deve essere monitorato e convertito in un numero. Poiché la maggior parte dei segnali che vengono acquisiti in un laboratorio di chimica fisica provengono da sorgenti DC, ci si riferirà qui solo ai problemi associati alla loro interpretazione. Il metodo usato per leggere o monitorare il segnale può, esso stesso, spesso essere una causa di errore significativo. Un esempio di questa situazione è illustrato nella fig. 1. Fig. 1 Supponiamo di voler misurare il valore di circuito aperto della tensione prodotta dalla sorgente V0 che ha una resistenza in serie R. in accordo con la legge di Ohm, un dispositivo di misura con una resistenza di ingresso (impedenza) R’, che è connesso alla sorgente di tensione produrrà una corrente: V0 i= (1) R + R' La tensione che apparirà sullo strumento di misura sarà: V R V R' = 0 (2) Vm = V0 − iR = V0 − 0 R + R' R + R' L’errore relativo εv introdotto dallo strumento di misura è quindi V − Vm R εv = 0 = (3) V0 R + R' Segue dall’eq. (3) che gli effetti degli errori di misura di questo tipo noti come “errori di carico” possono essere minimizzati da una sorgente di tensione di bassa impedenza di uscita (R), ed un dispositivo di misura di alta impedenza di ingresso (R’). Esempio 1: Quale tensione sarà indicata da un dispositivo di misura con una resistenza di ingresso di 1000 ohm se questo è usato per misurare un segnale di 1.2 V da una sorgente con 100 ohm di resistenza di uscita? Per l’equazione (2) 1000 ⋅ 1.2 Vm = = 1.09 V 1000 + 100 Perciò si misurerà un valore di 1.09 V anziché 1.2 V. Ciò rappresenta un errore di –9.2%. Esempio 2: Quale è la minima resistenza di ingresso di uno strumento di misura in modo che si introduca un errore di meno lo 0.1% nella misura di tensione da una sorgente con una resistenza di uscita di 50 ohm? Dall’eq. (3) 1 ε v = 0.001 = 50 50 + R' R’=49950 ohm=49.95 kΩ Un metodo alternativo per misurare una tensione di uscita V0 che sia esente dal tipo di errori associati con il circuito di fig. 1 è illustrato in fig. 2. Fig. 2 La sorgente V0 è connessa ad una sorgente in opposizione Vop, in modo tale che Vop possa essere variata fino a che sia soddisfatta la condizione Vop+V0=0. La corrente netta che fluisce in questa condizione è zero come è mostrato dal galvanometro G tutte le volte che Vop=-V0. Tale metodo ha il vantaggio che la tensione V0 può essere misurata essenzialmente in condizione di carico-zero. Questa tecnica è alla base del potenziometro (o metodo potenziometrico). Uno schema semplificato di un potenziometro è mostrato in fig. 3. Fig.3 2 Una resistenza variabile, ABC, funziona come partitore di tensione. La corrente prodotta dalla Vop . Quando il circuito viene chiuso attraverso l’interruttore T viene prodotta sorgente Vop è iop = R AC V una corrente i0 = 0 . La direzione della corrente, ovvero il segno di i0+iop sarà indicato dalla R AB deflessione dell’ago del galvanometro. Quando la corrente netta è zero la condizione di zero è Vop V R soddisfatta e V0 può essere determinato dalla relazione + 0 = 0 ⇒ V0 = −Vop AB . R AC R AB R AC La resistenza di precisione ABC consiste in una resistenza fissa ed un cursore mobile. Il rapporto R AB è perciò determinato dalla posizione di B. In pratica, questa posizione è letta direttamente R AC come una “tensione”. La lettura è calibrata connettendo una sorgente la cui tensione è nota con elevata accuratezza. Il metodo potenziometrico è in grado di effettuare misure di grande precisione (ed accuratezza) ed è da privilegiare quando sono richieste misure con accuratezza di ±0.01 mV. Per misure di routine i potenziometri non sono adatti e si preferisce usare strumenti più moderni con elevate impedenze di ingresso (106-1015 Ω, tipicamente 109 Ω). Elettrometri, multimetri digitali, convertitori A/D sono strumenti in grado di effettuare misure praticamente in condizioni di carico zero. Un ulteriore vantaggio di tali strumenti è che essi possono fornire una lettura istantanea, oltre al fatto che essi possono essere connessi ad un computer per l’acquisizione dati in tempo reale, la loro archiviazione e successiva analisi. Molti strumenti di misura sono progettati per misurare tensioni. Segnali in forma di corrente o resistenza possono anche essere misurati con questi strumenti, se essi sono forniti di un appropriato circuito di condizionamento del segnale. Ad esempio, un segnale da una sorgente di corrente può essere rivelato come la caduta di tensione ai capi di una resistenza di precisione attraverso la quale fluisce la corrente. Una semplice tecnica per determinare la resistenza è quella di misurare la caduta di tensione che avviene quando una corrente nota fluisce attraverso la resistenza. Questo metodo, come si vedrà in seguito, è utilizzato per la misura di temperatura con i termometri a resistenza (RTD). Un metodo più accurato per la misura della resistenza consiste nell’includere la resistenza incognita come un ramo di un circuito di resistenze noto come “ponte di Wheatstone” riportato in fig. 4. Fig. 4 3 La tensione Vs è applicata nei nodi C e D. Nelle maglie di sinistra e destra la corrente si ripartisce VS Vs ; iD = . rispettivamente: i S = R1 + R2 RS + R X La tensione nel nodo A, VA, e nel nodo B, VB sono rispettivamente: RV RS VS V A = i S R1 = 1 S ; VB = i D RS = (4) R1 + R2 RS + R X Operando sulla resistenza variabile RS in modo tale che VA=VB (quindi la corrente tra A e B è nulla) R1VS R S VS R R R implica che = ⇒ 2 = X e quindi R X = RS 2 . R1 + R2 RS + R X R1 RS R1 Anche in questo caso, sebbene la configurazione del ponte di Wheatstone consenta di ottenere misure molto precise ed accurate, esso non è pratico per misure di routine e misure in tempo reale. Una modifica che consente di misurare in continuo RX è quella di misurare la tensione VAB ponendo nel ponte R1=R2. Dalle relazioni (4) si può scrivere: R1 RS V AB = V A − VB = VS − R1 + R2 RS + R X poiché R1=R2: V 1 1 1+ Z con Z = 2 AB ; R X = RS V AB = VS − 2 R VS 1− Z 1+ X RS Pertanto, fissato il valore di RS ed imponendo una tensione costante di alimentazione VS, dalla misura in tempo reale di VAB si ottiene il valore in tempo reale di RX. Tale metodo, come si vedrà, viene comunemente adottato per la misura del basso vuoto con lo strumento di Pirani. 4 LA MISURA DELLA TEMPERATURA SCALE TERMODINAMICHE DI TEMPERATURA A volte la scala termodinamica della temperatura è definita in termini del comportamento dei gas ideali. Rigorosamente ciò non è corretto perché nessun gas reale si comporta idealmente. Una definizione rigorosa della temperatura sui basi termodinamiche non deve dipendere dalle proprietà di una qualsivoglia sostanza. Per esempio, la temperatura può essere definita termodinamicamente come: ∂U T = (1) ∂S V con U l’energia interna ed S l’entropia. Sebbene rigorosa, tale definizione non è utilizzabile a fini pratici. Il ciclo di Carnot può essere ugualmente preso in considerazione come una definizione termodinamica della temperatura. Infatti: Q1 Q2 T1 Q1 = ; = (2) T1 T2 T2 Q2 Nel migliore dei casi, questa equazione fornisce una definizione termodinamica del rapporto fra due temperature. La termodinamica non fornisce alcuna definizione della entità di un grado o l’entità di una differenza di temperatura. In altre parole, non esiste una vera scala termodinamica della temperatura. Le scale di temperatura e l’entità di 1 grado sono e devono essere invenzioni dell’uomo tramite i comitati internazionali. SCALA PRATICA INTERNAZIONALE DI TEMPERATURA PV PV La termometria a gas 1 1 = 2 2 gioca ancora un ruolo importante nelle misure di precisione di T2 T1 temperature al di sotto di 10 K ed al di sopra di 1500 K. La termometria a gas in pratica è comunque molto complicata e solo una dozzina di laboratori al mondo sono attrezzati per effettuare misure con elevata accuratezza tramite questa tecnica. Conseguentemente è necessario utilizzare metodi più pratici. Per queste ragioni la International Practical Temperature Scale (IPTS) fu adottata nel 1927 dal Comité International des Poids et Measures (CIPM). La IPTS fu aggiornata nel 1948 e nel 1968 e modificata nel 1975 e nel 1990. Come mostrato in fig. 1, la scala attuale IPTS 68 e successive versioni differisce non molto dalle scale precedenti: Fig.1 Il Comitato Internazionale definisce ora la grandezza di 1 grado con un solo punto sperimentale: il punto triplo dell’acqua e definito essere esattamente 273.16 K. Pertanto: lim( PV ) T p →0 T = 273.16 (3) lim( PV ) tp p →0 5 dove tp= punto triplo dell’acqua. Il secondo punto fisso è costituito dallo zero assoluto ma non è necessario misurare tale punto. Il punto triplo dell’acqua è più riproducibile del punto di congelamento della stessa, in quanto vengono eliminati i problemi causati dalle variazioni di pressione. La scala pratica della temperatura consiste di 3 componenti, tutti determinati da convenzione internazionale: 1. alcuni punti fissi di temperatura con i quali calibrare gli strumenti usati per misurare la stessa (tabella 1); 2. alcuni strumenti con i quali misurare la temperatura, per interpolare tra i punti fissi. Gli strumenti definiti dalla IPTS 68 sono il termometro a resistenza di Pt, la termocoppia PtPtRh 10% (tipo S) ed il pirometro ottico; 3. alcune equazioni con le quali interpolare tra punti fissi. A differenza del termometro a gas, che è lineare rispetto alla temperatura (PV=nRT), tutti gli altri strumenti non lo sono. Poiché possono essere scelti molti polinomi per effettuare le interpolazioni, le equazioni da usare per le interpolazioni sono stabilite anch’esse dalla convenzione internazionale. Tabella 1 INTERPOLAZIONE TRA I PUNTI FISSI Come riportato in tab. 1, la scala di temperatura è determinata da 13 punti fissi. Data la sua ampiezza è necessario utilizzare tre differenti strumenti per interpolare tra i punti fissi. Interpolazione con il termometro a resistenza. Da 13.81 K (punto triplo di H2) a 903.89 K (punto di fusione di Sb), il CIPM stabilì che il termometro a resistenza doveva essere considerato lo strumento più idoneo. Fu inoltre stabilito un insieme di dettagli sperimentali per la sua realizzazione. Il rapporto W di resistenza è dato da: RT W= (4) R273.15 con R≡resistenza. Tale rapporto non deve essere minore di 1.39250 al punto di ebollizione standard dell’acqua (T=373.15 K). Interpolazione con termocoppia. Da 903.89 K a 1337.58 K (punto di fusione di Au) è stata scelta la termocoppia di Pt e la lega Pt-Rh contenente il 10% in peso di Rh. 6 Interpolazione mediante pirometria ottica. Al di sopra di 1337.58 K, le temperature sono misurate con pirometro ottico, che confronta la luminosità (J) di un corpo nero alla temperatura T con la luminosità di un corpo nero alla temperatura di fusione di Au secondo la legge di Planck alla lunghezza d’onda λ. L’equazione: c1λ−5 J= (5) c2 exp −1 λT sarà esaminata successivamente nel capitolo riguardante la pirometria ottica. Interpolazione mediante equazioni. Per interpolare tra i punti fissi possono essere utilizzate anche equazioni matematiche, anch’esse definite da accordi internazionali. - Al di sopra del punto di fusione di Au. E’ definita mediante comparazione dell’eq. (5) tra due temperature: il punto di fusione di Au (1337.58 K) e la temperatura da misurare. La costante c2 nell’equazione di Planck è pari a 0.014388 m.K: exp c 2 λT Au − 1 JT = (6) J Au −1 exp c 2 λT La luminosità J è dimensionalmente [W.m-3.sr-1] e, come sarà discusso in seguito, rappresenta l’energia irraggiata da un corpo nero alla temperatura T per unità di tempo, per unità di lunghezza d’onda, per unità di area e per unità di angolo solido. - Tra 903.89 K a 1337.58 K (tra i punti di fusione di Sb e Au). In questo intervallo l’equazione utilizzata è E = a + bT + cT 2 (7) dove E è la f.e.m. di una termocoppia standard di tipo S (Pt-PtRh 10%) quando, come si vedrà in seguito, una giunzione è a 273.15 K e l’altra a temperatura T. Le costanti a, b e c sono calcolate dai valori di E ai punti di fusione di Sb, Ag e Au. La prima di queste temperature viene misurata con un termometro a resistenza. - Al di sotto di 903.89 K. L’intervallo tra 13.81 e 903.89 K è diviso in 5 sottointervalli. In ciascuno, le temperature sono definite da equazioni quadratiche o cubiche in T dove le costanti vengono determinate mediante calibrazione a due (cubica) o tre (quadratica) punti fissi di temperatura (vedi tabella 2) Tabella 2 Il metodo di interpolazione effettivamente utilizzato è piuttosto complesso e coinvolge una serie di 20 termini con costanti a 16 cifre. Oltre ai 13 punti IPTS primari, un certo numero di punti secondari sono disponibili per scopi pratici (tabella 3). 7 Tabella 3 TERMOMETRI A RESISTENZA La resistenza elettrica nei metalli aumenta lentamente con la temperatura, mentre la resistenza dei semiconduttori (termistori) decresce rapidamente con la temperatura. Il platino è praticamente l’unico metallo utilizzato per i termometri a resistenza, sebbene anche Cu e Ni possono essere utilizzati. I termistori sono costituiti da ossidi non stechiometrici di metalli di transizione, a volte anche in miscela tra loro. Calibrazione. Fino a IPTS-68, l’equazione di Callendar è stata utilizzata per interpolare tra il punto di fusione del ghiaccio e quello di Sb con il termometro a resistenza di Pt: R − R0 T T T= T ⋅ 100 + δ − 1 (8) R100 − R0 100 100 Poiché l’equazione è quadratica in T (°C), R100, R0 e δ sono le costanti da determinare mediante la misura di tre temperature; il punto triplo dell’acqua, il punto di ebollizione dell’acqua ed un altro punto, normalmente il punto di ebollizione di S o quello di fusione di Zn. Si misura RT e la temperatura T viene ricavata risolvendo l’equazione (8) o per via iterativa. Se non è necessaria un’estrema accuratezza (0.045 °C o minore), si possono usare per la calibrazione tre equilibri in fase condensata: i punti di solidificazione di H2O, di Sn e di Zn. Vengono preferiti i punti di solidificazione a quelli di ebollizione poiché i primi non sono praticamente influenzati dalla pressione. Una forma equivalente dell’equazione di Callendar è: RT = R0 + bT + cT 2 (9) dove R0 è la resistenza a 0 °C e le costanti b e c sono date da: R − R0 − cTZn2 b = Zn (10) TZn 8 R0 (TZn − TSn ) − RSnTZn + RZn TSn TSn TZn (TZn − TSn ) Si supponga di aver effettuato le seguenti misure: c= Equilibrio in fase condensata H2O(s)=H2O(l) Sn(s)=Sn(l) Zn(s)=Zn(l) Punto di solidificazione/°C 0.00 231.9681 419.58 (11) Resistenza/Ω 25.56600 48.39142 65.6700 Per la (11), c=-1.502488.10-5 Ω/°C2 e per la (10) b= 0.1019045 Ω/°C, essendo R0=25.56600 Ω. Pertanto la dipendenza di R da T è, mediante la (9): RT = 25.56600 + 0.1019045T + 1.502488 ⋅ 10 −5 T 2 (12) che rappresenta la curva di calibrazione del termometro a resistenza utilizzato. Per ottenere la temperatura durante una qualsiasi misura occorre risolvere l’equazione di 2° grado: T 2 − 6.78238 ⋅ 10 3 T − 1.70158 ⋅ 10 6 + 6.65563 ⋅ 10 4 RT = 0 oppure, direttamente, per via grafica riportando RT vs T, secondo l’eq. 12. Il valore di T si ottiene dall’intersezione del valore di RT, misurato con la curva di calibrazione (eq. 12). MISURA DELLA RESISTENZA DI TERMOMETRI A RESISTENZA Il problema principale in una misura accurata della resistenza risiede nella incertezza creata dalla resistenza dei terminali del termometro (resistenza) verso lo strumento di misura. Infatti, il termometro a resistenza (o qualsiasi resistenza) può essere rappresentato come (a) dove i terminali costituiscono ulteriori resistenze in serie a quella da misurare RPt (b) Il metodo più utilizzato per ovviare a tale inconveniente è quello noto come metodo delle quattro punte (c). Se una piccola corrente i (DC) nota e costante viene fatta passare tra c e t, ai capi di RPt si genera una caduta di tensione ∆V=iRPt. La misura simultanea di ∆V consente di ottenere RPt=∆V/i. Affinché la misura risulti sufficientemente accurata devono essere soddisfatti i seguenti requisiti: 1. la corrente, i, deve essere di bassa intensità, tale da non produrre riscaldamento per effetto Joule (la potenza termica W dissipata da un resistore R attraversato da una corrente i è W=Ri2); 9 2. la misura di ∆V deve essere elettrometrica (la misura della d.d.p. deve essere effettuata in condizioni tali che i→0); 3. le giunzioni di RPt con i terminali devono essere isoterme (poiché i terminali sono di un altro materiale, in genere Cu, costituiscono con Pt una giunzione fonte di un potenziale di contatto, vedi termocoppie). L’accuratezza della misura è data dalla propagazione degli errori sistematici: 1 ∆V ∆R Pt = ∆∆V + 2 ∆i (13) i i o, in termini relativi: ∆R Pt ∆∆V ∆i = + (14) RPt i ∆V Si supponga di applicare una corrente di 100 µA ad un termometro la cui resistenza è 25 Ω e di leggere la caduta di tensione con uno strumento che apprezzi 1 µV. L’accuratezza sulla corrente sia di 1 µA. Pertanto: ∆R Pt 10 −6 1 = + = 1.04 ⋅ 10 − 2 −6 RPt 100 25 ⋅ 100 ⋅ 10 Quindi l’accuratezza nella misura di RPt è di poco superiore all’1%. Per calcolare come ciò si trasferisca alla temperatura da misurare si supponga valida la curva di calibrazione (12). Applicando la propagazione dell’errore si ottiene: ∆RT (0.1019045 − 3.004976 ⋅ 10 −5 )∆T = = 1.04 ⋅ 10 −2 −5 2 RT 25.56600 + 0.1019045T − 1.502088 ⋅ 10 T quindi ∆T è una funzione di T. Per esempio, a 300 °C, ∆T=±6.1 °C, pertanto ∆T 6 .1 = = 2.04 ⋅ 10 − 2 . L’errore relativo su T è doppio rispetto a quello su RT. Quindi per T 300 migliorare l’accuratezza sulla misura di T occorre rendere quanto più possibile accurata la misura di RT utilizzando voltmetri ed alimentatori DC più accurati. TERMOCOPPIE L’effetto termoelettrico fu scoperto da Thomas Johann Seebeck nel 1821 ma fu Becquerel nel 1830 ad avere l’idea di utilizzare tale proprietà per misurare le temperature e Le Chatelier nel 1905 mise a punto la coppia termoelettrica Pt-PtRh 10% tutt’ora utilizzata. Effetto Seebeck. Quando le estremità di due metalli differenti vengono unite e le giunzioni vengono poste a temperature differenti θ1 e θ2, una corrente elettrica circola nel circuito riportato nella figura seguente. Tra i punti di contatto J1 e J2 esiste una d.d.p. che dipende soltanto dalla natura dei metalli e dalla temperatura delle giunzioni. Il metallo A è positivo rispetto al metallo B quando la corrente circola da A verso B. La misura della f.e.m. in un circuito termoelettrico è così rappresentata: 10 La misura di f.e.m. sviluppata da un tale circuito è un metodo indiretto, ma particolarmente preciso e riproducibile, di misura della temperatura di una delle due giunzioni di tale circuito a condizione di conoscere la temperatura dell’altra giunzione. Al circuito termoelettrico mostrato si da il nome di termocoppia. La giunzione di cui si conosce la temperatura è denominata giunzione di riferimento o, più comunemente, giunto freddo, mentre la giunzione la cui temperatura non è nota giunto caldo. Approfondimento - Effetto Peltier (1834). Dimostra la reversibilità dell’effetto Seebeck. Infatti, se nel circuito termoelettrico precedente si fa passare una corrente I, a seconda del verso della corrente, una delle giunzioni si riscalda, mentre l’altra si raffredda. - Effetto Thomson (1854). Un conduttore omogeneo nel quale fluisce una corrente e che presenta una differenza di temperatura tra due punti, assorbe od emette calore a seconda del materiale. - Effetto Volta (1857). Dimostra che in un circuito eterogeneo a temperatura uniforme non circola alcuna corrente elettrica. Gli effetti appena descritti sono tutti correlati tra loro ed il loro fondamento fisico è da ricercare nella struttura elettronica dei metalli e nella termodinamica degli elettroni all’interno di ciascun metallo. Una giunzione di due metalli che si trova in equilibrio termodinamico implica che il potenziale elettrochimico, µ~ , degli elettroni nei due metalli sia uguale, ossia: µ~1 = µ~2 (15) dove i pedici 1 e 2 indicano i due metalli a contatto. Per definizione, il potenziale elettrochimico di una specie i-esima in una fase α è dato da: µ~i = µ ìΘ + RT ln ai + z i FΨα (16) dove µ iΘ , a i , z i , Ψα sono, rispettivamente, il potenziale chimico standard, l’attività, la carica presa con il suo segno ed il potenziale elettrico della fase α. F è la costante di Faraday, che rappresenta la carica di una mole di elettroni (96487 C/mole). Se i è l’elettrone, sostituendo la (16) nella (15) si ottiene: µ eΘ (1) + RT ln ae (1) − FΨ1 = µ eΘ (2) + RT ln a e (2) − FΨ2 (17) da cui: µ Θ (1) − µ eΘ (2) RT a e (1) Ψ1 − Ψ2 = e + ln (18) F F a e ( 2) Nei metalli ae=1 e pertanto la d.d.p. che si genera ai capi della giunzione dipende solo dal potenziale chimico standard degli elettroni in ciascuno dei due metalli (caratteristica intrinseca di ciascun metallo) che, a sua volta dipende dalla temperatura. La condizione di equilibrio termodinamico della giunzione (eq. 15) implica inderogabilmente anche la condizione di equilibrio termico della giunzione medesima. Si deduce quindi che se si origina una d.d.p., si deve originare congiuntamente anche una separazione di carica alla giunzione. Il metallo con il potenziale chimico standard degli elettroni più basso tenderà ad acquisire elettroni, mentre l’altro tenderà a perderli. I flussi di elettroni in gioco sono però governati dalla separazione di carica che si crea, cioè il campo elettrico. Il metallo con µ Θ minore diventa il (-) e l’altro il (+). Nel ragionamento finora fatto si è considerata la situazione ideale in cui le altre estremità dei due metalli si trovano ad una 11 temperatura indefinita. Possiamo avere due situazioni (vedi le due figure precedenti): le estremità sono connesse tra loro ed alla medesima temperatura oppure a temperatura differente. Nel primo caso la d.d.p. è nulla (i due effetti alle giunzioni sono uguali ed opposti, nel secondo è ≠0 e dipende dalla temperatura). MISURA DELLA F.E.M. DI UNA TERMOCOPPIA Consideriamo il seguente schema di misura: La f.e.m. sviluppata da questo circuito risulta dall’opposizione di due f.e.m. Eθ1 ed Eθ 2 E = Eθ1 − Eθ 2 (19) Se al valore misurato E aggiungiamo la f.e.m. corrispondente alla temperatura θ2, il valore ottenuto dà la f.e.m. alla temperatura θ1 Eθ1 = E + Eθ 2 (20) Ciò mostra le proprietà additive della f.e.m. ma non della temperatura, come mostrato dall’esempio che segue. Una termocoppia Pt-PtRh 10% sviluppa una f.e.m. E=10.011 mV alla temperatura di 1038 °C mentre la temperatura del giunto freddo (lo strumento di misura) si trova alla temperatura θ2=36 °C. Mediante le tabelle si trova che Eθ 2 =0.210 mV ed attraverso la (20) si ottiene: Eθ1 = 10.011 + 0.210 = 10.221 → 1056 °C Se si addizionassero le temperature otterremmo: θ1=1038+36=1074 °C valore errato 12 CONSEGUENZE PRATICHE DELLE LEGGI TERMOELETTRICHE Legge dei conduttori intermedi. La somma algebrica delle f.e.m. sviluppate in un circuito costituito da un numero qualsiasi di conduttori differenti è nulla se le giunzioni sono alla medesima temperatura. E’ dunque possibile inserire uno strumento di misura senza perturbare il circuito. Una serie di giunzioni isoterme si comporta come una giunzione diretta dei metalli estremi. E’ dunque possibile realizzare le giunzioni con dei metalli differenti purché esse siano isoterme. Legge dei metalli omogenei. Tra le due giunzioni di un circuito termoelettrico, i conduttori possono attraversare zone a temperatura differente. Non vi sarà alcun effetto sulla misura a condizione che i metalli siano omogenei. 13 Compensazione del giunto freddo. Montaggio fondamentale. Applicato praticamente solo in laboratorio. Montaggio della sola termocoppia. Questo montaggio è ovviamente quello più semplice, ma non sempre attuabile. La correzione del giunto freddo in J2 si fa a livello dello strumento di misura. Montaggio con cavo di compensazione. Il montaggio consiste nella sostituzione di una parte della termocoppia con il cavo di compensazione, che non è della stessa natura della termocoppia, ma presenta caratteristiche termoelettriche molto simili in un intervallo ristretto di temperatura. Normalmente l’errore introdotto dal cavo di compensazione è ≤3 °C. Occorre comunque osservare due importanti punti: - rispetto della polarità alla giunzione; - connessione delle giunzioni alla medesima temperatura. 14 Montaggio con conduttori di rame. Il vantaggio di questo montaggio risiede nella sua semplicità: ma richiede di rispettare i seguenti punti: - utilizzare fili omogenei di Cu e verificare che realizzando una termocoppia con essi la f.e.m. sia nulla tra 0 e 100 °C; - mantenere le giunzioni isoterme; - conoscere le temperature θ2 e θ3. Analisi e ricerca della f.e.m. globale prodotta in un circuito termoelettrico. Consideriamo l’esempio classico di un circuito termoelettrico composto da una termocoppia chromel-alumel e da cavi di compensazione del tipo Cu/costantana collegati ad uno strumento di misura che necessariamente comporta giunzioni in rame: Caso A: tutte le giunzioni a 400 °C come in figura; Caso B: θ1= 600 °C; θ2=θ5=100 °C; θ3=θ4=30 °C. Supponiamo di conoscere le temperature delle giunzioni ed affrontiamo il problema di calcolare la f.e.m. totale di tale circuito. Per risolvere tale problema si utilizza la legge delle temperature intermedie che dice: “in un circuito termoelettrico la somma algebrica delle f.e.m. di un numero qualsiasi di conduttori differenti è funzione solamente delle temperature delle giunzioni di tali conduttori”. Si deve perciò conoscere la f.e.m. sviluppata dai differenti metalli che compongono il circuito considerando il segno della f.e.m. prodotta dalle differenti giunzioni. Ciò possibile in quanto tutte le f.e.m. sono riferite al platino (tabella 4 e figura sottostante). 15 Tabella 4 Consideriamo i due casi A e B facendo uso della tab. 4 e della figura. CASO A: In A chromel/alumel 400 °C 12.75-(-3.64)=16.39 mV 16 in B alumel/costantana 400 °C -3.64-(-16.19)=12.55 mV in C costantana/Cu 400 °C -16.19-(4.68)=-20.87 mV in D Cu/Cu a 400 °C 0 mV in E Cu/chromel a 400 °C 4.68-(12.75)=-8.07 mV ΣEi=16.39+12.55-20.87-8.07=0 mV CASO B: In A chromel/alumel 600 °C 19.62-(-5.28)=24.90 mV in B alumel/costantana 100 °C -1.29-(-3.51)=2.22 mV in C costantana/Cu 30 °C -1.30-(0.08)=-1.38 mV in D Cu/Cu a 30 °C 0 mV in E Cu/chromel a 100 °C 0.76-(2.81)=-2.05 mV 17 ΣEi=24.90+2.22-1.38-2.05=23.70 mV Tale valore deve essere corretto poiché il giunto freddo non è a 0 °C ma a 30 °C: Eθ1 =ΣEi+ E(θ3=θ4)=23.70+1.20=24.90 mV. Il valore 1.20 mV è la f.e.m. della termocoppia chromel/alumel a 30 °C. Errore nella scelta del giunto freddo. Consideriamo un circuito termoelettrico costituito da una termocoppia chromel/alumel collegata allo strumento di misura con conduttori di rame come rappresentato nello schema che segue: Erroneamente si attribuisce alle giunzioni C e D la temperatura θ3=θ4=30 °C, mentre essa si trova a 100 °C. ΣEi=24.91-2.05+0+0-2.05=20.81 mV La correzione per il giunto freddo considerato a 30 °C è: Eθ1 =20.81+1.20=22.01 mV Poiché in realtà il giunto freddo è a 100 °C, la correzione è: Eθ1 =20.81+4.10=24.91 mV L’errore che si commette è quindi di 2.90 mV che per la termocoppia presa in considerazione corrisponde circa a 70 °C. Inversione del cavo di compensazione. Consideriamo lo schema: medesimo schema del caso B visto in precedenza in cui il cavo di compensazione è stato invertito. ΣEi=24.91-2.05+0+1.37-6.32=17.91 mV Eθ1 =17.91+1.20=19.11 mV Tale valore corrisponde a 464 °C anziché 600 °C. E’ buona norma, nel caso si abbiano dubbi sulla polarità del cavo di compensazione, attorcigliare ad una estremità i due fili, collegare l’altra estremità del cavo allo strumento di misura, riscaldare i fili attorcigliati ed osservare la polarità sullo strumento. Il segno mostrato corrisponderà al filo collegato al lato HIGH dello strumento. Non-isotermicità delle giunzioni. Esaminiamo nuovamente il caso B visto in precedenza supponendo che θ2≠θ5, per esempio θ2=200 °C e θ5=100 °C. ΣEi=24.91+5.28-1.38+0-2.05=26.76 mV La correzione del giunto freddo è: 18 Eθ1 =26.76+1.20=27.96 mV invece di 24.91 mV. Il valore 27.96 mV corrisponde a 672 °C. Si produce quindi un errore di 72 °C. Nel caso in cui θ2<θ5, per esempio θ2=100 °C e θ5=200 °C, si avrebbe: ΣEi=24.91+2.22-1.38+0-4.13=21.62 mV Eθ1 =21.62+1.20=22.82 mV invece di 24.91 mV. Il valore 22.82 mV corrisponde a 551 °C. Si produce quindi un errore in difetto di 49 °C. ASSEMBLAGGIO DI TERMOCOPPIE - Utilizzazione di più termocoppie ed un solo strumento di misura: - Termocoppie collegate in parallelo: Si utilizza questo assemblaggio per misurare la temperatura media di una zona non isoterma: θ + θ + θ3 θm = 1 2 3 - Termocoppie collegate in serie: Lo scopo di questo assemblaggio è quello di ottenere una f.e.m. più elevata in modo da avere una maggiore sensibilità. Infatti Etot=nEi dove n è il numero di termocoppie dello stesso tipo. La sensibilità S sarà n volte quella di una singola termocoppia. Infatti: 19 S =n dE dT - Termocoppie collegate in opposizione: Con questo tipo di collegamento è possibile misurare la differenza di temperatura tra due termocoppie dello stesso tipo. L’applicazione più frequente è nell’analisi termica differenziale (DTA) e nella calorimetria a flusso. TERMOCOPPIE PIU’ COMUNI E TABELLE DI RIFERIMENTO Le termocoppie più comuni vengono classificate con una lettera dell’alfabeto e le relative tabelle sono state stabilite secondo una normativa internazionale (EIPT 68) sebbene esistano tabulazioni leggermente differenti utilizzate da alcuni paesi (USA, Francia, Canada) 20 L’elemento (+) viene scritto a sinistra della giunzione La tabella 5 riporta le caratteristiche principali di alcune delle termocoppie elencate. La figura che segue mostra la dipendenza della f.e.m. per le termocoppie in tabella 5. 21 Tabella 5 Occorre ricordare che per ciascuna delle termocoppie esiste il relativo cavo di compensazione. I colori dei fili e della guaina di tali cavi variano a seconda del tipo di convenzione adottata ed occorre fare attenzione perché possono esistere medesimi colori tra due convenzioni diverse ma per differenti termocoppie. 22 TERMISTORI La resistenza dei metalli è molto bassa ed aumenta gradualmente all’aumentare della temperatura. La resistenza dei nonmetalli, al contrario, è relativamente alta e decresce gradualmente con l’aumentare della temperatura (coefficiente negativo della resistività). A temperatura ambiente, la resistenza specifica di un metallo è tipicamente intorno a 10-6 Ω*cm, mentre quella dei nonmetalli è intorno a 1014 Ω*cm. I semiconduttori possiedono una resistenza specifica intermedia che varia tra 10-2 e 109 Ω*cm. I semiconduttori includono elementi come Si, Ge, Te e composti tra elementi di gruppi diversi, come quelli tra elementi del 13° e del 15° gruppo (es. GaAs). Alcuni ossidi binari e ternari ricadono nella categoria dei semiconduttori (es. Cu2O, NiMn2O4). Un termistore (thermally sensitive resistor) è un semiconduttore caratterizzato da un alto coefficiente negativo della resistività. Il semiconduttore utilizzato è spesso un composto non stechiometrico, ad esempio Ni1-xMn2+xO4, dove x varia tra 0 e 0.7. La resistenza di un termistore decresce esponenzialmente con l’aumento della temperatura, ed una idonea interpolazione dell’andamento è: B B R = Ae T oppure ln R = + ln A con A compreso tra 3 e 6 e B tra 3000 e 5000 K. T Il campo di lavoro dei termistori è generalmente compreso tra i –80 e i 200 °C, ma il loro uso è consigliabile a T<150 °C. 23 PIROMETRIA OTTICA E’ stabilito che al di sopra di 1064.43 °C (punto di fusione di Au) il campione internazionale di temperatura sia definito mediante la legge di Planck attraverso l’utilizzazione del pirometro ottico monocromatico. In realtà, la pirometria ottica trova applicazione anche al di sotto di detta temperatura laddove le termocoppie non possono essere utilizzate. E’ però ben consolidato l’uso dei pirometri ottici alle alte temperature, soprattutto a temperature che sono fuori dal campo di operatività delle termocoppie. E’ noto che l’interazione di una radiazione elettromagnetica con un corpo può manifestarsi attraverso fenomeni di assorbimento, riflessione e trasmissione della radiazione stessa, in proporzioni che dipendono dalla natura del corpo e dello stato della superficie. Nel 1879 Stefan enunciò la seguente legge: “l’emissione totale di un corpo è proporzionale alla quarta potenza della sua temperatura assoluta”. Ma nel 1885 Boltzmann dimostrò l’applicabilità della legge di Stefan esclusivamente al corpo nero (assorbitore integrale) e all’insieme delle radiazioni elettromagnetiche dello spettro termico (lunghezza d’onda compresa tra 0.1 e 100 µm). Si definisce “corpo nero” un corpo che assorbe totalmente tutte le radiazioni che riceve indipendentemente dalla lunghezza d’onda della radiazione stessa. L’emissività di un oggetto reale è il rapporto tra l’energia irradiata, J e l’energia irradiata da un corpo nero alla medesima temperatura: J ε= Jb Un buon assorbitore è anche un buon irraggiatore (ciò si può facilmente evidenziare riscaldando un crogiolo di porcellana bianca al calor rosso; se su di esso sono incise delle lettere nere, quando il crogiolo è incandescente, le lettere appariranno più brillanti del fondo). L’emissività ε di un corpo nero è 1, mentre l’emissività di un corpo reale varia tra 0 e 1. Se l’emissività di un materiale è nota, la temperatura corretta di un oggetto può essere calcolata dalla temperatura apparente Ta: 1 1 λ − = ln ε T Ta c 2 La tabella 6 riporta l’emissività di alcune sostanze. Tabella 6 Si possono realizzare oggetti che si avvicinano abbastanza bene al limite del corpo nero ideale come quelli riportati nella figura che segue: 24 Leggi fondamentali della pirometria ottica -STEFAN-BOLTZMANN Determina la potenza totale irradiata da un corpo nero alla temperatura assoluta T: 2π 5 k 4 M 0 = σ ⋅T 4 σ = ( 5.67 ⋅ 10 −8 W/m2K4) 15c02 h 3 T espressa in K, M0 in W/m2. - PLANCK Determina la potenza irradiata da un corpo nero alla temperatura T ed alla lunghezza d’onda λ: c1λ−5 M λ0 = c −1 exp 2 λ T Questa legge permette di tracciare la distribuzione spettrale dell’emissione di un corpo nero in funzione di λ e T. c1 = 2πhc02 = 3.741 ⋅ 10 −16 Wm 2 = 3.741 ⋅ 10 −8 Wµm 4 / m c2 = hc0 = 0.014388 m.K=14388 µm.K k 25 - WIEN E’ una semplificazione della legge di Planck: −c M λ0 = c1λ−5 exp 2 λT Consente di calcolare in funzione di T il valore di λ in corrispondenza del quale M λ0 è massimo. λ max = 2898 T in µm Consente di calcolare il valore di calcolare il valore di M λ0 max in funzione di T: M λ0 max = B ⋅ T 5 B = 1.287 ⋅ 10 −11 W/(m2.µm.K5) - KIRCHHOFF 1. In un contenitore chiuso, in quiete ed isotermo, la potenza irradiata è funzione soltanto della temperatura e della lunghezza d’onda, un corpo emette una radiazione alla temperatura T ed alla lunghezza d’onda λ solo se esso è in grado di assorbirla. Se si tratta di un corpo nero alla medesima temperatura, esso è in grado di emetterla. 2. In condizioni di equilibrio termico, per ciascuna lunghezza d’onda e ciascuna direzione di propagazione del raggio emesso da una superficie (o incidente su la stessa), l’emissività e l’assorbanza monocromatiche direzionali sono uguali: ε λox = α λox - LAMBERT Tratta dell’emissione isotropa (o diffusa) e di quella non isotropa. Tale legge è nota comunemente come legge del coseno. Infatti, una sorgente all’interno di una sfera cava produrrà un’emissione isotropa indipendentemente dalla sua posizione nella sfera (vedi figura seguente). 26 I OX = I ON cos θ In prima approssimazione si può dire che le superfici lisce e lucidate danno luogo ad una riflessione che si avvicina alla riflessione speculare. In altri termini, si dice che esse obbediscono alla legge di Cartesio. Le superfici ruvide danno luogo ad una riflessione diffusa che si approssima ad una emissione di tipo Lambert. Nel caso che interessa la pirometria ottica è importante sapere se il corpo di cui si sta misurando la temperatura sotto un angolo di incidenza rispetto alla perpendicolare possiede un’emissione di tipo lambertiano (il corpo nero è un emettitore lambertiano perfetto), altrimenti le misure possono risultare sensibilmente falsate. - RIFLESSIONE, ASSORBIMENTO E TRASMISSIONE Quando una radiazione incide sulla superficie di un corpo si possono produrre più fenomeni: - una parte del flusso incidente viene riflessa ρ = φl ; φx φa ; φx φ - una parte del flusso viene trasmessa t = t ; φx Queste tre quantità sono legate dalla relazione α + ρ + t = 1 . - una parte del flusso viene assorbita α = 27 -FATTORE D’EMISSIONE (EMISSIVITA’) Si è visto (2° legge di Kirchhoff) che in prima approssimazione si può ammettere che ε λox = α λox . E’ il fattore d’emissione (emissività) monocromatico che caratterizza la superficie di un materiale in base alla capacità d’emissione ad una lunghezza d’onda λ ed una direzione ox. Rappresenta il rapporto tra la radiazione emessa da un certo corpo e quella di un corpo nero alla medesima temperatura e nella medesima direzione. Come regola generale, la maggior parte dei materiali possono essere classificati in due famiglie: materiali metallici e materiali dielettrici. Nel primo caso, il fattore d’emissione, ε, decresce con la lunghezza d’onda ed aumenta con la temperatura e si ha un’emissione più intensa per piccoli angoli d’incidenza. Nel secondo caso, ε non segue una legge regolare con la lunghezza d’onda; esistono spesso bande d’assorbimento nel vicino infrarosso e ε cresce con λ>4 µm. Tali regole generali valgono per corpi con superfici il cui stato è perfettamente definito. Nelle figure che seguono è riportato qualitativamente l’andamento di ελox vs. λ e vs. T. -ESEMPIO DI COSTRUZIONE DI UN CORPO NERO E’ l’esempio più semplice di approssimazione di un corpo nero. - Una parte del raggio luminoso che entra nella cavità ρc si riflette in maniera diffusa attraverso una sfera tangente nel punto A e ad ogni riflessione trasmette energia alla parete della cavità fino ad uscire dalla cavità stessa avendo ceduto la maggior parte della sua energia alla cavità. In tali condizioni, il sistema è in equilibrio termodinamico con la sorgente esterna. - Una parte del raggio αc è assorbita e contribuisce all’aumento di temperatura della cavità. - Una parte del raggio è riflessa nell’angolo solido Ω e questa parte è perduta per il corpo nero. In prima approssimazione, ponendo α = ε , si può scrivere che il fattore di emissione della cavità εc si può scrivere: 28 ε c ≅ 1 − ρc ⋅ R2 L2 o più precisamente con la formula di Gouffé: s Ω ε p 1 + (1 − ε p ) − S π εc = s s ε p 1 − + S S con: R= raggio della cavità; L= lunghezza della cavità; s= superficie dell’apertura della cavità S= superficie laterale della cavità; εp= fattore di emissione della superficie; Ω= angolo solido sotto il quale il raggio viene emesso verso l’esterno, e con le espressioni seguenti: s 1 = e ρc = 1 − ε p L S 21 + R 29 - I PIROMETRI Nelle figure seguenti è qualitativamente mostrato il principio di funzionamento di alcuni pirometri: -PIROMETRO OTTICO MONOCROMATICO A SCOMPARSA DI FILAMENTO I pirometri ottici si dicono monocromatici se possiedono un filtro che permette di prendere un intervallo di lunghezza d’onda compreso tra λ e λ+dλ. Per esempio il pirometro di Ribaud utilizza l’espediente di combinare il comportamento come filtro di un vetro rosso con la curva di visibilità dell’occhio umano entro 0.64-0.69 µm per realizzare un filtro a banda passante: 30 La misura consiste nel comparare l’energia emessa dal corpo osservato con il pirometro alla temperatura assoluta T in una banda ristretta λ, λ+dλ, con l’energia emessa da una sorgente campione che emette nella stessa banda. In pratica, in questo tipo di pirometro, si confronta la luminosità del corpo osservato con quella di un filamento di W riscaldato per effetto Joule, che emette alla lunghezza d’onda λ=0.65 µm, non assorbita dal filtro rosso. Questo pirometro, come gli altri, è calibrato rispetto ad un corpo nero. Pertanto, se l’oggetto osservato ha un fattore di emissione <1, come normalmente accade, la temperatura misurata sarà inferiore a quella reale. In altri termini: non si ottiene la temperatura della superficie dell’oggetto osservato, ma la temperatura del corpo nero che ha la medesima luminosità. Occorre quindi valutare l’energia del corpo relativamente a quella che emetterebbe il corpo nero alla medesima temperatura per mezzo del fattore di emissione. La determinazione di tale fattore va eseguita sperimentalmente e richiede tecniche di laboratorio piuttosto elaborate. - CORREZIONE DELLA TEMPERATURA Correzione dovuta al fattore di emissione Consideriamo un caso concreto: un pirometro monocromatico, centrato a 0.65 µm, inquadra un oggetto, ad esempio un pezzo di lega a base di Ni fortemente ossidata, alla temperatura di 1036 °C. Dobbiamo calcolare la temperatura reale della lega sapendo che: - la temperatura letta dallo strumento è 1010 °C; - il fattore di emissione monocromatico direzionale è 0.70. Per risolvere tale problema si può utilizzare la legge di Planck, ma anche la 1° legge di Wien, come viene comunemente fatto in pirometria ottica. L’errore introdotto è decisamente piccolo, <0.4 °C a 3000 °C. Si può quindi impostare l’uguaglianza: LλT = ε λox ⋅ L0λT 31 dove L è l’energia irradiata dal corpo in esame alla lunghezza d’onda λ ed alla temperatura T, e L0 è la medesima quantità relativamente al corpo nero. Quindi, sostituendo si ottiene: −c −5 − c2 c1λ−5 exp 2 λTλ = ε λox c1λ exp λT da cui: 1 T= 1 λ + ln ε λox Tλ c 2 con: λ= lunghezza d’onda media del pirometro ≅ 0.65 µm; T= temperatura assoluta del corpo osservato (temperatura cercata); Tλ= temperatura assoluta letta nel pirometro; c2= costante di Planck= 14388 µm.K. Quindi, tornando al nostro problema: 1 T= =1310 K=1037 °C 1 0.65 + ln 0.70 1283 14388 Il valore ottenuto praticamente coincidente con quello teorico (entro l’1‰). Nella figura che segue viene riportato lo schema del pirometro a scomparsa di filamento e la rappresentazione dello strumento: 32 PRODUZIONE E MISURA DEL VUOTO Per evacuare una linea e raggiungere una certa pressione, del gas (generalmente aria) deve essere asportato mediante pompaggio; ciò implica che un certo flusso di gas, Q deve fluire da una parte all’altra della linea. Tale flusso, detto portata, è definito come: dV Q=P (1) dt dV è la portata volumetrica attraverso la sezione A dove P è la pressione a cui esso è misurato e dt (vedi figura sottostante). L’unità di misura di Q è energia/tempo o (volume.pressione)/tempo cioè l.atm.min-1 o meglio, nel sistema internazionale (SI) Pa.m3.s-1 o J.s-1, quindi W. La quantità Q dipende dalla resistenza al flusso e dalla caduta di pressione alle estremità della linea: P − P1 Q= 2 = F ⋅ ( P2 − P1 ) (2) z dove P1 è la pressione misurata dal lato della pompa da vuoto e P2 dal lato recipiente, mentre z è la resistenza e F la conduttanza. La conduttanza è la portata Q per una caduta di pressione unitaria. Nel sistema SI l’unità di misura della conduttanza è m3.s-1, ed il suo reciproco (m-3.s) per la resistenza. Le quantità nell’eq. (2) sono analoghe a quelle della legge di Ohm. L’eq. (2) rappresenta la legge di Ohm per un flusso di gas attraverso un tubo: essa mette in relazione il flusso Q attraverso un tubo di resistenza z sotto l’influenza di una differenza di pressione P2-P1. In analogia con un circuito elettrico di resistenza in serie ed in parallelo, la resistenza al flusso di gas è data da: z T = z1 + z 2 + z 3 + z 4 + ... (3) se in serie; in termini di conduttanza: 1 1 1 1 1 = + + + + ... (4) FT F1 F2 F3 F4 FLUSSO VISCOSO→FLUSSO MOLECOLARE La natura del flusso gassoso attraverso una tubazione è piuttosto differente a basse pressioni rispetto a quella ad alte pressioni. Inoltre, le caratteristiche di flusso dipendono dal flusso stesso e dalla geometria della tubazione, dalla sua forma e dalla sua natura. Tre tipi di flusso vengono convenzionalmente esaminati: turbolento, viscoso (laminare) e molecolare. Il numero di Reynolds, R, è utile per discriminare tra flusso turbolento e viscoso, mentre il numero di Knudsen, Kn, è utile per discriminare tra viscoso e molecolare. Il numero di Reynolds è adimensionale ed è definito come: a ⋅ ρ ⋅u R= (5) η dove a è il raggio della tubazione, ρ la densità del gas, η la viscosità dello stesso e u è la velocità del gas attraverso una sezione perpendicolare della tubazione: 33 Q (6) π ⋅ a2 ⋅ P Il numero di Knudsen è puramente empirico ed è definito come il rapporto del cammino libero medio, L, ed una dimensione caratteristica del sistema, come ad esempio il raggio della tubazione: L Kn = (7) a Anche Kn è adimensionale. L è dato dalla teoria cinetica dei gas: 1 L= (8) 2 ⋅π ⋅ d 2 ⋅ N ∗ dove d è il diametro molecolare (o atomico) ed N* il numero di molecole per unità di volume. N* è legato attraverso la legge dei gas (ideali o reali) alla pressione ed alla temperatura. E’ pertanto conveniente esprimere la (8) come: RT kT (9) L= = 2 2 ⋅π ⋅ d ⋅ P ⋅ N a 2 ⋅π ⋅ d 2 ⋅ P Per l’aria a 25 °C: 1.3806 ⋅ 10 −23 ⋅ 298 J ⋅ K −1 ⋅ K 0.0037 L= ⋅ 2 = 2 − 3 P 2 ⋅π ⋅ 5 ⋅ 10 −10 ⋅ P m ⋅ J ⋅ m u= ( ) con L espresso in metri se P è espresso in Pa. In questo esempio d= 5 Å. Consideriamo ora la tabella 1: Tabella 1 a titolo di esempio calcoliamo la pressione massima a cui si osserva flusso molecolare in un lungo tubo di vetro di 25 mm di diametro: L=Kn.a=1.0.1.25=1.25 cm=0.0125 m P=0.0037/L=0.0037/0.0125≅0.30 Pa=0.003 mbar FLUSSO VISCOSO Al di sopra di ca. 10-3 torr≅1.33.10-3 mbar, le proprietà del gas dipendono dalle collisioni tra le molecole che dalle collisioni tra molecole e recipiente. Al di sotto di tale pressione, le collisioni tra le molecole diventano molto meno probabili e la viscosità del gas tende a zero. Nella regione di flusso viscoso, l’equazione di Poiseuille consente di calcolare la portata attraverso un tubo dritto e di sezione circolare: π ⋅ a4 Q= ⋅ P ⋅ ( P2 − P1 ) (10) 8 ⋅η ⋅ l dove a e l sono, rispettivamente, il raggio del tubo e la sua lunghezza, η la viscosità del gas e P la pressione media tra P2 e P1. Se combiniamo le equazioni (10) e (2), si ottiene la conduttanza in regime di flusso viscoso per un tubo di sezione circolare: π ⋅ a4 F= ⋅ P (11) 8 ⋅η ⋅ l 34 E’ da osservare che per consuetudine i dati di viscosità vengono forniti in poise, ossia nel sistema CGS: 1 poise=1 g.cm-1.s-1. Nel sistema SI l’unità e Pa.s: 1 Pa.s=1 kg.m-1.s-1. Perciò 1 poise=0.1 Pa.s. La viscosità dell’aria a 25 °C è 1.845.10-4 poise=1.845.10-5 Pa.s. Se si osserva la figura seguente si possono qualitativamente visualizzare le situazioni di regime viscoso (a) e molecolare (b): nel primo caso, il cammino libero medio L è piccolo in confronto al diametro del tubo e perciò le collisioni tra molecole sono più frequenti che quelle tra molecole e pareti. In queste condizioni il gas si comporta come fluido continuo ed il numero di Knudsen Kn=(L/a) <0.01. Quando il cammino libero medio è grande in confronto al diametro del tubo, (L/a)>1, caso (b), le molecole di gas collidono più frequentemente con le pareti del tubo che tra loro. In tali condizioni, il significato fisico della viscosità viene a mancare, in quanto non si ha più trasferimento di forze tra uno strato di molecole ed un altro. Queste sono le condizioni che caratterizzano il flusso molecolare. VELOCITA’ DI POMPAGGIO La velocità di pompaggio S in qualsiasi punto del sistema da vuoto è definita dal rapporto tra la portata Q e la pressione: Q S= (12) P le unità di misura di S sono volume/tempo, le medesime della conduttanza. Per progettare adeguatamente una linea da vuoto, è utile conoscere quanto la velocità di pompaggio SL nella linea differisce da quella del sistema di pompaggio SP. L’effetto della resistenza della linea nel ridurre la velocità di pompaggio è dato da: 1 1 1 = + (13) SL SP F Se la conduttanza eguaglia la velocità di pompaggio della pompa, la velocità di pompaggio nella linea è la metà di quella della pompa, poiché: S 1 1 1 2 = + = ⇒ SL = P SL SP F SP 2 E’ quindi evidente che la conduttanza della linea debba essere la più grande possibile, visto che quando F→∞, SL→SP. Per una linea da vuoto reale, la resistenza al pompaggio è la somma delle resistenze di tutte le componenti (trappole, valvole, strozzature, ecc.) che costituiscono la linea. Tale relazione è normalmente scritta in termini di conduttanza (ricordando che F=1/z): 35 1 1 1 = +∑ (14) SL SP Fi dove Fi rappresenta la conduttanza del componente i-esimo. E’ quindi importante minimizzare il numero di componenti della linea. Per l’equazione (11), la conduttanza in regime viscoso dipende dalla 4° potenza del raggio della tubazione. Di conseguenza, le tubazioni che collegano una pompa da basso vuoto ed una da alto vuoto devono essere di diametro più grande possibile. Riducendo il raggio della metà, la conduttanza si riduce ad 1/16. L’equazione (13) può essere scritta nella forma: S ⋅F SL = P (15) SP + F La dipendenza della velocità di pompaggio SL nella linea in funzione della conduttanza a differenti velocità di pompaggio nella pompa SP è riportata nella figura seguente. FLUSSO MOLECOLARE A pressioni inferiori di circa 10-3 mbar, come detto in precedenza, si entra in regime di flusso molecolare. Analogamente al flusso viscoso, quello molecolare dipende fortemente dal raggio del tubo, ma è indipendente dalla pressione: 2π ⋅ a 3 ⋅ u F= (16) 3l dove u è la velocità molecolare media data da: 1 8RT 2 u = (17) πM A 25 °C, la conduttanza dell’aria in un tubo cilindrico è approssimativamente data da: a3 F = 100 ⋅ (18) l dove a ed l sono in cm e F in l/s. Il grafico che segue mostra l’andamento della conduttanza in funzione della lunghezza del tubo per tubi commerciali con diametro secondo la normativa PNEUROP. 36 37 PRODUZIONE DEL VUOTO -Pompe meccaniche per basso vuoto Nel 1905, il Dr. Wolfgang Gaede costruì la prima pompa rotativa. Prima di quella data, gli scienziati utilizzavano vari tipi di pompe a pistoni che potevano raggiungere una pressione di 0.25 torr. Il disegno originale (figura seguente) consiste di un rotore cilindrico che compie un moto eccentrico all’interno di un cilindro fisso. Sul medesimo rotore sono montate due palette mantenute in contatto con il cilindro fisso (statore) da molle e dalla stessa forza centrifuga. Le palette S ed S1, che sono libere di muoversi avanti e indietro lungo l’asse ortogonale a quello di rotazione, dividono il volume tra rotore e statore in due parti. La rotazione del rotore fa in modo che il volume Vi aumenti e il gas venga aspirato dal sistema da evacuare, e contemporaneamente il volume Vd decresce.Il gas in quest’ultimo volume viene compresso ed espulso attraverso la porta di uscita all’atmosfera. Appena la paletta S1 oltrepassa l’uscita, il volume Vd diventa il volume d’ingresso del gas, che viene poi nuovamente compresso ed espulso. Dopo ogni 180° di rotazione , il volume di aspirazione diventa il volume di scarico e viceversa. Dalla pressione atmosferica fino a circa 10-3 mbar, la velocità di pompaggio di una tipica pompa rotativa è praticamente costante, ma a pressioni inferiori detta velocità si riduce drasticamente, come mostrato nella figura seguente. 38 Per raggiungere pressioni inferiori è necessario accoppiare una seconda pompa alla pompa rotativa. Come si vedrà in seguito, questa ulteriore pompa è di solito costituita da una pompa a diffusione o da un pompa turbomolecolare. Poiché i vapori condensabili, come il vapore acqueo, non possono essere rimossi dalla pompa rotativa, perché il suo funzionamento richiede una compressione prima dell’espulsione, tutte le pompe rotative sono equipaggiate con una valvola detta zavorratore (meglio conosciuta con il suo nome inglese gas ballast) che consente, quando aperta, l’ingresso di una certa quantità di aria nella camera di compressione. L’aria aggiunta riduce la pressione parziale dei gas condensabili. In questo modo, il vapore non raggiunge la sua pressione di vapore saturo e così può essere espulso. E’ quindi pratica comune aprire periodicamente tale valvola per eliminare i vapori condensabili. Durante l’apertura dello zavorratore la pressione tende ad aumentare, ma se sono presenti vapori condensabili, una volta eliminati e chiuso lo zavorratore, la pressione si ridurrà nuovamente e raggiungerà valori inferiori a quelli precedenti alla sua apertura. Inoltre lo zavorratore, consentendo l’espulsione dei vapori condensabili, fa sì che essi non si mescolino all’olio che lubrifica le parti in movimento della pompa e ne assicura la tenuta, evitandone così il grippaggio. Allo scopo di raggiungere una pressione limite inferiore, alcune pompe rotative sono costruite con due stadi. I due stadi sono connessi internamente, come se fossero due pompe collegate in serie, come mostrato nella figura seguente: 39 Generalmente, con una pompa bistadio non si modifica sensibilmente la velocità di pompaggio, mentre si ha una significativa riduzione della pressione limite, come mostrato nella figura riportata di seguito: - Tempo di pompaggio Combinando le equazioni (1) e (12), la velocità di pompaggio può venir scritta come: Q V dP S = =− ⋅ (19) P P dt V dP dt = − ⋅ (20) S P Il tempo richiesto per ridurre la pressione dal valore iniziale Pi al valore finale Pf può essere calcolato integrando l’eq. (20): P V t = ln i (21) S Pf 40 Nell’integrazione si è assunto non solo che il volume è costante, ma anche la velocità di pompaggio. Pertanto tale equazione può essere ritenuta valida solo nel tratto orizzontale delle figure precedenti di velocità di pompaggio vs pressione. Supponiamo di avere un sistema di volume 8 litri e si desideri conoscere il tempo necessario con la pompa bistadio la cui curva è riportata nell’ultimo grafico visto, operante senza zavorratore, per evacuare il sistema da pressione atmosferica a 10-3 torr. Esaminando la curva, si vede che la velocità di pompaggio a pressione atmosferica è ca. 27 m3/h, mentre a 10-3 torr è ca. 10 m3/h. Assumendo come S il valore medio dei due (18.5 m3/h), il tempo necessario è: 8 ⋅ 10 −3 760 t= ln −3 =5.86.10-3 h=21 s. 18.5 10 - Pompe a diffusione Le prime pompe a diffusione furono realizzate da Wolfgang Gaede in Germania nel 1915 e da Irving Langmuir nel 1916 negli U.S.A.. Le attuali pompe operano sul principio del prototipo di Langmuir (vedi figura seguente), sebbene il disegno dei sistemi attuali sia sensibilmente differente. Nel prototipo di Langmuir viene fatto bollire Hg alla pressione di 10-2 torr, realizzata tramite pompa rotativa. Ciò produce un flusso di vapore di Hg diretto verso un ugello posto prima di un condensatore dove i vapori di mercurio condensano e ritornano in ciclo. Le molecole di gas contenute nel sistema da evacuare diffondono verso la pompa, dove collidono con gli atomi di Hg gassoso che hanno un effetto trascinante sulle molecole di gas; Queste vengono poi pompate dalla pompa rotativa. Poiché la tensione di vapore di Hg a temperatura ambiente è relativamente alta (∼10-3 torr), per evitare che Hg possa diffondere nel sistema da evacuare, occorre interporre tra esso 41 e la pompa a diffusione una trappola ad azoto liquido. Nel 1920, C. R. Burch in Inghilterra e K. C. Hickman negli Stati Uniti scoprirono alcuni oli ad alto peso molecolare che possedevano un alto punto di ebollizione ed una bassa tensione di vapore e che quindi potevano rappresentare dei validi sostituti di Hg. Inoltre, data la loro bassa tensione di vapore a temperatura ambiente, non è necessario interporre tra il sistema da evacuare e la pompa a diffusione trappole ad azoto liquido; oltretutto non presentano i problemi di tossicità di Hg. Inizialmente gli oli utilizzati erano costituiti da idrocarburi, ai quali sono stati successivamente affiancati siliconi ed eteri fenilici. L’uso degli oli nelle pompe a diffusione al posto di Hg può creare problemi nell’ambito della spettrometria di massa, in quanto essi possono dare luogo a spettri complessi che si vanno a sovrapporre a quelli dei sistemi in esame, mentre Hg dà luogo ad uno spettro di massa facilmente identificabile. Tranne rare eccezioni, le attuali pompe a diffusione sono costruite in acciaio con una struttura come quella riportata nella figura seguente. 42 Le pompe a diffusione sono pompe a getti di vapore che lavorano sul principio del trasferimento di quantità di moto da una molecola di vapore pesante (Hg, olio) ad una molecola di gas. Ciò produce la rimozione delle molecole di gas con il pompaggio verso l’esterno. Con riferimento alla figura precedente, il fondo della pompa contiene dei riscaldatori elettrici che consentono l’ebollizione del liquido a pressione ridotta (prodotta dalla pompa rotativa). E’ pertanto necessario mettere in funzione la pompa rotativa prima di accendere i riscaldatori, in modo tale da avere una pressione al di sopra dell’olio ≤10-1 torr. Il riscaldamento dell’olio a pressione atmosferica ne causerebbe il deterioramento. Quando l’olio entra in ebollizione, i vapori sono forzati ad entrare nei vari comparti verticali, dalla cui estremità essi fuoriescono tramite ugelli opportunamente orientati e posizionati in altezza. I vapori vengono diretti verso la parte fredda della pompa, raffreddata solitamente ad acqua, dove condensano e ritornano sul fondo. Le molecole di gas che diffondono dal sistema da evacuare subiscono collisioni successive dai getti di vapore posizionati a differenti altezze. In questo modo, le molecole di gas sono spinte verso l’uscita del basso vuoto, dove vengono pompare dalla pompa rotativa. Occorre prestare molta attenzione nell’evitare di connettere una pompa a diffusione a regime (ossia calda) con un sistema da evacuare che si trova a pressione atmosferica. Ciò può causare la distruzione della pompa, distruzione che talvolta può essere anche esplosiva. Pertanto, è assolutamente necessario, prima di connettere la pompa a diffusione con il sistema da evacuare, di fare il vuoto in quest’ultimo fino ad una pressione di ca. 10-3 mbar. In genere, i sistemi da vuoto basati sull’accoppiamento di una pompa rotativa ed una a diffusione sono realizzati secondo lo schema che segue: Si procede come segue: CASO A: la pompa è fredda ed S è a pressione atmosferica. Si pone TV nella posizione 1-2 (come in figura) e B aperta (come in figura, chiusa è perfettamente orizzontale. Si accende la rotativa e si effettua l’evacuazione dell’intero sistema+pompa a diffusione. Quando la pressione è <10-1 mbar, si accende il riscaldatore di DP. Dopo ca. 1 ora (dipende dal tipo di pompa) DP è a regime. Il tempo necessario per raggiungere una pressione soddisfacente in S dipende dalle dimensioni di S, dal suo grado di pulizia e dal suo contenuto. 43 CASO B: DP è calda ed S è a pressione atmosferica. In questo caso, ovviamente, B è già chiusa. Si commuta TV in 3-2 e si evacua S fino a raggiungere una pressione di ca. 10-3 mbar. A questo punto, contemporaneamente si apre B e si commuta TV nella posizione 1-2. Anche nelle pompe a diffusione la velocità di pompaggio varia con la pressione, come mostrato nella figura seguente: Nella tabella che segue sono riportate alcune caratteristiche di oli comunemente usati per pompe a diffusione: 44 - Scelta della pompa da basso vuoto da accoppiare con una data pompa a diffusione L’equazione fondamentale per un sistema dinamico di pompaggio in equilibrio è: Q = P ⋅ S (22) dove Q rappresenta la portata (massa di gas trasferita nell’unità di tempo), P la pressione ed S la velocità di pompaggio (dV/dt). Quando la pompa da basso vuoto è collegata con la pompa a diffusione, si ha che la portata delle due pompe si eguaglia: Pr ⋅ S r = Pd ⋅ S d (23) dove r e d stanno, rispettivamente, per rotativa e diffusione. Supponiamo di voler stabilire se la pompa rotativa a doppio stadio le cui caratteristiche sono riportate a pag. 39, è idonea per la pompa a diffusione le cui caratteristiche sono state mostrate nella pagina precedente. Pertanto: P ⋅S S r = d d (24) Pr per Pr assumiamo la pressione massima allo scarico della pompa a diffusione fornita dalla casa costruttrice, 0.40 torr. Dalla curva della pompa a diffusione, utilizziamo Sd=36 L/s, corrispondente a 10-6 torr, pertanto: 10 −6 ⋅ 36 Sr = = 9 ⋅ 10 −5 L/s=5.4.10-3 L/min 0.40 La pompa rotativa a 0.4 torr ha Sr=27 m3/h=450 L/min. Tale valore è più che sufficiente (83000 volte più grande!). - Pompe turbomolecolari Le pompe turbomolecolari operano su un principio simile alle pompe a diffusione. In una pompa a diffusione, la quantità di moto è trasferito dalle molecole di vapore a quelle di gas che diffondono nel vapore. In una pompa turbomolecolare, il momento è trasferito dalle palette della turbina alle molecole di gas che diffondono tra le palette. Per ottenere questo effetto, la velocità periferica delle palette deve essere confrontabile con le velocità termiche delle molecole di gas. Ciò richiede velocità di rotazione tra i 20000 e i 60000 giri/min (rpm). Le pompe turbomolecolari raggiungono velocità di pompaggio comparabili a quelle di grandi pompe a diffusione, con valori tipici compresi tra 80 e 900 L/s (vedi figura). 45 46 Il valore di pressione limite può raggiungere i 10-11 mbar. Le pompe turbomolecolari non necessitano di trappole ad azoto liquido e, come le pompe a diffusione, richiedono un prevuoto di ca. 10-3 mbar. Il punto debole di una pompa turbomolecolare sta nella lubrificazione dei cuscinetti. I modelli più moderni sono dotati di un sistema di sospensione magnetica del rotore, che annulla praticamente l’attrito e la necessità di avere cuscinetti lubrificati. - Pompe a sublimazione di titanio Una pompa a sublimazione di Ti è essenzialmente un getter di Ti. Nella figura seguente ne viene mostrato un tipo molto diffuso. Esso consiste in una sfera cava di Ti contenente al suo interno un riscaldatore ed è montato all’interno del sistema da evacuare. Dopo che il sistema è stato evacuato ad una pressione ≤10-5 mbar, ad esempio con una pompa turbomolecolare, la sfera di Ti viene riscaldata in maniera tale da stabilire una certa velocità di vaporizzazione di Ti. I vapori metallici si vanno poi a condensare sulle pareti del sistema da evacuare ed interagiscono con i gas residui chemisorbibili dando luogo, per es. alle reazioni: 4Ti+3O2=2Ti2O3; 2Ti+N2=2TiN 47 La sfera di Ti mostrata nella foto contiene 35 g di metallo; questo è sufficiente per reagire con 11.7 g di O2, che occuperebbero 6.5.106 L a 10-4 torr. Alla velocità di sublimazione di 0.01 g/h, il tempo di vita della sfera è di 3500 h, dopodiché deve essere sostituita. Come si vede dalla figura qui sopra, la velocità di pompaggio può essere molto elevata. - Pompe ioniche Il funzionamento delle pompe ioniche è correlato a quello delle pompe a sublimazione di titanio, ma sono più complesse e possono pompare anche i gas inerti. Uno schema di un sistema del tipo più semplice e mostrato nella figura seguente: Si tratta di un diodo in cui tra anodo e catodo è imposta una d.d.p. tra 5 e 7 kV. Le molecole che diffondono nell’anodo cilindrico vengono ionizzate e si forma un plasma di ioni ed elettroni. Il diodo è posto tra le espansioni polari di un magnete. Poiché gli elettroni vengono prodotti all’interno di un forte campo magnetico, essi percorrono un lungo percorso a spirale nel loro 48 cammino verso l’anodo, aumentando la probabilità di incontro con altre molecole di gas. Questi incontri causano ulteriori ionizzazioni di molecole di gas. Gli ioni formatisi vengono accelerati dal campo elettrico verso i catodi di Ti, dove collidono con la superficie con sufficiente energia da espellere atomi di Ti, i quali si ridepositano sull’anodo o altrove sul catodo, in una forma estremamente suddivisa e reattiva. Il deposito di titanio a questo punto cattura le molecole e gli ioni reattivi come O2, O2+, ecc. Anche i gas non reattivi come He ed Ar vengono trattenuti, ma non chimicamente. Venendo proiettati ad alta velocità contro la superficie di Ti, gli atomi di queste specie vengono sepolti nel metallo. Nella figura che segue viene riportata la velocità di pompaggio per due tipi commerciali di pompe ioniche. SISTEMI DI MISURA DEL VUOTO - A termoconducibilità Se una corrente elettrica attraversa un filo metallico, la sua temperatura aumenta per effetto della potenza dissipata (Ri2) dal filo. La resistenza del filo è una funzione della sua temperatura, che a sua volta dipende dalla capacità di trasferire calore al gas circostante. Il trasferimento di calore dipende kT dal cammino libero medio delle molecole ( L = , come visto all’inizio del capitolo). 2 ⋅π ⋅ d 2 ⋅ P Pertanto sia la resistenza del filo che la sua temperatura possono essere usate per una misura indiretta della pressione. a. Strumento di Pirani Un filo R1 è esposto al gas di cui si vuole misurare la pressione: Esso viene riscaldato utilizzando una tensione costante ed è collegato elettricamente in uno dei rami di un ponte di Wheatstone. Un secondo filo R2 identico al primo è sistemato in un altro ramo. Essi 49 sono fisicamente adiacenti ed entrambi sigillati nel tubo di Pirani. Tipicamente, la resistenza R3 eguaglia la R4 ed entrambe sono di 15 Ω. R5 è una resistenza variabile da 2 Ω per l’aggiustamento dello zero. Fissata la tensione applicata, R1 dipende dalla pressione. Il microamperometro M misura lo sbilanciamento del ponte ed è calibrato in unità di pressione (torr o mbar solitamente). La calibrazione dipende dal tipo di gas poiché ciascun gas possiede una propria conducibilità termica. b. Strumento a termocoppia E’ simile al Pirani. Un filo è riscaldato da un alimentatore AC, ma in questo caso non viene misurata la sua resistenza, bensì la sua temperatura per mezzo di una sottile termocoppia saldata al centro del filo. La f.e.m. della termocoppia dipende dalla temperatura del filo, che a sua volta dipende dalla pressione del gas e dalla sua conducibilità termica. L’intervallo di pressioni di utilizzo tipico è compreso tra 2.5 e 10-3 torr. c. Strumenti a ionizzazione Tutti gli strumenti a ionizzazione una caratteristica comune. Essi producono ioni positivi nel gas la cui pressione deve essere misurata, ioni che vengono raccolti da un elettrodo negativo. La corrente positiva che circola fornisce una misura indiretta della pressione e varia linearmente con la pressione. Gli strumenti a ionizzazione differiscono tra loro per il sistema con cui vengono generati gli ioni positivi nel gas. c-1. Ad effetto termoionico E’ sostanzialmente un triodo collegato ad un sistema da vuoto. Una delle prime versioni consiste in un filamento centrale posto al potenziale di terra in cui circola una corrente alternata a bassa tensione. In questo modo il filamento (di solito in W o Ir/ThO2) viene portato ad incandescenza ed 50 emette elettroni per effetto termoionico, che sono accelerati dalla griglia, che è posta a +150 V rispetto al filamento. Ciò produce una corrente ig che fluisce tra filamento e griglia. Tale flusso di elettroni collide con le molecole di gas producendo ioni positivi: A+e-=A++2eUn altro elettrodo, denominato placca, consistente in un film di Pt depositato all’interno del tubo di vetro in cui è alloggiato il dispositivo, è posto ad un potenziale negativo (-50 V) rispetto al filamento. In tal modo una piccola corrente positiva, ip, si instaura tra griglia e placca. Tale corrente dipende linearmente dalla pressione P e dal numero di elettroni/secondo emessi dal filamento (ig). La costante di proporzionalità S costituisce la sensibilità del dispositivo: 1 ip i p = S ⋅ ig ⋅ P ⇒ P = ⋅ S ig La costante di proporzionalità viene normalmente fornita in torr-1 ed il suo valore è intorno a 20. L’intervallo di misura è tra 10-3 e 10-7 torr. Al di sopra di 10-3 torr il filamento (se in W) può bruciarsi, mentre al di sotto di 10-7 torr si perde la risposta lineare a causa di una corrente di fondo detta “limite da raggi X”. Questa viene prodotta perché gli elettroni prodotti dal filamento impattano la griglia, la quale emette poi raggi X. Questi raggi X a loro volta, colpiscono la placca, che emette quindi a sua volta elettroni per effetto fotoelettrico. La fotocorrente risultante, 51 indipendente dalla pressione, è indistinguibile dalla corrente ionica, e quindi rappresenta il limite inferiore di misura della pressione. Una variante del sistema in oggetto progettata per ridurre il limite da raggi X e quindi estendere il limite inferiore di misura, è quella di Bayard-Alpert. Essa riferisce dal disegno convenzionale sopra riportato nel posizionamento del filamento e della placca, che risulta invertito. La placca ora è costituita da un filo sottile coassiale alla griglia, In questo modo l’ assorbimento di raggi X da parte della placca viene notevolmente ridotto, in quanto è notevolmente ridotta la superficie di quest’ultima, minimizzando così la fotocorrente. Con un dispositivo di tipo Bayard-Alpert (che costituisce praticamente la totalità degli strumenti a ionizzazione ad effetto termoionico oggi in commercio) il limite inferiore di misura si porta a ca. 10-10 torr, con una sensibilità di ca. 10 torr-1. Inoltre, il posizionamento del filamento al di fuori della griglia consente di posizionarne un secondo da utilizzare in caso di rottura del primo. c-2. A catodo freddo E’ noto anche come Penning e non ha il filamento. L’anodo consiste in un anello posizionato tra due elettrodi (catodo) che si trovano al potenziale di terra. La ionizzazione del gas avviene attraverso l’azione di un intenso campo elettrico prodotta da una d.d.p. di 5 kV tra anodo e catodo. Gli elettrodi sono posizionati tra le espansioni polari di un magnete permanente da 2000 gauss. Per effetto del campo magnetico, gli elettroni migrano dal catodo all’anodo percorrendo una traiettoria a spirale. Ciò aumenta la probabilità di impatto degli elettroni con le molecole in fase gassosa, aumentando quindi la sensibilità del sistema in modo considerevole. Le correnti ioniche in questi strumenti sono dell’ordine dei mA, invece che dei µA degli strumenti termoionici, ma rispetto a questi ultimi l’accuratezza è minore. L’intervallo di misura è compreso tra i 10-1 e 10-9 torr. Nella figura seguente viene riportato un confronto tra vari dispositivi per misurare pressioni inferiori a quella atmosferica. 52 53 TERMODINAMICA DELLE SOLUZIONI Per l’equilibrio tra solvente in soluzione ed in fase vapore, dovrà risultare: µ1 ( solv) = µ1 ( g ) (1) e considerando il vapore come gas ideale: P µ1 ( solv) = µ1Θ ( g ) + RT ln Θ (2) P per la legge di Raoult (P=x1P1) µ1 ( solv) = µ1Θ ( g ) + RT ln P1 + RT ln x1 = µ1Θ (l ) + RT ln x1 (3) La (3) rappresenta il potenziale chimico del solvente in una soluzione ideale ((γx)1=1). Poche il termine RT ln x1 è sempre <0, il potenziale chimico del solvente in una soluzione è sempre minore di quello del solvente puro. Da ciò derivano alcune proprietà: a. abbassamento del punto di congelamento del solvente; b. diminuzione della tensione di vapore (legge di Raoult) e conseguente innalzamento del punto di ebollizione del solvente; c. la pressione osmotica; d. la legge della solubilità ideale. Tutte queste proprietà hanno la caratteristica comune di non dipendere dalla natura del soluto (non volatile), ma soltanto dal rapporto tra il numero di molecole di soluto e quello di molecole totali in soluzione. a. Abbassamento del punto di congelamento Chiamiamo Tf e T’f le temperature di congelamento, rispettivamente, del solvente puro e della soluzione. La condizione di equilibrio del solvente tra la soluzione ed il solvente stesso solido è: µ '1 ( s) = µ1Θ (l ) + RT ' f ln x1 (4) Analogamente per il solvente puro a Tf: µ1 ( s) = µ1 (l ) (5) Dividendo la (4) e la (5), rispettivamente per T’f e Tf e sottraendo membro a membro si ottiene: µ '1 ( s) µ1 ( s) µ1Θ (l ) µ1 (l ) − = − + R ln x1 (6) T'f Tf T'f Tf ∂ µ T poiché = H , l’equazione (6) può essere scritta come: ∂1 T Tf Tf H 1 ( s) H 1 (l ) ∫T ' T 2 dt =T∫' T 2 dt + R ln x1 f f ( ) (7) ovvero T'f ∆H fus 1 1 − T R T f T ' f Tf dove ∆Hfus è l’entalpia di fusione del solvente [H1(l)-H1(s)]. L’equazione (8) è spesso rappresentata nella forma: ∆H f θ f ln x1 ≅ − (9) RT f2 R ln x1 = ∫ ∆H fus 2 dt ; ln x1 = (8) avendo indicato con θf=Tf-T’f e assunto Tf.T’f≅Tf2. Se la soluzione è sufficientemente diluita, allora ln x1 = ln(1 − x 2 ) ≅ − x 2 , dove: 54 m2 m2 M 1 m M = ≅ 2 1 (11) 1000 m M 1000 + m2 10001 + 2 1 M1 1000 con m2 la molalità della soluzione ed M1 il peso molecolare del solvente. Combinando le relazioni (9) e (10) con la (11), si ottiene: RT f2 M 1 θf = ⋅ ⋅ m2 = k fus ⋅ m2 (12) ∆H fus 1000 dove kfus dipende solo dal solvente. Se si hanno a grammi di soluto pi peso molecolare M2 e b a ⋅ 1000 , l’equazione (12) può essere utilizzata per la determinazione del grammi di solvente, m2 = M2 ⋅b peso molecolare di una sostanza dalla misura dell’abbassamento crioscopico: a ⋅ 1000 M 2 = k fus ⋅ (13) b ⋅θ f x2 = 55 a. Innalzamento del punto di ebollizione Considerazioni simili a quelle precedenti si possono fare per l’innalzamento ebullioscopio. Infatti (vedi equazione (7)): Te Te H1 (g ) H 1 (l ) dt = ∫T 'e T 2 ∫T 'e T 2 dt + R ln x1 (14) ovvero: Te ∆H R ln x1 = ∫ 2eb dt (15) T 'e T che diventa: RTe2 M 1 θe = ⋅ ⋅ m2 = k eb ⋅ m2 (16) ∆H eb 1000 56 c. Pressione osmotica Lo scomparto A, circondato da una membrana semipermeabile e collegato con il tubo di vetro B, contiene, ad esempio, una soluzione zuccherina diluita, mentre il recipiente esterno contiene acqua pura. Dopo un certo tempo il livello della soluzione si stabilizza ad una certa altezza che dipende dalla concentrazione della soluzione. La pressione idrostatica, risultante dalla differenza di livello tra la soluzione zuccherina ed il solvente nel recipiente corrisponde alla pressione osmotica Π della soluzione. La condizione di equilibrio eterogeneo è espressa, in questo caso, dall’uguaglianza del potenziale chimico dell’acqua nei punti alla stessa quota: µ1Θ (T , P) = µ1Θ (T , P + Π ) + RT ln x1 (17) Ricordando che: P +Π µ (T , P + Π ) − µ (T , P) = Θ 1 Θ 1 ∫ V dp 1 (18) P ∂V ' dove V1 = con V’ il volume della soluzione. V1 è il volume parziale molare, che, per una ∂n1 T , P , n2 soluzione ideale corrisponde al volume molare V10 . Considerando V10 indipendente dalla pressione: V10 Π + RT ln x1 = 0 ; ln x1 = − V10 Π RT (19) Con le solite approssimazioni per soluzioni molto diluite: n2 n n − V 0Π n RT n RT x2 = ≅ 2 ; − x2 ≅ − 2 = − 1 da cui Π ≅ 2 0 = 2 = CRT n1 + n2 n1 n1 RT V n1V1 (20) 57 c. Legge della solubilità ideale Si ottiene considerando l’equilibrio tra soluto in soluzione e soluto solido puro a P, T=cost. Quando infatti la soluzione è satura, la frazione molare del soluto in soluzione indica la sua solubilità: µ 2 ( s) = µ 2Θ (l ) + RT ln x 2 (21) Poiché µ 2Θ (l ) − µ 2 ( s ) = ∆G fus ( soluto) : ln x 2 = − Differenziando a P=cost: ∆G fus RT (22) ∆G fus ∂ dx 2 1 T dT = 1 ∆H fus dT (23) =− x2 R ∂T R T2 P ed integrando, considerando come limite inferiore il solido puro (punto di congelamento T’ e x2=1) e come limite superiore la soluzione satura alla temperatura T, si ottiene: T ∆H fus 1 1 1 ∆H fus ln x 2 = ∫ dt = − − (24) 2 R T' T R T T' La legge della solubilità ideale sancisce quindi che la solubilità di una sostanza è la stessa in tutti i solventi in cui forma una soluzione ideale. In pratica la legge è verificata solo in casi molto rari, perché le temperature che si considerano (T) sono di solito << a quella di fusione del soluto (T’). Pertanto, non è lecito ritenere ∆Hfus costante come nell’integrazione in (24) ed inoltre le soluzioni sature sono in generale moto lontane dalle condizioni caratteristiche delle soluzioni ideali. 58 SOLUZIONI REALI Come è noto, il potenziale chimico di un componente i di una soluzione reale è espresso dalla relazione: µ i = µ iΘ + RT ln(γ x ) i xi = µ iΘ + RT ln ai (25) dove il coefficiente di attività (γx)i esprime la deviazione dall’idealità. Le soluzioni molto diluite tendono ad essere ideali, la deviazione dall’idealità può essere espresso mediante serie di potenze delle frazioni molari. Un esempio è quello delle espressioni di Margules per una soluzione binaria: RT ln(γ x )1 = A1 x 2 + B1 x 22 + C1 x 23 + ... (26) RT ln(γ x ) 2 = A2 x1 + B2 x12 + C 2 x13 + ... dove i parametri A1, B1,C1, A2, B2, C2, … sono funzioni di T e P. Si può dimostrare che, nel caso di 3 soluzioni binarie, A1=A2=0, B2 = C1 + B1 e C2=-C1, quindi le (26) diventano: 2 RT ln(γ x )1 = B1 x 22 + C1 x 23 (27) 3 2 3 RT ln(γ x ) 2 = B1 + C1 x1 − C1 x1 2 Le attività di componenti volatili di una soluzione reale possono essere ottenute misurandone le pressioni parziali in fase vapore in equilibrio con la soluzione. Con considerazioni simili a quelle viste per le soluzioni ideali si ha infatti per l’equilibrio soluzione-vapore: f µ iΘ (l ) + RT ln ai = µ iΘ ( g ) + RT ln Θi (28) f e per l’equilibrio liquido puro-vapore: f* µ iΘ (l ) = µ iΘ ( g ) + RT ln iΘ (29) f Sostituendo la (29) nella (28) si ottiene: f ai = i* = (γ x ) i xi (30) fi Se il comportamento del vapore può essere considerato ideale (vero nella maggior parte dei casi), la (30) diventa: P ai = (γ x ) i xi = i0 (31) Pi dove Pi è la pressione parziale del componente i e Pi 0 la tensione di vapore del medesimo componente quando puro. La relazione (31) è formalmente analoga alla legge di Raoult, ma è valida anche per soluzioni non ideali. Sperimentalmente, riportando in grafico Pi vs xi, i seguenti andamenti: 59 60 dove il coefficiente di attività può essere >1 (la volatilità del componente i è maggiore di quella che avrebbe in una soluzione ideale della stessa concentrazione-caso soluzione CS2/acetone) o <1 (caso CHCl3/acetone). Dai grafici sopra riportati è possibile calcolare (γx)i. Infatti, dalla (31), (γ x )i = Pi 0 , dove il denominatore rappresenta la pressione parziale, alla composizione xi, nel caso xi Pi di una soluzione ideale (legge di Raoult). Pertanto, il rapporto delle ordinate delle curva continua e tratteggiata (ideale) ad una composizione x* consente di ricavare (γx*)i. Si può osservare che a certe composizioni intermedie la pressione totale risulta superiore o inferiore a quella dei due componenti puri. Questa è la causa dell’esistenza di azeotropi di massimo e di minimo. C’è inoltre da osservare che per xi→1, le pressioni parziali tendono ad essere tangenti alla curva ideale, cioè il comportamento è Raoultiano. Tendono invece ad avere ad avere andamento lineare, ma con pendenza differente da quella della legge di Raoult, per xi→0. In questo caso, il soluto segue la legge di Henry: Pi = K i xi ( xi → 0 ) (32) dove Ki è una costante empirica (avente le dimensioni di una pressione) scelta in maniera che il grafico della pressione di vapore del componente i in funzione della frazione molare risulti tangente alla curva sperimentale per xi=0. In generale si può dire che per una soluzione diluita il cui soluto segue la legge di Henry, il solvente segue la legge di Raoult. All’altro estremo di composizione i comportamenti si invertono. La legge di Henry è particolarmente seguita da gas disciolti in liquidi con i quali non interagiscono (tipicamente i gas nobili). La solubilità dei gas nei liquidi è generalmente espressa dal coefficiente di Bunsen, α, definito come il numero di cm3 di gas in condizioni normali in un cm3 di liquido quando la pressione parziale del gas è 1 atm. La relazione tra αi e Ki, considerando che quest’ultimo rappresenta, come inverso, la solubilità alla pressione unitaria, è: ni 1 RT 8.314 ⋅ 273 xi = = ; α i = ni = ni = 22400 ⋅ ni (cm3) n + ni K i P 101325 Indicando con δ la densità del liquido ed M il peso molecolare dello stesso e trascurando ni rispetto ad n, si ha: n M ⋅ ni M ⋅αi 1 ≅ i = = (33) Ki n δ 22400 ⋅ δ dove n è il numero di molecole di liquido contenute in un cm3. 61 SOLUZIONI REGOLARI Certe soluzioni (principalmente di liquidi) mostrano un fenomeno piuttosto interessante. L’entalpia di mescolamento non è nulla, ∆Hmix≠0, mentre l’entropia di mescolamento ∆Smix corrisponde a quella delle soluzioni ideali, cioè: ∆S mix = − R( x A ln x A + x B ln x B ) (34) Le soluzioni che seguono questo comportamento sono dette regolari. In queste soluzioni l’entropia parziale molare del componente i è: ∂ ∂µ S i = − i = − µ iΘ + RT ln xi = S iΘ − R ln xi (35) ∂ T ∂ T Pertanto: µ i = H i − TS i = H i − TS iΘ + RT ln xi = H i − H iΘ + RT ln xi + H iΘ − TS iΘ = (36) = H i − H iΘ + RT ln xi + µ iΘ ( ) confrontando con µ i = µ iΘ + RT ln( γ x ) i x i = µ iΘ + RT ln a i , si ha: µ iΘ + RT ln(γ x ) i xi = H i − H iΘ + RT ln xi + µ iΘ da cui si ottiene: H i − H iΘ = RT ln(γ x ) i (37) Se si considerano le espressioni di Margules (27), si ottiene: H 1 − H 1Θ = B1 x 22 + C1 x 23 (38) 3 2 Θ 3 H 2 − H 2 = B1 + C1 x1 − C1 x1 2 Nel caso di soluzioni regolari B1 e C1 si possono ritenere costanti ed indipendenti da P e T ed inoltre nel caso ancor più particolare, ma abbastanza frequente in pratica, delle soluzioni regolari simmetriche, C1=0. Il calore di soluzione, ∆H mix H 1 − H 1Θ = B1 x 22 (39) H 2 − H 2Θ = B1 x12 = ∑ xi H i − H iΘ , è dato da: ( ) ∆H mix = x1 B1 x 22 + x 2 B1 x12 = B1 x1 x 2 ( x1 + x 2 ) = B1 x1 x 2 (40) Le relazioni (38) sostituite nella (37) consentono di ricavare i coefficienti di attività: 2 2 (γ x )1 = exp B1 x2 ; (γ x )2 = exp B1 x1 (41) RT RT ed i potenziali chimici, mediante la (36): µ1 = B1 x 22 + µ1Θ + RT ln x1 (42) µ 2 = B1 x12 + µ 2Θ + RT ln x 2 62 QUANTITA’ PARZIALI MOLARI Quando si passa da fasi ad un solo componente a fasi a più componenti, occorre riferirsi alle proprietà termodinamiche di quel certo componente in quella fase. Un dato componente avrà, per esempio, un volume parziale molare, un’entropia parziale molare, un’entalpia parziale molare ed un’energia libera parziale molare. Dal punto di vista concettuale non è difficile capirne il significato. Supponiamo di avere una certa quantità costituita da due tipi di molecole. Questa soluzione ha un volume definito. Questo volume in generale non corrisponde alla somma dei volumi delle singole quantità dei componenti presi singolarmente. Se il volume della soluzione è V’ ed essa è composta da n1 moli del componente 1, n2 del componente 2, ni del componente i, poiché V’=f(n1, n2…P, T), avremo: ∂V ' ∂V ' dV ' = dn1 + dn2 + ... (43) ∂n1 P ,T ,n , n ... ∂n 2 P ,T ,n ,n ... 2 3 1 3 Analoghe espressioni possono essere scritte per S, H, G. Il volume parziale molare del componente i è quindi: ∂V ' Vi = (44) ∂ni P ,T , n ≠ n j i Pertanto: dV ' = V1dn1 + V2 dn 2 + ... dG ' = G1 dn1 + G2 dn 2 + ... (45) dH ' = H 1 dn1 + H 2 dn 2 + ... ∂G ' dove, come noto, Gi = = µi . ∂ni P ,T , n j ≠ ni Dall’equazione (44) si osserva che Vi potrebbe essere calcolato aggiungendo una quantità infinitesima del componente alla soluzione osservando la variazione di volume dV’ associata. Perciò Vi è valutato ad una particolare composizione. A questa composizione, Vi rappresenta il volume molare effettivo del componente i nella soluzione. Pertanto, discende che: V ' = V1 n1 + V2 n 2 + ... G ' = µ1 n1 + µ 2 n 2 + ... (46) H ' = H 1 n1 + H 2 n2 + ... Differenziando la prima relazione del gruppo (46) si ottiene: dV ' = V1dn1 + n1 dV1 + V2 dn 2 + n2 dV2 + ... che, confrontata con l’equazione (45) produce: n1 dV1 + n2 dV2 + ... = 0 ed analogamente: n1 dµ1 + n 2 dµ 2 + ... = 0 n1 dH 1 + n 2 dH 2 + ... = 0 (47) n1 dS1 + n 2 dS 2 + ... = 0 Se ci riferisce ad una quantità unitaria di soluzione anziché ad una quantità arbitraria, ovvero si dividono le equazioni dalla (45) in poi per il numero totale di moli (n1+n2+ …), si ottiene: 63 dV = V1dx1 + V2 dx 2 + ... dG = µ1 dx1 + µ 2 dx 2 + ... dH = H 1 dx1 + H 2 dx 2 + ... dS = S1 dx1 + S 2 dx 2 + .... (48) V = V1 x1 + V2 x 2 + ... G = µ1 x1 + µ 2 x 2 + ... H = H 1 x1 + H 2 x 2 + ... S = S1 x1 + S 2 x 2 + .... x1 dV1 + x 2 dV2 + ... = 0 x1 dµ1 + x 2 dµ 2 + ... = 0} Equazione di Gibbs-Duhem x1 dH 1 + x 2 dH 2 + ... = 0 (49) x1 dS1 + x 2 dS 2 + ... = 0 Come esempio, supponiamo che il volume di un grammoatomo di una soluzione binaria viene ottenuto in funzione della composizione e si desideri ottenere i volumi parziali molari dei componenti. La figura qui sopra mostra l’andamento del volume di una soluzione binaria di A e B in funzione della composizione. Consideriamo la soluzione di composizione a di volume V e troviamo i valori di V A e VB . Dall’equazione (48) si ha: dV = V A dx A + VB dx B ; xA+xB=1; dxA= -dxB dV = (VB − VA )dxB ⇓× 1 dxB ∂V (50) VB = VA + ∂xB Confrontando con la corrispondente equazione (48) si ottiene: V − VB x B V = V A x A + VB x B ⇒ V A = 1 − xB 64 VB = V − VB x B ∂V + 1 − xB ∂x B ∂V ⇒ V B = V + (1 − x B ) ∂x B (51) Analogamente per V A : ∂V (52) V A = V − x B ∂x B V A e VB sono dati dalle intercette alla curva per xA=1 e xB=1, rispettivamente, alla composizione considerata. V°A e V°B sono i volumi molari dei componenti puri. Analoghe espressioni possono essere scritte per S, H, G. 65 METODO PER OTTENERE UNA QUANTITA’ PARZIALE MOLARE DA UN’ALTRA Molto spesso, dal punto di vista sperimentale, è facile ottenere la quantità parziale molare di un componente in funzione di un componente in funzione della composizione ma non altrettanto per l’altro componente (nel caso di una soluzione binaria). Consideriamo, per esempio che V A sia noto in funzione della composizione nel sistema binario A-B. Riconsideriamo la (50): x A dV A + x B dVB = 0 ; xA+xB=1 (1 − x B ) ∫ dVB = −∫ x B dV A (54) supponiamo di voler trovare VB alla composizione a. L’equazione (54) deve essere integrata tra i limiti: VB V A ( xB = a ) VB0 V A ( x B =1) ∫ dVB = − ∫ (1 − x B ) dV xB A poiché il limite inferiore di integrazione nel membro di destra deve essere valutato a xB=1, dove (1 − x B ) =0. Pertanto: xB V A ( xB = a ) 0 B VB − V = − ∫ V A ( x B =1) (1 − x B ) xB dV A (55) Generalmente l’equazione (55) viene risolta per via grafica in quanto V A non è noto in forma analitica. A questo scopo, la figura precedente viene rigraficata nella forma: 66 ed integrando graficamente tra il valore di V A quando xB=1 e V A con xB=a, la quantità VB − VB0 è ottenuta. Essa è rappresentata nella figura qui sopra dall’area tratteggiata. A questo punto, il volume della soluzione può essere ottenuto in quanto entrambi i volumi parziali molari sono noti. Infatti: V = V A x A + VB x B L’equazione (55) può essere generalizzata. Per esempio: G A ( xB = a ) 0 B GB − G = − ∫ G A ( x B =1) (1 − x B ) xB dG A (56) 67 ENERGIA LIBERA DI FORMAZIONE DI UNA SOLUZIONE Consideriamo la formazione di un grammoatomo di soluzione dai componenti puri nei loro stati standard: xAA+xBB=(xA,xB) ∆fGmix La variazione di energia libera associata è nota come energia libera di mescolamento. ∆ f Gmix = G − x A G AΘ − x B G BΘ dove, per la (49) [ G = µ A x A + µ B x B ]: ( ) ( ∆ f Gmix = µ A x A + µ B x B − x A G AΘ − x B G BΘ = x A µ A − G AΘ + x B µ B − G BΘ ) Poiché G AΘ = µ AΘ , G BΘ = µ BΘ e µ i = µ iΘ + RT ln ai , ∆ f Gmix = RT ( x A ln a A + x B ln a B ) (57) In modo simile per le altre grandezze: n ∆ f H mix = ∑ xi H i − H iΘ i =1 (58) n Θ ∆ f S mix = ∑ xi S i − S i i =1 ( ( ) ) 68 QUANTITA’ TERMODINAMICHE DI ECCESSO In molte applicazioni è importante conoscere la deviazione delle quantità termodinamiche rispetto alla situazione di soluzione ideale. Consideriamo come esempio l’energia libera parziale molare: ∆Gi = Gi − GiΘ = RT ln ai = RT ln (γ x )i + RT ln xi per una soluzione ideale (γ x )i =1, e perciò: (∆G ) i ideale = RT ln xi Si definisce l’eccesso di energia libera: ∆Gi ecc = ∆Gi − (∆Gi )ideale ∆Gi ecc = RT ln (γ x )i (59) Nel caso della formazione di una soluzione, abbiamo: ecc ∆Gmix = ∆Gmix − (∆Gmix )ideale Sostituendo: ecc ∆Gmix = RT ( x A ln a A + x B ln a B ) − RT ( x A ln x A + x B ln x B ) ⇓ ecc ∆Gmix = RT ( x A ln(γ x ) A + x B ln(γ x )B ) (60) Nel caso dell’entalpia: (∆H mix )ideale (∆H ) i ideale ∆H ecc mix =0 =0 = ∆H mix ; ∆H iecc = ∆H i Per il volume di mescolamento, (∆Vmix )ideale = 0 , (∆Vi )ideale = 0 ecc ∆Vmix = ∆Vmix ; ∆Vi ecc = ∆Vi Dall’equazione (59) risulta, per esempio, che il coefficiente di attività è una misura diretta dell’interazione tra i componenti. Se (γ x )i =1, ∆Gi ecc = 0 . Se (γ x )i >1, ∆Gi ecc >0. In quest’ultimo caso si parla di deviazione positiva dalla legge di Raoult. Si parla di deviazione negativa se (γ x )i <1. Generalmente, nel caso di deviazione positiva, ossia in cui un dato componente ha un’attività più alta di quella che avrebbe alla stessa composizione nella soluzione ideale, si hanno valori positivi per ∆Vi ecc e ∆H iecc . Ciò indica interazioni repulsive tra i componenti in soluzione mentre nel caso di deviazione negativa, siamo in presenza di interazioni attrattive. 69 REGOLA DELLE FASI - Definisce il grado di varianza (v) del sistema, cioè il numero di variabili indipendenti che sono necessarie per la descrizione completa del sistema. - Si suppone che il sistema eterogeneo sia in equilibrio termodinamico. (tutti i gradienti delle variabili intensive nulli). - Consideriamo c componenti indipendenti, intesi come il numero minimo di specie chimiche che è necessario fissare per descrivere la composizione di ciascuna fase del sistema è presenti in tutte le fasi, f. Il numero totale delle variabili intensive che caratterizzano il sistema sono: cf+2 dove con 2 si intendono P e T che sono uguali in tutte le fasi per la condizione implicita nell’equilibrio termodinamico di equilibrio termico e meccanico. Il termine cf rappresenta il totale delle variabili di composizione in quanto occorre specificare, per ciascuna fase, la frazione molare di ciascun componente. - Ricordando che: G = ∑ ni µ i (61) e differenziando: dG = ∑ ni dµ i + ∑ µ i dni (62) Il differenziale totale dell’energia libera è: dG = VdP − SdT + ∑ µ i dni (63) ed eguagliando la (62) con la (63) si ottiene: VdP − SdT = ∑ ni dµ i (64) (Equazione di Gibbs-Duhem) A T e P=cost, la (64) diventa : ∑ ni dµ i = 0 (65) Per le f fasi di un sistema eterogeneo, si può scrivere per la (64): ∑ ni(α ) dµ i(α ) − V (α ) dP (α ) + S (α ) dT (α ) = 0 ∑ ni( β ) dµ i( β ) − V ( β ) dP ( β ) + S ( β ) dT ( β ) = 0 (66) ... ... e per la condizione di equilibrio termodinamico: β) dT (α ) = dT ( = ... = dT dP (α ) = dP ( β ) = ... = dP (67) dµ i(α ) = dµ i( β ) = ... = dµ i Il sistema di equazioni differenziali (66) si riduce quindi ad un sistema di f equazioni differenziali con c+2 variabili intensive. - Il numero di equazioni restrittive che legano le variabili sono complessivamente : f + c( f − 1) , così suddivise: a. in ciascuna fase le frazioni molari devono soddisfare la relazione ∑ xi = 1 e quindi ci sono f equazioni di questo tipo; b. per ciascun componente la condizione di equilibrio termodinamico richiede che il potenziale sia lo stesso in tutte le fasi, e quindi µ i(α ) = µ i( β ) = µ i(γ ) = ... = µ i f , pari a f-1 equazioni per ciascun componente, per un totale di c(f-1). 70 - Il grado di varianza si ottiene sottraendo il numero di relazioni restrittive al numero totale di variabili, e quindi: v = cf + 2 − [ f + c( f − 1)] ⇓ v = c+2− f 71 DIFFUSIONE NELLE SOLUZIONI ELETTROLITICHE La diffusione è causata dalla disomogeneità di un sistema, cioè quando in esso sono contenute parti con differenti sostanze o con le stesse sostanze ma a differenti concentrazioni. I processi di trasporto diffusivo possono essere espressi quantitativamente tramite le leggi di Fick. Supponiamo di avere un tubo di sezione Ω riempito con una soluzione di una certa sostanza la cui concentrazione diminuisce in direzione dell’asse x. Se in questo tubo (figura seguente) isoliamo ipoteticamente uno strato elementare racchiuso tra x e x+dx (di spessore dx e volume Ωdx), allora la concentrazione e la pressione osmotica saranno, rispettivamente, C e Π alla sua sinistra e C-dC e Π-dΠ alla sua destra. Come risultato, lo strato elementare sarà spinto lungo l’asse x da un eccesso di forza ΩdΠ e ogni particella, nello strato Ωdx, da una forza uguale a: Ω dΠ dΠ − =− (1) CN A Ωdx CN A dx Sotto l’azione della pressione osmotica, le particelle devono muoversi lungo l’asse x con velocità ω data dall’equazione: dΠ ωK = − (2) CN A dx dove K è il coefficiente di attrito. Applicando la relazione (20) di pag. 57, si può scrivere la (2) come: RT dC ωK = − (3) CN A dx Il numero di particelle che attraversano la sezione Ω nel tempo dt è: dn = ωΩCN A dt (4) oppure, mediante la (3): RT dC dn = − Ω dt (5) K dx RT Assumendo la quantità = ∆ , si ha: K dn dC = − ∆Ω (6) dt dx Tale equazione è nota come 1° legge di Fick. Il coefficiente ∆ è noto come coefficiente di diffusione ed ha le dimensioni (nel sistema CGS) di cm2s-1 ed indica il numero di particelle che diffondono attraverso una sezione unitaria (1 cm2) nell’unità di tempo (1 s). Nel dedurre tale 72 relazione si è implicitamente assunto che il gradiente di concentrazione dC sia stazionario e dx indipendente dal valore della coordinata x. In altri termini, si è assunto che: ∂ ∂C ∂ ∂C =0 e = 0 (7) ∂t ∂x ∂x ∂x Normalmente ciò non avviene. Il numero di particelle che entrano nello strato elementare dx nel tempo dt è dato da: dC dn = − ∆Ω dt (8) dx Il numero di particelle che escono dallo strato nel medesimo tempo è: ∂ ∂C dn' = − ∆Ω C + dx dt (9) ∂x ∂x poiché i gradienti di concentrazione ai confini dello strato a destra e sinistra differiscono della quantità: ∂ ∂C dx (10) ∂x ∂x Pertanto, il numero di particelle trattenute nello strato dx sarà: ∂ 2C dn − dn' = ∆Ω 2 dxdt (11) ∂x Poiché dn − dn' dn − dn' = = dC (12) Ωdx dV la (11) diventa: ∂ 2C dC = ∆ 2 (13) dt x ∂x Questa relazione rappresenta la 2° legge di Fick ed è rappresentativa di qualsiasi fenomeno diffusivo. APPLICAZIONE DELLE LEGGI DI FICK ALLE SOLUZIONI ELETTROLITICHE Nel derivare le leggi di Fick non sono state fatte assunzioni sulla natura del soluto, e queste leggi possono essere ugualmente utilizzate per descrivere la diffusione nelle soluzioni elettrolitiche. Mediante l’equazione (3) si possono scrivere le velocità di diffusione ω+ e ω- dei cationi e degli anioni, rispettivamente. RT dC + ω + = − (14) K + C + N A dx RT dC − ω − = − K C N − − A dx (15) Definendo le velocità assolute come: z F z F v +0 = + e v −0 = − (16) K + NA K − NA e combinandole con le (14) e (15), si ha: RTv 0 1 dC + + ω + = − z F C + + dx (17) 73 RTv −0 1 dC − ω − = − (18) z − F C − dx Il numero di ioni che diffonderà nel tempo dt nella sezione Ω sarà: RT 0 dC + v + Ω dn+ = ω + C + Ωdt = − dt (19) dx z+ F RT 0 dC − v − Ω dn− = ω − C − Ωdt = − dx z− F 0 0 Segue che, ricordando che le mobilità λ ± = Fv ± : dt (20) RT 0 RT 0 λ ; ∆ − = λ (21) ∆ + = 2 + 2 − z F z F + − dove ∆+ e ∆- sono i coefficienti di diffusione dei cationi e degli anioni, rispettivamente. In generale, le mobilità dei cationi e degli anioni non sono uguali e quindi non lo sono i loro coefficienti di diffusione. Pertanto, a parità di gradiente di concentrazione, cationi ed anioni diffonderanno con velocità differenti. Supponiamo di avere una separazione ideale tra due soluzioni di HCl le cui concentrazioni sono C e C-dC; allora più H+ che Cl- diffonderà in un certo tempo verso il a concentrazione minore, poiché λ0H + > λ0Cl − . Come risultato, si produrrà un gradiente di potenziale elettrico tra le due zone, in cui, in questo caso, la soluzione più diluita sarà carica positivamente. La differenza di potenziale creatasi ritarderà lo spostamento ulteriore di H+, mentre favorirà quello di Cl-. Poiché il potenziale elettrico tende a crescere, gli ioni tenderanno a muoversi con la stessa velocità, come si trattasse di molecole indissociate. Tale potenziale si stabilisce si stabilisce per effetto della mobilità ionica ed è detto potenziale di diffusione Ψd. Pertanto, la diffusione di una soluzione elettrolitica deriva come effetto di due gradienti: il gradiente di concentrazione ed il gradiente di potenziale elettrico associato con il potenziale di diffusione. Su questa base, su può scrivere per le velocità dei cationi e degli anioni: RT v +0 dC + 0 dΨd ω + = − − v+ (22) z F C dx + + dx RT v 0 dC dΨ − − + v −0 d (23) ω − = − z F dx − C − dx ovvero (24) v −0 RT dC − dΨd ω − = − − z− F z F C dx − − dx v 0 RT dC + dx ω + = − + z + F C + dΨ + z+ F d dx dΨd è il gradiente di potenziale elettrico corrispondente al potenziale elettrico Ψd. In un dx processo stazionario con z=z+=z- e con C=C+=C-, anche le velocità dei cationi e degli anioni sono uguali, ω+=ω-, pertanto: 0 0 dΨd RT v − − v + dC zF = 0 (25) 0 dx C v − + v + dx dove 74 dΨ Poiché ω+=ω-, il valore di zF d può essere sostituito in una qualunque delle equazioni della dx velocità ionica, per esempio nell’equazione (24), ottenendo l’espressione per la velocità di diffusione dell’elettrolita nel suo insieme. v 0 RT dC RT v −0 − v +0 dC ω = − + + 0 (26) 0 zF C dx C v − + v + dx oppure 2v +0 v −0 RT dC ω = − (27) 0 0 zF v + + v − C dx Il numero di molecole che diffondono è uguale a: dn = ωCΩdt (28) e conseguentemente: 2v +0 v −0 dC RTΩ dn = − dt (29) 0 0 dx zF v + + v − dove 2 RTv +0 v −0 ∆ el = (30) zF v +0 + v −0 ( ) ( ) ( ) 75 VISCOSITA’ DEI LIQUIDI Da un punto di vista fenomenologico, possiamo dire che la viscosità di un fluido è la sua resistenza allo scorrimento. Le misure di viscosità vengono spesso effettuate per due motivi principali. La viscosità è una proprietà quantitativa di un fluido e sebbene un certo campione possa essere piuttosto complesso, come ad esempio una miscela di varie resine o di polimeri, la sua viscosità rappresenta una definita proprietà fisica di quel campione. La viscosità può quindi essere usata come un indice empirico in applicazioni per il controllo qualità di, ad esempio, oli e resine, vernici, alimenti. Un’altra motivazione per l’uso della misura di viscosità sta nel determinare una proprietà fondamentale ed intrinseca di un liquido (da utilizzare come solvente): la velocità di trasporto di massa, o diffusione, nel mezzo. In questa applicazione, per esempio, i dati di viscosità possono fornire informazioni importanti circa le cinetiche di reazioni chimiche. Considerata da un punto di vista macroscopico, la viscosità è una forza di attrito che si origina dal movimento relativo delle molecole tra loro nello stato liquido. Da un punto di vista microscopico, la viscosità riflette le energie di interazione tra le molecole nel liquido, in quanto per far scorrere un liquido, è necessario applicare una forza per vincere le forze attrattive tra le molecole. Queste forze si possono apprezzare, per esempio, dal calore di vaporizzazione e dalla tensione superficiale. Per introdurre la trattazione matematica della viscosità, ci serviamo della visualizzazione offerta dalla figura seguente: Consideriamo un liquido libero di scorrere lungo la direzione x. Immaginiamo il liquido composto di fogli di sezione infinitesima dA orientati parallelamente al piano x-y, e che ciascun foglio scorra tangenzialmente rispetto alla propria superficie, nel verso positivo della direzione x. Se un dato foglio viene mantenuto ad una velocità vx tale che ecceda la velocità di un foglio adiacente della quantità dvx e che questo foglio adiacente sia posto ad una distanza dz, la forza necessaria (per unità di superficie) per mantenere il movimento del primo foglio, dfx, è data da df x ∂v = η x (1) dA ∂z ∂v La derivata parziale x è il gradiente di velocità tangenziale e η, la costante di proporzionalità tra ∂z df x e questo gradiente, è definita coefficiente di viscosità. Dall’equazione (1) risulta che le dA dimensioni nel sistema SI del coefficiente di viscosità sono kg m-1s-1. L’equazione (1) è detta legge di Newton del flusso viscoso. I fluidi che obbediscono all’equazione (1) sono detti fluidi newtoniani e si dice che essi presentano un flusso laminare. Casi di flusso non laminare, o non newtoniano, non sono comuni ma neanche rarissimi. Materiali la cui viscosità diminuisce ad elevati valori dello sforzo di taglio (ad esempio le vernici che si stendono quando applicate con un pennello ed 76 induriscono quando ferme) sono esempi di fluidi non newtoniani. Riguardo all’esercitazione che verrà svolta in laboratorio, un’utile applicazione dell’equazione (1) al caso di trasporto di massa attraverso un tubo sottile di sezione circolare venne derivata da Poiseuille (1844): dV πr 4 ∆P = (2) dt 8ηL dV dove è il flusso di volume del liquido che esce dal tubo, ed r ed L sono, rispettivamente, il dt raggio e la lunghezza del tubo. ∆P è la caduta di pressione tra le estremità del tubo, e rappresenta la forza motrice del flusso macroscopico. Nell’equazione (2) si assume che il flusso sia lento ed uniforme. L’unità di misura del coefficiente di viscosità, η, è chiamata poise in onore di Poiseuille e viene espressa in unità CGS. Così 1 poise, P, è 1 g cm-1s-1 (oppure dine s). Per molti liquidi comuni a temperatura ambiente, le viscosità variano tra 0.002 e 0.04 P. Per convenienza, il centipoise (10-2 P), cP, viene spesso utilizzato. Nel sistema SI, come già detto l’unità di misura del coefficiente di viscosità è 1 kg m-1s-1 (o 1 Pa s). 10-3 Pa s=1 cP MISCELE Dal modo in cui è stata definita la viscosità, segue che un liquido è mobile se presenta una viscosità relativamente bassa. Un altro parametro utile, che si applica alla mobilità di un fluido, è la fluidità, F, che non è altro che il reciproco del coefficiente di viscosità: 1 F= (3) η Un particolare vantaggio dato dall’uso della fluidità sta nel fatto che le fluidità di soluzioni date da miscele di liquidi non associanti risultano (empiricamente) essere additive. Così, per una soluzione binaria dei liquidi A e B, ciascuno avente quando puro fluidità FA0 e FB0 , rispettivamente, la fluidità della soluzione contenente frazioni molari xA e xB può essere approssimata come: F ≅ x A FA0 + xB FB0 (4) ossia una combinazione lineare delle fluidità dei liquidi puri pesata sulle frazioni molari. La viscosità della miscela è: 1 (5) η= x A xB + 0 0 ηA ηB ed è quindi, ovviamente, non lineare rispetto alla variabile di composizione xA (o xB). Un altro approccio per esprimere la viscosità di una miscela è il seguente, proposto da Kendall (1913). Per una soluzione binaria, ln η = x A ln η A0 + x B ln η B0 (6) In questo contesto, una soluzione ideale può essere definita come una soluzione in cui le energie di interazione tra i costituenti sono uguali a quelle dei componenti puri, ossia assume che in una tale miscela le interazioni intermolecolari tra molecole identiche (A-A e B-B) sono uguali a quelle tra molecole differenti (A-B). La mancata additività delle fluidità dei componenti nella soluzione deriva, quindi, o dalla formazioni di complessi di associazione tra i componenti o dalla distruzione di tali complessi nel(i) componente(i) puro(i), dopo che i componenti vengono mescolati. In queste circostanze, le equazioni (5) e (6) non sono valide. DIPENDENZA DELLA VISCOSITA’ DALLA TEMPERATURA Sperimentalmente si trova che, in un intervallo di temperatura abbastanza ampio, la viscosità di un liquido puro cresce esponenzialmente con l’inverso della temperatura assoluta. Questa relazione venne espressa quantitativamente da Arrhenius (1912): 77 Eη (7) RT η = A exp dove A è una costante caratteristica del liquido in esame, ed Eη è detta energia di attivazione del flusso viscoso del liquido. Diverse teorie sono state proposte per spiegare l’equazione (7). In ogni modo, semplificando, una molecola deve sorpassare una barriera energetica per “farsi largo” tra le sue vicine e così essere trasportata nel mezzo. Nel fare ciò, la molecola trasportata vince le forze attrattive intermolecolari. Un grafico di lnη vs 1/T (chiamato talvolta Arrhenius plot), dovrebbe, secondo la (7) essere lineare ed avere una pendenza uguale a Eη/R. 78 ESERCITAZIONI 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93 94 95 96 97 98 99 100 4-VOLUMI PARZIALI MOLARI Per una soluzione ideale binaria, il volume totale della soluzione è dato da: Vtot = n1V10 + n2V20 dove n1 e n2 sono le moli dei due componenti e V10 , V20 sono i volumi molari dei componenti. Per una soluzione reale il volume può essere scritto come funzione di più variabili: V = f (P, T , n1 , n2 ,...) Il differenziale totale di questa variabile estensiva è: ∂V ∂V ∂V ∂V dV = dP + dT + dn1 + dn2 + ... ∂P T , n1 , n2 ,... ∂T P , n1 , n2 ,... ∂n1 P ,T , n2 ,... ∂n2 P ,T , n1 ,... a P, T=cost: ∂V dV = ∑Vi dni con Vi = ∂ni P ,T , n j ≠ ni Per due componenti la forma integrata è: V = n1V1 + n2V2 MISURA SPERIMENTALE La misura sperimentale è fatta attraverso la misura delle densità di soluzioni a concentrazione nota. Il calcolo è semplificato dall’uso del volume molare apparente del soluto φV. Consideriamo il volume di una soluzione con n2 moli di soluto aggiunte ad un numero di moli fissato n1 di solvente. Vsoluzione − Vsolvente V − n1V10 φV = o φV = n soluto n2 A ciascun valore n2 di moli di soluto aggiunto si ha: V = n1V10 + n 2φV (2) (1) 101 VOLUMI MOLARI APPARENTI E PARZIALI DA MISURE DI DENSITA’ Soluto. Il volume molare apparente è una grandezza utile poiché può essere facilmente misurata, ed inoltre i volumi parziali molari del soluto e del solvente possono essere calcolati da misure di volumi molari apparenti. La differenziazione parziale della (2) rispetto ad n2 con n1 costante dà: ∂V ∂φV = n1V10 + φV + n 2 (3) V2 = ∂ n ∂ n 2 n 2 n 1 1 Occorre ora mettere in relazione il volume molare apparente ai parametri sperimentali, quali la molalità, m, e la densità della soluzione, d. L’equazione (1) definisce il volume molare apparente, che può essere espresso come: Pesosolvente + Pesosoluto n1M 1 + n2 M 2 1000 + mM 2 V= = = (4) d d d dove M1 e M2 sono i pesi molecolari del solvente e del soluto, rispettivamente. Il termine n1V10 nell’equazione (1) è il volume del solvente. Se la concentrazione è espressa in molalità, la massa del solvente è 1000 g, e quindi il volume del solvente è: 1000 n1V10 = (5) d1 con d1 densità del solvente. Combinando le equazioni (4) e (5) con la (1), si ottiene l’equazione per la determinazione sperimentale di φV: 1 1000 + mM 2 1000 (6) φV = − m d d1 Occorre sostituire m in n2 nell’equazione (3) e quindi: ∂φV ∂ m 1 ∂φV ∂φV = (7)* = ∂m n1 ∂ m n1 ∂m n1 2 m ∂ m Sostituendo nella (3) si ottiene: ∂V V2 = ∂n 2 m ∂φV = φV + 2 ∂ m n1 n1 (8) dove φV è dato dalla (6). * Si dimostra che φV è una funzione lineare con m e non con m. 102 Solvente. Per calcolare V1 , riscriviamo l’equazione V = n1V1 + n2V2 da cui V − n 2V2 V1 = n1 Utilizzando le equazioni (2) e (3) per V e V2 rispettivamente, si ottiene: ∂V ∂φV 1 = n1V10 − n22 (9) V1 = ∂ n n ∂ n 1 n2 1 2 n1 Poiché usiamo la molalità, n2=m e n1=55.51 (per soluzioni acquose ovviamente). Il volume di una M mole di solvente è V10 = 1 , e utilizzando la (7) nella (9) si ottiene l’equazione per la d1 determinazione di V1 : 3 ∂V M m 2 ∂φV = 1 − V1 = d1 111.02 ∂ m n1 ∂n1 n2 103 104 105 106 107 108 109 APPENDICE CENNI DI ANALISI DEGLI ERRORI (IN INGLESE) 110 Appendix V. Uncertainties and Error Propagation Revised September 24, 2004 about a straight line. However, there is a systematic shift of the data points away from the expected straight line. We attribute this effect to a systematic error in the measurements. The data in Figure 1b exhibit large random fluctuations, but they bracket the expected straight line. These data have large random errors but small systematic errors. A. Introduction In science, the terms uncertainties or errors do not refer to mistakes or blunders. Rather, they refer to those uncertainties that are inherent in all measurements and can never be completely eliminated. In some fields (e.g. certain areas of astronomy and cosmology), uncertainties may be measured in orders of magnitude while in other fields (e.g. precision spectroscopy) uncertainties may be less than parts per million, PPM. A large part of a scientist’s effort is devoted to understanding these uncertainties (error analysis) so that appropriate conclusions can de drawn from variable observations. A common complaint of students is that the error analysis is more tedious than the calculation of the numbers they’re trying to measure. This is generally true. However, measurements can be quite meaningless without knowledge of their associated errors. If you are told that Sue is 162 cm tall and Beth is 165 cm tall you might conclude that Beth is taller than Sue. But if you then learn that the measurements had errors of ±5 cm, you should realize that you can’t determine who is taller. A more precise measurement is required before you can make this comparison. In science and engineering, numbers without accompanying error estimates are suspect and possibly useless. For every measurement, you must record the uncertainty in the measured quantity. Experimental errors may be divided into two classes: systematic errors and random errors. These are illustrated in Figure 1 for two sets of data points which are theoretically predicted to lie on the illustrated straight lines. The data in Figure 1a are relatively precise. They exhibit small random errors and therefore have small fluctuations Systematic Errors Random Errors Precise but inaccurate Accurate but imprecise (a) (b) Figure 1: Examples of data where (a) systematic errors are larger than random errors and (b) random errors are larger than systematic errors A.1. Systematic Errors Systematic errors tend to produce inaccurate results by introducing a common shift into measured values. This shift can be an offset or a percentage change. For example, if your wooden meter stick had the first mm cut off, there would be an offset in all of your measurements. If, on the other hand, the humidity in the room had caused the meter stick to expand by 1%, there would be a percentage error in all of your measurements. Systematic errors may be caused by incorrect calibration of the measuring equipment and often can be reduced by readjusting or recalibrating equipment. Systematic errors might also be caused by not correctly 1 Appendix V. Uncer. & Error Propagation quantity, calculate the mean <x> or average of the measurements. N x i !1 i x ! N B.1.2. Standard Deviation The standard deviation " describes the scatter of measurements about the average, and is given by accounting for some phenomena in your model and might be corrected by adopting a more sophisticated model. The effects of systematic errors on an experiment should be estimated and, if they are important, they should be reported separately from the random errors in the experimental results. Note that the systematic errors have no effect on the slope of the graph in Figure 1a, but lead to an incorrect value for the intercept. Such systematic errors may or may not be important in an experiment, depending on whether the slope or the intercept (or both) provide critical information. (In other experiments, systematic errors could lead to an incorrect value for the slope.) A.2 Random Errors There are many sources of random errors, such as equipment limitations, reading uncertainties, and statistical fluctuations. Common examples are the uncertainties in reading scale divisions of an analog voltmeter or a ruler and statistical fluctuations in counting rates from random processes. We can often reduce these uncertainties by repeated measurements. However, while it may be possible to reduce random errors, they can never be completely eliminated. B. N "! #x i % x $ 2 N %1 The variance is the square of the standard deviation; v = "2. B.1.3. Standard Error The standard error or error in the mean is &! " . N This quantity is also referred to as the standard deviation of the mean, because it is an estimate of the standard deviation of the distribution of means that would be obtained if the mean were measured many times. Taking more measurements of a given quantity might not improve the standard deviation, but it should make the standard error smaller (scaling it as N -½ ). So how do you know whether the standard deviation or the standard error is the more important quantity? It depends on the question. If you want to know where a measurement is likely to fall compared to the mean value, the standard deviation tells you this. On the other hand, if you want to know how well you have determined the average value itself, you need to find the standard error (standard deviation of the mean). You will usually, but not always, be most interested in the latter. As an example, let’s say that everyone in the class is asked to take 20 measurements of the height of a certain lab TA. Each student can determine his or her own average Determination of Uncertainties B.1. Uncertainties from Statistics If we make repeated measurements of the same quantity, we can apply statistical analysis to study the uncertainties in our measurements. This type of analysis yields internal errors, i.e., the uncertainties are determined from the data themselves without requiring further estimates. The important variables in such analyses are the mean, the standard deviation and the standard error (also known as the error in the mean). B.1.1 Mean or Average To obtain the best estimate of a measured quantity from N measurements of the Appendix V. Uncer. & Error Propagation i !1 2 value and standard deviation. The standard error will be an indication of the spread in the average values reported by all the students. It should be our best overall estimate of how well we know the TA’s height. One could also combine all the readings from all of the students into one large file and calculate its mean and standard deviation. These might be very similar to the values reported by individual students and have a similar spread in values. Only when you consider the new standard error would you realize that the measurement really has been improved by adding a lot more data. B.1.4. Two Variables We can readily extend the concept of the standard deviation to the measurement of two variables where our N measurements of x and y are to be compared to the function y=f(x). The standard deviation for such measurements would be defined as N "! i !1 between 5.3 and 5.4 cm and we should be able to estimate its position to a fraction of a division. A reasonable estimate might be 5.34 + 0.02. (In reading most scales we should attempt to estimate some fraction of the smallest division, usually between one half to one tenth of the scale division.) () |_|_|_|_|_|_|_|_|_|_|_|_|_|_|_|_| 5 6 Figure 2: Example ruler reading Uncertainties estimated in this way are referred to as external errors, i.e., estimating the uncertainties requires additional steps beyond making the measurements. For a complete uncertainty analysis, both internal errors and external errors should be calculated and checks should be made that the results are consistent. In our experiments students will usually be instructed to choose one particular method or the other. # yi % f # xi $$2 N %m where m is the number of free parameters determined from the data. For a linear relation, with the intercept and slope determined from the data by a least-squares fit, m = 2. B.2. Error Estimates When we have made only a few observations, the laws of probability are not applicable to the determination of uncertainties. The number of observations in a student laboratory may be too small to justify using the standard deviation to estimate the uncertainty in a measurement. However, it is usually possible from an inspection of the measuring instruments to set limits on the range in which the true value is most likely to lie. Consider a ruler graduated in centimeters with fine rulings in millimeters as shown in Figure 2 (with only the 5 and 6 cm marks visible). We wish to determine the position of the arrow. We are certain the arrow is C. Error Propagation In many cases, the quantity that we wish to determine is derived from several measured quantities. For example, suppose that we have measured the quantities t ± &t and y ± &y (the &’s refer to the relatively small uncertainties in t and y). We have determined that y = 5.32 ' 0.02 cm t = 0.103 ' 0.001 s (1) We can find g from the relation g = g(y,t) = 2y/t2, (2) which yields g = 10.02922…m/s2. To find the uncertainty in g caused by the uncertainties in y and t, we consider separately the contribution due to the uncertainty in y and the contribution due to the uncertainty in t. 3 Appendix V. Uncer. & Error Propagation much g would change if y (or t) were changed by its uncertainty. C.1. Derivative Method The variation of a function f with respect to a variable x is equivalent to taking the first term in the Taylor series expansions of f with respect to x: Each contribution may be considered separately so long as the variables y and t are independent of each other. We denote the contribution due to the uncertainty in y by the symbol &)gy (read as “delta-g-y” or “uncertainty in g due to y”). The total error in g is obtained by combining the individual contributions in quadrature: &g ! & *& 2 gt 2 gy 0 1f +& x / 1x , & fx ! . (3) The basis of the quadrature addition is an assumption that the measured quantities have a Gaussian distribution about their mean values. (Distribution functions are described in Appendix VI.) When two (or more) independent Gaussians are added, the width of the new, combined distribution of values is given by this same quadrature rule. The &)’s describe the width of this distribution. This rule is the same as the rule for adding the lengths of vectors that are independent (i.e. at right angles to each other). This quadrature addition may be used when the function depends on more measured quantities. For a function f(a,b,...,z), & f ! & fa2 * & fb2 * & fz2 . The derivative in Eq. 5 (1f/1x) is a partial derivative. You may not have encountered partial derivatives yet in your math class. Simply put, when taking a partial derivative with respect to one variable, treat any other variables as constants. Since each uncertain variable will increase, not decrease the final uncertainty, we will usually quote the uncertainty in f due to the uncertainty in x as the absolute value of Eq. 5., i.e., & fx ! 1f &x 1x (5a) The individual contribution to the uncertainty in f from a measured uncertainty in x is the product of the uncertainty in x with the partial derivative of f with respect to x. The total error in f is obtained by combining the individual contributions in quadrature, as given in Eq. 4. For the example given in Eq. 2, the corresponding formulae are (4) However, rather than blindly applying this formula, you may avoid needless computation by estimating separately the contribution to the uncertainty in the result from each of the individual variables and to ignore any terms that are much smaller than the largest terms. Because we add the squares of the individual contributions, relatively small terms have a very small effect on the total uncertainty. There are two methods by which one may calculate &)gy and &)gt, the contributions of y and t to the uncertainty in g. In each case, the basic idea is to determine by how Appendix V. Uncer. & Error Propagation (5) ) ) so that 4 &)gt = |1g/1t|&t = |-4y/t3|&t &)gy = |1g/1y|&)y = |2/t2|&y (6) (7) 2 2 0 4y - 0 2 & g ! . 3 &t + * . 2 & y + (8) , , /t /t Substituting in the values from Eq. 1 yields a final answer: Addition & Subtraction If g = g(y,t) = y + t - 0 0 4 2 5.32 2 0.02 ++ ! 19.8 cm s 2 0.001++ * .. & g ! .. 3 2 # $ # $ , , / 0.103 / 0.103 then &gy = &y and > = &t C.2. Computational Method Equations 4 and 5 represent the beginning of the formal method of error propagation. It is often a good estimate if we instead calculate the variations directly, thereby avoiding the need to take derivatives. We can approximate Eq. 5a by a finite difference such as so that & g ! & g2t * & g2y ! & t2 * & y2 2 2 Stated more simply, if you are adding two values, simply add their associated uncertainties in quadrature to obtain the uncertainty in the sum. The same principle holds if you are subtracting two numbers; add their uncertainties in quadrature to find the uncertainty in the difference. There are no negative uncertainties, uncertainties are always positive numbers and always add. Note also that if you are adding a constant, such as 1, or a quantity with a very small uncertainty to some other quantity, the result above shows that the final uncertainty is simply the uncertainty in that other quantity. & f , x ! f # x * & x ,!$ % f # x,!$ (9) Consider Eq. 2. We replace Eqs. 6 and 7 by ) > = |g(t+&t , y) - g(t,y)| (10) = |2y/(t + &t)2 - 2y/t2| and ) &gy = |g(t, y+&y) - g(t,y)| Multiplication If g = g(y,t) = y t (11) then &gy = t&y and)> = y&t = |2(y+&y)/t2 - 2y/t2|. so that We again apply Equation 2 to obtain the total uncertainty in g. (For &)t << t, Equations 6 and 10 are equivalent, and for &)y << y, Equations 7 and 11 are equivalent.) Note that in both methods, it is essential that the variations be performed separately and that the results be added in quadrature. C.3.Simple Error Propagation Often you will simply add, subtract, multiply or divide measured values and it is helpful to know how to quickly calculate the associated errors. & g ! & g2 * & g2 ! y 2& t2 * t 2& y2 t y Division If g = g(y,t) = y/t then &gy = &y (1/t) and > = (y/t2)&t so that 2 &g ! & *& 2 gt 5 2 gy 2 010y! . 2 + & t2 * . + & y2 /t , /t , Appendix V. Uncer. & Error Propagation It’s also worth pointing out that fractional or percentage uncertainties in multiplication and division behave much like absolute uncertainties in addition. In other words, if g = yt, &g y 2& t2 * t 2& y2 have 3 significant figures. The zeros preceding the “5” are “place markers” and are not significant figures. On the other hand, quoting the result as 5.320 cm would imply that the 2 is well known while the trailing 0 is also known, but with some degree of uncertainty. A trailing zero after the decimal point is thus considered to be significant. Reporting Results (Measurement Intervals) It is important to report your results with the correct number of significant figures. Suppose you have obtained from your calculations 2 g = 9.98328 m/s with &)g = 0.067695 m/s2. Begin by rounding the uncertainty in your result to one significant figure (or possibly 2), i.e., &)g = 0.07 m/s2. (Since the uncertainty only tells you how well you have measured your result, it doesn’t make sense to quote an uncertainty to more than one or two significant figures.) Then quote g to the same number of decimal places, i.e., 2 0& - 0&y ! ! . t + * .. ++ g yt / t , / y , with the same result holding if g = y/t. If either y or t is a constant or has a relatively small fractional uncertainty, then it can be ignored and the total uncertainty is just due to the remaining term. Furthermore, if one of the measured quantities is raised to a power, the fractional uncertainty due to that quantity is merely multiplied by that power before adding the result in quadrature. For our original example of g = 2y/t2, &g g ! #4 y& t t3 $ * #2& 2 2y t2 y 2 t2 $ 2 0 2& - 0 & y ! . t + * .. ++ / t , / y , 2 2 For the values in our example, &y/y = 0.5% and &t/t = 1% (so 2&t/t = 2%), so we can see that the contribution from the uncertainty in y is negligible compared to the contribution from t. We can therefore conclude that the fractional uncertainty in our measured result for g is about 2%: g = 10.0 ' 0.2 m/s2 g = (9.98±0.07) m/s2, not g = (9.98328 ±0.067695) m/s2 nor g = (9.98328 ±0.07) m/s2 nor g = (10 ±0.07) m/s2. The bold example above has a form sometimes referred to as a measurement interval. If you are using scientific notation, always use the same power of 10 for both the quantity and its uncertainty. For example, quote h = (6.4±0.3)×10-34 J·s, not h = (6.4 × 10-34) J·s ± (3 × 10-35) J·s. D. Significant Figures Significant figures are those figures about which there exists no or very little uncertainty. In the example illustrated in Figure 2, the “5” and “3” are known exactly, while the “2” is known to some degree of certainty. Thus, the number has 3 significant figures. Care should be taken to distinguish between significant figures and decimal places. The scale reading could have been expressed as 0.0532 m, but it would still Appendix V. Uncer. & Error Propagation You must include the units. 6