proporzionalità e adeguatezza nel mantenimento della prole

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FOCUS
PROPORZIONALITÀ E ADEGUATEZZA NEL MANTENIMENTO DELLA PROLE:
RIFLESSIONI SULLE MODALITÀ ATTUATIVE DEL DOVERE
Alessandra Cordiano
Professore aggregato di Diritto privato presso la Facoltà di Scienze della Formazione,
Università degli Studi di Verona
1. Proporzionalità e solidarietà nel dovere di mantenimento della prole
Il contenuto del dovere di mantenimento consiste nell’assolvimento dell’onere più strettamente materiale della funzione genitoriale, comprensivo dei bisogni essenziali dei figli e di tutti quegli aspetti finalizzati alla promozione e allo sviluppo della personalità della prole: dalle cure, che ragionevolmente si spiegano nella convivenza ordinaria, a quelle relative alla vita della prole al di fuori di
detta convivenza.
Il dovere di mantenimento – divergendo dall’obbligo strettamente alimentare che si conforma, invece, a un sobrio tenore di vita sui presupposti indefettibili dello stato di bisogno e dell’incapacità di procurarsi i necessari mezzi di sostentamento – viene solitamente valutato in concreto circa il
suo contenuto, rispetto alla concrete possibilità dei familiari e al complessivo ménage della famiglia stessa, e inteso, nella sua complessità, anche con riferimento alle opzioni ideologiche e di fondo, nonché alla funzione educativa e promozionale della personalità della prole1.
In ragione delle peculiarità e delle specificità delle componenti morali prima che materiali dell’obbligo in parola, questo non si esaurisce con l’assolvimento dei soli oneri patrimoniali, così da potersi ritenere onorato attraverso il mero adempimento di un’obbligazione. Il suo contenuto, da un
lato, potrebbe possedere i tratti qualificanti dell’obbligazione di risultato – ma solo nel senso che
il suo scopo ultimo attiene al sostentamento e alla garanzia delle esigenze quanto meno basilari
della prole –, dall’altro, si distingue nettamente rispetto all’obbligazione per identificarsi come obbligo tipicamente familiare, divergendo dalla fattispecie di cui all’art. 1173 c.c. per struttura e per
funzione.
L’esatta configurazione del dovere appare individuabile con difficoltà, particolarmente rispetto al
quantum della contribuzione, anche in ragione dell’autonomia concessa ai genitori nella scelta delle concrete modalità attuative del dovere.
La norma di cui all’art. 147 e, conseguentemente, la successiva disposizione prevista all’art. 148 c.c.
dispongono l’obbligo per i coniugi – con l’estensione pacifica ai genitori non coniugati2 – di contribuire all’assolvimento degli aspetti patrimoniali riguardanti la prole, prevedendo che le modalità
della contribuzione si specifichino secondo un rapporto di proporzionalità e di adeguatezza alle
capacità economiche degli stessi, come disciplinato dall’art. 148 c.c., che individua i criteri e le modalità della ripartizione.
1
Cass. 24 febbraio 2006, n. 4203, in Rep. Foro it., 2006, voce Separazione dei coniugi, n. 91; Cass. 22 marzo 2005, n. 6197, in
Rep. Foro it., 2005, voce Matrimonio, n. 125; Cass. 3 aprile 2002, n. 4765, in Guida dir., 2002, fasc. 17, 34; Cass. 13 luglio 1995,
n. 7644, in Dir. fam., 1995, 99; Cass. 22 marzo 1993, n. 3363, in Dir. fam. pers., 1994, 839.
2 Diversamente: Tribunale di Milano 18 aprile 1977, in Rep. Foro it., 1977, voce Matrimonio, n. 967; Tribunale di Roma 30 aprile 1977, in Dir. fam., 1977, 1224; Tribunale di Torino 3 marzo 1976, in Giur. merito, 1976, I, 277.
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Il criterio della proporzionalità costituisce uno strumento affatto peculiare, che assume tratti tipici
nel campo diritto di famiglia: al terzo comma dell’art. 143 c.c. il regime patrimoniale primario prevede un criterio di proporzionalità, “in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo”, di contribuzione ai bisogni della famiglia; lo strumento di cui all’art.
193 c.c. della separazione giudiziale dei beni accorda tutela quando uno dei coniugi non contribuisca ai bisogni della famiglia “in misura proporzionale alle proprie sostanze e capacità di lavoro”;
il quarto comma del nuovo art. 155 c.c., infine, dispone che i genitori provvedano al mantenimento dei figli “in misura proporzionale al reddito”. Il principio della proporzionalità, pertanto, non intende riferirsi né a un mero computo matematico né a una divisione in parti uguali, come obbligo
pro parte dei genitori e dei coniugi rispetto alle esigenze familiari. Piuttosto, esso offre un criterio
elastico, esprimendo la propria funzione di strumento di garanzia per la realizzazione dei bisogni
della famiglia e degli interessi della prole.
Benché disposto in sede di concorso degli oneri nel mantenimento della prole, anche la funzione
genitoriale globalmente intesa, comprensiva dei doveri correlati, si spiega proporzionalmente rispetto all’impegno cui sono tenuti i genitori, configurandosi al contempo solidalmente nei riguardi della prole.
La proporzionalità, quindi, esprime i suoi effetti esclusivamente nei rapporti interni fra i genitori,
risolvendosi nei confronti della prole e con riguardo all’esterno, in un obbligo di solidarietà passiva dei genitori stessi3. Detta solidarietà, tuttavia, non va intesa in senso tecnico sulla scorta della
norma di cui all’art. 1294 c.c., poiché essa trova il proprio fondamento nei doveri contenuti agli
artt. 147 e 148 c.c.: ogni condebitore solidale del dovere di mantenimento, in tutti i suoi aspetti anche non strettamente patrimoniali, è tenuto ad assolvere interamente (rectius, adeguatamente) le
esigenze dei figli, i quali, per converso, hanno titolo per pretenderne l’assolvimento integrale da
parte di ciascun genitore. In questa direzione vanno osservati la predetta solidarietà e un eventuale inadempimento4.
L’adempimento per l’intero come direttamente esigibile nei confronti di entrambi i genitori anche
separatamente, infatti, sarebbe proprio del mantenimento per la sua precisa funzione di garanzia,
non rispondendo a un interesse di altri, come nel caso di una gestione di affari altrui5.
Un orientamento che volesse privilegiare la fattispecie indicata dall’art. 2028 c.c. determinerebbe,
prima fra tutte, la necessaria allegazione probatoria ex art. 2031 c.c.; in secondo luogo, la possibile preclusione di ogni tutela per il genitore adempiente che non fosse in grado di assolvere l’onere probatorio in parola, con il conseguente pregiudizio dell’interesse primario della prole, impedendone la soddisfazione della pretesa verso i genitori con la garanzia della solidarietà.
La solidarietà di cui all’art. 148 c.c., poi, in forza di un principio di responsabilità genitoriale, garantisce l’interesse dei figli, assicurandone la pretesa e comprende un aspetto etico e morale, prima che patrimoniale, del dovere di mantenimento, tipico degli obblighi familiari.
Questa funzione di garanzia e di responsabilità si esprime non solo nella fisiologia del rapporto
familiare, nello svolgimento normale e quotidiano della vita della prole, ma anche nella crisi della famiglia, laddove l’accordo fra i genitori o una statuizione del giudice, concretizzando il principio di proporzionalità, viene a realizzare detta funzione. Si spiega così, pure, come il dovere di
mantenimento non si esaurisca con il raggiungimento della maggiore età dei figli, ma si estenda
anche oltre e sempre più frequentemente in favore del figlio maggiorenne non economicamente
3
Tribunale di Santa Maria Capua Vetere 24 gennaio 2000, in Giur. nap., 2000, 110; Cass. 22 novembre 2000, n. 15063, in Giust.
civ., 2001, I, 1296.
4 Cass. 20 aprile 1991, n. 4273, in Giur. it., 1991, I, 1, c. 635; nega la solidarietà fra i genitori anche Cass. 18 febbraio 1999, n.
1353, in Fam. dir., 1999, 455; recentemente, Cass. 30 settembre 2010, n. 20509, in Fam. dir., 2011, 467: “L’obbligo di mantenere i
propri figli ex art. 147 c.c. grava sui genitori in senso primario ed integrale, sicché qualora l’uno dei due genitori non voglia o non
possa adempiere, l’altro deve farvi fronte con tutte le sue risorse patrimoniali e reddituali e deve sfruttare la sua capacità di lavoro, salva comunque la possibilità di agire contro l’inadempiente per ottenere un contributo proporzionale alle sue condizioni economiche”.
5 Cass. 11 luglio 1990, n. 7211, in Rep. Foro it., 1990, voce Matrimonio, 1999, n. 155.
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indipendente, posto che l’incapacità non sia ascrivibile a una condotta colpevole, negligente e imputabile6.
Resta fermo, inoltre, che, poiché l’obbligo al mantenimento scaturisce per effetto della sola procreazione e a prescindere da qualsiasi strumento che ne attesti la formalizzazione giuridica – lo status di figlio legittimo, il riconoscimento o la dichiarazione giudiziale7 –, esso sorge sin dal momento della nascita, in virtù di un principio che, fatte salve le ipotesi di filiazione adottiva, privilegia il
dato biologico rispetto a quello formale-giuridico: l’efficacia meramente dichiarativa del riconoscimento e della dichiarazione giudiziale rilevano al solo fine ricognitivo di una situazione preesistente8 e ai fini processuali9.
L’obbligo di contribuire al mantenimento della prole, pertanto, si riconosce sia per quel che concerne il passato sia con riferimento all’avvenire, identificandosi, nel primo caso, con il rimborso
delle spese sostenute dal genitore affidatario, in virtù dell’obbligazione di mantenimento che, in
quanto tale, è obbligazione solidale e concede il regresso al condebitore che ha assolto per l’intero10, costituendo, per il futuro, il fondamento per la valutazione del giudice in merito al quantum
di detta contribuzione11.
La tutela offerta dall’art. 148 c.c., che specifica l’obbligo di mantenimento e di contribuzione individuando i criteri e le modalità di ripartizione fra i genitori e, subordinatamente e sussidiariamente, gli ascendenti legittimi e naturali e il terzo datore di lavoro dell’inadempiente12, induce a una riflessione sul tema dell’inadempimento nella materia familiare. Questo, infatti, percorre tutta la patologia familiare, benché lo strumento in parola si ponga particolarmente per le ipotesi di coppie
non coniugate e non conviventi, nelle quali un genitore è obbligato a versare all’altro un assegno
periodico proporzionato alle proprie capacità economiche e reddituali13, e sebbene le ipotesi di applicazione alle coppie coniugate risultino residuali, in ragione del plausibile ricorso, in questi casi,
alle forme di tutela per la fase patologica della famiglia14.
6
Cass. 22 marzo 2010, n. 6861, in Fam. dir., 2010, 776; Cass. 13 gennaio 2010, n. 400, in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, 823;
Tribunale di Alessandria 1 febbraio 2010, in Fam. dir., 2010, 1029; Cass. 18 agosto 2006, n. 18187, in Foro it., 2006, I, c. 3346;
Cass. 16 febbraio 2001, n. 2289, in Fam. dir., 2001, 275; Cass. 7 maggio 1998, n. 4616, in Giur. it., 1999, c. 252.
7 Cass. 6 novembre 1976, n. 4044, in Foro it., 1977, I, c. 413; Cass. 19 giugno 1990, n. 5833, in Giust. civ., 1991, I, 75.
8
Cass. 24 marzo 1994, n. 2907, in Rep. Foro it., 1994, voce Filiazione, n. 84; Cass. 16 luglio 2005, n. 15100, in Foro it., 2006,
I, c. 476; Cass. 2 febbraio 2006, n. 2328, in Fam. dir., 2006, 504, con nota di Figone; Cass. 6 dicembre 2006, n. 26175, in Guida
dir., 2007, 7, 66.
9 Cass. 25 febbraio 2009, n. 4588, in Foro it., 2009, I, 1026: “Poiché i genitori devono adempiere l’obbligazione di mantenimen-
to verso i figli in proporzione alle loro sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo, ai fini della quantificazione del rimborso pro quota vanno tenuti presenti tali criteri, considerando, cioè, quanto avrebbe dovuto corrispondere il
genitore qualora il riconoscimento avesse avuto luogo fin dalla nascita del minore”.
10 Cass. 23 gennaio 1993, n. 791, in Giur. it., 1993, I, 1, c. 1914; Cass. 2 marzo 1994, n. 2065, in Rep. Foro it., 1994, voce Filiazione, n. 95; Cass. 24 marzo 1994, n. 2907, in Rep. Foro it., 1994, voce Filiazione, n. 96; Cass. 2 febbraio 2006, n. 2328, in Fam.
dir., 2006, 504.
11 Cass. 1 ottobre 1999, n. 10861, in Rep. Foro it., 1999, voce Filiazione, n. 10; Cass. 4 novembre 2010, n. 22506, in Pluris: “[...]
il diritto di regresso di un genitore nei confronti dell’altro per le spese interamente sostenute per il mantenimento, sin dalla nascita, del figlio presuppone l’accertamento del quantum dovuto in restituzione; quantum che, sebbene suscettibile di liquidazione equitativa, trova limite negli esborsi in concreto, o presumibilmente, sostenuti dal genitore che ha affrontato, per intero, la spesa. In
entrambi i casi, non si può prescindere né dalla considerazione del complesso delle specifiche, molteplici e, nel tempo, variabili esigenze effettivamente soddisfatte, o notoriamente da soddisfare, nel periodo da considerare ai fini del rimborso, né dalla valorizzazione delle sostanze e dei redditi di ciascun genitore (quali, all’epoca, goduti ed evidenziati, eventualmente in via presuntiva,
dalle risultanze processuali), né dalla correlazione con il tenore di vita di cui il figlio ha diritto di fruire, da rapportare a quello
dei suoi genitori”.
12 Cass. 23 marzo 1995, n. 3402, in Giust. civ., 1995, I, 1441; Tribunale di Milano 30 giugno 2000, in Fam. dir., 2000, 534.
13 Tribunale di Roma 13 dicembre 1993, in Dir. fam., 1994, 1059; Tribunale di Messina 10 maggio 1991, in Giust. civ., 1992, 2899.
14 Si veda però, Cass. 23 marzo 1995, n. 3402, in Dir. fam. pers., 1995, 1409, per il ricorso all’art. 148 c.c. nella fase della separazione di fatto, per la speditezza e la sommarietà del procedimento de quo, in una fase precedente l’istanza per separazione personale.
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2. I concetti di inadempimento e di adeguatezza del mantenimento
L’inadempimento del contributo al mantenimento costituisce fattispecie significativa, come confermato dalle pronunce in materia di danno esistenziale in ambito endofamiliare per mancata esecuzione del dovere15.
La ripartizione del mantenimento della prole avviene sia attraverso un accordo fra i genitori stessi
sia con ricorso al giudice (sui problemi di competenza nella filiazione naturale)16.
Il contenuto degli accordi in materia patrimoniale, in particolare, è strettamente correlata con il problema dall’inadempimento del dovere di mantenimento, concernendo le ipotesi di filiazione naturale per le quali non sia intervenuto un titolo esecutivo ad accertare il quantum di detta contribuzione, come i casi in cui il quantum sia stato concordato giudizialmente o negozialmente fra le
parti, ma non riesca a coprire quanto necessario per il soddisfacimento delle esigenze della prole.
A dimostrazione che il contributo al mantenimento (e la composizione negoziale dell’adempimento del dovere) rappresenta un tema di rilievo per la significativa casistica dei conflitti in materia,
questa modalità negoziale è espressamente prevista dal quarto comma del nuovo art. 155 c.c., introdotto dalla novella sull’affidamento condiviso, che prevede la configurabilità di accordi fra i genitori in merito al contributo dovuto per il mantenimento della prole17.
L’individuazione della nozione d’inadempimento rispetto al ricorso a un procedimento sommario e
cautelare, quale quello dell’art. 148 c.c., è utile per comprendere se in questo possano essere ricondotte le situazioni di adempimento inadeguato ai bisogni della prole. Sembra opportuno verificare,
di conseguenza, se l’inadempimento sancito dalla norma in esame comprenda anche l’inadeguatezza dello stesso e se l’adempimento non adeguato alle necessità della prole possa essere reputato
adempimento inesatto, rientrando nello schema generale dell’inadempimento tout court. Al contempo, la ricostruzione della nozione in esame rivela la propria utilità anche nei casi di inottemperanza della prescrizione emessa nel procedimento della crisi familiare, visto che queste ipotesi hanno
una frequenza più che significativa (come testimoniato dal disposto dell’art. 709 ter c.p.c.) e dal momento che le nuove modalità attuative del dovere comportano conseguenze peculiari.
In una fattispecie affrontata dal Tribunale di Milano, il giudice rigettava la richiesta avanzata da un
genitore affidatario alla condanna al pagamento di una somma superiore a quella fornita per la
mancanza stessa del presupposto dell’inadempimento18.
La mancata integrazione della fattispecie in parola era motivata sul presupposto che il genitore obbligato provvedeva ampiamente al mantenimento dei figli, avendo lasciato all’affidataria la casa familiare, sopportando tutte le spese di gestione, comprese quelle relative al contratto di mutuo costituito per il suo acquisto, e stipulando in favore dei figli una consistente polizza assicurativa. Le
necessità vitali della prole apparivano senz’altro soddisfatte e garantite per il futuro, a nulla rilevando le eventuali potenzialità contributive dell’obbligato di ben altra entità: se all’affidataria avesse
premuto una richiesta di maggior consistenza, la via percorribile sarebbe stata quella di un procedimento di cognizione ordinario.
Il percorso argomentativo è fondato sull’idea che, qualora non sia identificabile una fattispecie di
inadempimento integrale del dovere, ma a essere lamentato sia il quantum dovuto, nella ragione
della supposta insufficienza e inadeguatezza rispetto alle effettive sostanze dell’obbligato, lo strumento più consono dovrebbe rimanere quello di un ordinario giudizio di cognizione. In quella sede, infatti, il convincimento del giudice sulla bontà delle ragioni delle parti potrebbe formarsi con
maggiore completezza, per non dover essere obbligato a pronunciarsi con estrema celerità e per
la sommarietà delle assunzioni probatorie, che ordinariamente caratterizzano la procedura ex art.
148 c.c. Lo spirito della norma esaminata, proprio per la sua funzione prioritaria di strumento snel-
15 Cass. 7 giugno 2000, n. 7713, in Studium iuris, 2001, 216, annotata da Scalera.
16 Cass. 3 aprile 2007, n. 8362, in Fam. dir., 2007, 446, con nota di Tommaseo; contra Cass. 5 maggio 2011, n. 9936, inedita.
17 Cass. 8 novembre 2006, n. 23801, in Foro it., 2007, I, c. 1189; Cass. 10 ottobre 2005, n. 20290, in Fam. pers. succ., 2007, 107.
18 Tribunale di Milano 25 giugno 1987, in Dir. fam. pers., 1988, 349.
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lo a protezione d’interessi primari, quali quelli al mantenimento della prole, dovrebbe mantenere
detta peculiarità, lasciando al giudizio ordinario altre pretese che, benché legittime, non recano in
sé quella premura e quell’urgenza proprie del ricorso ex art. 148 c.c.
L’inadempimento tutelato dall’art. 148 c.c. è affatto singolare, recando in sé i tratti tipici della violazione degli obblighi coniugali e familiari, accanto ad analogie con la struttura “tradizionale” dell’inadempimento, quale rimedio generale a garanzia del soddisfacimento dell’interesse creditorio.
In tal senso, la fattispecie non si configura necessariamente come mancato assolvimento delle prestazioni dovute dall’obbligato, ma anche come dato che attesta altresì il solo pericolo di insolvenza per il futuro, così da legittimare un tutela peculiare, sommaria e cautelare, giustificata dalla rilevanza degli interessi sottesi, sulla base del semplice periculum in mora. Il rimedio conferito dalla
disposizione non sarebbe funzionale essenzialmente al recupero di somme versate in via anticipata dal genitore convivente, quanto alla garanzia dell’osservanza futura del versamento delle prestazioni patrimoniali dovute in adempimento del dovere contributivo.
Nondimeno, la tesi dell’inadempimento come presupposto del ricorso all’art. 148 c.c., secondo
comma, è avallata dalla Corte Costituzionale, che ha definito la norma in esame “un efficace rimedio all’inadempimento”19 e, in precedenza, dal giudice di legittimità, per il quale il decreto emesso
costituisce titolo esecutivo contro chiunque risulti inadempiente dell’obbligo di mantenimento dei
minori20. Dimostrando una certa sensibilità, la giurisprudenza di merito è incline piuttosto a interpretare estensivamente il concetto in questione, riconoscendo l’inadempimento anche quando il
quantum spontaneamente versato risulti inadeguato21.
L’affermazione costante della giurisprudenza che il mantenimento debba essere adeguato, conduce alla verifica della clausola dell’adeguatezza, che può essere correlata al comportamento dei genitori o del genitore, secondo modalità che soddisfino tutte le esigenze della prole22.
Di qui è possibile individuare due diversi profili nel dovere di mantenimento. Il primo, concernente i bisogni primari dei figli, che prescinde dal tenore di vita della famiglia e dei genitori e che potrebbe coincidere con il sostentamento vitale, tipico dell’obbligazione alimentare; il secondo, nel
quale il mantenimento viene commisurato alla gestione della famiglia, al tenore di vita concretamente realizzato e, inevitabilmente, alla classe sociale cui la famiglia appartiene. Questo correttivo
sociale, evidentemente, distingue in maniera rilevante l’ammontare del mantenimento, perché diverse possono essere le spese sostenute dai genitori e reputate più o meno essenziali, come quelle per gli studi universitari o quelle voluttuarie e ludiche. Allo stesso tempo, la funzione del mantenimento mantiene una propria finalità di tipo etico ed educativo, oltre che assistenziale e patrimoniale, così che può non risultare sempre agevole determinare detta adeguatezza.
Può avvenire così che le spese affrontate in ragione dello status sociale si rivelino importanti, quando anche eccessive; per altro verso, l’entità del mantenimento potrebbe essere determinato dai genitori in una misura minore rispetto al tenore di vita concretamente possibile, in una funzione prettamente educativa. Il mantenimento contiene, quindi, un suo scopo tipico, educativo ed etico oltre che assistenziale, dei bisogni più strettamente materiali.
Quanto detto, oltre a confermare la difficoltà che talvolta si incontra nell’operare un controllo esterno sull’entità del mantenimento in ragione delle sue diverse componenti, è utile per riaffermare la
sua funzione di strumento protettivo dell’interesse della prole23. Appare dunque presumibile che la
strada più consona al dettato normativo sia quella di considerare integrato un adempimento inesatto, quindi un inadempimento, ogniqualvolta la prestazione sia effettivamente inadeguata rispetto alle esigenze necessarie e basilari della prole (anche maggiorenne), come comprensive di un da-
19 Corte Cost. 16 giugno 2002, n. 236, in Foro it., 2003, I, c. 738.
20 Cass. 23 marzo 1995, n. 3402, in Giust. civ., 1995, I, 1441.
21 Così Tribunale di Messina 10 maggio 1991, in Giust. civ., 1992, I, 2900.
22 Cass. 19 marzo 1989, n. 1862, in Giust. civ., 1984, I, 1765.
23 Cass. 17 gennaio 1996, n. 364, in Fam. dir., 1996, 227; Cass. 15 gennaio 1998, n. 317, in Giust. civ., 1998, I, 337 ss.
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to ulteriore rispetto a quello meramente patrimoniale24 e benché vi sia un titolo negoziale fra i genitori per un assegno di mantenimento, del tutto inadeguato alle necessità ordinarie e straordinarie della prole.
Affidandosi, poi, alla clausola dell’ordinaria diligenza nell’adempimento, come criterio per valutare il comportamento dei soggetti obbligati, si vede confermato che il genitore obbligato debba soddisfare l’interesse più materiale della prole, in proporzione alle proprie sostanze e secondo la propria capacità di lavoro professionale e casalingo.
Sulla scorta del disposto dell’art. 1176 c.c., se il dovere di mantenimento posto a carico dei genitori consiste in una prestazione proporzionata alle rispettive sostanze e alla capacità di lavoro professionale o casalingo, allora il quantum dell’assegno di mantenimento deve correlarsi non solo al
reddito attuale degli obbligati, ma anche al reddito che potremmo definire potenziale.
Il contenuto della contribuzione, in altre parole, va valutato con riferimento al reddito effettivamente percepito e riguardo alla capacità lavorativa e alle astratte capacità economiche degli obbligati,
individuando bene le sostanze rispetto al reddito. Da un lato, quindi, entra nel calcolo ogni valore anche potenziale di reddito; dall’altro, deve essere censurato il comportamento di chi svolge un
lavoro sicuramente più redditizio di quanto dichiari, o di quello che lasci improduttivi immobili di
sua proprietà25, quasi che incomba sui genitori un obbligo più generale di attivarsi per mettere a
frutto la propria capacità di lavoro e che, conseguentemente, un comportamento contrario a detto
dovere potrebbe integrare un inadempimento degli obblighi previsti dall’art. 147 c.c.26.
Alla luce del criterio della diligenza, viene da interrogarsi se sia possibile configurare un dovere
per il genitore di mantenere inalterato il proprio reddito, in particolare a seguito della pronuncia
del giudice sul contributo al mantenimento della prole, alle condizioni presenti al momento della
decisione del giudice, così da poter censurare ogni scelta che modifichi in peius la situazione patrimoniale dell’obbligato; e se esista un dovere di migliorare il reddito e di massimizzare le proprie
capacità lavorative per dare piena attuazione ai diritti sanciti e ai rapporti solidaristici nei confronti della prole.
La questione non è di pronta risoluzione. Senz’altro sono da sanzionare quei comportamenti posti
in essere dai genitori e dai coniugi, preordinati al solo fine di sottrarsi alla prestazione imposta giudizialmente o fondati sul rancore provato verso l’altro per aggravarne la situazione economica27.
Al contempo, il dovere di mantenimento deve, talvolta, essere coordinato e bilanciato con altre situazioni di rango costituzionale, come il diritto al lavoro: questo, come individuato dalla Carta Costituzionale e dallo Statuto dei lavoratori e coordinato con il suo speculare dovere, non prevede
l’obbligo di svolgere quasiasi tipo di lavoro che non realizzi la personalità dell’individuo. Non potrebbe essere censurata, a titolo d’esempio, la scelta di un lavoro che, sebbene meno remunerativo, non sia però usurante della sua salute psicofisica.
Il pericolo che da una meccanica configurazione del reddito in funzione del mantenimento, come
reddito percepito e potenziale, derivi un dovere di massimizzare le proprie capacità lavorative a
discapito di altre situazioni costituzionalmente garantite, deve condurre a privilegiare una logica di
tutela delle scelte esistenziali dell’obbligato28, favorendo una tesi cosiddetta “dinamica dell’obbligazione al mantenimento”, che è mutevole per sua stessa natura e può subire variazioni anche in
24 Tribunale di Trieste 21 marzo 2005, in Fam. pers. succ., 2005, 325, con nota di Corapi, dove si afferma l’esperibilità del rimedio ex art. 148 c.c. “anche ove si lamenti l’insufficienza delle somme di fatto corrisposte, non postulandosi un inadempimento integrale”; contra Tribunale di Milano 25 giugno 1987, in Dir. fam. pers., 1988, 349.
25 Cass. 16 ottobre 1991, n. 10901, in Rep. Foro it., 1991, voce Matrimonio, 4130, nn. 175 e 176; con riferimento alla libertà di
scelta del lavoro, in rapporto con gli obblighi di mantenimento: Cass. 11 marzo 2006, n. 5378, in Foro it., 2006, I, c. 1361.
26 Contra Tribunale di Catania 1 aprile 2008, in Corr. mer., 2008, 915, ma in una fattispecie caratterizzata per l’assenza di prole.
27 Cass. 24 gennaio 2007, n. 1607, in Dir. fam. pers., 2007, 1133, chiarisce come, nell’ambito del giudizio di separazione, la determinazione del contributo per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione della prole non si fondi su una rigida comparazione
della situazione patrimoniale di ciascun coniuge, come avviene fra questi. L’arricchimento di uno dei genitori, pertanto, garantisce
al minore una migliore soddisfazione delle sue esigenze e non comporta una correlata, automatica e proporzionale diminuzione
del contributo dovuto dall’altro genitore; anche Cass. 24 febbraio 2006, n. 4203, in Fam. dir., 2006, 599, con nota di Longo.
28 Cass. 11 giugno 1997, n. 5244, in Rass. dir. civ., 1997, 922, con nota di Misto.
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danno della ragioni creditorie, qualora, per motivazioni dettate da esigenze esistenziali e non da
intenti punitivi o dolosi, l’obbligato subisca una contrazione del proprio reddito29.
La necessità di attuare un bilanciamento fra le ragioni della prole e le scelte dell’individuo sull’impiego delle proprie energie fisiche e intellettive spiega l’esigenza di valutare concretamente gli interessi correlati e di non optare per un’automatica equazione fra mancata attuazione della capacità lavorativa o peggioramento delle condizioni economiche e inadempimento della prestazione di
mantenimento, giacché in questa materia, ancor più che in altre, ogni soluzione meccanica finisce
per rivelarsi fallace.
Più utile, forse, una visione che comprenda ogni scelta operata dai soggetti coinvolti nella vita familiare come inserita nel contesto di un comune dovere di collaborazione: un comune progetto
collaborativo destinato a esprimersi nella fisiologia dei rapporti, successivamente alla disgregazione dell’unità familiare, divenendo a sua volta specificazione del più ampio dovere di solidarietà postconiugale e postfamiliare.
3. Nuove modalità di attuazione del dovere
Una rilevante innovazione introdotta dalla novella del 2006 interessa il contenuto degli accordi che
intercorrono tra i genitori circa l’affidamento e il mantenimento della prole. La riflessione concernente gli accordi patrimoniali in sede di separazione, che nella disciplina previgente interessava soprattutto la separazione consensuale, conosce un dibattito in costante espansione, con riferimento
alle disposizioni derogabili e inderogabili della materia familiare, ai diritti disponibili e indisponibili, nonché, più in generale, alla concezione privatistica o pubblicistica dell’istituto familiare e degli interessi coinvolti.
L’incessante evoluzione, percepita e reale, dei temi trattati ha coinvolto conseguentemente la disciplina di riforma che, modificando il settimo comma della formulazione originaria dell’art. 155 c.c.,
ha introdotto un duplice riferimento agli accordi fra i coniugi, distinguendo fra accordi in materia
personale (art. 155 c.c., secondo comma) e in materia patrimoniale (art. 155 c.c., quarto comma),
in luogo della disposizione previgente, secondo la quale il giudice era tenuto a considerare gli accordi proposti dalle parti, potendosene discostare sulla base di un migliore assetto degli interessi
morale e materiale della prole, con il solo obbligo di una adeguata motivazione sul punto.
In via preliminare, va osservato come la volontà del legislatore di disciplinare separatamente i differenti aspetti dell’affidamento dei figli rappresenti un elemento di notevole pregio, nella misura in
cui ciò costituisce una rinnovata attenzione ai diversi profili della vita della prole nella crisi familiare, con l’intento di organizzare quest’ultima ricalcando il più possibile il ménage della famiglia
prima della rottura e la sua unità.
Di tutta evidenza le differenze contenute nel secondo e quarto comma del nuovo art. 155 c.c.: gli
accordi in materia patrimoniale sono fatti salvi, quando “liberamente sottoscritti dalle parti”; laddove il giudice deve prendere atto degli “accordi intervenuti tra i genitori”, quando questi non siano
“contrari all’interesse della prole”.
Alcuni aspetti testuali contenuti nella norma, però, sembrano avere consistenza dubbia: la libera
sottoscrizione degli accordi sul mantenimento rende conto, con tutta probabilità, dell’impostazione
formalistica delle convenzioni patrimoniali dell’art. 162 c.c.; nello stesso senso, se il secondo comma parla di accordi tra genitori, il quarto comma tratta di accordi intervenuti fra le parti, accentuandone il profilo spiccatamente contrattuale. Il quarto comma dell’art. 155 c.c., infine, prescrive che
il giudice debba prendere atto degli accordi sull’affidamento e fare salvi quelli sul mantenimento.
Tralasciando l’analisi dei negozi in materia personale, l’indagine relativa al contenuto degli accor-
29 Nondimeno, ma con riguardo al mantenimento del coniuge: Cass. 11 marzo 2006, n. 5378, in Foro it., 2006, I, c. 1361, con
nota di De Marzo.
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AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011
di patrimoniali e all’esplicazione delle modalità di adempimento deve far rilevare, in primo luogo,
come il tenore della norma disponga che i genitori siano tenuti a provvedere al mantenimento della prole “in misura proporzionale al proprio reddito”, prevedendo così una modalità di configurazione del contenuto degli accordi con riferimento a un criterio di proporzionalità.
La norma, contravvenendo a un orientamento attestato del secondo comma dell’art. 155 c.c. nell’originaria formulazione e al principio espresso dall’art. 148 c.c., individua la modalità di realizzazione del principio di proporzionalità secondo l’esclusivo rinvio al reddito di ciascun genitore,
mancando di prevedere un riferimento alla “capacità di lavoro professionale e domestico”, se non
come criterio di determinazione dell’assegno.
Il timore è rafforzato dalla lettura del progetto di modifica ddl 957/2009 che, analogamente al ddl
2454/2010, menziona il principio di proporzionalità nella contribuzione commisurato alle “risorse
economiche”, lasciando ai “compiti domestici e di cura” la valenza di contributo “diretto”.
Inoltre, poiché il criterio della proporzionalità del mantenimento ha vigore salvo siano intervenuti
accordi liberamente sottoscritti dalle parti, è dubbio se la capacità espansiva dell’autonomia negoziale si spinga sino alla deroga dello stesso principio. Se a una prima lettura della norma, il giudice
sembrerebbe non aver titolo per intervenire sull’accordo patrimoniale intercorso, dovendo recepire
la volontà concorde dei genitori a prescindere dal contenuto delle intese raggiunte, agevolmente si
accoglie l’orientamento che sostiene il vaglio del giudice, in ossequio al disposto di cui all’art. 158
c.c.30. Il profilo, tuttavia, richiede un’attenta osservazione, se non altro nella prospettiva dell’ampliamento dell’autonomia negoziale familiare, scevra di qualsiasi meccanismo di controllo garantistico.
La previsione di criteri nella determinazione dell’assegno periodico (“le attuali esigenze del figlio, il
tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori, i tempi di permanenza presso ciascun genitore, le risorse economiche di entrambi i genitori, la valenza economica
dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore”) dovrebbero far presumere, almeno fino a quando il legislatore non intervenga in senso diverso, la garanzia dell’attuazione del principio predetto. I criteri d’individuazione del contenuto dell’assegno di mantenimento, già enucleabili dall’interpretazione delle clausole generali e dei princìpi espressi dalle disposizioni di cui agli artt.
148 e 143, terzo comma, dovrebbero assicurare il principio di proporzionalità della contribuzione,
come specificazione del dovere di solidarietà familiare e garanzia di eguaglianza e di pari dignità
dei suoi membri.
La proporzionalità del mantenimento, si è detto, non equivale a una matematica distribuzione o attribuzione esclusiva dei compiti fra i genitori, se non nella misura di una regolamentazione interna fra questi nell’organizzazione della vita familiare dopo la rottura; esso è altresì volto alla realizzazione, anche nel contesto dell’autoregolamentazione dei genitori, dei medesimi princìpi sopra riferiti. Così, se è pur vero che appaia astrattamente ammissibile (per il mancato ed espresso riferimento della norma sul punto) la configurabilità di accordi che deroghino al principio di proporzionalità del mantenimento, non sono certamente condivisibili intese contrarie all’interesse dei figli, all’adeguatezza del loro mantenimento, nonché alla garanzia dell’eguaglianza proporzionale
nella contribuzione.
Quanto detto, per un verso, deve far riflettere sul diffuso costume della divisione in pari quota delle spese ordinarie e straordinarie che, sebbene appaia più efficiente sotto il profilo della risoluzione dei conflitti, talvolta non realizza né il principio della contribuzione proporzionale né un’effettiva condivisione delle scelte riguardo alla prole. Per altro verso, si è indotti a guardare con sospetto ai progetti di riforma recentemente presentati (ddl 957/2009 e 2454/2010), che sanciscono la modalità di contribuzione “in forma diretta e per capitoli di spesa”, così come decise dai coniugi e, “solo nel caso di disaccordo, stabilite dal giudice”.
Le osservazioni compiute conducono a soffermarsi sulle odierne modalità di attuazione del mantenimento, che accanto a quello indiretto – modalità oggi residuale nell’idea del legislatore31 –, pre-
30 Cass. 24 aprile 2007, n. 9915, in Guida dir., 2007, 20, 40.
31 Nondimeno Cass. 18 agosto 2007, n. 18187, in Fam. dir., 2007, 345, con nota critica di Dogliotti.
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vede l’adempimento “diretto” alle spese e il mantenimento che avvenga “in natura”. È un pensiero esplicito del riformatore che il mantenimento diretto e quello in natura costituiscano una forma
di contribuzione migliore dell’assegno mensile che, molto frequentemente, finisce per equivalere a
una “delega in bianco” attribuita al genitore domiciliatario e che rende sperequate le posizioni, spesso in danno del genitore non domiciliatario con un reddito più alto. L’assegno mensile sarebbe, pertanto, una fonte di ulteriori conflitti fra i genitori con ripercussioni significative sulla prole. Nonostante l’apparente preferenza del legislatore verso nuove forme di contribuzione, però, la casistica
continua a profilarsi secondo le abituali modalità di attuazione con l’assegno di mantenimento32.
La persistenza verso strumenti ampiamente collaudati (e criticati) si spiega con una serie di motivi, il primo dei quali è che il mantenimento in natura, che conosce una diffusione più ampia, è teso a soddisfare le ragioni economiche di una fascia sociale “alta” della popolazione, quella alla quale è consentita tale forma di gestione e segregazione del patrimonio (soprattutto immobiliare) in
favore della prole.
Per altro verso, il mantenimento diretto ha come presupposto (almeno teorico) la parità di tempo
di permanenza presso ciascun genitore e un complesso sistema di “calcolo per costo di ciascun figlio” per bilanciare la permanenza non in pari grado, che non può che destare qualche perplessità.
È vero che, in caso di collocamento prevalente presso un genitore, deve essere posta a carico del
genitore non domiciliatario una forma di contribuzione che, nel caso dell’assegno, tenga presente
i tempi di permanenza del figlio presso ciascun genitore; ma è anche vero che il criterio della determinazione dei tempi di permanenza deve rispettare il principio di proporzionalità (e di adeguatezza) della contribuzione, che non può reputarsi derogato nell’ipotesi di contribuzione diretta.
Inoltre, il principio di bigenitorialità, fondamento teorico della novella, non si esprime con la “parità di tempo della collocazione” della prole: orientamenti in tal senso costituiscono palese violazione dell’interesse del minore.
Infine, sebbene il fondamento assiologico del mantenimento diretto sia quello di consentire la conservazione di un rapporto diretto tra genitore non affidatario e minore, non può tacersi che, nell’ipotesi di mancato adempimento del dovere, la tutela giudiziale risulti ancora più complessa con
un ulteriore aggravio nei riguardi del genitore domiciliatario, solitamente colui che “anticipa” le
spese, o, per esempio, dello stesso figlio maggiorenne33.
Se si pensa poi alle fattispecie di violazione degli obblighi di assistenza familiare o al reato di elusione del provvedimento giudiziale, la questione è acuita quando il mantenimento diretto, o in natura, avviene con prestazioni saltuarie, quand’anche non marginali, o voluttuarie in favore dei figli;
queste, sebbene possano assecondarne i desideri e talvolta i capricci, non consentono l’adempimento delle esigenze essenziali e basilari della vita della prole, né assolvono quella funzione etica
ed educativa propria del dovere di mantenimento di cui all’art. 147 c.c.
In conclusione, pare che le riforme attuate e quelle che si profilano all’orizzonte siano pervase, talvolta, dalla forte ambizione di bandire il “vecchio” e realizzare il “nuovo”, con scelte non sempre
del tutto ben meditate.
32 Da ultimo, Cass. 4 novembre 2010, n. 22502, in Fam. dir., 2010, 247.
33 Cass. 12 ottobre 2007, n. 21437, in Fam. dir., 2008, 584.
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