periferie - Centro di Documentazione Pier Vittorio Tondelli

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periferie - Centro di Documentazione Pier Vittorio Tondelli
MARTA RIVETTI
PERIFERIE
RACCOLTA DI RACCONTI BREVI
… Et pour l’être pensant venu se pencher froidement
sur toutes ces données et évidences il serait vraiment
difficile au bout de son analyse de ne pas estimer
à tort qu’au lieu d’employer le terme vaincus
qui a en effet un petit côté pathétique désagréable
on ferait mieux de parler d’aveugles tout court.
Le dépeupleur,
Samuel Beckett
PERIFERIE.
INDICE :
Beatrice.
Blank.
Bla.
Paroxetina.
Gli asparagi.
Il mattarello.
Dalla Pretura.
Autoritratto nel momento.
BEATRICE.
Era una stanza stretta e alta, dalle pareti bianche e spoglie. Una sola
finestra padroneggiava il muro di fondo, il muro che dava sul cortile
alberato. La luce vi entrava morbida per buona parte della giornata. In
questa stanza stretta e alta Beatrice vi stava tutto il giorno, sola,
giocando con le sue tre palline bianche. Quelle di Beatrice erano palline
grandi quanto quelle usate nel baseball ma non avevano alcuna cucitura
evidente.
Beatrice è sempre stata in quella stanza. La sua memoria le negava di
ricordare un prima, le negava di sapere se qualcuno l’aveva messa lì o se
lì ci era nata. Ogni tanto confuse immagini le si presentavano davanti
agli occhi, come momentanei quadri di altri posti, di luoghi lontani da
quella stanza. Ma non riusciva a spiegarsi cosa esattamente fossero, le
cose che vedeva, e non riusciva neanche a dar loro un senso. La realtà
che conosceva era fatta solo di quattro mura bianche, di tre palline
bianche, di una finestra e di sé stessa.
Le tre palline erano per Beatrice l’unica possibilità di gioco e di
sperimentazione. Con esse la bambina trascorreva intere giornate,
facendole rimbalzare sulle pareti, divertendosi a prenderle al volo una
dopo l’altra per poi rilanciarle immediatamente. Oppure giocava facendole
rotolare per terra, impartendo loro traiettorie sempre diverse,
seguendole a gattoni. Beatrice aveva imparato ad apprezzare il silenzio
ed a romperlo quando voleva sentire qualcosa. Allora cantava delle
melodie che lei stessa non sapeva da dove arrivassero, oppure
improvvisava ritmiche urla a seconda dei rimbalzi delle palline. Solo
raramente parlava ad alta voce, come spesso i bambini fanno, inventando
interlocutori simpatici o situazioni di dialogo tra conoscenti.
Capitava anche che Beatrice guardasse fuori dalla finestra. Per farlo
doveva alzarsi sulle punte dei piedi ed allungare il mento come volesse
proiettarlo oltre il vetro. Dalla sua prospettiva Beatrice riusciva a
scorgere solo le punte degli alberi, quelle fronde che lei vedeva mutare
di colore a seconda delle stagioni, che vedeva muoversi a seconda dei
venti. Beatrice poteva solo intuire ciò che accadeva più in basso, dove
immaginava ci fosse un prato da cui nascevano i tronchi grandi e scuri
degli alberi, dove bambini e bambine giocavano con palloni grandi quanto
quelli da calcio.
Quando vedeva con l’immaginazione queste immagini, Beatrice rimaneva poi
con gli occhi fissi ad una parete bianca, con le tre palline posate al
suo fianco, immobili. Non sapeva esattamente quale fosse il sentimento
che provava, ma non le piaceva. Era triste, si sentiva schiacciata
dall’alto soffitto, le venivano in mente le musiche che quando era ancora
più piccola aveva sentito e che non le erano mai andate via dalla mente.
Musiche struggenti, anche arrabbiate, forse rassegnate. Seguendo le note
nella sua mente, Beatrice volava sopra gli alberi e da lì poteva vedere
il mondo sottostante. Vedeva il prato che mai riusciva a scorgere oltre
la finestra e mentre volava si chiedeva cosa fosse tutto quello che
vedeva e le piaceva e rideva e forse ricordava qualcosa, ma subito
svaniva tutto e la musica, anche lei, finiva. Allora Beatrice si
ritrovava improvvisamente seduta dinnanzi alla parete bianca, sola, con
le tre palline poggiate sul pavimento. Nel silenzio sentiva una vocina
dentro si sé parlarle del prato oltre la finestra e del profumo dell’aria
e delle possibilità di gioco delle tre palline in uno spazio più grande.
Era curiosità, la sua, e voglia di sapere nuove cose e di vedere posti
che forse una volta aveva pur visto. Non si sentiva confinante con la
sola stanza, in quei momenti. Sentiva che voleva andare oltre, più in là,
anche solo per poco, solo un minuto più in là.
Se dove lei stava era tutto bianco, allora fuori, oltre la finestra,
tutto sarebbe stato colorato, verde, blu, rosso. Se il soffitto che i
suoi occhi vedevano nascondeva il cielo, allora fuori, oltre la finestra,
ci sarebbe stato un cielo immenso, che si poteva scorgere da qualsiasi
posto. Se lei era sola e poteva giocare solo con sé stessa, allora fuori,
oltre la finestra, ci sarebbero stati tanti bambini che giocavano tutti
insieme. Ma se tutto questo era vero, si diceva Beatrice, allora era
anche vero che se lei non sapeva nulla del fuori, fuori, invece, sapevano
tutto del dentro. E come era possibile che altri bambini sapendo della
sua solitudine non la aiutassero, non andassero a farle compagnia? Se
oltre la finestra tutto era diverso e più bello, perché lei non poteva
viverlo?
Era questo il sentimento che la scoraggiava a guardare fuori dalla
finestra. Per questo motivo soffocava la tentazione di alzarsi sulle
punte e di appiccicare il naso al vetro. Perché ogni volta che lo faceva
la gioia istantanea di vedere le fronde degli alberi sgroppava e cedeva
il posto alla tristezza.
Continuare ad immaginare un mondo possibile non sempre le faceva bene. E
la feriva in modo particolare il pensiero che fosse proprio chi al di là
della finestra viveva a volerla rinchiusa e confinata in quella stanza.
Si tesseva dentro Beatrice l’idea che fuori, forse, non era tutto bello
come immaginava, che forse il prato non era poi così verde e bello e che
i bambini si annoiassero a giocare tra di loro, con quei palloni grandi e
pesanti. Forse era fortunata, lei. Forse era meglio stare al di qua della
finestra, dove la realtà non si negava, ma anzi, si palesava nella
propria totalità. Beatrice, in fondo, poteva conoscere tutto, dentro
quella stanza. Non potevano esserci misteri o incertezze, poteva fidarsi
di quelle mura e delle sue tre palline. Mai sarebbe rimasta delusa da
quello spazio e dalle esperienze che lì avrebbe fatto.
Fuori, fuori sì, avrebbe incontrato molte delusioni.
Un mondo che si nasconde deve essere un mondo viscido e subdolo.
E che allora quel mondo continuasse pure a vivere, lei preferiva
rimanerne estranea.
Che i tronchi nascessero pure dal prato, che bambini e bambine giocassero
pure tra di loro, con quei palloni grandi. Beatrice non voleva vedere
tutto questo, adesso. Non voleva incontrare gente egoista. Non pensava
più che fuori fosse tutto più bello. Fuori, molto probabilmente, non
c’era nulla di tutto ciò che lei aveva sempre immaginato.
Le sue tre palline bianche, quelle sì che erano reali e leali, con i loro
rimbalzi gioiosi e logici. Al di là della finestra era impossibile ci
fosse tanta bellezza, quanta quella da lei intuita. Era solo curiosità,
la sua, nulla più. Gelosia per un qualcosa di ignoto. Ma se nulla sapeva,
come poteva desiderare il niente?
Ecco, ecco perché non doveva guardare fuori dalla finestra. Non poteva
accontentarsi di una porzione di mondo per vederlo tutto quanto. Non
poteva continuare a fantasticare e a star male per un qualcosa che non
sapeva neanche cosa fosse.
E Beatrice sperò all’improvviso di non crescere più, sperò che la sua
statura rimanesse per sempre quella e che mai sarebbe riuscita a vedere
l’intero panorama oltre la finestra.
E cominciò a scagliare con forza le tre palline contro le pareti, come
per distruggerle e ad ogni rimbalzo urlò più forte che poteva.
BLANK.
Mi vesto di bianco, sposa sacrificale che non ha altare.
Mi vesto di bianco, mi metto indosso tutta la luce che posso, sperando
che almeno l’apparenza inganni il mio animo. Se distrattamente mi vedo
riflessa allo specchio il mio sguardo respira, come dinnanzi ad un quadro
ben calibrato. Respiriamo profondamente, dunque, io e me stessa, come
fossimo due persone che condividono il medesimo corpo. Un corpo ricoperto
di lana bianca, morbida, calda. Mi ci avvolgo dentro, scaldandomi il
collo e il petto.
All’ottava sigaretta della mattinata decido di uscire. L’aria qui dentro
è già e ancora piena di nicotina ed il fumo grigio che rimane a galla tra
le pareti esercita su di me una sorta di oppressione.
La mansarda in cui vivo è scura, nonostante le due grandi finestre
basculanti. E’ scura e disordinata, con troppe cose appoggiate per terra,
tre paia di scarpe, nove libri accatastati l’uno sopra l’altro accanto
alla poltrona dove adesso son seduta, fogli stampati e messi in ordine
sparso come caselle d’un puzzle che cercano il proprio posto, vecchie
cassette, un paio di mutande pulite, le pantofole di pile che mai uso, il
borsone di pelle, tre penne, una bottiglia di vino vuota, due bicchieri
sporchi, due assorbenti viola ancora chiusi, un paio di maracas.
Allontano le ginocchia dal mento e dal petto e stendo le gambe, facendo
toccare i talloni per terra. La poltrona a dondolo cigola sotto lo
spostamento di peso del mio corpo e mi invita ad alzarmi.
Cammino a piedi nudi sul pavimento freddo, scartando gli oggetti che
ostacolano il mio percorso. Raggiungo il bagno, per guardarmi riflessa
allo specchio, bianca, per guardarmi e respirare.
Adesso esco, mi dico, senza pronunciar parola, guardandomi negli occhi.
Lavati i denti, mi dico, questa volta dando alito alle parole. Scelgo un
tubetto di dentifricio tra i tanti sdraiati sulla mensola, prendo quello
che sembra meno vuoto e lo spremo sulle setole dello spazzolino. Sfrego
sui denti con talmente tanta forza che pian piano le mie gengive si
stanno ritirando.
Mi guardo i capelli arruffati e ci passo una mano in mezzo, come se le
mie dita fossero un pettine. Io non ho neanche un pettine, sempre stata
contraria. I miei capelli sono quel che sono, al massimo li raccolgo
sulla nuca incastrandoci dentro una matita. Mia nonna mi odiava, per
questo. Diceva che dovevo pettinarmi se non volevo sembrare scappata di
casa. Diceva che tutta trasandata il mio viso si imbruttiva. Mia nonna mi
vedesse adesso finalmente morirebbe, ponendo fine alle agonie della
senilità. Se le volessi veramente bene andrei a trovarla in clinica e le
farei venire un infarto. Me ne sarebbe riconoscente. Lei, ora ridotta ad
un vegetale, lei, che quando ancora ragionava voleva corrompere il suo
medico perché le facesse una puntura letale.
Sorrido forzatamente alla mia immagine riflessa, guardandomi i denti.
Puliti. Regolari. Bianchi. Cristo, giornata monocromatica.
Torno nell’altra stanza e dal tavolo prendo le chiavi di casa, le
sigarette, un accendino e cinque euro. Tiro su anche trenta centesimi,
non si sa mai.
Mi infilo senza calze le scarpe che ho comprato l’estate scorsa a
Rotterdam, le più eleganti che ho, tre euro, usate prima di me da chissà
chi, forse una donnina estrosa che per esternare la propria bizzarria
indossava scarpe con un tacco blu scuro di quattro centimetri, con la
punta rossa ed il tallone verde.
Mi ritrovo in strada. Fioca chiara luce trafigge la leggera nebbiolina
che si sta alzando. Ed io, chiaro volume tra chiaro volume in
dissolvenza, giro subito a sinistra, come fosse un automatismo. Se ho
girato a sinistra è perché sto andando al cimitero.
Il percorso è abbastanza esposto al traffico delle macchine che entrano
in città, automobili che quindi non hanno ancora ridimensionato la
propria velocità. Corrono, corrono ed io, nel verso contrario, cammino.
Lentamente. Come se il bianco che indosso mi imprimesse un’aura pacata,
alta sopra i ritmi frenetici della città.
Vado verso il cimitero e penso che allora sarebbe stato meglio starmene
in mansarda. Zitta e buona. A fumare, ad ascoltare la radio, a
dissolvermi. Invece no, dritta verso il nodo di tutti i dolori, dritta
verso la tomba del mio giovane marito, morto ventiseienne. Vedovanza che
cammina. Vuoto improvviso che sopraggiunge. Neanche il tempo di godere
l’uno dell’altra. Neanche il tempo di finire il mobile per la camera da
letto.
Mi presento da lui senza fiori. Senza niente. Gli porto solo i miei
saluti. Ciao caro mio. Come mai te ne sei già andato via? Non so più cosa
fare. Cosa devo fare? Dove devo investire le poche energie che mi
restano?
E’ stata un’idea stupida, venire a trovarti. Scusami. Non ce la faccio.
Riattraverso il viale del camposanto. Incrocio altre vedove. Loro avranno
almeno sessant’anni. Loro avranno imparato la solitudine, la consolazione
del punch caldo o dell’Atto di Dolore. Loro, mi dico, avranno goduto
almeno un po’ il proprio compianto marito. Io no. È questo che mi
corrode.
Fuori dal cimitero ripercorro il tragitto al contrario, senza neanche
pensare di fare una passeggiata, o di andare a prendere un caffè da
qualche parte o di incontrare qualcuno. Ma qualcuno chi, oltretutto? Dopo
che lui è morto i nostri amici hanno pensato di lasciarmi ampio spazio di
solitudine, alcuni forse hanno paura di essere troppo invadenti, non lo
so.
Davanti al portone di casa il mio sguardo si posa sull’etichetta del
citofono, l’etichetta del nostro citofono, con il mio cognome ed il suo.
Un solo attimo che dura il tempo di inserire la chiave e di far scattare
la serratura, un attimo brevissimo e crudele.
La rampa di scale che mi ritrovo davanti sembra enorme, altissima,
infinita. Lotto contro il magone che sta per sorprendermi. Raggiungo la
mansarda senza ormai fiato.
Entro in casa. Respiro profondamente. Chiudo la porta alle mie spalle. Mi
tolgo le scarpe.
Vado subito a guardarmi allo specchio del bagno. Bianca. Bianca. Bianca.
Bianco. Bianco. Bianco. Bianco. Rosso. D’improvviso. Bianco. Bianco.
Rosso. Un ricordo. D’improvviso. Io inginocchiata nella vasca da bagno
che lavo i suoi vestiti. I vestiti nei quali è morto. L’acqua che diventa
rossa, intorno alle mie nude gambe. E’ il suo sangue. E’ morto
sfracellato. I vestiti sono pieni di suo sangue. Lezzo. Lacrime. Nausea.
Rito funebre. Io immersa nella vasca da bagno rossa. Marat. Ofelia. Mi
addormento, marinando in sangue morto e acqua salata. Al risveglio
globuli rossi e bianchi rappresi sulla mia pelle. Per un’ultima volta
ancora insieme.
BLA.
Penso che avrei dovuto dirtelo e penso che avrei dovuto fare di tutto per
trattenerti. Penso che non era troppo tardi, forse era solo giusto in
tempo.
Adesso, invece, sì, è troppo tardi. Sicuramente troppo tardi per me, che
ho perso ogni contatto con la gente che mi scivola intorno ed anche con
me stesso.
Unica possibilità di dialogo è il cartello che appoggio ogni giorno tra i
miei piedi, mentre sto seduto sul marciapiede o sul sagrato d'una chiesa
sconsacrata. «Ho fame» è l'unica cosa che mi preme di dire. E' il grado
zero delle sensazioni che ancora popolano questo mio sporco corpo. E' la
fame che mi fa camminare, rovistare nei cestini affianco ai bar. E tu,
dolcissimo mio amore, sei il sentimento che tiene attiva la mia mente, e
non so quanto questo mi faccia bene. Vorrei non pensarti, non parlarti,
perché non ci sei ed è ingiusto io continui a tenerti in vita.
Accanimento terapeutico. Accanimento amoroso.
Perdo il conto dei mesi, ma è tanto tempo, ormai, che mi sono abbandonato
così mellifluamente alle concatenazioni delle giornate. L'ultima volta
che sono entrato in casa è stato quando tu avevi portato via tutta la tua
roba, i tuoi libri, i tuoi vestiti, la tua musica, il tuo quadro, il tuo
shampoo. Resomi conto del vuoto che invadeva la non più nostra dimora,
sono uscito, chiudendomi la porta alle spalle. Mi son ritrovato in strada
così come ero, cappotto, maglione, camicia, un pacchetto di sigarette in
tasca, il giornale. Non un soldo, non un documento, non un mazzo di
chiavi.
Penso che al lavoro, forse, mi hanno cercato per qualche settimana ma che
poi mi hanno rimpiazzato senza troppi inconvenevoli. Penso che tu e il
mio lavoro eravate le uniche luci che aprivano il varco nel mondo.
Ci si rende conto di essere uno tra i tanti, interscambiabili personaggi
della città. Contribuisco all'equilibrio metropolitano, aiuto le mamme a
spiegare ai figlioletti che mi additano quale è la versione aggiornata
dell'uomo nero, dell'uomo cattivo, del lupo mannaro.
Evita. Non toccare. Non guardare. Se non fai i compiti finisci così.
Puzzerai. Sarai sporco. Sarai solo.
Ci credi se ti dico, dolcissimo mio amore, che son contento di essere
uscito dalle dinamiche sociali del nostro tempo?
Da dove adesso sono, dal basso, dal nulla, si vedono molto evidenti le
contraddizioni del portarsi avanti perché così vogliono le leggi, le
regole. Guadagni, compri, spendi, infarcisci, inganni, menti. Tutti i
giorni.
Il rammarico di questa mia situazione è non poter comunicare i miei
pensieri. Li comunicherei a te, a te soltanto.
Ho le mani nere. Ma visto che non ti accarezzo, non ho motivo di tenerle
pulite. Si riesce a minimizzare anche la pulizia. Non inseguo neanche più
la doccia, almeno una volta al mese. Non m'importa. A chi importa che a
me non importi?
Inseguo, invece, il primo sole mattutino, quando c'è. Ed è una lotta, con
chi occupa una panchina prima di me e non vuole condividerla. Finirò
anch'io così, diventerò possessivo d'un qualcosa che non mi appartiene.
Ma coltiverò la convinzione d'averne diritto. Il sole mattutino è la cosa
migliore di tutta la giornata. Viene superata solo da un avanzo di
panino. E sai, si allena questo senso dell'adattamento, della
sopravvivenza. La prossima volta che vedi un barbone o come vuoi
chiamarlo, pensa che è una persona astuta, che conosce tutte le panchine
che per prime vengono baciate dal sole.
Io solo adesso sto affinando certe capacità. Sto capendo come ripararmi
dal freddo e dalla pioggia. Sto capendo quali posti evitare se non voglio
che qualche vuoto giovane mi dia un calcio in bocca.
Nel tempo che mi sembra d'aver riscoperto, vedo davanti a me tutti i
personaggi marginali che ho incontrato prima di adesso.
Persone che adesso sto imitando.
Ricordi Giorgio? Lo abbiamo conosciuto insieme. Gli abbiamo portato una
coperta e un piatto di pasta caldo. Noi si era seduti tranquillamente di
fronte all'Abbazia della Misericordia, a parlare e ridere e progettare il
futuro. Lui si è avvicinato e ci ha chiesto una sigaretta. Tu gli hai
detto «Se vuoi ho del tabacco.» e da lì nacque tutto.
Ecco, se adesso cerchi di vedermi, pensa che sono come Giorgio. Senza
casa, senza mutande pulite. Pensa anche che in cuor mio spero di trovare
una persona come te, che non mi allontani se mi avvicino, che mi offra
una sigaretta di tabacco e che mi chieda «Come ti chiami?».
Già, come mi chiamo?
Dormo anche io in stazione, ogni tanto. E' un posto sicuro, fino a quando
l'ultimo treno è partito. Poi preferisco spostarmi. Cerco del verde,
anche se l'erba, quando è umida, mi raffredda tutto e comincio a tremare.
Però sai che bello! E che profumi, ogni tanto. Nessun lezzo da cesso
pubblico intasato o da mio simile compagno di vita, che per alcuni è
ugualmente un cesso, un cesso d'uomo. E poi l'erba è morbida.
Non credo di essere in grado di porre fine a questo stato delle cose. Un
inizio, sì, quello c'è stato, ma ora è un eterno presente, compensato da
un procedere a passi retrocedenti. Dove finirò, con questa andatura? Non
me ne frega niente. Io non voglio finire da nessuna parte, non ho mete,
né ambizioni, né intenzioni. Le giornate, per me, non avranno più alcun
senso. Sono sulla retta via. E le strade, anche loro, perderanno le
connotazioni che le distinguono le une dalle altre e io vagherò tra di
esse come se fossi sempre in un posto nuovo, e crederò sempre di essermi
perso, e questo forse mi farà stare meglio. E sempre avrò fame e sempre i
crampi mi ricorderanno che son vivo e che devo fare attenzione solo a non
perdere il cartello.
Probabilmente ti incontrerò, ti vedrò passare davanti a me, ma non ti
riconoscerò, come tu non riconoscerai me. Ed allora saremo due estranei,
entrati nel gioco delle trasparenze e delle dissolvenze metropolitane. E
non mi ricorderò neanche di te, ti avrò posata da qualche parte, in un
posto che non sarò più capace di trovare. Dentro di me.
PAROXETINA.
“You must find yourself through the silence that no one cares”: arriva
tra le mura con cadenza regolare, questa frase. Ed ogni volta c’è una
sospensione sul silence, come ad evidenziare l’evanescenza stessa della
parola. Non so esattamente da dove arrivi, ma qualcuno la pronuncia e non
si ferma. You must find yourself, you must find, you must…
Non mi ipnotizza come potrebbero farlo una preghiera o una formula
magica. La ascolto, ogni volta, ed ogni volta ci penso, mi soffermo sul
senso che ha.
“I don’t care”: è una delle prime espressioni inglesi che ho imparato ad
usare, I don’t care, non m’interessa, a volte non me ne frega un cazzo.
Silenzio, questa volta davvero. Allora guardo oltre la porta, sul
pianerottolo, attraverso lo spioncino. Non vedo nessuno. Tendo l’orecchio
verso la scala B dello stabilimento. Cerco con lo sguardo la persona che
pronunciava la frase, cerco lungo le scale un’immagine che mi sono
disegnata in testa. L’aberrazione ottica complica il riconoscimento delle
forme, questi 16 millimetri di distanza focale accrescono il turbinio che
sta per avvolgermi.
Chiudo per qualche secondo gli occhi. Poi riapro il sinistro e guardo
dallo spioncino. L’alito che esce dalla mia bocca va ad appannare la
piccola lente, che con fatica torna tersa. Inclino la testa verso
sinistra, per evitare continui appannamenti. Impongo alla mia pupilla
movimenti circolari, in modo da esplorare tutta la superficie che lo
spioncino mi propone. Faccio fatica, ma non voglio aprire la porta.
Tra tutto il bianco sporco del pianerottolo c’è una macchia nera e ben
circoscritta, sembra una scatola. Cerco una messa a fuoco decente ed
osservo con attenzione: è un magnetofono, uno di quei vecchi mangianastri
con ancora le bobine. Il nastro è avvolto su un’estremità, non scorre.
Silenzio.
Mi chiedo se quel magnetofono è l’uomo che pronunciava la frase, mi
chiedo se ciò che ascoltavo è un nastro, mi chiedo se tutto questo è
reale, se sto veramente guardando attraverso un occhiello, se veramente
quella cosa è un magnetofono, messo da chi, perché, per chi, per me?
Non so, I don’t care. Allontano il viso dalla porta e subito lo sportello
dello spioncino va a chiudere il buco. Chissà, forse avrei dovuto andare
a vedere, a cercare di toccare quell’oggetto. Forse avrei dovuto
convincermi che un uomo doveva pur esserci e andare a parlarci. Non ho il
coraggio di allontanarmi dalla soglia, come se facendolo potessi perdere
l’equilibrio e cadere. Allargo le braccia per cercare sostegno, inclino
leggermente la testa in avanti e con molta lentezza mi giro verso la
stanza senza finestre.
Il lungo neon appeso al soffitto libera ad intermittenza scariche
luminose. Ha sempre funzionato male, mi ha sempre dato fastidio, ma ormai
l'abitudine ha affievolito il nervoso che mi provoca. Sento le mie
orecchie fisicamente tese verso il pianerottolo, come fossero pronte
d'improvviso a staccarsi e a tuffarsi oltre la porta. E' una propensione
indipendente dal mio volere.
Mi allontano dalla porta, raggiungendo il centro della stanza, grigia,
grigia come lo sono le scuole statali o i vecchi ospedali di periferia.
Guardo l'orologio appeso alla parete che mi è di fronte. Beffardo
strumento, con le lancette bloccate alle sei ed io qui, ad aspettare.
Jimmy quest'oggi mi si nega. Appena arrivata non l'ho vista e non ho
pensato di cercarla. Deve essere brutto anche per lei stare qui, in
questa stanza senza finestre. Jimmy è una mosca, la mia mosca.
Capita che rimanga a guardarla per giornate intere, mentre nervosa ronza
intorno al vecchio neon, battendoci contro, come volesse entrarvi. Capita
anche che mi si posi su un ginocchio e rimanga lì, ad aspettare insieme a
me. Allora io le parlo, le faccio domande, le presto la voce per
rispondermi.
Non mi vergogno di questo. E vi riconosco anche un principio di pazzia.
Ma è una pazzia innocua, tutto sommato.
Da piccola, poi, quando mi chiedevano “E tu, cosa vuoi fare da grande?”
io rispondevo così “O la principessa o la mentecatta.” La principessa
perché immaginavo che avrei potuto sempre vestirmi di bianco. E la
mentecatta perché pensavo che era proprio una bella parola e che mi
sarebbe piaciuto mi avessero chiamata così. All'epoca ignoravo il
significato che racchiude. Adesso che lo so...beh, son passati così tanti
anni.
Mi siedo con la schiena appoggiata alla parete dell'orologio. Mi sento
più sicura quando non ho solo i piedi posati per terra, in questa
posizione il rischio di perdere l'equilibrio è dimezzato. Nessuna caduta.
Silenzio. Guardo la porta davanti a me. Guardo il neon. Cerco Jimmy.
Poi un pensiero mi passa per la testa: e se oggi non dovessero venire?
In tutti questi anni non è mai successo, ogni giorno qualcuno si è
presentato qui, alla stessa ora. E' una delle poche cose sicure della mia
vita. Ma forse...E questa possibilità mi destabilizza, mi si insinua nel
costato e preme. Se nessuno venisse? Io cosa faccio? Un'irrequietezza
tutta nuova si impadronisce dei miei pensieri, l'epicentro della mia
attività cerebrale diventa il dubbio. Spingo la testa contro il muro e
chiudo gli occhi, premendo le palpebre l'una sull'altra. Il buio che vedo
è costellato da puntini rossi, che quasi impercettibilmente si muovono
nello spazio. Riapro gli occhi, rivedo il neon, rivedo il colore grigio,
rivedo i giorni passati e gli incontri avvenuti. Ma no, sicuramente anche
oggi qualcuno verrà.
Devo chiedere a Jimmy cosa ne pensa, lei. Spero mi possa rassicurare.
Allora mi alzo, appoggiando prima le mani per terra e poi issandomi sulle
gambe. Lieve capogiro, cerco sostegno al muro, quasi perdo l'equilibrio.
Chiamo Jimmy ad alta voce, «Jimmy...dove sei?». Non risponde.
Cammino lungo il perimetro della stanza, guardando negli angoli e nelle
fessure delle pareti. A volte Jimmy si ferma lì, a riposare.
Lo sguardo mi cade al centro della stanza. Per terra, proprio sotto al
neon, ecco, c'è Jimmy.
«Jimmy!» dico e mi avvicino, a passi incerti. Mi inginocchio. Porto il
viso a pochi centimetri dalla mosca. E' immobile. Non si muove, non mi
vede, non mi fa le feste. La raccolgo nel palmo della mano. «Jimmy, sei
morta?» .
«Sì.»
«Avevo bisogno di te... volevo chiederti se secondo te oggi verrà
qualcuno...». Guardo attentamente il corpicino nero. Fossi più ingenua
penserei mi stia sorridendo. Che sia una ripicca perché oggi ho tardato a
cercarla? E dunque ha deciso di lasciarmi senza conforto? Dopo tanta
amicizia, come ha potuto farmi questo? Come ha potuto essere così
cattiva? Jimmy non si merita un funerale, no.
Mi alzo in piedi, ruoto il palmo della mano così che la mosca cada sul
pavimento. Guardo quel puntino nero. Lo schiaccio con il piede destro.
Adesso di Jimmy non resta che qualche sbavatura. Sono comunque sicura che
Jimmy veglierà sempre su di me, da lassù, dal paradiso delle mosche. Sono
sicura non proverà rancore, per questo mio ultimo gesto. Probabilmente
continueremo anche a parlare.
«E adesso io cosa faccio? Verrà qualcuno, eh? Questo posto è sicuro ma
decisamente brutto. Perché non ti ho mai fatta uscire, Jimmy?»
«Perché altrimenti non mi avresti più ritrovata» mi risponde. Giusto.
Dopo tanti anni non ho ancora capito perché il punto d'incontro debba
essere questa stanza, di questo stabilimento. Non mi lamento, a me non
cambia molto, nel mio continuo vagare è naturale mi spinga fin qua. Ma
loro non sono poi tanto comodi. L'ospedale è cinque isolati più a sud.
Per questo sono molto gentili. Non vogliono neanche dei soldi. Vogliono
solo aiutarmi, farmi stare meglio. Di tanto in tanto, soprattutto i più
giovani, mi spiegano cosa mi stanno dando, le dosi, gli effetti
collaterali. Si rivolgono a me come fossi un po' stupida, ripetono le
cose anche quattro volte. Ma io so già tutto. Ormai ho dimestichezza con
quella roba. E poi è sempre la stessa.
Una volta, tanti anni fa, ho anche cercato su un libro cosa fosse la
serotonina. Adesso so che io la produco per decarbossilazione del
triptofano.
«Tutta la storia la sai anche tu, vero Jimmy? Te ne ho parlato molte
volte...quando mi chiedevi “Perché sei qui?” io ti dicevo “Aspetto gli
inibitori della ricaptazione della serotonina” e tu iniziavi a ridere, a
ridere...allora dovevo calmarti e spiegarti tutto.»
La mia ormai è dipendenza. Se mi manca la dose mi sento male, vomito, ho
la diarrea, mi gira la testa. Per questo ogni martedì vengo qui, per non
avere le crisi. Adesso sono una donna indipendente, ho la mia casa, le
mie coperte. Mi basta un po' di paroxetina.
Non sono neanche malata. Ho avuto la sfortuna di rimanere dipendente d'un
farmaco, invece che del cioccolato o delle caramelle. Questo almeno è ciò
che penso. Quando ancora il Comune non mi aveva dato una casa, vivevo con
tanta altra gente con problemi simili ai miei. Chi dipendente dall'alcol,
chi dall'eroina, chi dal sesso. Io infondo abuso d'un qualcosa che fa
bene, d'una medicina che serve a guarire. E' come abusare dell'amore o
dell'amicizia, è in buona fede.
Ma le crisi d'amore fanno soffrire di più. Fanno stare peggio. Io ho
perso mia figlia.
«Jimmy, tu non l'hai mai conosciuta, la mia bimba. Era bellissima.
Sembrava strano io fossi riuscita a creare tanta bellezza.» Già, ma non
le funzionava bene il cuoricino.
«Malformazione cardiovascolare, difetti nel setto ventricolare...così mi
ha detto il dottore. Tu avresti riso tanto, Jimmy, le parole un po'
complicate ti hanno sempre fatta ridere. Ma io avrei dovuto spiegarti che
non c'era nulla da ridere e anzi, avrei pianto e tu saresti rimasta
immobile, appoggiata a me.»
«Tu sai che è tutta colpa tua, vero?»
«Ma Jimmy, cosa dici? No, non è colpa mia.»
«Sì, invece, è colpa di quella medicina.»
«Ma no, Jimmy, è impossibile.»
Alcune persone dicono che prendere la paroxetina durante i primi mesi
della gravidanza causa malformazioni congenite nel bambino. Ma sono tutte
stupidaggini. Queste cose le dicono i dottori ben pagati, quelli che se
ne fregano delle persone come me. Per loro io sono solo una
tossicodipendente in più al mondo. Una di quelle persone che deturpano il
decoro della città o del bel quartiere residenziale. Sono perfino
arrivati a dirmi che la paroxetina mi fa male, che non dovrei assumerne
così tanta e che anzi, avrei dovuto seguire una cura di
quest'antidepressivo per un solo ciclo. Per questo motivo uno di loro,
una volta, mi prescrisse un'unica ricetta di un numero di confezioni
sufficienti a coprire una terapia massima di trenta giorni. Ammirabile ma
inutile. La mia vita è più lunga d'un solo mese. Voleva farmi morire,
s'era messo l'anima in pace per un po' e di quello che sarebbe accaduto
dopo se ne fregava.
Così andai al pronto soccorso.
Mi chiesero «Cosa ha ?»
«Sto male.» dissi.
Poi un dottore con i capelli bianchi e la pancia gonfia mi disse che lui
poteva aiutarmi. Gli chiesi cosa volesse in cambio. «Che tu mi faccia
conoscere altre persone come te.» «Va bene.» gli dissi. «Però queste
altre persone devono pagarmi.» «Va bene.» gli dissi.
Così diedi dei contatti fruttuosi al caro dottore. Gli presentai un mio
amico, che a sua volta conosceva altri amici con i soldi, che trafficano
droga e medicinali. Il mio amico Mirko ed il dottore si incontrarono un
paio di volte, non di più. Credo che in quegli incontri abbiano chiarito
su quali sostanze puntare, quali medicinali avrebbero potuto
accontentarci tutti.
Il dottore era evidentemente soddisfatto. Quando lo rividi mi ringraziò
molto e disse che non dovevo più preoccuparmi, che d'ora in poi lui
personalmente si sarebbe preso cura di me.
Mi chiese «Cosa ti serve?»
«Paroxetina, o fluoxetina, o moclobemide...»
«Ho capito.» Aggiunse poi «Devi sceglierne uno...se associ ad esempio la
paroxetina al moclobemide è molto pericoloso, potrebbe essere fatale.»
Optammo allora insieme per la paroxetina, che a me piace molto ed al
dottore non crea troppi problemi.
E così la mia vita fu salva. E' proprio da quel giorno che vengo in
questa stanza ogni martedì. Ed ogni martedì, prima o poi, qualcuno
dell'ospedale, amici del dottore, mi portano ciò di cui ho bisogno. Sono
incontri clandestini, loro rischiano la galera. Chissà perché. E' come se
si decidesse di mettere in gattabuia Madre Teresa. «Pace all'anima sua, è
anche già morta.»
Tutt'intorno è silenzio.
Non ci sono distrazioni, neanche le lancette dell'orologio da osservare.
Le sei, ora e sempre.
«Sabato ho rivisto Mirko, sai Jimmy?» dico. «Era molto contento. Diceva
di avere per le mani un buon affare. Ha parlato di un antidepressivo che
non è in commercio in Italia ma che si può trovare nella Farmacia
Vaticana. Ha detto che la Chiesa anche lei è misericordiosa, che
sicuramente avrebbero accettato di collaborare per dare le medicine a
gente come me. Per fortuna al mondo ci sono anche persone brave.»
Appena finisco di pronunciare la frase, sento bussare alla porta, tre
tocchi, pausa, altri due tocchi. E' qualcuno dall'ospedale, finalmente.
Barcollando, a passo incerto, raggiungo la porta della stanza e la apro.
Dal pianerottolo entra Mirko.
«Mirko...e tu cosa ci fai qui?»
«Sono venuto al posto dei dottori, oggi loro non avevano tempo e poi
devono stare attenti, qualcuno comincia a sospettare qualcosa...»
«Ah.» dico.
Mirko è agitato. Forse perché è la prima volta che viene qui. E' stato
molto coraggioso e gentile.
Gli chiedo «Ma io adesso come faccio? Il dottore ti ha dato la paroxetina
per me?»
«No. Però io ho qualcosa per te. E' una cosa speciale, arriva dal
Vaticano.»
«Hai sentito Jimmy? E' quello che ti dicevo prima...»
«C'è qualcuno con te?»
«No.»
Mirko mi guarda con aria sospetta. Poi mi dà una scatoletta.
Dice «Io adesso devo andare. Ciao.» ed esce dalla stanza.
Fenelzina. C'è scritto così.
«Non prendere quella roba.» mi dice Jimmy.
«Perché no? Vuoi forse che stia male? Vuoi che mi venga una crisi
d'astinenza, Jimmy? Lasciatelo dire, oggi sei cattiva ed ho fatto bene ad
ucciderti.»
Prenderò la fenelzina. Mi verrà un attacco di sindrome serotoninergica,
all'improvviso. Difficoltà nel controllo dei movimenti, agitazione, forte
sudorazione, tremori diffusi, brividi. Una cosa pessima.
Non so come, ma finirò in ospedale, dove resterò per molto tempo.
E in quello stesso ospedale verranno sgominate organizzazioni costituite
da medici di base e farmacisti, le quali avevano truffato la Sanità. I
Nas del Comando dei Carabinieri per la Sanità accuseranno associazione
per delinquere finalizzata al traffico illecito di farmaci, commercio e
somministrazione di medicinali pericolosi per la salute pubblica,
esercizio abusivo della professione medica e di quella di farmacista.
Trenta arresti. Settantadue indagati.
Io ho rischiato molto, perché ho aggiunto alla paroxetina un farmaco
antidepressivo non compatibile, un IMAO, così mi hanno detto.
Jimmy ha riso tutto il tempo, dalla sindrome serotoninergica in
poi...tutte quelle parole complicate. Ma appena ha avuto fiato per
parlare mi ha detto «Io te l'avevo detto.»
Ed a quel punto ho riso io.
GLI ASPARAGI.
Una bella casa, nel centro cittadino, che dà sulla via pedonale di
ciottolato. Un lungo balcone ne taglia in due la facciata, come fosse un
sorriso bloccato nella sua lineare rigidità. Slanciate finestre che mai
vengono aperte sorvegliano il via e vai giù in strada di gente per bene,
ben vestita, che mai urla, che mai
corre.
La signora Linda raramente posa lo sguardo sulla vita che c'è
oltre i vetri sporchi delle sue finestre.
La signora Linda ha stampato sul viso lo stesso sorriso rigido che
ha la sua casa.
Viene quasi da pensare che il balcone e le labbra di Linda seguano lo
stesso movimento statico di espressività e viene anche da pensare che non
sia stato sempre così, che una volta il balcone fosse concavo e che le
labbra di Linda creassero un sorriso grintoso, sinuoso.
L'appartamento ha soffitti molto alti ed accoglie quattro stanze da
letto, un salotto, una cucina, due bagni, uno studio. La signora Linda è
sdraiata sul letto della camera matrimoniale, mentre la televisione del
salotto è accesa su un canale locale, mentre la radio è sintonizzata su
un concerto domenicale del Quirinale, mentre la lavatrice del bagno
centrifuga un bucato inesistente, mentre il forno della cucina riscalda a
sessanta gradi una teglia vuota.
La signora Linda ha svuotato la scatola dei medicinali sul grande letto
ed adesso è sdraiata in mezzo a due termometri, a scatole di
antinfiammatori, a pomate per lividi, a supposte per il malditesta, a
blister di Davedax.
Tiene gli occhi chiusi, le mani congiunte come stesse pregando.
In casa, gli applausi che arrivano dal Quirinale coprono per lunghi
secondi tutti gli altri rumori e la signora Linda si alza dal letto. Si
alza e trascinando i piedi ad ogni passo raggiunge la cucina.
Con la sciarpa marrone che è appoggiata allo schienale di una sedia
pulisce il grande tavolo di noce. Lo spolvera, buttando in terra briciole
di pane, una forchetta, un tovagliolo, un mazzo di chiavi.
Poi prende dalla mensola una scatola di asparagi bianchi e la appoggia
sul grande tavolo. Apre un cassetto di fianco al lavandino e prende un
apriscatole. Molto concentrata sulle proprie azioni, apre il cilindro di
latta, facendo attenzione che il
liquido degli asparagi non vada a macchiare il legno pregiato. Ripone
l'apriscatole nel cassetto. Sul lavandino, scola gli asparagi e li mette
su un piatto piano pulito.
Con la latta in mano torna verso la camera da letto matrimoniale.
Cerca tra tutti i farmaci sparsi sul letto la confezione di Davedax. La
trova, la annusa, poggia la latta degli asparagi affianco alle supposte,
e ingurgita una compressa dell'antidepressivo.
Torna dunque in cucina. Con movimenti precisi ma nel contempo stanchi,
apre la lavastoviglie e carica l'apposito sportellino di brillantante
liquido. Prende il cestino di plastica azzurra destinato a contenere le
posate durante i lavaggi e vi infila, uno ad uno, gli asparagi, che
rimangono ritti nel cestino. Poi mette gli asparagi in lavastoviglie, ne
chiude l'anta e fa partire un ciclo di lavaggio.
Oggi viene a pranzo Enrico. Lui ama gli asparagi. Lei se lo ricorda
perfettamente. Fin da quando era bambino li ha sempre mangiati di gusto.
Linda è una madre amorevole e premurosa.
Peccato che questi asparagi non siano freschi, allora sì che sarebbe
stato un pranzo perfetto.
Enrico ha telefonato a Linda ieri sera.
«Allora mamma io vengo a pranzo domani, ti ricordi?»
«Sì, certo.» aveva risposto Linda.
Enrico da un po' di tempo va sempre a trovare sua madre, di domenica. Si
sente addosso la responsabilità di essere l'unica persona rimasta a
Linda, dopo le morti del padre e dei due fratelli. Enrico è molto
preoccupato per sua madre. Negli ultimi mesi, dopo che Maurice è morto,
lei è peggiorata. Enrico pensa che
da sola non può più stare. Pensa anche che gli ultimi psicofarmaci che
sta prendendo non le facciano per nulla bene. Pensa che sua madre
dovrebbe andare da un altro psichiatra. Pensa che dovrebbe prendersi un
mese di concedo dal lavoro per starle vicino. Pensa che se la situazione
non migliorerà a breve, chiederà davvero congedo.
La signora Linda, dopo aver fatto andare la lavastoviglie, va in bagno,
in quello senza lavatrice. Con la testa nel lavandino, si lava i capelli.
Li avvolge in un asciugamano blu, li asciuga con il phon, li raccoglie in
una treccia. Torna nella camera da letto matrimoniale. Si sdraia in mezzo
ai farmaci sparsi sul letto.
Chiude gli occhi, congiunge le mani come pregasse.
Enrico sta raggiungendo la casa di sua madre, in macchina. Fuma una
sigaretta e tiene il finestrino abbassato. Sospira più di una volta,
sentendosi rassegnato dinnanzi alle sfortune che continuano ad
inseguirlo.
Si ricorda di quando Linda aveva cominciato a prendere i fiori di Bach,
tanti anni fa. Poi, di pari passo con il ritrovarsi sempre più sola al
mondo, aveva cominciato a bere, a non mangiare più, a rimanere chiusa in
casa, a non andare più al lavoro, a piangere per ogni cosa, a volersi
suicidare, a saltare gli incontri con la
psicologa, a confondere i visi e i nomi, a tremare, a perdere il senso
dell'orientamento.
Fermo al semaforo rosso, Enrico fa pensieri assurdi. Immagina la madre
rinchiusa in un centro di cura, dove i pazzi sono trattati da poveri
pazzi, posti dove segretamente i medici sperimentano nuovi voltaggi
dell'elettro shock. Un Cottolengo versione nuovo millennio.
«Non lo permetterò.» dice ad alta voce.
Arriva sotto casa. Guarda la facciata, il lungo balcone che una volta era
pieno di piante e fiori, guarda le alte finestre. Entra nel cortile, sale
le rampe di scale, infila la chiave nella serratura della porta e poco
prima di varcare la soglia suona il
campanello.
Va subito in salotto, dove c'è la televisione accesa ma sua madre non è
lì. Spegne la tv, chiama «Mamma...».
Linda appare dalla stanza matrimoniale, gli dice:
«Tesoro, sono qui.»
Enrico si volta. Linda è completamente nuda, con il sorriso stampato sul
viso, con i capelli accuratamente raccolti in una treccia. Sembra molto
felice ed emozionata.
«Ti piaccio?» gli chiede.
«Mamma...ma...»
Enrico non aggiunge altro. Va in bagno, prende un accappatoio e torna a
coprire Linda.
«Mamma, ma come stai?» le chiede.
«Benissimo, tesoro mio. Oggi è una splendida giornata. Sono così contenta
che sei venuto a pranzo. Mi sono anche fatta la treccia, hai visto? E ti
ho cucinato gli asparagi.»
Il silenzio è attutito dalla radio in sottofondo, dalla centrifuga che
sta terminando i propri turbinii, dal rumore lontano della lavastoviglie
e dalla ventola del forno.
Enrico sente questi disturbi nell'aria, mentre Linda lo guarda dritto
negli occhi ed aspetta lui faccia qualcosa.
«Mamma, perché non vai a vestirti, adesso, così dopo mangiamo gli
asparagi?»
«Va bene.» risponde Linda. Ma rimane ferma.
«Potresti metterti il maglione rosa.» dice incerto Enrico.
«Va bene.». Ma rimane ferma.
Allora Enrico prende la madre per mano e la accompagna nella camera da
letto matrimoniale. Vede tutte le scatole dei farmaci sul letto, aggrotta
le sopracciglia come non capisse. Linda, in silenzio, si sta vestendo e
Enrico ripone le confezioni in una scatola abbandonata ai piedi del
letto. Trova la latta, non riesce a frenare un «E questa?» ma
l'esclamazione muore nell'aria. Il blister del Davedax è quasi vuoto.
Sono rimaste solo due compresse. Non dovrebbero essercene di più?
Madre e figlio raggiungono la cucina. Enrico raccoglie da terra la
forchetta, il tovagliolo ed il mazzo di chiavi. Poi si avvicina alla
porta finestra del balcone, guarda fuori. Linda gli chiede:
«E tu, tesoro, come stai? Come va al lavoro?»
«Io sto bene. Il lavoro è sempre stimolante.»
Linda aggiunge: «E' arrivata una lettera dal Comune. Non l'ho ancora
letta. Vuoi aprirla tu?»
Linda prende da sotto un vaso poggiato sulla credenza la lettera e la
allunga al figlio. Enrico apre la busta. Arriva dal cimitero.
Legge. E' un sollecito. Al più presto devono venir potati i rami delle
rose della tomba di famiglia, perché stanno invadendo le tombe vicine.
«Cosa dice?» chiede Linda.
«Nulla, nulla.» mente Enrico e infila la lettera nella tasca dei
pantaloni.
Linda, da uno dei cassetti vicini al lavandino, tira fuori la tovaglia.
La stende sul tavolo di noce. Poi apre il forno ed a mani nude estrae la
teglia. Si scotta. Lascia cadere la teglia.
«Non è niente, non è niente.» dice quasi urlando.
Enrico le si avvicina e le guarda le mani. Effettivamente non si è
scottata molto, pare.
«Devi usare le presine, mamma!»
Le mette le mani sotto l'acqua fredda.
«Brucia tanto?»
«No, ho le mani di amianto, come i grandi chef!» ironizza Linda.
Entrambi ridono, ma Enrico con più preoccupazione e sconforto. Dopo
qualche istante Enrico realizza che la teglia è vuota e pulita. Non ci
sono gli asparagi, o delle patate, o una trota, o una torta.
«Cosa hai cucinato?»
«Gli asparagi.»
«Qui non ci sono, mamma.» e raccoglie, usando una presina, la teglia.
«Oh! Che strano.» esclama Linda e continua, come se nulla fosse successo,
ad apparecchiare la tavola.
Prende due piatti, due bicchieri, due forchette, due coltelli. Appoggia
tutto sulla tovaglia.
«Mi dispiace Maurice non sia riuscito a venire.» dice tristemente Linda.
Enrico sbianca, rimane immobile, non dice nulla.
La lavastoviglie si intromette nel silenzio, con l'allarme che segnala la
fine del lavaggio.
«Forza Enrico, aiutami a finire d'apparecchiare, che adesso mangiamo. Ti
ho preparato gli asparagi, sai?».
IL MATTARELLO.
Non trovo più un senso, a quello che sto vivendo. Ed il punto è proprio
questo, io sto vivendo, io continuo a vivere. Lei non più. Non può
chiamarsi vita, quella cosa.
Non mi riconosce da ormai troppo tempo. Ho perso l'istinto di protezione
nei suoi confronti. Sono vecchio anche io. E col tempo si cambia. Siamo
cambiati insieme fino a due anni fa. Poi lei si è trasformata,
abbandonando il viaggio che stavamo facendo insieme, ha abdicato il suo
posto accanto a me.
Mi prendo cura di lei. La lavo. La imbocco. Le accarezzo i capelli. La
metto seduta. Le faccio ascoltare la musica. Le leggo i libri. Le
racconto di come stanno tutti quanti. Le parlo dei ricordi. Lei non mi
ascolta. Ogni tanto mi guarda con la rabbia negli occhi, cosa che non ha
mai fatto. Eppure adesso sì, c'è astio in quegli occhi scoloriti. Chissà
cosa vede al posto del mio viso.
In principio ho cercato di tenerla legata alla realtà, le facevo domande
che sapevo le avrebbero stimolato la parte più intima. La inducevo a
pensare alle cose che ha sempre amato. Toccavo le corde delicate dei
sentimenti e dell'anima. Poi, pian piano, ho solo cercato di mantenerla
attiva, di non farle perdere consapevolezza del proprio corpo. Ma come le
parole “giardino autunnale” le scivolano addosso, così l'urina scivola
via dal suo corpo senza che se ne renda conto.
Giardino autunnale. I colori che amava tanto. I colori con cui ha voluto
riempire casa nostra, dopo il sessantacinquesimo compleanno. Lo diceva
sempre, caro, se arriveremo fino ai sessantacinque anni, allora
coloreremo casa nostra di marrone e oro e rosso e bordeaux...e quel
giorno faremo una festa, offriremo dell'ottimo vino ai nostri figli e ai
nostri amici...e inaugureremo una nuova bellissima stagione.
Così abbiamo fatto.
Ci sono giorni in cui non capisco da dove prenda le energie. Trascorre
settimane intere rimanendo immobile e molle e poi capita invece che le
sue braccia diventino forti e cattive ed allora appena mi avvicino mi
tira delle gomitate, mi graffia il volto. Sempre con quello sguardo
cattivo, che mi fa male più dei graffi. Ho avuto uno zigomo blu per più
di tre settimane. La pelle degli ottantenni è fragile e quasi incapace di
riassorbire gli ematomi. Mi stanco facilmente, quando lei è cattiva. La
tensione mi consuma tutte le energie. La evito, le sto lontano. Mai avrei
pensato che avrei avuto timore di lei. La vita gioca brutti scherzi.
Sento che qualcosa è irrimediabilmente cambiato. Sento che a questo punto
della mia vita non vorrei più lottare, ma rimanere in silenzio e lasciare
che le cose capitino. Sento che vorrei recuperare l'affetto e l'amore che
provavo per Teresa, ma mi sembra impossibile.
Forse dovrei accettare l'aiuto da qualcun altro, che si prenda cura di
lei, che la lavi, che la imbocchi, che mi permetta di dimenticarla almeno
in parte. Per assurdo vorrei stare male io, non avere coscienza di cosa
questo tempo sia. Vorrei non provare dolore e tristezza e rabbia e
solitudine.
Dormiamo su letti diversi, in camere separate. Mi vergogno quando chiudo
a chiave la porta della mia stanza.
Questa notte lei ha fatto dei versi strani. Come dei lunghi e sussurrati
lamenti. Nel cuore della notte, a lacerare un tranquillo silenzio. Mi si
è gelato il sangue nelle vene. Son rimasto ad ascoltarla, trattenendo il
respiro. Poi non ce l'ho più fatta. Era straziante e inquietante e non la
smetteva ed io ho pianto, accanto alla porta della mia stanza, senza
sapere cosa fare, totalmente confuso e impaurito e stufo... quelle vocali
strascicate, in cerca di virtuosismi spettrali, che mi tenevano chiuso
nel mio rifugio, che mi facevano venire i brividi... e pensavo, forse sto
sognando e forte di questo pensiero ho fatto girare la chiave nella
serratura ed ho aperto la porta e mi sono ritrovato nel corridoio. Ho
acceso qualche luce. Ho raggiunto la stanza di Teresa ed ho guardato
dentro. Doveva essere un sogno, non poteva avere altra natura
quell'immagine, non poteva essere reale ciò che stavo spiando e
sentendo... mi sentivo quasi bambino, stupito e turbato e eccitato e devo
essermi chiesto cosa faccio e non riuscivo a staccarle gli occhi di
dosso, non riuscivo a muovermi, proprio come in tanti sogni, in cui vuoi
urlare ma la voce proprio non ti esce, in cui vorresti correre ma le
gambe sono cementate al suolo... e su quel letto, il nostro letto, quel
suo corpo così lontano dalla normalità, irrequieto e davvero lontano...
ed io mi sono voltato e sono andato in cucina ed ho preso il mattarello
appeso sopra il lavandino e tenendolo stretto tra le mani son tornato da
Teresa, come trasportato da un vento forte. Non so dove ho trovato il
coraggio di andarle vicino. E lei, scomposta e allucinata, mi ha guardato
negli occhi e per una frazione di secondo si è zittita, si è fermata, ma
poi ha ricominciato a dimenarsi e negli occhi le è cresciuta quella
cattiveria che non so spiegarmi ed io ho avuto paura e rabbia ed ho
sentito sulle mie labbra qualcosa di simile all'odio, fremente... ed ho
colpito Teresa con tutta la forza che le mie braccia avevano, battevo il
mattarello sulla sua testa e sentivo solo dei suoni secchi e precisi,
come pezzi di roccia che si staccano dalla parete, toc, toc, toc.
DALLA PRETURA.
È stato semplice. La donna e la figlia erano nella sala da pranzo, sedute
intorno al tavolo che sbocconcellavano qualcosa. Luca era con me in
cucina, mi aiutava a preparare la roba, cioè ha tirato fuori dalla borsa
nera il nastro, un laccio, i sacchetti. Poi sono andato in sala e ho
chiesto a Laura se poteva venire un attimo di là. Lei mi ha seguito
subito, mentre la figlia è rimasta seduta e mi pare di ricordare si sia
accesa la televisione.
In cucina ho chiesto sorridendo:
«Laura, non è che addosso hai dei microfoni?»
Lei mi ha guardato senza capire. «Certo che no.» ha detto, un po’
smarrita, un po’ imbarazzata.
Allora io le ho detto:
«Per essere sicuri è meglio se ti svesti.» e secondo me lei ha pensato
che fosse una sorta di giochetto erotico.
Ha sorriso maliziosamente, la stupida. E se devo essere sincero in quel
momento mi è venuta una certa voglia, ma ho lasciato perdere. L’ho fatta
sdraiare a pancia in giù sul tavolo. Ho detto a Luca di passarmi il
nastro e le ho legato i polsi dietro la schiena. Si è agitata un po’ e
così le ho tappato la bocca con dell’altro nastro.
«Ma queste qui non hanno un soldo bucato, Simone … » ha detto Luca. Lui
era all’oscuro dei miei piani, avrà pensato volevo derubare le due. Non
gli ho risposto e lui è rimasto zitto, da bravo inferiore. È un ragazzo
volenteroso, Luca, ma ha ancora tanto da imparare.
Simone non mi ha risposto. Ho pensato che dovevo stare zitto e fare
quello che mi diceva. Dovevo dimostrargli di essere all’altezza dei suoi
lavori, dovevo dimostrargli che di me si poteva fidare. Così sono stato
zitto. Ma non capivo cosa voleva fare. Pensavo che eravamo andati lì
perché lui voleva scopare con quelle due. Le avevo viste il giorno prima
a casa di Simone e mi era sembrato che erano in intimità. A me non mi
piacciono queste cose. Io ho una fidanzata e gli sono fedele.
Poi Simone mi ha detto di passargli il laccio. Era un laccio di quelli
che si usano per fare le punture, quelli che ti annodi intorno al
braccio.
Glielo ho passato e da un momento all’altro lui è cambiato, aveva gli
occhi che gli uscivano dalla faccia e li aveva rossi e spalancati. Sta
cosa mi ha gelato il sangue nelle vene. Poi l’ho visto legare il laccio
intorno al collo della donna.
Ho messo il laccio emostatico intorno al collo di Laura. Lei si agitava
molto, anche se cercavo di tenerla ferma. Allora ho tolto il nastro, ho
chiesto a Luca di passarmi un sacchetto ma lui se ne stava immobile, con
la faccia pallida, e ho capito che non stava bene. Allora ho preso io il
sacchetto e gli ho detto «Siediti e stai tranquillo.». Lui si è seduto e
così ho potuto continuare. Ho messo il sacchetto intorno alla testa di
Laura e l’ho bloccato con il laccio. Poi mi son seduto sulla sua schiena,
per non farla agitare.
Ci è voluto un po’ di tempo prima che fosse morta. Ha sussultato fino
all’ultimo. Poi mi son girato verso Luca e gli ho chiesto «Come va?». Lui
è rimasto zitto. Gli ho detto «Adesso sposta questo corpo di là, nel
corridoio.». Lui non parlava e così ho alzato un po’ la voce, perché
almeno un po’ doveva lavorare, non potevo fare tutto io, l’avevo portato
con me proprio per questo.
Ho spostato il corpo della donna, tirandola per le braccia. L’ho posato
in corridoio e sono tornato in cucina.
Con la figlia è stato più facile. Non l’ho fatta spogliare né niente.
Forse era spaventata, non so, però non ha mai opposto resistenza.
Sembrava già mezza morta, forse aveva visto o sentito qualcosa.
Poi ho fatto lo stesso: nastro, sacchetto, laccio. Non mi sono seduto
sopra di lei perché stava ferma da sola. Mentre aspettavo che morisse
sono tornato in sala e ho preso dal tavolo un pezzo di pane e l’ho
mangiato. Poi mi sono versato un bicchiere di coca cola. In cucina ho
chiesto a Luca se voleva bere. Ha fatto di no con la testa.
Poi ha detto che adesso dovevamo impacchettare i corpi. Ha detto che
dovevo farlo io, così imparavo almeno qualcosa, perché allora tanto
valeva se non ero andato. Mi ha spiegato come dovevo fare. Simone
sembrava più normale, adesso. Aveva gli occhi di sempre e questa cosa mi
ha tranquillizzato e allora ho fatto come voleva.
Sembrava quasi che Luca avesse paura di me. Era davvero scombussolato.
Non me lo aspettavo da lui. Pensavo che sarebbe stato bravo, che avrebbe
voluto fare tutto lui. Invece no, anzi, era una preoccupazione in più.
Dovevo ammazzare quelle due ma anche fare attenzione che lui non facesse
stronzate. Per fortuna la paura lo ha immobilizzato. È un bravo ragazzo,
ha resistito. Magari la prossima volta andrà meglio.
Beh, insomma, dopo un po’ di tempo Laura e la figlia sono state
impacchettate, che vuol semplicemente dire che le abbiamo messe dentro ai
sacchi neri dell’immondizia e che abbiamo chiuso tutti i buchi. Le
abbiamo caricate in macchina, lasciando la casa così come era. Quella
cascina è di un mio amico ma non ci va mai. Praticamente la uso solo io.
In macchina mi ha detto che adesso andavamo a seppellirle e mi ha detto
fin dove guidare.
Siamo arrivati in questo posto e Simone mi ha detto che le buche le
dovevo fare io perché lui era stanco.
Mi ha dato una pala e ha detto che potevo iniziare. Ha solo fatto dei
segni per terra per farmi capire dove scavare e poi si è seduto in
macchina e m i ha detto «Quando hai finito chiamami, che ci mettiamo i
corpi dentro insieme. Io adesso dormo un po’.».
E quindi niente, ho dormito un po’, ma non mi sono riposato come avrei
voluto. Avevo paura Luca facesse qualche stronzata, non potevo fidarmi
ciecamente di lui. E poi il sedile di una macchina non è esattamente
comodo per dormire qualche ora. Però ero davvero stanco e così penso di
aver comunque dormito.
AUTORITRATTO NEL MOMENTO.
Partiamo da una domanda classica. Perché scrive?
Scrivo perché è un agire che si adagia molto bene sul mio corpo. Negli
ultimi anni della mia vita ho coltivato la possibilità di esprimermi,
diciamo che ho cercato le opportunità in cui fosse consentito,
giustificato e addirittura necessario buttare qualcosa al di fuori di sé
stessi. Questa libertà, per il percorso che ho fatto, l’ho trovata solo
nelle arti. E tuttora non sono in grado di separare nettamente il mondo
dell’arte in settori stagni, indipendenti gli uni dagli altri, per cui mi
sembra di attingere sempre un po’ da ovunque, il teatro, l’arte
performativa, il lavoro di artisti visivi contemporanei, la letteratura …
non so. Scrivo perché è un momento di sintesi qualitativamente alto.
Cosa la spaventa dello scrivere?
La mia poca dimestichezza con il mezzo. Credo di avere poca coscienza,
poca consapevolezza, poca disciplina critica nei confronti della
scrittura. Mi sento impreparata. E questa insufficienza ogni tanto la
vivo come una mancanza di rispetto.
Pensa di essere una scrittrice?
Penso che molte volte queste etichette sterilizzino la terra che si
coltiva. Comunque no, non penso d’essere una scrittrice.
È protettiva nei confronti di ciò che scrive?
Beh, ne sono gelosa. Ogni tanto ho pulsioni generative del feticcio, dei
miei fogli, dei miei quaderni. So, però, che questa gelosia non deve
soffocare il tutto. So soprattutto che arriva un momento in cui bisogna
abbandonare i propri lavori, siano essi un racconto o un’installazione …
bisogna lasciar loro prendere il largo e tollerare che lo sguardo altrui
vi si posi sopra. È un momento inevitabile e accrescitivo. Bisogna
riconoscere l’autonomia che un lavoro rivendica.
Come si definisce?
Come una persona che cerca di vivere artisticamente la propria esistenza.
Cosa vuol dire?
Inseguo l’educazione sentimentale nei confronti della realtà. E la
realtà, ne sono sicura, non ha definizione.
Io so che questa è la sua seconda autointervista. Le piace così tanto?
Mi piace, sì. Devo comunque dire che sono due autointerviste molto
differenti, sia per il supporto mediatico che usano, sia per i contenuti.
Questa è molto più personale, va a toccare me … l’altra mirava a
sviscerare un’azione che avevo fatto e dietro c’era un discorso
intellettualmente ed emotivamente più forte. Quello è stato un buon
momento di riflessione dell’arte sull’arte, una sorta di metateatralità
trasposta sull’arte contemporanea. Mentre questa, senza offesa, se
continua così potrebbe essere una di quelle interviste che si leggono
sulle riviste di moda …
Scusi, faccio quel che posso. E comunque lei non è obbligata a …
Lo so. Ma sento nascermi dentro una spinta narcisistica che appaga,
seppur brevemente, la mia foga egocentrica.
Deve però ammettere che tutto questo ha un senso. Lei ha investito le
parole che stiamo usando d’una finalità altra, giusto?
Sì. Quello che stiamo dicendo, scrivendo, andrà a chiudere una raccolta
di racconti brevi che ho da poco scritto. Una carrellata di istantanee
che propongono situazioni e persone in bilico, incastrate nelle fessure e
nelle crepe del piano sul quale tutti noi poggiamo. Come dire, mi ci
metto dentro anch’io. Secondo lei va bene?
Le domande le faccio io. Crede che vada bene? Crede sia una buona scelta?
Forse sì, forse no. Sicuramente se adesso quest’autointervista prendesse
i toni d’una schizofrenia esasperata, sarebbe coerente con la poetica
della raccolta. Mi prenderei la libertà, però, se lei è d’accordo, di non
snaturare troppo questo momento. Insomma, quando un artificio è ostentato
è difficile conservarne la purezza.
Giusto. Dunque, l’ultimo libro che ha letto?
“Memorie di un artista della delusione” di Lethem.
L’ultima cosa che ha mangiato?
Un pezzo di pera. Senta, però, si concentri un attimo e faccia delle
domande un po’ più interessanti, per favore.
Le spiace se mentre penso alla prossima domanda fumo una sigaretta?
No, si figuri, prego. Me ne fumo una anche io.
Si sente libera? Intendo in questo momento.
Sì. E forse è un problema. Molte volte, per me, la libertà è
imbarazzante, nel senso che sono imbarazzata nello scegliere una cosa
piuttosto di un’altra … parrà strano, ma per me la libertà è soffocante,
mi disarma. Forse è solo una questione di controllo, di maturità.
Comunque sì, adesso mi sento libera. Credo si possa anche intuire da ciò
che sto dicendo, scrivendo. Forse dovrei mettere qualche paletto, cercare
delle ostruzioni. Ma mi sento talmente libera che non ci riesco. Ecco la
differenza tra l’amatoriale e il professionale. Forse.
Paura dei giudizi?
Sempre. O quasi sempre. Adesso sì, temo.
Cosa teme di preciso?
Di sembrare una deficiente, proprio una stupida, un’inetta. E poi con il
fatto che sono in prima fila, molto esposta … ho pochi scudi, in questo
momento. E se arrivano delle frecciate mi beccano in pieno petto.
Ma adesso siamo solo io e lei …
Già, appunto, le sue frecciate sono quelle che temo di più e che credo
potrebbero farmi più male.
Senta, ha voluto la bicicletta …
… e adesso pedalo. Sta di fatto che prima o poi ci sarà anche qualcun
altro, qui.
Tornando alla raccolta di racconti, vuole aggiungere qualcosa?
No. Assolutamente no. Ho forse detto fin troppo.
Va bene. Allora io finirei qui. Non credo di essere all’altezza per poter
continuare.
Va bene. Sono d’accordo.