periferie - Centro di Documentazione Pier Vittorio Tondelli
Transcript
periferie - Centro di Documentazione Pier Vittorio Tondelli
MARTA RIVETTI PERIFERIE RACCOLTA DI RACCONTI BREVI … Et pour l’être pensant venu se pencher froidement sur toutes ces données et évidences il serait vraiment difficile au bout de son analyse de ne pas estimer à tort qu’au lieu d’employer le terme vaincus qui a en effet un petit côté pathétique désagréable on ferait mieux de parler d’aveugles tout court. Le dépeupleur, Samuel Beckett PERIFERIE. INDICE : Beatrice. Blank. Bla. Paroxetina. Gli asparagi. Il mattarello. Dalla Pretura. Autoritratto nel momento. BEATRICE. Era una stanza stretta e alta, dalle pareti bianche e spoglie. Una sola finestra padroneggiava il muro di fondo, il muro che dava sul cortile alberato. La luce vi entrava morbida per buona parte della giornata. In questa stanza stretta e alta Beatrice vi stava tutto il giorno, sola, giocando con le sue tre palline bianche. Quelle di Beatrice erano palline grandi quanto quelle usate nel baseball ma non avevano alcuna cucitura evidente. Beatrice è sempre stata in quella stanza. La sua memoria le negava di ricordare un prima, le negava di sapere se qualcuno l’aveva messa lì o se lì ci era nata. Ogni tanto confuse immagini le si presentavano davanti agli occhi, come momentanei quadri di altri posti, di luoghi lontani da quella stanza. Ma non riusciva a spiegarsi cosa esattamente fossero, le cose che vedeva, e non riusciva neanche a dar loro un senso. La realtà che conosceva era fatta solo di quattro mura bianche, di tre palline bianche, di una finestra e di sé stessa. Le tre palline erano per Beatrice l’unica possibilità di gioco e di sperimentazione. Con esse la bambina trascorreva intere giornate, facendole rimbalzare sulle pareti, divertendosi a prenderle al volo una dopo l’altra per poi rilanciarle immediatamente. Oppure giocava facendole rotolare per terra, impartendo loro traiettorie sempre diverse, seguendole a gattoni. Beatrice aveva imparato ad apprezzare il silenzio ed a romperlo quando voleva sentire qualcosa. Allora cantava delle melodie che lei stessa non sapeva da dove arrivassero, oppure improvvisava ritmiche urla a seconda dei rimbalzi delle palline. Solo raramente parlava ad alta voce, come spesso i bambini fanno, inventando interlocutori simpatici o situazioni di dialogo tra conoscenti. Capitava anche che Beatrice guardasse fuori dalla finestra. Per farlo doveva alzarsi sulle punte dei piedi ed allungare il mento come volesse proiettarlo oltre il vetro. Dalla sua prospettiva Beatrice riusciva a scorgere solo le punte degli alberi, quelle fronde che lei vedeva mutare di colore a seconda delle stagioni, che vedeva muoversi a seconda dei venti. Beatrice poteva solo intuire ciò che accadeva più in basso, dove immaginava ci fosse un prato da cui nascevano i tronchi grandi e scuri degli alberi, dove bambini e bambine giocavano con palloni grandi quanto quelli da calcio. Quando vedeva con l’immaginazione queste immagini, Beatrice rimaneva poi con gli occhi fissi ad una parete bianca, con le tre palline posate al suo fianco, immobili. Non sapeva esattamente quale fosse il sentimento che provava, ma non le piaceva. Era triste, si sentiva schiacciata dall’alto soffitto, le venivano in mente le musiche che quando era ancora più piccola aveva sentito e che non le erano mai andate via dalla mente. Musiche struggenti, anche arrabbiate, forse rassegnate. Seguendo le note nella sua mente, Beatrice volava sopra gli alberi e da lì poteva vedere il mondo sottostante. Vedeva il prato che mai riusciva a scorgere oltre la finestra e mentre volava si chiedeva cosa fosse tutto quello che vedeva e le piaceva e rideva e forse ricordava qualcosa, ma subito svaniva tutto e la musica, anche lei, finiva. Allora Beatrice si ritrovava improvvisamente seduta dinnanzi alla parete bianca, sola, con le tre palline poggiate sul pavimento. Nel silenzio sentiva una vocina dentro si sé parlarle del prato oltre la finestra e del profumo dell’aria e delle possibilità di gioco delle tre palline in uno spazio più grande. Era curiosità, la sua, e voglia di sapere nuove cose e di vedere posti che forse una volta aveva pur visto. Non si sentiva confinante con la sola stanza, in quei momenti. Sentiva che voleva andare oltre, più in là, anche solo per poco, solo un minuto più in là. Se dove lei stava era tutto bianco, allora fuori, oltre la finestra, tutto sarebbe stato colorato, verde, blu, rosso. Se il soffitto che i suoi occhi vedevano nascondeva il cielo, allora fuori, oltre la finestra, ci sarebbe stato un cielo immenso, che si poteva scorgere da qualsiasi posto. Se lei era sola e poteva giocare solo con sé stessa, allora fuori, oltre la finestra, ci sarebbero stati tanti bambini che giocavano tutti insieme. Ma se tutto questo era vero, si diceva Beatrice, allora era anche vero che se lei non sapeva nulla del fuori, fuori, invece, sapevano tutto del dentro. E come era possibile che altri bambini sapendo della sua solitudine non la aiutassero, non andassero a farle compagnia? Se oltre la finestra tutto era diverso e più bello, perché lei non poteva viverlo? Era questo il sentimento che la scoraggiava a guardare fuori dalla finestra. Per questo motivo soffocava la tentazione di alzarsi sulle punte e di appiccicare il naso al vetro. Perché ogni volta che lo faceva la gioia istantanea di vedere le fronde degli alberi sgroppava e cedeva il posto alla tristezza. Continuare ad immaginare un mondo possibile non sempre le faceva bene. E la feriva in modo particolare il pensiero che fosse proprio chi al di là della finestra viveva a volerla rinchiusa e confinata in quella stanza. Si tesseva dentro Beatrice l’idea che fuori, forse, non era tutto bello come immaginava, che forse il prato non era poi così verde e bello e che i bambini si annoiassero a giocare tra di loro, con quei palloni grandi e pesanti. Forse era fortunata, lei. Forse era meglio stare al di qua della finestra, dove la realtà non si negava, ma anzi, si palesava nella propria totalità. Beatrice, in fondo, poteva conoscere tutto, dentro quella stanza. Non potevano esserci misteri o incertezze, poteva fidarsi di quelle mura e delle sue tre palline. Mai sarebbe rimasta delusa da quello spazio e dalle esperienze che lì avrebbe fatto. Fuori, fuori sì, avrebbe incontrato molte delusioni. Un mondo che si nasconde deve essere un mondo viscido e subdolo. E che allora quel mondo continuasse pure a vivere, lei preferiva rimanerne estranea. Che i tronchi nascessero pure dal prato, che bambini e bambine giocassero pure tra di loro, con quei palloni grandi. Beatrice non voleva vedere tutto questo, adesso. Non voleva incontrare gente egoista. Non pensava più che fuori fosse tutto più bello. Fuori, molto probabilmente, non c’era nulla di tutto ciò che lei aveva sempre immaginato. Le sue tre palline bianche, quelle sì che erano reali e leali, con i loro rimbalzi gioiosi e logici. Al di là della finestra era impossibile ci fosse tanta bellezza, quanta quella da lei intuita. Era solo curiosità, la sua, nulla più. Gelosia per un qualcosa di ignoto. Ma se nulla sapeva, come poteva desiderare il niente? Ecco, ecco perché non doveva guardare fuori dalla finestra. Non poteva accontentarsi di una porzione di mondo per vederlo tutto quanto. Non poteva continuare a fantasticare e a star male per un qualcosa che non sapeva neanche cosa fosse. E Beatrice sperò all’improvviso di non crescere più, sperò che la sua statura rimanesse per sempre quella e che mai sarebbe riuscita a vedere l’intero panorama oltre la finestra. E cominciò a scagliare con forza le tre palline contro le pareti, come per distruggerle e ad ogni rimbalzo urlò più forte che poteva. BLANK. Mi vesto di bianco, sposa sacrificale che non ha altare. Mi vesto di bianco, mi metto indosso tutta la luce che posso, sperando che almeno l’apparenza inganni il mio animo. Se distrattamente mi vedo riflessa allo specchio il mio sguardo respira, come dinnanzi ad un quadro ben calibrato. Respiriamo profondamente, dunque, io e me stessa, come fossimo due persone che condividono il medesimo corpo. Un corpo ricoperto di lana bianca, morbida, calda. Mi ci avvolgo dentro, scaldandomi il collo e il petto. All’ottava sigaretta della mattinata decido di uscire. L’aria qui dentro è già e ancora piena di nicotina ed il fumo grigio che rimane a galla tra le pareti esercita su di me una sorta di oppressione. La mansarda in cui vivo è scura, nonostante le due grandi finestre basculanti. E’ scura e disordinata, con troppe cose appoggiate per terra, tre paia di scarpe, nove libri accatastati l’uno sopra l’altro accanto alla poltrona dove adesso son seduta, fogli stampati e messi in ordine sparso come caselle d’un puzzle che cercano il proprio posto, vecchie cassette, un paio di mutande pulite, le pantofole di pile che mai uso, il borsone di pelle, tre penne, una bottiglia di vino vuota, due bicchieri sporchi, due assorbenti viola ancora chiusi, un paio di maracas. Allontano le ginocchia dal mento e dal petto e stendo le gambe, facendo toccare i talloni per terra. La poltrona a dondolo cigola sotto lo spostamento di peso del mio corpo e mi invita ad alzarmi. Cammino a piedi nudi sul pavimento freddo, scartando gli oggetti che ostacolano il mio percorso. Raggiungo il bagno, per guardarmi riflessa allo specchio, bianca, per guardarmi e respirare. Adesso esco, mi dico, senza pronunciar parola, guardandomi negli occhi. Lavati i denti, mi dico, questa volta dando alito alle parole. Scelgo un tubetto di dentifricio tra i tanti sdraiati sulla mensola, prendo quello che sembra meno vuoto e lo spremo sulle setole dello spazzolino. Sfrego sui denti con talmente tanta forza che pian piano le mie gengive si stanno ritirando. Mi guardo i capelli arruffati e ci passo una mano in mezzo, come se le mie dita fossero un pettine. Io non ho neanche un pettine, sempre stata contraria. I miei capelli sono quel che sono, al massimo li raccolgo sulla nuca incastrandoci dentro una matita. Mia nonna mi odiava, per questo. Diceva che dovevo pettinarmi se non volevo sembrare scappata di casa. Diceva che tutta trasandata il mio viso si imbruttiva. Mia nonna mi vedesse adesso finalmente morirebbe, ponendo fine alle agonie della senilità. Se le volessi veramente bene andrei a trovarla in clinica e le farei venire un infarto. Me ne sarebbe riconoscente. Lei, ora ridotta ad un vegetale, lei, che quando ancora ragionava voleva corrompere il suo medico perché le facesse una puntura letale. Sorrido forzatamente alla mia immagine riflessa, guardandomi i denti. Puliti. Regolari. Bianchi. Cristo, giornata monocromatica. Torno nell’altra stanza e dal tavolo prendo le chiavi di casa, le sigarette, un accendino e cinque euro. Tiro su anche trenta centesimi, non si sa mai. Mi infilo senza calze le scarpe che ho comprato l’estate scorsa a Rotterdam, le più eleganti che ho, tre euro, usate prima di me da chissà chi, forse una donnina estrosa che per esternare la propria bizzarria indossava scarpe con un tacco blu scuro di quattro centimetri, con la punta rossa ed il tallone verde. Mi ritrovo in strada. Fioca chiara luce trafigge la leggera nebbiolina che si sta alzando. Ed io, chiaro volume tra chiaro volume in dissolvenza, giro subito a sinistra, come fosse un automatismo. Se ho girato a sinistra è perché sto andando al cimitero. Il percorso è abbastanza esposto al traffico delle macchine che entrano in città, automobili che quindi non hanno ancora ridimensionato la propria velocità. Corrono, corrono ed io, nel verso contrario, cammino. Lentamente. Come se il bianco che indosso mi imprimesse un’aura pacata, alta sopra i ritmi frenetici della città. Vado verso il cimitero e penso che allora sarebbe stato meglio starmene in mansarda. Zitta e buona. A fumare, ad ascoltare la radio, a dissolvermi. Invece no, dritta verso il nodo di tutti i dolori, dritta verso la tomba del mio giovane marito, morto ventiseienne. Vedovanza che cammina. Vuoto improvviso che sopraggiunge. Neanche il tempo di godere l’uno dell’altra. Neanche il tempo di finire il mobile per la camera da letto. Mi presento da lui senza fiori. Senza niente. Gli porto solo i miei saluti. Ciao caro mio. Come mai te ne sei già andato via? Non so più cosa fare. Cosa devo fare? Dove devo investire le poche energie che mi restano? E’ stata un’idea stupida, venire a trovarti. Scusami. Non ce la faccio. Riattraverso il viale del camposanto. Incrocio altre vedove. Loro avranno almeno sessant’anni. Loro avranno imparato la solitudine, la consolazione del punch caldo o dell’Atto di Dolore. Loro, mi dico, avranno goduto almeno un po’ il proprio compianto marito. Io no. È questo che mi corrode. Fuori dal cimitero ripercorro il tragitto al contrario, senza neanche pensare di fare una passeggiata, o di andare a prendere un caffè da qualche parte o di incontrare qualcuno. Ma qualcuno chi, oltretutto? Dopo che lui è morto i nostri amici hanno pensato di lasciarmi ampio spazio di solitudine, alcuni forse hanno paura di essere troppo invadenti, non lo so. Davanti al portone di casa il mio sguardo si posa sull’etichetta del citofono, l’etichetta del nostro citofono, con il mio cognome ed il suo. Un solo attimo che dura il tempo di inserire la chiave e di far scattare la serratura, un attimo brevissimo e crudele. La rampa di scale che mi ritrovo davanti sembra enorme, altissima, infinita. Lotto contro il magone che sta per sorprendermi. Raggiungo la mansarda senza ormai fiato. Entro in casa. Respiro profondamente. Chiudo la porta alle mie spalle. Mi tolgo le scarpe. Vado subito a guardarmi allo specchio del bagno. Bianca. Bianca. Bianca. Bianco. Bianco. Bianco. Bianco. Rosso. D’improvviso. Bianco. Bianco. Rosso. Un ricordo. D’improvviso. Io inginocchiata nella vasca da bagno che lavo i suoi vestiti. I vestiti nei quali è morto. L’acqua che diventa rossa, intorno alle mie nude gambe. E’ il suo sangue. E’ morto sfracellato. I vestiti sono pieni di suo sangue. Lezzo. Lacrime. Nausea. Rito funebre. Io immersa nella vasca da bagno rossa. Marat. Ofelia. Mi addormento, marinando in sangue morto e acqua salata. Al risveglio globuli rossi e bianchi rappresi sulla mia pelle. Per un’ultima volta ancora insieme. BLA. Penso che avrei dovuto dirtelo e penso che avrei dovuto fare di tutto per trattenerti. Penso che non era troppo tardi, forse era solo giusto in tempo. Adesso, invece, sì, è troppo tardi. Sicuramente troppo tardi per me, che ho perso ogni contatto con la gente che mi scivola intorno ed anche con me stesso. Unica possibilità di dialogo è il cartello che appoggio ogni giorno tra i miei piedi, mentre sto seduto sul marciapiede o sul sagrato d'una chiesa sconsacrata. «Ho fame» è l'unica cosa che mi preme di dire. E' il grado zero delle sensazioni che ancora popolano questo mio sporco corpo. E' la fame che mi fa camminare, rovistare nei cestini affianco ai bar. E tu, dolcissimo mio amore, sei il sentimento che tiene attiva la mia mente, e non so quanto questo mi faccia bene. Vorrei non pensarti, non parlarti, perché non ci sei ed è ingiusto io continui a tenerti in vita. Accanimento terapeutico. Accanimento amoroso. Perdo il conto dei mesi, ma è tanto tempo, ormai, che mi sono abbandonato così mellifluamente alle concatenazioni delle giornate. L'ultima volta che sono entrato in casa è stato quando tu avevi portato via tutta la tua roba, i tuoi libri, i tuoi vestiti, la tua musica, il tuo quadro, il tuo shampoo. Resomi conto del vuoto che invadeva la non più nostra dimora, sono uscito, chiudendomi la porta alle spalle. Mi son ritrovato in strada così come ero, cappotto, maglione, camicia, un pacchetto di sigarette in tasca, il giornale. Non un soldo, non un documento, non un mazzo di chiavi. Penso che al lavoro, forse, mi hanno cercato per qualche settimana ma che poi mi hanno rimpiazzato senza troppi inconvenevoli. Penso che tu e il mio lavoro eravate le uniche luci che aprivano il varco nel mondo. Ci si rende conto di essere uno tra i tanti, interscambiabili personaggi della città. Contribuisco all'equilibrio metropolitano, aiuto le mamme a spiegare ai figlioletti che mi additano quale è la versione aggiornata dell'uomo nero, dell'uomo cattivo, del lupo mannaro. Evita. Non toccare. Non guardare. Se non fai i compiti finisci così. Puzzerai. Sarai sporco. Sarai solo. Ci credi se ti dico, dolcissimo mio amore, che son contento di essere uscito dalle dinamiche sociali del nostro tempo? Da dove adesso sono, dal basso, dal nulla, si vedono molto evidenti le contraddizioni del portarsi avanti perché così vogliono le leggi, le regole. Guadagni, compri, spendi, infarcisci, inganni, menti. Tutti i giorni. Il rammarico di questa mia situazione è non poter comunicare i miei pensieri. Li comunicherei a te, a te soltanto. Ho le mani nere. Ma visto che non ti accarezzo, non ho motivo di tenerle pulite. Si riesce a minimizzare anche la pulizia. Non inseguo neanche più la doccia, almeno una volta al mese. Non m'importa. A chi importa che a me non importi? Inseguo, invece, il primo sole mattutino, quando c'è. Ed è una lotta, con chi occupa una panchina prima di me e non vuole condividerla. Finirò anch'io così, diventerò possessivo d'un qualcosa che non mi appartiene. Ma coltiverò la convinzione d'averne diritto. Il sole mattutino è la cosa migliore di tutta la giornata. Viene superata solo da un avanzo di panino. E sai, si allena questo senso dell'adattamento, della sopravvivenza. La prossima volta che vedi un barbone o come vuoi chiamarlo, pensa che è una persona astuta, che conosce tutte le panchine che per prime vengono baciate dal sole. Io solo adesso sto affinando certe capacità. Sto capendo come ripararmi dal freddo e dalla pioggia. Sto capendo quali posti evitare se non voglio che qualche vuoto giovane mi dia un calcio in bocca. Nel tempo che mi sembra d'aver riscoperto, vedo davanti a me tutti i personaggi marginali che ho incontrato prima di adesso. Persone che adesso sto imitando. Ricordi Giorgio? Lo abbiamo conosciuto insieme. Gli abbiamo portato una coperta e un piatto di pasta caldo. Noi si era seduti tranquillamente di fronte all'Abbazia della Misericordia, a parlare e ridere e progettare il futuro. Lui si è avvicinato e ci ha chiesto una sigaretta. Tu gli hai detto «Se vuoi ho del tabacco.» e da lì nacque tutto. Ecco, se adesso cerchi di vedermi, pensa che sono come Giorgio. Senza casa, senza mutande pulite. Pensa anche che in cuor mio spero di trovare una persona come te, che non mi allontani se mi avvicino, che mi offra una sigaretta di tabacco e che mi chieda «Come ti chiami?». Già, come mi chiamo? Dormo anche io in stazione, ogni tanto. E' un posto sicuro, fino a quando l'ultimo treno è partito. Poi preferisco spostarmi. Cerco del verde, anche se l'erba, quando è umida, mi raffredda tutto e comincio a tremare. Però sai che bello! E che profumi, ogni tanto. Nessun lezzo da cesso pubblico intasato o da mio simile compagno di vita, che per alcuni è ugualmente un cesso, un cesso d'uomo. E poi l'erba è morbida. Non credo di essere in grado di porre fine a questo stato delle cose. Un inizio, sì, quello c'è stato, ma ora è un eterno presente, compensato da un procedere a passi retrocedenti. Dove finirò, con questa andatura? Non me ne frega niente. Io non voglio finire da nessuna parte, non ho mete, né ambizioni, né intenzioni. Le giornate, per me, non avranno più alcun senso. Sono sulla retta via. E le strade, anche loro, perderanno le connotazioni che le distinguono le une dalle altre e io vagherò tra di esse come se fossi sempre in un posto nuovo, e crederò sempre di essermi perso, e questo forse mi farà stare meglio. E sempre avrò fame e sempre i crampi mi ricorderanno che son vivo e che devo fare attenzione solo a non perdere il cartello. Probabilmente ti incontrerò, ti vedrò passare davanti a me, ma non ti riconoscerò, come tu non riconoscerai me. Ed allora saremo due estranei, entrati nel gioco delle trasparenze e delle dissolvenze metropolitane. E non mi ricorderò neanche di te, ti avrò posata da qualche parte, in un posto che non sarò più capace di trovare. Dentro di me. PAROXETINA. “You must find yourself through the silence that no one cares”: arriva tra le mura con cadenza regolare, questa frase. Ed ogni volta c’è una sospensione sul silence, come ad evidenziare l’evanescenza stessa della parola. Non so esattamente da dove arrivi, ma qualcuno la pronuncia e non si ferma. You must find yourself, you must find, you must… Non mi ipnotizza come potrebbero farlo una preghiera o una formula magica. La ascolto, ogni volta, ed ogni volta ci penso, mi soffermo sul senso che ha. “I don’t care”: è una delle prime espressioni inglesi che ho imparato ad usare, I don’t care, non m’interessa, a volte non me ne frega un cazzo. Silenzio, questa volta davvero. Allora guardo oltre la porta, sul pianerottolo, attraverso lo spioncino. Non vedo nessuno. Tendo l’orecchio verso la scala B dello stabilimento. Cerco con lo sguardo la persona che pronunciava la frase, cerco lungo le scale un’immagine che mi sono disegnata in testa. L’aberrazione ottica complica il riconoscimento delle forme, questi 16 millimetri di distanza focale accrescono il turbinio che sta per avvolgermi. Chiudo per qualche secondo gli occhi. Poi riapro il sinistro e guardo dallo spioncino. L’alito che esce dalla mia bocca va ad appannare la piccola lente, che con fatica torna tersa. Inclino la testa verso sinistra, per evitare continui appannamenti. Impongo alla mia pupilla movimenti circolari, in modo da esplorare tutta la superficie che lo spioncino mi propone. Faccio fatica, ma non voglio aprire la porta. Tra tutto il bianco sporco del pianerottolo c’è una macchia nera e ben circoscritta, sembra una scatola. Cerco una messa a fuoco decente ed osservo con attenzione: è un magnetofono, uno di quei vecchi mangianastri con ancora le bobine. Il nastro è avvolto su un’estremità, non scorre. Silenzio. Mi chiedo se quel magnetofono è l’uomo che pronunciava la frase, mi chiedo se ciò che ascoltavo è un nastro, mi chiedo se tutto questo è reale, se sto veramente guardando attraverso un occhiello, se veramente quella cosa è un magnetofono, messo da chi, perché, per chi, per me? Non so, I don’t care. Allontano il viso dalla porta e subito lo sportello dello spioncino va a chiudere il buco. Chissà, forse avrei dovuto andare a vedere, a cercare di toccare quell’oggetto. Forse avrei dovuto convincermi che un uomo doveva pur esserci e andare a parlarci. Non ho il coraggio di allontanarmi dalla soglia, come se facendolo potessi perdere l’equilibrio e cadere. Allargo le braccia per cercare sostegno, inclino leggermente la testa in avanti e con molta lentezza mi giro verso la stanza senza finestre. Il lungo neon appeso al soffitto libera ad intermittenza scariche luminose. Ha sempre funzionato male, mi ha sempre dato fastidio, ma ormai l'abitudine ha affievolito il nervoso che mi provoca. Sento le mie orecchie fisicamente tese verso il pianerottolo, come fossero pronte d'improvviso a staccarsi e a tuffarsi oltre la porta. E' una propensione indipendente dal mio volere. Mi allontano dalla porta, raggiungendo il centro della stanza, grigia, grigia come lo sono le scuole statali o i vecchi ospedali di periferia. Guardo l'orologio appeso alla parete che mi è di fronte. Beffardo strumento, con le lancette bloccate alle sei ed io qui, ad aspettare. Jimmy quest'oggi mi si nega. Appena arrivata non l'ho vista e non ho pensato di cercarla. Deve essere brutto anche per lei stare qui, in questa stanza senza finestre. Jimmy è una mosca, la mia mosca. Capita che rimanga a guardarla per giornate intere, mentre nervosa ronza intorno al vecchio neon, battendoci contro, come volesse entrarvi. Capita anche che mi si posi su un ginocchio e rimanga lì, ad aspettare insieme a me. Allora io le parlo, le faccio domande, le presto la voce per rispondermi. Non mi vergogno di questo. E vi riconosco anche un principio di pazzia. Ma è una pazzia innocua, tutto sommato. Da piccola, poi, quando mi chiedevano “E tu, cosa vuoi fare da grande?” io rispondevo così “O la principessa o la mentecatta.” La principessa perché immaginavo che avrei potuto sempre vestirmi di bianco. E la mentecatta perché pensavo che era proprio una bella parola e che mi sarebbe piaciuto mi avessero chiamata così. All'epoca ignoravo il significato che racchiude. Adesso che lo so...beh, son passati così tanti anni. Mi siedo con la schiena appoggiata alla parete dell'orologio. Mi sento più sicura quando non ho solo i piedi posati per terra, in questa posizione il rischio di perdere l'equilibrio è dimezzato. Nessuna caduta. Silenzio. Guardo la porta davanti a me. Guardo il neon. Cerco Jimmy. Poi un pensiero mi passa per la testa: e se oggi non dovessero venire? In tutti questi anni non è mai successo, ogni giorno qualcuno si è presentato qui, alla stessa ora. E' una delle poche cose sicure della mia vita. Ma forse...E questa possibilità mi destabilizza, mi si insinua nel costato e preme. Se nessuno venisse? Io cosa faccio? Un'irrequietezza tutta nuova si impadronisce dei miei pensieri, l'epicentro della mia attività cerebrale diventa il dubbio. Spingo la testa contro il muro e chiudo gli occhi, premendo le palpebre l'una sull'altra. Il buio che vedo è costellato da puntini rossi, che quasi impercettibilmente si muovono nello spazio. Riapro gli occhi, rivedo il neon, rivedo il colore grigio, rivedo i giorni passati e gli incontri avvenuti. Ma no, sicuramente anche oggi qualcuno verrà. Devo chiedere a Jimmy cosa ne pensa, lei. Spero mi possa rassicurare. Allora mi alzo, appoggiando prima le mani per terra e poi issandomi sulle gambe. Lieve capogiro, cerco sostegno al muro, quasi perdo l'equilibrio. Chiamo Jimmy ad alta voce, «Jimmy...dove sei?». Non risponde. Cammino lungo il perimetro della stanza, guardando negli angoli e nelle fessure delle pareti. A volte Jimmy si ferma lì, a riposare. Lo sguardo mi cade al centro della stanza. Per terra, proprio sotto al neon, ecco, c'è Jimmy. «Jimmy!» dico e mi avvicino, a passi incerti. Mi inginocchio. Porto il viso a pochi centimetri dalla mosca. E' immobile. Non si muove, non mi vede, non mi fa le feste. La raccolgo nel palmo della mano. «Jimmy, sei morta?» . «Sì.» «Avevo bisogno di te... volevo chiederti se secondo te oggi verrà qualcuno...». Guardo attentamente il corpicino nero. Fossi più ingenua penserei mi stia sorridendo. Che sia una ripicca perché oggi ho tardato a cercarla? E dunque ha deciso di lasciarmi senza conforto? Dopo tanta amicizia, come ha potuto farmi questo? Come ha potuto essere così cattiva? Jimmy non si merita un funerale, no. Mi alzo in piedi, ruoto il palmo della mano così che la mosca cada sul pavimento. Guardo quel puntino nero. Lo schiaccio con il piede destro. Adesso di Jimmy non resta che qualche sbavatura. Sono comunque sicura che Jimmy veglierà sempre su di me, da lassù, dal paradiso delle mosche. Sono sicura non proverà rancore, per questo mio ultimo gesto. Probabilmente continueremo anche a parlare. «E adesso io cosa faccio? Verrà qualcuno, eh? Questo posto è sicuro ma decisamente brutto. Perché non ti ho mai fatta uscire, Jimmy?» «Perché altrimenti non mi avresti più ritrovata» mi risponde. Giusto. Dopo tanti anni non ho ancora capito perché il punto d'incontro debba essere questa stanza, di questo stabilimento. Non mi lamento, a me non cambia molto, nel mio continuo vagare è naturale mi spinga fin qua. Ma loro non sono poi tanto comodi. L'ospedale è cinque isolati più a sud. Per questo sono molto gentili. Non vogliono neanche dei soldi. Vogliono solo aiutarmi, farmi stare meglio. Di tanto in tanto, soprattutto i più giovani, mi spiegano cosa mi stanno dando, le dosi, gli effetti collaterali. Si rivolgono a me come fossi un po' stupida, ripetono le cose anche quattro volte. Ma io so già tutto. Ormai ho dimestichezza con quella roba. E poi è sempre la stessa. Una volta, tanti anni fa, ho anche cercato su un libro cosa fosse la serotonina. Adesso so che io la produco per decarbossilazione del triptofano. «Tutta la storia la sai anche tu, vero Jimmy? Te ne ho parlato molte volte...quando mi chiedevi “Perché sei qui?” io ti dicevo “Aspetto gli inibitori della ricaptazione della serotonina” e tu iniziavi a ridere, a ridere...allora dovevo calmarti e spiegarti tutto.» La mia ormai è dipendenza. Se mi manca la dose mi sento male, vomito, ho la diarrea, mi gira la testa. Per questo ogni martedì vengo qui, per non avere le crisi. Adesso sono una donna indipendente, ho la mia casa, le mie coperte. Mi basta un po' di paroxetina. Non sono neanche malata. Ho avuto la sfortuna di rimanere dipendente d'un farmaco, invece che del cioccolato o delle caramelle. Questo almeno è ciò che penso. Quando ancora il Comune non mi aveva dato una casa, vivevo con tanta altra gente con problemi simili ai miei. Chi dipendente dall'alcol, chi dall'eroina, chi dal sesso. Io infondo abuso d'un qualcosa che fa bene, d'una medicina che serve a guarire. E' come abusare dell'amore o dell'amicizia, è in buona fede. Ma le crisi d'amore fanno soffrire di più. Fanno stare peggio. Io ho perso mia figlia. «Jimmy, tu non l'hai mai conosciuta, la mia bimba. Era bellissima. Sembrava strano io fossi riuscita a creare tanta bellezza.» Già, ma non le funzionava bene il cuoricino. «Malformazione cardiovascolare, difetti nel setto ventricolare...così mi ha detto il dottore. Tu avresti riso tanto, Jimmy, le parole un po' complicate ti hanno sempre fatta ridere. Ma io avrei dovuto spiegarti che non c'era nulla da ridere e anzi, avrei pianto e tu saresti rimasta immobile, appoggiata a me.» «Tu sai che è tutta colpa tua, vero?» «Ma Jimmy, cosa dici? No, non è colpa mia.» «Sì, invece, è colpa di quella medicina.» «Ma no, Jimmy, è impossibile.» Alcune persone dicono che prendere la paroxetina durante i primi mesi della gravidanza causa malformazioni congenite nel bambino. Ma sono tutte stupidaggini. Queste cose le dicono i dottori ben pagati, quelli che se ne fregano delle persone come me. Per loro io sono solo una tossicodipendente in più al mondo. Una di quelle persone che deturpano il decoro della città o del bel quartiere residenziale. Sono perfino arrivati a dirmi che la paroxetina mi fa male, che non dovrei assumerne così tanta e che anzi, avrei dovuto seguire una cura di quest'antidepressivo per un solo ciclo. Per questo motivo uno di loro, una volta, mi prescrisse un'unica ricetta di un numero di confezioni sufficienti a coprire una terapia massima di trenta giorni. Ammirabile ma inutile. La mia vita è più lunga d'un solo mese. Voleva farmi morire, s'era messo l'anima in pace per un po' e di quello che sarebbe accaduto dopo se ne fregava. Così andai al pronto soccorso. Mi chiesero «Cosa ha ?» «Sto male.» dissi. Poi un dottore con i capelli bianchi e la pancia gonfia mi disse che lui poteva aiutarmi. Gli chiesi cosa volesse in cambio. «Che tu mi faccia conoscere altre persone come te.» «Va bene.» gli dissi. «Però queste altre persone devono pagarmi.» «Va bene.» gli dissi. Così diedi dei contatti fruttuosi al caro dottore. Gli presentai un mio amico, che a sua volta conosceva altri amici con i soldi, che trafficano droga e medicinali. Il mio amico Mirko ed il dottore si incontrarono un paio di volte, non di più. Credo che in quegli incontri abbiano chiarito su quali sostanze puntare, quali medicinali avrebbero potuto accontentarci tutti. Il dottore era evidentemente soddisfatto. Quando lo rividi mi ringraziò molto e disse che non dovevo più preoccuparmi, che d'ora in poi lui personalmente si sarebbe preso cura di me. Mi chiese «Cosa ti serve?» «Paroxetina, o fluoxetina, o moclobemide...» «Ho capito.» Aggiunse poi «Devi sceglierne uno...se associ ad esempio la paroxetina al moclobemide è molto pericoloso, potrebbe essere fatale.» Optammo allora insieme per la paroxetina, che a me piace molto ed al dottore non crea troppi problemi. E così la mia vita fu salva. E' proprio da quel giorno che vengo in questa stanza ogni martedì. Ed ogni martedì, prima o poi, qualcuno dell'ospedale, amici del dottore, mi portano ciò di cui ho bisogno. Sono incontri clandestini, loro rischiano la galera. Chissà perché. E' come se si decidesse di mettere in gattabuia Madre Teresa. «Pace all'anima sua, è anche già morta.» Tutt'intorno è silenzio. Non ci sono distrazioni, neanche le lancette dell'orologio da osservare. Le sei, ora e sempre. «Sabato ho rivisto Mirko, sai Jimmy?» dico. «Era molto contento. Diceva di avere per le mani un buon affare. Ha parlato di un antidepressivo che non è in commercio in Italia ma che si può trovare nella Farmacia Vaticana. Ha detto che la Chiesa anche lei è misericordiosa, che sicuramente avrebbero accettato di collaborare per dare le medicine a gente come me. Per fortuna al mondo ci sono anche persone brave.» Appena finisco di pronunciare la frase, sento bussare alla porta, tre tocchi, pausa, altri due tocchi. E' qualcuno dall'ospedale, finalmente. Barcollando, a passo incerto, raggiungo la porta della stanza e la apro. Dal pianerottolo entra Mirko. «Mirko...e tu cosa ci fai qui?» «Sono venuto al posto dei dottori, oggi loro non avevano tempo e poi devono stare attenti, qualcuno comincia a sospettare qualcosa...» «Ah.» dico. Mirko è agitato. Forse perché è la prima volta che viene qui. E' stato molto coraggioso e gentile. Gli chiedo «Ma io adesso come faccio? Il dottore ti ha dato la paroxetina per me?» «No. Però io ho qualcosa per te. E' una cosa speciale, arriva dal Vaticano.» «Hai sentito Jimmy? E' quello che ti dicevo prima...» «C'è qualcuno con te?» «No.» Mirko mi guarda con aria sospetta. Poi mi dà una scatoletta. Dice «Io adesso devo andare. Ciao.» ed esce dalla stanza. Fenelzina. C'è scritto così. «Non prendere quella roba.» mi dice Jimmy. «Perché no? Vuoi forse che stia male? Vuoi che mi venga una crisi d'astinenza, Jimmy? Lasciatelo dire, oggi sei cattiva ed ho fatto bene ad ucciderti.» Prenderò la fenelzina. Mi verrà un attacco di sindrome serotoninergica, all'improvviso. Difficoltà nel controllo dei movimenti, agitazione, forte sudorazione, tremori diffusi, brividi. Una cosa pessima. Non so come, ma finirò in ospedale, dove resterò per molto tempo. E in quello stesso ospedale verranno sgominate organizzazioni costituite da medici di base e farmacisti, le quali avevano truffato la Sanità. I Nas del Comando dei Carabinieri per la Sanità accuseranno associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di farmaci, commercio e somministrazione di medicinali pericolosi per la salute pubblica, esercizio abusivo della professione medica e di quella di farmacista. Trenta arresti. Settantadue indagati. Io ho rischiato molto, perché ho aggiunto alla paroxetina un farmaco antidepressivo non compatibile, un IMAO, così mi hanno detto. Jimmy ha riso tutto il tempo, dalla sindrome serotoninergica in poi...tutte quelle parole complicate. Ma appena ha avuto fiato per parlare mi ha detto «Io te l'avevo detto.» Ed a quel punto ho riso io. GLI ASPARAGI. Una bella casa, nel centro cittadino, che dà sulla via pedonale di ciottolato. Un lungo balcone ne taglia in due la facciata, come fosse un sorriso bloccato nella sua lineare rigidità. Slanciate finestre che mai vengono aperte sorvegliano il via e vai giù in strada di gente per bene, ben vestita, che mai urla, che mai corre. La signora Linda raramente posa lo sguardo sulla vita che c'è oltre i vetri sporchi delle sue finestre. La signora Linda ha stampato sul viso lo stesso sorriso rigido che ha la sua casa. Viene quasi da pensare che il balcone e le labbra di Linda seguano lo stesso movimento statico di espressività e viene anche da pensare che non sia stato sempre così, che una volta il balcone fosse concavo e che le labbra di Linda creassero un sorriso grintoso, sinuoso. L'appartamento ha soffitti molto alti ed accoglie quattro stanze da letto, un salotto, una cucina, due bagni, uno studio. La signora Linda è sdraiata sul letto della camera matrimoniale, mentre la televisione del salotto è accesa su un canale locale, mentre la radio è sintonizzata su un concerto domenicale del Quirinale, mentre la lavatrice del bagno centrifuga un bucato inesistente, mentre il forno della cucina riscalda a sessanta gradi una teglia vuota. La signora Linda ha svuotato la scatola dei medicinali sul grande letto ed adesso è sdraiata in mezzo a due termometri, a scatole di antinfiammatori, a pomate per lividi, a supposte per il malditesta, a blister di Davedax. Tiene gli occhi chiusi, le mani congiunte come stesse pregando. In casa, gli applausi che arrivano dal Quirinale coprono per lunghi secondi tutti gli altri rumori e la signora Linda si alza dal letto. Si alza e trascinando i piedi ad ogni passo raggiunge la cucina. Con la sciarpa marrone che è appoggiata allo schienale di una sedia pulisce il grande tavolo di noce. Lo spolvera, buttando in terra briciole di pane, una forchetta, un tovagliolo, un mazzo di chiavi. Poi prende dalla mensola una scatola di asparagi bianchi e la appoggia sul grande tavolo. Apre un cassetto di fianco al lavandino e prende un apriscatole. Molto concentrata sulle proprie azioni, apre il cilindro di latta, facendo attenzione che il liquido degli asparagi non vada a macchiare il legno pregiato. Ripone l'apriscatole nel cassetto. Sul lavandino, scola gli asparagi e li mette su un piatto piano pulito. Con la latta in mano torna verso la camera da letto matrimoniale. Cerca tra tutti i farmaci sparsi sul letto la confezione di Davedax. La trova, la annusa, poggia la latta degli asparagi affianco alle supposte, e ingurgita una compressa dell'antidepressivo. Torna dunque in cucina. Con movimenti precisi ma nel contempo stanchi, apre la lavastoviglie e carica l'apposito sportellino di brillantante liquido. Prende il cestino di plastica azzurra destinato a contenere le posate durante i lavaggi e vi infila, uno ad uno, gli asparagi, che rimangono ritti nel cestino. Poi mette gli asparagi in lavastoviglie, ne chiude l'anta e fa partire un ciclo di lavaggio. Oggi viene a pranzo Enrico. Lui ama gli asparagi. Lei se lo ricorda perfettamente. Fin da quando era bambino li ha sempre mangiati di gusto. Linda è una madre amorevole e premurosa. Peccato che questi asparagi non siano freschi, allora sì che sarebbe stato un pranzo perfetto. Enrico ha telefonato a Linda ieri sera. «Allora mamma io vengo a pranzo domani, ti ricordi?» «Sì, certo.» aveva risposto Linda. Enrico da un po' di tempo va sempre a trovare sua madre, di domenica. Si sente addosso la responsabilità di essere l'unica persona rimasta a Linda, dopo le morti del padre e dei due fratelli. Enrico è molto preoccupato per sua madre. Negli ultimi mesi, dopo che Maurice è morto, lei è peggiorata. Enrico pensa che da sola non può più stare. Pensa anche che gli ultimi psicofarmaci che sta prendendo non le facciano per nulla bene. Pensa che sua madre dovrebbe andare da un altro psichiatra. Pensa che dovrebbe prendersi un mese di concedo dal lavoro per starle vicino. Pensa che se la situazione non migliorerà a breve, chiederà davvero congedo. La signora Linda, dopo aver fatto andare la lavastoviglie, va in bagno, in quello senza lavatrice. Con la testa nel lavandino, si lava i capelli. Li avvolge in un asciugamano blu, li asciuga con il phon, li raccoglie in una treccia. Torna nella camera da letto matrimoniale. Si sdraia in mezzo ai farmaci sparsi sul letto. Chiude gli occhi, congiunge le mani come pregasse. Enrico sta raggiungendo la casa di sua madre, in macchina. Fuma una sigaretta e tiene il finestrino abbassato. Sospira più di una volta, sentendosi rassegnato dinnanzi alle sfortune che continuano ad inseguirlo. Si ricorda di quando Linda aveva cominciato a prendere i fiori di Bach, tanti anni fa. Poi, di pari passo con il ritrovarsi sempre più sola al mondo, aveva cominciato a bere, a non mangiare più, a rimanere chiusa in casa, a non andare più al lavoro, a piangere per ogni cosa, a volersi suicidare, a saltare gli incontri con la psicologa, a confondere i visi e i nomi, a tremare, a perdere il senso dell'orientamento. Fermo al semaforo rosso, Enrico fa pensieri assurdi. Immagina la madre rinchiusa in un centro di cura, dove i pazzi sono trattati da poveri pazzi, posti dove segretamente i medici sperimentano nuovi voltaggi dell'elettro shock. Un Cottolengo versione nuovo millennio. «Non lo permetterò.» dice ad alta voce. Arriva sotto casa. Guarda la facciata, il lungo balcone che una volta era pieno di piante e fiori, guarda le alte finestre. Entra nel cortile, sale le rampe di scale, infila la chiave nella serratura della porta e poco prima di varcare la soglia suona il campanello. Va subito in salotto, dove c'è la televisione accesa ma sua madre non è lì. Spegne la tv, chiama «Mamma...». Linda appare dalla stanza matrimoniale, gli dice: «Tesoro, sono qui.» Enrico si volta. Linda è completamente nuda, con il sorriso stampato sul viso, con i capelli accuratamente raccolti in una treccia. Sembra molto felice ed emozionata. «Ti piaccio?» gli chiede. «Mamma...ma...» Enrico non aggiunge altro. Va in bagno, prende un accappatoio e torna a coprire Linda. «Mamma, ma come stai?» le chiede. «Benissimo, tesoro mio. Oggi è una splendida giornata. Sono così contenta che sei venuto a pranzo. Mi sono anche fatta la treccia, hai visto? E ti ho cucinato gli asparagi.» Il silenzio è attutito dalla radio in sottofondo, dalla centrifuga che sta terminando i propri turbinii, dal rumore lontano della lavastoviglie e dalla ventola del forno. Enrico sente questi disturbi nell'aria, mentre Linda lo guarda dritto negli occhi ed aspetta lui faccia qualcosa. «Mamma, perché non vai a vestirti, adesso, così dopo mangiamo gli asparagi?» «Va bene.» risponde Linda. Ma rimane ferma. «Potresti metterti il maglione rosa.» dice incerto Enrico. «Va bene.». Ma rimane ferma. Allora Enrico prende la madre per mano e la accompagna nella camera da letto matrimoniale. Vede tutte le scatole dei farmaci sul letto, aggrotta le sopracciglia come non capisse. Linda, in silenzio, si sta vestendo e Enrico ripone le confezioni in una scatola abbandonata ai piedi del letto. Trova la latta, non riesce a frenare un «E questa?» ma l'esclamazione muore nell'aria. Il blister del Davedax è quasi vuoto. Sono rimaste solo due compresse. Non dovrebbero essercene di più? Madre e figlio raggiungono la cucina. Enrico raccoglie da terra la forchetta, il tovagliolo ed il mazzo di chiavi. Poi si avvicina alla porta finestra del balcone, guarda fuori. Linda gli chiede: «E tu, tesoro, come stai? Come va al lavoro?» «Io sto bene. Il lavoro è sempre stimolante.» Linda aggiunge: «E' arrivata una lettera dal Comune. Non l'ho ancora letta. Vuoi aprirla tu?» Linda prende da sotto un vaso poggiato sulla credenza la lettera e la allunga al figlio. Enrico apre la busta. Arriva dal cimitero. Legge. E' un sollecito. Al più presto devono venir potati i rami delle rose della tomba di famiglia, perché stanno invadendo le tombe vicine. «Cosa dice?» chiede Linda. «Nulla, nulla.» mente Enrico e infila la lettera nella tasca dei pantaloni. Linda, da uno dei cassetti vicini al lavandino, tira fuori la tovaglia. La stende sul tavolo di noce. Poi apre il forno ed a mani nude estrae la teglia. Si scotta. Lascia cadere la teglia. «Non è niente, non è niente.» dice quasi urlando. Enrico le si avvicina e le guarda le mani. Effettivamente non si è scottata molto, pare. «Devi usare le presine, mamma!» Le mette le mani sotto l'acqua fredda. «Brucia tanto?» «No, ho le mani di amianto, come i grandi chef!» ironizza Linda. Entrambi ridono, ma Enrico con più preoccupazione e sconforto. Dopo qualche istante Enrico realizza che la teglia è vuota e pulita. Non ci sono gli asparagi, o delle patate, o una trota, o una torta. «Cosa hai cucinato?» «Gli asparagi.» «Qui non ci sono, mamma.» e raccoglie, usando una presina, la teglia. «Oh! Che strano.» esclama Linda e continua, come se nulla fosse successo, ad apparecchiare la tavola. Prende due piatti, due bicchieri, due forchette, due coltelli. Appoggia tutto sulla tovaglia. «Mi dispiace Maurice non sia riuscito a venire.» dice tristemente Linda. Enrico sbianca, rimane immobile, non dice nulla. La lavastoviglie si intromette nel silenzio, con l'allarme che segnala la fine del lavaggio. «Forza Enrico, aiutami a finire d'apparecchiare, che adesso mangiamo. Ti ho preparato gli asparagi, sai?». IL MATTARELLO. Non trovo più un senso, a quello che sto vivendo. Ed il punto è proprio questo, io sto vivendo, io continuo a vivere. Lei non più. Non può chiamarsi vita, quella cosa. Non mi riconosce da ormai troppo tempo. Ho perso l'istinto di protezione nei suoi confronti. Sono vecchio anche io. E col tempo si cambia. Siamo cambiati insieme fino a due anni fa. Poi lei si è trasformata, abbandonando il viaggio che stavamo facendo insieme, ha abdicato il suo posto accanto a me. Mi prendo cura di lei. La lavo. La imbocco. Le accarezzo i capelli. La metto seduta. Le faccio ascoltare la musica. Le leggo i libri. Le racconto di come stanno tutti quanti. Le parlo dei ricordi. Lei non mi ascolta. Ogni tanto mi guarda con la rabbia negli occhi, cosa che non ha mai fatto. Eppure adesso sì, c'è astio in quegli occhi scoloriti. Chissà cosa vede al posto del mio viso. In principio ho cercato di tenerla legata alla realtà, le facevo domande che sapevo le avrebbero stimolato la parte più intima. La inducevo a pensare alle cose che ha sempre amato. Toccavo le corde delicate dei sentimenti e dell'anima. Poi, pian piano, ho solo cercato di mantenerla attiva, di non farle perdere consapevolezza del proprio corpo. Ma come le parole “giardino autunnale” le scivolano addosso, così l'urina scivola via dal suo corpo senza che se ne renda conto. Giardino autunnale. I colori che amava tanto. I colori con cui ha voluto riempire casa nostra, dopo il sessantacinquesimo compleanno. Lo diceva sempre, caro, se arriveremo fino ai sessantacinque anni, allora coloreremo casa nostra di marrone e oro e rosso e bordeaux...e quel giorno faremo una festa, offriremo dell'ottimo vino ai nostri figli e ai nostri amici...e inaugureremo una nuova bellissima stagione. Così abbiamo fatto. Ci sono giorni in cui non capisco da dove prenda le energie. Trascorre settimane intere rimanendo immobile e molle e poi capita invece che le sue braccia diventino forti e cattive ed allora appena mi avvicino mi tira delle gomitate, mi graffia il volto. Sempre con quello sguardo cattivo, che mi fa male più dei graffi. Ho avuto uno zigomo blu per più di tre settimane. La pelle degli ottantenni è fragile e quasi incapace di riassorbire gli ematomi. Mi stanco facilmente, quando lei è cattiva. La tensione mi consuma tutte le energie. La evito, le sto lontano. Mai avrei pensato che avrei avuto timore di lei. La vita gioca brutti scherzi. Sento che qualcosa è irrimediabilmente cambiato. Sento che a questo punto della mia vita non vorrei più lottare, ma rimanere in silenzio e lasciare che le cose capitino. Sento che vorrei recuperare l'affetto e l'amore che provavo per Teresa, ma mi sembra impossibile. Forse dovrei accettare l'aiuto da qualcun altro, che si prenda cura di lei, che la lavi, che la imbocchi, che mi permetta di dimenticarla almeno in parte. Per assurdo vorrei stare male io, non avere coscienza di cosa questo tempo sia. Vorrei non provare dolore e tristezza e rabbia e solitudine. Dormiamo su letti diversi, in camere separate. Mi vergogno quando chiudo a chiave la porta della mia stanza. Questa notte lei ha fatto dei versi strani. Come dei lunghi e sussurrati lamenti. Nel cuore della notte, a lacerare un tranquillo silenzio. Mi si è gelato il sangue nelle vene. Son rimasto ad ascoltarla, trattenendo il respiro. Poi non ce l'ho più fatta. Era straziante e inquietante e non la smetteva ed io ho pianto, accanto alla porta della mia stanza, senza sapere cosa fare, totalmente confuso e impaurito e stufo... quelle vocali strascicate, in cerca di virtuosismi spettrali, che mi tenevano chiuso nel mio rifugio, che mi facevano venire i brividi... e pensavo, forse sto sognando e forte di questo pensiero ho fatto girare la chiave nella serratura ed ho aperto la porta e mi sono ritrovato nel corridoio. Ho acceso qualche luce. Ho raggiunto la stanza di Teresa ed ho guardato dentro. Doveva essere un sogno, non poteva avere altra natura quell'immagine, non poteva essere reale ciò che stavo spiando e sentendo... mi sentivo quasi bambino, stupito e turbato e eccitato e devo essermi chiesto cosa faccio e non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso, non riuscivo a muovermi, proprio come in tanti sogni, in cui vuoi urlare ma la voce proprio non ti esce, in cui vorresti correre ma le gambe sono cementate al suolo... e su quel letto, il nostro letto, quel suo corpo così lontano dalla normalità, irrequieto e davvero lontano... ed io mi sono voltato e sono andato in cucina ed ho preso il mattarello appeso sopra il lavandino e tenendolo stretto tra le mani son tornato da Teresa, come trasportato da un vento forte. Non so dove ho trovato il coraggio di andarle vicino. E lei, scomposta e allucinata, mi ha guardato negli occhi e per una frazione di secondo si è zittita, si è fermata, ma poi ha ricominciato a dimenarsi e negli occhi le è cresciuta quella cattiveria che non so spiegarmi ed io ho avuto paura e rabbia ed ho sentito sulle mie labbra qualcosa di simile all'odio, fremente... ed ho colpito Teresa con tutta la forza che le mie braccia avevano, battevo il mattarello sulla sua testa e sentivo solo dei suoni secchi e precisi, come pezzi di roccia che si staccano dalla parete, toc, toc, toc. DALLA PRETURA. È stato semplice. La donna e la figlia erano nella sala da pranzo, sedute intorno al tavolo che sbocconcellavano qualcosa. Luca era con me in cucina, mi aiutava a preparare la roba, cioè ha tirato fuori dalla borsa nera il nastro, un laccio, i sacchetti. Poi sono andato in sala e ho chiesto a Laura se poteva venire un attimo di là. Lei mi ha seguito subito, mentre la figlia è rimasta seduta e mi pare di ricordare si sia accesa la televisione. In cucina ho chiesto sorridendo: «Laura, non è che addosso hai dei microfoni?» Lei mi ha guardato senza capire. «Certo che no.» ha detto, un po’ smarrita, un po’ imbarazzata. Allora io le ho detto: «Per essere sicuri è meglio se ti svesti.» e secondo me lei ha pensato che fosse una sorta di giochetto erotico. Ha sorriso maliziosamente, la stupida. E se devo essere sincero in quel momento mi è venuta una certa voglia, ma ho lasciato perdere. L’ho fatta sdraiare a pancia in giù sul tavolo. Ho detto a Luca di passarmi il nastro e le ho legato i polsi dietro la schiena. Si è agitata un po’ e così le ho tappato la bocca con dell’altro nastro. «Ma queste qui non hanno un soldo bucato, Simone … » ha detto Luca. Lui era all’oscuro dei miei piani, avrà pensato volevo derubare le due. Non gli ho risposto e lui è rimasto zitto, da bravo inferiore. È un ragazzo volenteroso, Luca, ma ha ancora tanto da imparare. Simone non mi ha risposto. Ho pensato che dovevo stare zitto e fare quello che mi diceva. Dovevo dimostrargli di essere all’altezza dei suoi lavori, dovevo dimostrargli che di me si poteva fidare. Così sono stato zitto. Ma non capivo cosa voleva fare. Pensavo che eravamo andati lì perché lui voleva scopare con quelle due. Le avevo viste il giorno prima a casa di Simone e mi era sembrato che erano in intimità. A me non mi piacciono queste cose. Io ho una fidanzata e gli sono fedele. Poi Simone mi ha detto di passargli il laccio. Era un laccio di quelli che si usano per fare le punture, quelli che ti annodi intorno al braccio. Glielo ho passato e da un momento all’altro lui è cambiato, aveva gli occhi che gli uscivano dalla faccia e li aveva rossi e spalancati. Sta cosa mi ha gelato il sangue nelle vene. Poi l’ho visto legare il laccio intorno al collo della donna. Ho messo il laccio emostatico intorno al collo di Laura. Lei si agitava molto, anche se cercavo di tenerla ferma. Allora ho tolto il nastro, ho chiesto a Luca di passarmi un sacchetto ma lui se ne stava immobile, con la faccia pallida, e ho capito che non stava bene. Allora ho preso io il sacchetto e gli ho detto «Siediti e stai tranquillo.». Lui si è seduto e così ho potuto continuare. Ho messo il sacchetto intorno alla testa di Laura e l’ho bloccato con il laccio. Poi mi son seduto sulla sua schiena, per non farla agitare. Ci è voluto un po’ di tempo prima che fosse morta. Ha sussultato fino all’ultimo. Poi mi son girato verso Luca e gli ho chiesto «Come va?». Lui è rimasto zitto. Gli ho detto «Adesso sposta questo corpo di là, nel corridoio.». Lui non parlava e così ho alzato un po’ la voce, perché almeno un po’ doveva lavorare, non potevo fare tutto io, l’avevo portato con me proprio per questo. Ho spostato il corpo della donna, tirandola per le braccia. L’ho posato in corridoio e sono tornato in cucina. Con la figlia è stato più facile. Non l’ho fatta spogliare né niente. Forse era spaventata, non so, però non ha mai opposto resistenza. Sembrava già mezza morta, forse aveva visto o sentito qualcosa. Poi ho fatto lo stesso: nastro, sacchetto, laccio. Non mi sono seduto sopra di lei perché stava ferma da sola. Mentre aspettavo che morisse sono tornato in sala e ho preso dal tavolo un pezzo di pane e l’ho mangiato. Poi mi sono versato un bicchiere di coca cola. In cucina ho chiesto a Luca se voleva bere. Ha fatto di no con la testa. Poi ha detto che adesso dovevamo impacchettare i corpi. Ha detto che dovevo farlo io, così imparavo almeno qualcosa, perché allora tanto valeva se non ero andato. Mi ha spiegato come dovevo fare. Simone sembrava più normale, adesso. Aveva gli occhi di sempre e questa cosa mi ha tranquillizzato e allora ho fatto come voleva. Sembrava quasi che Luca avesse paura di me. Era davvero scombussolato. Non me lo aspettavo da lui. Pensavo che sarebbe stato bravo, che avrebbe voluto fare tutto lui. Invece no, anzi, era una preoccupazione in più. Dovevo ammazzare quelle due ma anche fare attenzione che lui non facesse stronzate. Per fortuna la paura lo ha immobilizzato. È un bravo ragazzo, ha resistito. Magari la prossima volta andrà meglio. Beh, insomma, dopo un po’ di tempo Laura e la figlia sono state impacchettate, che vuol semplicemente dire che le abbiamo messe dentro ai sacchi neri dell’immondizia e che abbiamo chiuso tutti i buchi. Le abbiamo caricate in macchina, lasciando la casa così come era. Quella cascina è di un mio amico ma non ci va mai. Praticamente la uso solo io. In macchina mi ha detto che adesso andavamo a seppellirle e mi ha detto fin dove guidare. Siamo arrivati in questo posto e Simone mi ha detto che le buche le dovevo fare io perché lui era stanco. Mi ha dato una pala e ha detto che potevo iniziare. Ha solo fatto dei segni per terra per farmi capire dove scavare e poi si è seduto in macchina e m i ha detto «Quando hai finito chiamami, che ci mettiamo i corpi dentro insieme. Io adesso dormo un po’.». E quindi niente, ho dormito un po’, ma non mi sono riposato come avrei voluto. Avevo paura Luca facesse qualche stronzata, non potevo fidarmi ciecamente di lui. E poi il sedile di una macchina non è esattamente comodo per dormire qualche ora. Però ero davvero stanco e così penso di aver comunque dormito. AUTORITRATTO NEL MOMENTO. Partiamo da una domanda classica. Perché scrive? Scrivo perché è un agire che si adagia molto bene sul mio corpo. Negli ultimi anni della mia vita ho coltivato la possibilità di esprimermi, diciamo che ho cercato le opportunità in cui fosse consentito, giustificato e addirittura necessario buttare qualcosa al di fuori di sé stessi. Questa libertà, per il percorso che ho fatto, l’ho trovata solo nelle arti. E tuttora non sono in grado di separare nettamente il mondo dell’arte in settori stagni, indipendenti gli uni dagli altri, per cui mi sembra di attingere sempre un po’ da ovunque, il teatro, l’arte performativa, il lavoro di artisti visivi contemporanei, la letteratura … non so. Scrivo perché è un momento di sintesi qualitativamente alto. Cosa la spaventa dello scrivere? La mia poca dimestichezza con il mezzo. Credo di avere poca coscienza, poca consapevolezza, poca disciplina critica nei confronti della scrittura. Mi sento impreparata. E questa insufficienza ogni tanto la vivo come una mancanza di rispetto. Pensa di essere una scrittrice? Penso che molte volte queste etichette sterilizzino la terra che si coltiva. Comunque no, non penso d’essere una scrittrice. È protettiva nei confronti di ciò che scrive? Beh, ne sono gelosa. Ogni tanto ho pulsioni generative del feticcio, dei miei fogli, dei miei quaderni. So, però, che questa gelosia non deve soffocare il tutto. So soprattutto che arriva un momento in cui bisogna abbandonare i propri lavori, siano essi un racconto o un’installazione … bisogna lasciar loro prendere il largo e tollerare che lo sguardo altrui vi si posi sopra. È un momento inevitabile e accrescitivo. Bisogna riconoscere l’autonomia che un lavoro rivendica. Come si definisce? Come una persona che cerca di vivere artisticamente la propria esistenza. Cosa vuol dire? Inseguo l’educazione sentimentale nei confronti della realtà. E la realtà, ne sono sicura, non ha definizione. Io so che questa è la sua seconda autointervista. Le piace così tanto? Mi piace, sì. Devo comunque dire che sono due autointerviste molto differenti, sia per il supporto mediatico che usano, sia per i contenuti. Questa è molto più personale, va a toccare me … l’altra mirava a sviscerare un’azione che avevo fatto e dietro c’era un discorso intellettualmente ed emotivamente più forte. Quello è stato un buon momento di riflessione dell’arte sull’arte, una sorta di metateatralità trasposta sull’arte contemporanea. Mentre questa, senza offesa, se continua così potrebbe essere una di quelle interviste che si leggono sulle riviste di moda … Scusi, faccio quel che posso. E comunque lei non è obbligata a … Lo so. Ma sento nascermi dentro una spinta narcisistica che appaga, seppur brevemente, la mia foga egocentrica. Deve però ammettere che tutto questo ha un senso. Lei ha investito le parole che stiamo usando d’una finalità altra, giusto? Sì. Quello che stiamo dicendo, scrivendo, andrà a chiudere una raccolta di racconti brevi che ho da poco scritto. Una carrellata di istantanee che propongono situazioni e persone in bilico, incastrate nelle fessure e nelle crepe del piano sul quale tutti noi poggiamo. Come dire, mi ci metto dentro anch’io. Secondo lei va bene? Le domande le faccio io. Crede che vada bene? Crede sia una buona scelta? Forse sì, forse no. Sicuramente se adesso quest’autointervista prendesse i toni d’una schizofrenia esasperata, sarebbe coerente con la poetica della raccolta. Mi prenderei la libertà, però, se lei è d’accordo, di non snaturare troppo questo momento. Insomma, quando un artificio è ostentato è difficile conservarne la purezza. Giusto. Dunque, l’ultimo libro che ha letto? “Memorie di un artista della delusione” di Lethem. L’ultima cosa che ha mangiato? Un pezzo di pera. Senta, però, si concentri un attimo e faccia delle domande un po’ più interessanti, per favore. Le spiace se mentre penso alla prossima domanda fumo una sigaretta? No, si figuri, prego. Me ne fumo una anche io. Si sente libera? Intendo in questo momento. Sì. E forse è un problema. Molte volte, per me, la libertà è imbarazzante, nel senso che sono imbarazzata nello scegliere una cosa piuttosto di un’altra … parrà strano, ma per me la libertà è soffocante, mi disarma. Forse è solo una questione di controllo, di maturità. Comunque sì, adesso mi sento libera. Credo si possa anche intuire da ciò che sto dicendo, scrivendo. Forse dovrei mettere qualche paletto, cercare delle ostruzioni. Ma mi sento talmente libera che non ci riesco. Ecco la differenza tra l’amatoriale e il professionale. Forse. Paura dei giudizi? Sempre. O quasi sempre. Adesso sì, temo. Cosa teme di preciso? Di sembrare una deficiente, proprio una stupida, un’inetta. E poi con il fatto che sono in prima fila, molto esposta … ho pochi scudi, in questo momento. E se arrivano delle frecciate mi beccano in pieno petto. Ma adesso siamo solo io e lei … Già, appunto, le sue frecciate sono quelle che temo di più e che credo potrebbero farmi più male. Senta, ha voluto la bicicletta … … e adesso pedalo. Sta di fatto che prima o poi ci sarà anche qualcun altro, qui. Tornando alla raccolta di racconti, vuole aggiungere qualcosa? No. Assolutamente no. Ho forse detto fin troppo. Va bene. Allora io finirei qui. Non credo di essere all’altezza per poter continuare. Va bene. Sono d’accordo.