Ambrogio, Ecclesiologia. Donne figure della Chiesa

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Ambrogio, Ecclesiologia. Donne figure della Chiesa
Le Controversie cristologiche.
I Concili di Efeso (430), Calcedonia (450) e Costantinopoli (553)
Bibliografia: J. N. D. Kelly, Early Christian Doctrines, London 1958 (ed.
rev. 2000); A. Grillmeier, Jesus der Christus im Glauben der Kirche:
2/1: Das Konzil von Chalcedon (451); 2/2: Rezeption und Widerspruch
(451-518); 2/3: Die Kirchen von Jerusalem und Antiochien nach 451
bis 600, Freiburg 1979-2002 (trad. in diverse lingue); L. Perrone, La
chiesa di Palestina e le controversie cristologiche. Dal concilio di Efeso
(431) al secondo concilio di Costantinopoli (553), Brescia 1980; C.
dell’Osso, Cristo e Logos. Il calcedonismo del VI secolo in Oriente,
Roma 2010.
A. LA CONTROVERSIA NESTORIANA
I. La posizione del primo Cirillo di Alessandria
Secondo Grillmeier, Cirillo, vescovo dal 412, inizialmente sembra ignorare
completamente la controversia cristologica sviluppatasi a partire da Atanasio fino al suo
tempo. Il Grillmeier considera la cristologia del primo Cirillo in continuità con il
pensiero di Atanasio e con la cristologia „logos-sarx’. Per comprendere la posizione di
Cirillo, occorre dunque partire dalla posizione di Atanasio e di Apollinare, le due figure
indubbiamente più rappresentative della cristologia „logos-sarx‟, di cui comunque il
referente principale è Atanasio.
Cirillo apporta alcune motifiche all‟argomentazione di Atanasio ma, nella sua
rielaborazione, non ha alcuna intenzione di cambiarla sostanzialmente; vuole
semplicemente renderla più accettabile. Cirillo non riconosce l‟anima umana di Cristo
quale fattore teologico, fino all‟apparire di Nestorio. Il Thesaurus e i Dialoghi non
offrono alcuna indicazione che Cirillo riconosca in Cristo una scienza e uno sviluppo
dell‟intelligenza umana. Il Logos è considerato la potenza spirituale di Gesù, e il
progresso dell‟uomo Gesù coincide con la graduale rivelazione della sapienza del
Logos. Sulle orme di Atanasio, Cirillo non confuta le obiezioni sollevate dagli ariani
contro l‟immutabilità del Logos facendo appello all‟anima umana di Cristo. I due
alessandrini riconoscono la realtà delle sofferenze della carne, ma non quelle della
psyché. È la „carne‟ infatti quella che riceve i doni, la santità e la gloria. In tutta
quest‟elaborazione rivolta contro gli ariani, Cirillo non contesta il principio cristologico
fondamentale, sul quale essi fondano le loro argomentazioni, e cioè l‟identificazione del
Logos con l‟anima di Cristo. Egli contesta solamente le conseguenze che gli eretici
traggono da questo principio riguardo alla natura del Logos. L‟apollinarismo e la lotta
della Chiesa contro di esso sembrano virtualmente ignorati dall‟autore del Thesaurus e
dei Dialoghi. Si può dire, quindi, che, nel Thesaurus e nei Dialoghi, il primo Cirillo si
limita sostanzialmente a ripetere le formule di Atanasio, senza ulteriori modifiche. Nella
sua interpretazione cristologica, in questa prima fase, tutto ruota attorno allo schema
Logos-sarx.
II. Teodoro di Mopsuestia e la cristologia antiochena classica.
Per comprendere la cristologia di Teodoro (vescovo di Mopsuestia da 392 a 428),
occorre considerare attentamente il suo atteggiamento nei confronti della fede e del
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culto cristiano. Il Grillmeier sostiene che un quadro generale della fede di Teodoro
potrebbe rendere più facile la ricostruzione della sua formulazione dottrinale in ambito
cristologico. L‟argomentazione di Teodoro si basa essenzialmente sulla tipologia.
Seguendo lo schema delle due katastàseis (età), quella presente e quella futura, egli
afferma che tutta l‟opera di Cristo rivela il modo in cui la oikonomia di Dio è orientata
verso l‟immortalità. Dio ci mostra, in Cristo, i primi frutti dell‟immortalità, che ha
preparato per noi. I misteri della vita di Cristo preannunciano quelli della Chiesa. Col
battesimo il cristiano partecipa alla morte e risurrezione del Signore. Con l‟adozione a
figlio, egli partecipa alla filiazione unica dell‟Unigenito (il Logos). Questa
partecipazione si realizza per noi, in modo misterioso, nel Cristo uomo. Tutta
1‟oikonomia di Dio è presente nella celebrazione eucaristica, che ci rende partecipi fin
d‟ora delle realtà celesti. Per cui la redenzione non consiste semplicemente nella
(speranza dell‟) immortalità, nell‟incorrutibilità e immutabilità (della vita futura), ma,
nella nostra partecipazione, attuale e interiore, allo Spirito divino.
Va notato che, in linea di massima, nella sua dottrina sul battesimo e nella sua
concezione della vita cristiana, Teodoro tende a salvaguadare la trascendenza di Dio. Il
concetto fondamentale, sul quale poggia tutta la sua argomentazione, non è tanto quello
della „divinizzazione‟, quanto quello della „congiunzione‟, coniunctio, e
dell‟obbedienza morale a Cristo. Appare pertanto evidente che, per Teodoro, la misura
della nostra partecipazione alla vita divina mediante il battesimo, è Cristo stesso; e ciò
significa, in definitiva, la congiunzione dell‟uomo assunto con il Logos e con la sua
natura divina. Il Logos rende possibile la partecipazione della natura umana di Cristo (il
susceptus homo) al culto tribuato a Dio in base alla sunàpheia (= congiunzione), per
mezzo della quale l‟uomo assunto partecipa alla vita delle persone divine: Padre e
Spirito; poiché il Logos è homoousios, consustanziale ad esse. La gloria dell‟„uomo
assunto‟ consiste, in definitiva, nell‟essere accettato come „Figlio‟. Per cui, per mezzo di
Cristo, anche noi diventiamo partecipi di questa condizione, sebbene in maniera
differente.
Occorre inoltre considerare che, nella prospettiva dell‟eternità, l‟umanità di Cristo
esercita una funzione decisiva in quanto mediatrice di quest‟unione. Pertanto sia che si
sottolinei l‟unione di Dio e dell‟uomo in Cristo, sia che si parli della nostra unione con
Dio, sul modello di quella dell‟uomo-Dio, Teodoro è sempre preoccupato d‟impedire
agli ariani di compromettere la trascendenza divina. Infatti, sia quando considera
l‟immanenza di Dio nella storia e la nostra partecipazione alla vita divina, sia quando
affronta il tema della partecipazione finale alla vita di Cristo, egli è sempre preoccupato
di evitare ogni confusione nei rapporti tra divinità e mondo della creazione.
È comprensibile quindi che l‟unione tra Dio e l‟uomo, sia in Cristo sia in noi, possa
apparire un po‟ sminuita. Ma sarebbe ingiusto considerare questo punto prospettico la
preoccupazione fondamentale di Teodoro. Teodoro è infatti alla ricerca di una nuova
spiegazione della partecipazione dell‟uomo con Dio, e dell‟unione di Dio e dell‟uomo in
Cristo, che gli permetta di realizzare una sintesi tra immanenza e trascendenza,
soprattutto nei confronti degli ariani e degli apollinaristi. L‟immanenza del Logos in
Cristo deve essere tale da poter salvaguardare, al tempo stesso, la divinità del Logos e
l‟integrità della natura umana di Cristo. D‟altronde, non si può non considerare il fatto
che Teodoro non è un teologo speculativo e neppure un esegeta, e tale rimane anche nei
suoi scritti dogmatici. È in qualità di liturgista che egli affronta in ambito teologico il
tema della presenza di Cristo; per cui la sua teologia speculativa va considerata come
sussidiaria, e non fine a se stessa. Anche la sua filosofia rimane nelle sue opere relegata
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sullo sfondo; essa influenza particolarmente la sua antropologia. Teodoro interpreta
infatti l‟unione di Dio e dell‟uomo in Cristo sulla base dell‟unione corpo-anima.
A differenza degli alessandrini, Teodoro nega che l‟immagine divina sia presente
nella natura dell‟anima e che possa essere perfezionata attraverso la conoscenza di Dio
(Atanasio). Creatore e creatura sono sotto questo profilo fondamentalmente diversi tra
loro: la creatura conserva l‟immagine divina attraverso l‟unione delle volontà, mediante
l‟obbedienza e l‟amore, e non attraverso la spiritualità e razionalità. La redenzione si
realizza sulla base di un‟obbedienza che annulla la disubbedienza di Adamo -- l‟unione
delle volontà divina edumana in Cristo. Il Logos non assume e trasforma l‟umanità; la
unisce a un uomo particolare ed unico, la cui obbedienza elimina il peccato e ottiene
come premio la vita eterna.
Fin dal momento del concepimento, l‟uomo Gesù è unito attraverso un‟atto della
volontà divina al Logos di Dio. Questo Logos che assume l‟uomo Gesù gli fornisce
anche una particolare sensibilità morale ,che lo rende capace di rispondere a Dio con
un‟obbedienza straordinaria. Benché possa peccare e sia tentato dal diavolo, l‟homo
assumptus mantiene la sua unione volontaria al Logos per mezzo di una vita di totale
obbedienza. E, nonostante Dio conosca in anticipo la sua cooperazione e fedeltà, Egli
consuma la sua unione con Dio sulla croce, quando grida consummatum est. E, come
premio, Dio lo fa risorgere dai morti gli concede l‟immortalità del corpo e
l‟immutabilità dell‟anima. Così, mentre il Logos gode della figliolanza naturale con Dio
(il Padre), l‟uomo assunto gode di una figliolanza addottiva, che diventa principio e
modello di riferimento per la nostra adozione a figli. Per mezzo di Cristo, infatti, altri
uomini sono chiamati all‟unione volontaria con Dio e, conseguentemente, alla gloria
della risurrezione e all‟immortabilità e alla vita eterna. Il Cristo è, dunque, non solo la
causa ma anche la primizia della nostra salvezza.
Profondamente radicato nell‟ortodossia nicena, Teodoro condivide l‟opposizione
ariana all‟unione naturale che si attua tra Dio e l‟uomo attraverso la trasformazione e la
divinizzazione ad opera del Logos. E se da un lato sottolinea la funzione
dell‟ispirazione divina per l‟uomo assunto, dall‟altro considera l‟azione umana
costitutiva dell‟attività redentrice di Cristo e della partecipazione del soggetto umano
alla salvezza.
Per una più approfondita conoscenza della cristologia di Teodoro, occorre esaminare
le Omelie catechetiche, una raccolta di 16 testi, scoperta nel 1932, in traduzione siriaca.
In quest‟opera, Teodoro nega che si possa parlare di due Signori e di due Figli, perché le
due nature sono unite in modo ineffabile ed eternamente indissolubile in un solo
 (figura, aspetto esterno). L‟autore afferma che, come l‟unione non distrugge
la distinzione delle nature, così la distinzione non impedisce che le due differenti nature
siano unite. T. vuole salvaguardare in tutti i modi l‟unità di Cristo, senza menzionare
l‟integrità e l‟autonomia della natura umana. Ma appare subito evidente che ad un
alessandrino il risultato possa apparire insufficiente, sia per la terminologia usata sia
perché non risulta del tutto chiarito il modo in cui l‟unione si realizza, tanto più che il
termine prosopon appare meno adatto di ipostasi ad esprimere l‟unione. In effetti,
Teodoro, soprattutto nel Commento a Giovanni, parla di Cristo uomo e Dio come di due
soggetti distinti l‟uno dall‟altro. La distinzione in Cristo va cercata, secondo lui, sul
versante della physis-hypostasis, l‟unità invece è garantita dall‟unico prosopon.
Siamo ancora lontani da un chiarimento terminologico circa i concetti di persona e
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di natura. Sarebbe però sbagliato sottovalutare l‟apporto dato da Teodoro alla soluzione
del problema cristologico. La discussione sull‟interpretazione della figura di Cristo,
avanzata dall‟arianesimo e dall‟apollinarismo, ha trovato in lui un interlocutore attento e
reattivo. La cristologia Logos-anthropos si delinea nella sua opera sempre più
nettamente, in opposizione a quella del Logos-sarx. Non si tratta quindi soltanto di
formule, ma dell‟interpretatione del rapporto Dio-mondo, secondo la fede della Chiesa.
Fin dal tempo di Giustino, infatti, la teologia si è cimentata sul problema del rapporto
Logos-sarx, Dio e uomo in Cristo. Ma solo ora, per la prima volta, l‟umanità di Cristo è
pienamente considerata. Ciò non toglie che la disputa sul modo di considerare il
divinum e l‟humanum nella loro distinzione e connessione in Cristo, sia appena iniziata.
Ciascuno dei problemi posti sul tappeto si riproporrà con rinnovata urgenza nei decenni
successivi.
III. La figura cristologica di Nestorio
Lo scontro decisivo fra le opposte teorie: quella dell‟unione naturale e quella
dell‟unione volontaria, avviene con Nestorio (428-431: patriarca di Costantinopoli).
Nestorio disapprova pubblicamente l‟uso popolare del titolo „Madre di Dio‟
(Theotokos), riferito a Maria. In effetti, la cristologia antiochena distingue con la
massima precisione in Cristo le proprietà divine da quelle umane, cosicché Maria in
senso proprio dev‟essere considerata solo madre dell‟uomo Gesù (anthropotokos).
Nestorio preferisce il titolo più comprensivo di Cristotokos. L‟atteggiamento di
Nestorio suscita subito vivaci proteste da parte dei fedeli, che inducono Cirillo
d‟Alessandria a intervenire. Nella sua azione s‟intrecciano motivi politici e dottrinali.
Infatti, a causa della tradizionale rivalità tra le due sedi (Alessandria e Costantinopoli),
Cirillo accetta con disappunto l‟elezione di un antiocheno al seggio di Costantinopoli; e,
grazie alla sua impostazione cristologica di tipo alessandrino, rileva al massimo la
subordinazione dell‟umanità di Cristo rispetto alla divinità, ne coglie l‟unità e
s‟insospetisce nei confronti di una distinzione troppo netta in Cristo tra proprietà umane
e proprietà divine. La seconda lettera dottrinale di Cirillo a Nestorio e la risposta di
Nestorio (430), puntualizzano le profonde divergenze fra la cristologia alessandrina e
quella antiochena.
Nel frattempo, sia Cirillo che Nestorio informano della questione papa Celestino di
Roma. Il papa, senza approfondire la questione, si schiera dalla parte di Cirillo, e, a
seguito di un concilio, tenutosi a Roma nell‟agosto di 430, invita Nestorio a sconfessare
i suoi errori, incaricando Cirillo di fargli pervenire il diktat romano. Solo nel novembre
Cirillo lo trasmette a Nestorio, corredandolo con una serie di 12 anatematismi, che
presentano la cristologia alessandrina nella forma più radicale. Vi si ribadisce, fra
l‟altro, l‟unità di natura (hénosis physiké), umana e divina in Cristo. Poiché presentano
la dottrina cirilliana nella forma più radicale, nessun antiocheno avrebbe potuto
sottoscriverli. Nel frattempo, Nestorio avanza formale richiesta presso l‟imperatore,
affinché convochi un concilio e il suo appello viene accolto. Il concilio indetto ad Efeso
il 22 giugno 431 si svolge in modo del tutto irregolare a cagione dell‟eccessiva
intraprendenza di Cirillo. I suoi sostenitori condannano e depongono Nestorio, mentre
nei giorni successivi i sostenitori di Nestorio condannano e depongono Cirillo. Di fronte
a tali irregolarità, Teodosio prende atto delle rispettive condanne e deposizioni; ma
quella a carico di Cirillo, tornato in Egitto, rimane praticamente lettera morta, mentre
Nestorio rinuncia spontaneamente a difendersi e si ritirava in un monastero di
Antiochia.
Nestorio è accusato di dividere Cristo, di affermare due Cristi e due Figli, di
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rinnovare l‟adozionismo di Paolo di Samosata, in quanto avrebbe concepito solo in
modo esteriore l‟unione teandrica in Cristo. Nestorio nega la fondatezza di tali
insinuazioni e ritorce nei confronti di Cirillo l‟accusa di essere apollinarista. Non è
facile, tuttavia, precisare i fondamenti della sua dottrina sulla base delle opere e dei
frammenti superstiti. È infatti particolarmente esiguo il materiale pervenutoci: qualche
lettera e omelia, e frammenti, soprattuto di omelia, selezionati dai suoi nemici, e il Libro
di Eraclide, databile agli ultimi anni della sua vita e giuntoci in traduzione siriaca, le cui
idee forse non corrispondano del tutto con quelle espresse tanti anni prima. Sulla
questione dottrinale gli studiosi moderni non sono ancora del tutto concordi. Alcuni
parlano di tragedia di Nestorio, accusato di errrori da lui non commessi, altri ribadiscono la validità delle accuse che gli sono state rivolte.
La preoccupazione fondamentale di Nestorio è quella di salvaguardare, contro gli
apollinaristi e gli ariani, l‟integrità della natura umana di Cristo, intesa come completa
personalità, capace di libera iniziativa, là dove gli alessandrini la riducono a mero
strumento passivo del Logos. In tale prospettiva, egli tiene accuratamente distinte le
proprietà delle due nature e gli appellativi che ad esse si riferiscono. Per cui egli
preferisce attribuire a Maria il titolo Christotokos, rispetto a quello più tradizionale e
difeso da Cirillo: Theotokos. Per indicare l‟unione delle due nature di Cristo, Nestorio
parla di unione ineffabile, ma preferisce l‟uso del termine synàpheia (congiunzione), per
evitare che l‟unione sia considerata una mescolanza. Egli adotta la terminologia
tradizionale, di tipo antiocheno, e parla di uomo assunto dal Logos, di tempio in cui ha
preso dimora il Logos, usa cioè una terminologia che sottolinea in Cristo la distinzione
tra l‟uomo e Dio.
Coerente con la sua impostazione di fondo, Nestorio non accetta le formule: unione
di nature e di ipostasi, in Cristo. Per lui infatti una natura non ha sussistenza e
concretezza reale se non è anche una ipostasi, sì che l‟unione di nature e di ipostasi
diventa per lui sinonimo di confusione (delle nature e delle ipostasi), alla maniera di
Apollinare. Preferisce parlare di unione kat’eudokîan (= per compiacenza e/o
condiscendenza). E, al fine di rendere più concreto questo concetto, Nestorio parla
ripetutamente di un solo prosopon in cui si uniscono le due nature, ma non è facile
precisare la reale portata di questo concetto, data la genericità di significato del termine
prosopon. Nel Libro di Eraclide, Nestorio abbozza l‟idea di uno scambio di prosopa in
Cristo, nel senso che una delle due nature si serve del prosopon dell‟altra, come fosse il
suo, il che ha fatto pensare ad una sua tardiva accettazione della communicatio
idiomatum (= scambio dei predicati di umanità e divinità in Cristo in forza dell‟unione),
rifiutata anni prima nella risposta data alla seconda lettera di Cirillo.
Nestorio, come già Teodoro di Mopsuestia, intuisce il pericolo di compromettere
l‟unità di Cristo, insito nella cristologia divisionista degli antiocheni (due nature, due
ipostasi, in un solo  di Cristo), e cerca di ovviarvi, senza però riuscire a
formulare la sua proposta in modo teologicamente ineccepibile.
IV.
La posizione del secondo Cirillo di Alessandria
Cirillo, dal canto suo, incontra le stesse difficoltà a definire il problema
cristologico. Pur riferendosi a due criteri fondamentali, quello dell‟unità e quello della
distinzione in Cristo, la sua soluzione dottrinale si basa essenzialmente sulla formula
mia physis (mia physis tou theou logou sarsekomene = una sola natura incarnata del
Logos). In questo processo di elaborazione teologico-dottrinale, mentre Nestorio si
lascia guidare da concetti e procede per una via tortuosa attraverso ripetute analisi,
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Cirillo segue una sola intuizione, ricavata da Io 1:14 e dal credo di Nicea. E, grazie a
quest‟intuizione, egli esercita un influsso decisivo sulle formulazioni dottrinali
successive. Nestorio accentua soprattutto la distinzione, senza tuttavia negare l‟unità in
Cristo, come erroneamente si è sopposto. Cirillo, al contrario, mette al primo posto
l‟unione in Cristo, senza però riuscire a spiegare in maniera soddisfacente la distinzione
delle due nature. Conseguentemente il concilio di Calcedonia riprende da Cirillo e dalla
tradizione precedente il fermo riconoscimento di un solo Cristo, ma afferma più
decisamente la distinzione, valorizzando così anche l‟apporto dato dagli antiocheni. Il
concilio segue, tutto sommato, la via media, richiesta dagli sviluppi della controversia,
senza tuttavia prendere piena coscienza di tale esigenza. Si sente infatti ormai la
necessità di prendere una chiara posizione circa la questione dell‟unità e della
distinzione in Cristo. E, anche se tale aspetto non è sufficientemente chiarito, tuttavia
l‟intuizione fondamentale di Cirillo finirà per influenzare la soluzione di Calcedonia.
Possiamo quindi dire che l‟indeterminatezza sul piano dottrinale spiega la confusione e
l‟imbarazzo, che permangono sul piano cristologico, nel periodo che va da Efeso fino
alla controversia monotelita.
Le posizioni cristologiche di Cirillo possono essere riassunte brevemente in tre
punti:
1) Le hypostaseis o physeis di Cristo non possono essere divise dopo l‟unione;
2) Gli idiómata (i caratteri propri di ciascuna natura) non possono essere divisi tra
le due persone o ipostasi (o physeis indipendenti), ma devono essere riferiti ad un solo
soggetto, vale a dire alla mia hypostasis (physis) tou theou logou sesarkoméne;
3) Il Logos è unito alla carne, che egli ha assunto, kath hypostasin. Ciò significa
che la natura o hypostasis del Logos, cioè il Logos stesso, è compreso ed è in realtà, un
solo Cristo, il medesimo Dio e uomo, poiché egli si è unito veramente ad una natura
umana senza alcuna alterazione e/o confusione.
V.
Il Concilio di Efeso (431)
(Per un breve ragguaglio sulla storia del concilio, si veda il NDPAC). I padri del
sinodo del 431 decidono inizialmente di non procedere a una nuova formulazione di
fede. La loro attenzione si concentra soprattutto su un‟idea dogmatica, già espressa in
altri documenti, e che ora appare minacciata dall‟insegnamento di Nestorio. È grazie a
quest‟idea che il concilio acquista importanza. Nondimeno, si può parlare di un „credo
di Efeso‟. Infatti, i vescovi radunati attorno a Giovanni di Antiochia, propongono una
formula di fede che, con alcune signficative modifiche, diventerà la Formula di unione
del 433. E tale formula esercita un influsso decisivo sulla definizione di Calcedonia.
L‟idea dogmatica di fondo, che i padri formulano, è la seguente:
«Unico e il medesimo è il Figlio eterno del Padre e il Figlio della Vergine
Maria, nato nel tempo secondo la carne; perciò essa può essere
giustamente chiamata Madre di Dio».
Tutta la discussione nei confronti di Nestorio verte su questo punto. Questo è il
dogma di Efeso, che è anche quello di Nicea. La vita divina con il Padre, la discesa sulla
terra, l‟Incarnazione, intesa come assunzione della condizione umana, devono essere
attribuiti all‟unico e medesimo soggetto, il Logos, che è homoousios con il Padre. La
formula del 433 insisterà su questo aspetto: „unico e il medesimo‟, che sarà poi ripreso
dalla definizione di Calcedonia. I Padri affermano che la Seconda lettera di Cirillo a
Nestorio rappresenta l‟espressione ufficiale dell‟insegnamento di Nicea. L‟espressione
henosis kath hypostasin, contenuta nell‟Epistola crea un precendente per Calcedonia e
facilita l‟accettazione definitiva del termine hypostasis nella proclamazione della fede
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cristiana. Va da sé che non dobbiamo cercare una spiegazione filosofica di tale espressione, che appare per la prima volta in Cirillo. La formula „unione secondo l’ipostasi‟
esprime semplicemente la realtà dell‟unione in Cristo, in antitesi all‟interpretazione
puramente morale e accidentale, che il sinodo presume sia stato l‟insegnamento di
Nestorio. Essa deve dunque essere posta in antitesi ad una henosis kata thélesin mónen
oppure kath’eudoxian o ad una unità che si realizza solo con un‟assunzione solo
apparente e totalmente estrinseca di un altro prosopon.
Il periodo, che va da Efeso a Calcedonia, è caratterizzato da alcuni sviluppi
dottrinali sul piano cristologico:
1. Non si considera più fondamentale, come nel secolo IV, insistere sulle realtà
della vera divinità che della perfetta umanità in Cristo. Ciò che ora interessa
maggiormente è il modo in cui l‟unione si realizza. Per cui la discussione non
verte più sul Logos né sull‟uomo Gesù, e neppure si esprime più in termini di
Logos-sarx o Logos-anthropos, poichè la piena divinità e la piena umanità di
Cristo sono ormai riconosciute da entrambe le parti. L‟interesse ora si concentra
solo sul rapporto che sussiste tra l‟una e l‟altra.
2. In tale prospettiva, Cirillo d‟Alessandria e i suoi sostenitori propongono la
definizione di una cristologia „unitiva‟ che faccia riferimento al Logos divino. I
loro oppositori, invece, vedono in questo (a torto) un ritorno alle posizioni del
tardo arianesimo e dell‟apollinarismo, che sono ormai sostenute solo da pochi
estremisti.
3. Il risultato è che questi due differenti modi di affrontare il problema, uno
moderno e l‟altro arcaico, vengono posti l‟uno accanto all‟altro. La differenza
tra i due verrà riconosciuta solo in seguito e con molta difficoltà. Per ora ci si
limita a opporre una formula a un‟altra, e ciascuna di esse è giudicata dall‟altra
parte alla luce dei propri presupposti. La formula, adottata a Calcedonia, cerca di
spiegare il modo dell‟unione in Cristo. L‟altra formula, quella di Cirillo,
accentua maggiormente il tema dell‟unità in Cristo e lascia insoluta la questione
del „modo‟ in cui essa si realizza. Così ci si rende conto che i due schemi Logossarx e Logos-anthropos si integrano a vicenda, e non vanno contrapposti l‟uno
all‟altro.
Il kerygma di Cristo dell‟età apostolica e post-apostolica viene gradualmente
imprigionato in un dogma, formulato in termini ellenistici e preparato lentamente dalla
riflessione teologica dei primi tre secoli. Può sembrare, a prima vista, che ci sia
allontanati dalla Bibbia. È, tuttavia, sorprendente che il contenuto fondamentale di
hypostasis, sia determinato da Eb 1,3.
B. LA CONTROVERSIA EUTICHIANA
I.
Teodoreto di Ciro
Nel novembre del 430, gli inviati di Cirillo consegnano a Nestorio le lettere di
papa Celestino (con la data 11 agosto 430) e i dodici anatematismi del patriarca di
Alessandria. Ciascuno di questi documenti dovrà essere sottoscritto dal destiniario.
I 12 anatematismi riflettono in maniera categorica la cristologia di Cirillo. Il
primo anatema afferma che Maria è Theotokos, poiché ha partorito secondo il modo
della carne il Dio-Logos fatto carne. Il secondo dichiara che il Verbo si è unito
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„ipostaticamente‟ (kath’upostasin) alla carne. Il terzo rifiuta ogni separazione di ipostasi
dopo l‟unione, o qualsiasi tentativo di congiungerli mediante una pura associazione
(mone... sunapheia) basata sulla dignità, autorità o potere; si ribadisce qui la necessità di
usare la formula „unione naturale‟ (henosin phusiken). Il quarto anatema esclude la
possibilità di distinguere le affermazioni fatte a proposito di Cristo, come se alcune si
applicassero solamente al Verbo e altre solamente all‟uomo. Nel quinto anatema si
rifiuta la definizione di uomo ispirato da Dio (theophoros anthropos), affermando che
Cristo è vero Dio, in quanto la Parola è divenuta carne ed è quindi partecipe della nostra
carne e del nostro sangue. È errato – dichiara il sesto anatema -, affermare che la Parola
divina è Dio o Cristo, anziché dire che dopo l‟Incarnazione Egli è simulataneamente
Dio e uomo. Il settimo anatema nega che Gesù, in quanto uomo, sia mosso dal Verbo o
rivestito dalla sua gloria, quasi che vi sia una distinzione tra lui e il Verbo. L‟ottavo
anatema condanna coloro che parlano dell‟uomo assunto, che meriterebbe di ricevere il
culto insieme con il Verbo (formula proposta da Nestorio) e che pongono Dio accanto a
Lui, perché tale modo di esprimersi suggerisce di fatto l‟idea di separazione.
L‟Emmanuele è la Parola incarnata, cui si deve un culto unico e indivisibile. Il nono
anatema afferma che lo Spirito Santo è proprio di Cristo, e non un potere estraneo a Lui,
che lo avrebbe reso capace di compiere miracoli. Il decimo anatema dichiara che il
nostro sommo sacerdote non è un uomo distinto dal Verbo, ma lo stesso Verbo
incarnato. L‟undicesimo precisa che la carne del Signore è la stessa (idían) del Verbo,
che possiede, conseguentemente, anche il potere di dare vita. Il dodicesimo insiste sul
fatto che il Verbo realmente soffrì, fu crocifisso e morì nella sua carne.
L‟iniziativa di Cirillo di formulare questi anatemi viene aspramente criticata. Il
papa non ha mai chiesto che sia formulata una nuova definizione, e la formulazione, che
Cirillo le dà, non può che confermare i sospetti degli antiocheni moderati, come
Giovanni di Antiochia, Andrea di Samosata e Teodoreto di Ciro.
Nestorio invia questi capita a Giovanni, partriarca di Antiochia, che divengono.
un grande ostacolo per gli Orientali, compreso il gruppo dei moderati, che, dopo il
concilio di Efeso, riconosce la formula di unione del 433 e sottoscrive la condanna di
Nestorio. L‟accesa discussione, che si sviluppa, favorisce l‟elaborazione della formula
cristologica. Occorre pertanto esaminare in primo luogo i documenti che si riferiscono
agli anatematismi. A fronte della richiesta di Nestorio, Giovanni di Antiochia affida a
Teodoreto, vescovo di Ciro (dal 423), e al suo confratello in carica, Andrea di Samosata,
il compito di confutare i dodici capita. Solo in parte la loro opera è giunta fino a noi.
Nel frattempo, compare un terzo documento, il cui autore ci è ignoto. Questo testo ci è
stato trasmesso in traduzione latina; il contenuto coincide in parte con quello dell‟opera
di Teodoreto, cosicché alcuni studiosi sono giunti alla conclusione che l‟abbia scritto
lui.
Teodoreto considera i termini hupostasis e physis come sinonimi, e li intende
come equivalenti di „sostanza‟ o „natura‟. Quindi, per lui una „unione secondo la natura
o la sostanza‟ è sinonimo di monofisismo, di mescolanza (krasis) delle nature. Si può
allora affermare che Teodoreto riconosca „due ipostasi‟ in Chrsto? Nella sua critica al
terzo anatematismo, egli dà effettivamente l‟impressione di schierarsi a favore di tale
posizione. Egli sostiene infatti che lo stesso Cirillo deve convenire su questo punto, se
vuol riconoscere complete e intatte le ipostasi sia della divinità che dell‟umanità di
Cristo. In effetti, è proprio per tale motivo che Cirillo parla di una divisione „delle
ipostasi‟.„Perciò‟, insiste, „non c‟è niente di strano o d‟illogico nel parlare di due
ipostasi o nature unite‟. Ma Teodoreto non usa mai in precedenza questo termine. Si
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nota, ad ogni modo, un certo progresso nel terzo dialogo dell‟Eranistes. [Eranistes seu
Polymorphos = Il Mendicante o L’uomo dalle molte forme, composto nel 447 contro
Eutiche]. Qui prósopon e hupostasis sono virtualmente identici. Tuttavia, per non
compromettere i fragili equilibri, egli evita di esporsi riconoscendo ufficialmente una
sola ipostasi in Cristo, come voleva Cirillo. Probabilmente Teodoreto non avrebbe
avuto difficoltà a specificare ulteriormente il significato del termine ipostasi
(assumendolo come sinonimo di prósopon) e a distinguerlo come tale da ousia e da
physis. Ma un trasferimento diretto del linguaggio trinitario alla cristologia non si
compie tutto d‟un tratto, sebbene, dopo il 430, Teodoreto operi di fatto un‟assimilazione
dei due linguaggi. Soltanto al concilio di Calcedonia la parola hupostasis acquista
significato positivo nella cristologia del vescovo di Ciro.
L‟accezione, nella quale Teodoreto usa il termine hupostasis all‟indomani del
sinodo, è particolarmente interessante. Ora egli non si limita a introdurre il termine, ma
adduce anche le prove scritturistiche che ne giustificano l‟uso - una procedura che egli
ha precedentemente contestato a Cirillo riguardo alla formula kath’upostasin. È vero
che il suo silenzio nelle altre opere post-conciliari (ad es., il trattato Haereticarum
fabularum compendium) fa sorgere dubbi sull‟autenticità dei frammenti della sua
lettera. Ciononostante, si può ben comprendere come egli abbia avuto bisogno di un
certo lasso tempo per assimilare questo termine, sia a causa della sua novità sia a causa
della sua associazione con la cristologia di stampo alessandrino. Sembra che Teodoreto
non abbia avuto più la capacità d‟integrare la nuova formula nella sua teologia.
Tuttavia, egli predispone due elementi decisivi per gli sviluppi futuri: da un lato, cerca
di fornire una prova scritturistica della formula; dall‟altro, stabilisce il legame tra la
dottrina calcedonese dell‟Incarnazione e la terminologia teologica trinitaria.
Mentre accetta con riserva il termine „ipostasi’, Teodoreto non ha difficoltà ad
assumere quello di ousia e di physis. Questi due concetti sono considerati come
sinonimi già prima della controversia nestoriana, e significano la condizione naturale o
l‟essenza. L‟uso che egli ne fa per esprimere la dualità delle nature in Cristo costituisce
il punto di forza della sua cristologia e rappresenta quella novità, che ha maggiormente
favorito l‟evoluzione verso la definizione calcedonese. È sufficiente dunque riferirsi al
simbolo antiocheno del 433, che sembra sia stato in gran parte preparato dallo stesso
vescovo di Ciro. Si esaminino l‟argomentazione addottata per respingere la henosis
physike e la formula di Cirillo mia physis. In una unione naturale, come quella che
sussiste tra il corpo e l‟anima, egli vede una congiunzione necessaria, la quale unisce, di
fatto, parti che si trovano allo stesso livello dell‟essere. Ma in Cristo c‟è un‟unità che è
completamente soggetta all‟ordine della grazia e che non è soggetta alla legge della
necessità, ma a quella della libertà. Scrive infatti Teodoro in riferimento a Cirillo:
«…poiché „natura‟ significa qualcosa di necessario e di indipendente dalla volontà,
come quando, per esempio, dico che sentiamo naturalmente fame - un caso in cui non
soffriamo per la nostra volontà libera, ma per costrizione».
Ovviamente quest‟obiezione non riguarda il pensiero di Cirillo, ma mostra come
una „unione di beneplacito‟ (= henosis kat’eudoxían) non debba essere necessariamente
considerata un‟unione accidentale. Teodoreto qui è semplicemente preoccupato di
sottolineare la libertà dell‟Incarnazione. Egli stesso, del resto, riconosce solitamente
l‟esistenza di un‟unità reale e sostanziale di Cristo.
Tuttavia, per descrivere quest‟unità, Teodoreto dispone di un solo termine,
quello di prósopon, caro agli antiocheni. Tale vocabolo appare per la prima volta con
significato cristologico nel suo De sancta et vivifica Trinitate (PG 75, 1147-90) e nel De
incarnatione domini (PG 75,1419-78), in cui egli riconosce la distinzione delle nature e
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l‟unità di prósopon (misto), per il quale gli Antiocheni erano stati censurati. È indubbio
che se si cerca, al di là della terminologia di chiara tendenza calcedonese, la sua
specificità cristologica, vi si può rilevare qualche insufficienza. Ma sarebbe fuorviante
cercare nei suoi scritti il concetto moderno di „persona‟, supportato dal suo contenuto
ontologico. Per Teodoreto infatti, il termine prósopon è ancora molto vicino al
significato originario di „figura‟ o „aspetto‟.
Ciononostante, si può rilevare che Teodoreto fa un notevole sforzo per giungere
ad una interpretazione sostanzialmente interiore della figura divino-umana di Cristo. E,
a questo proposito, appare ancor più evidente la debolezza fondamentale della sua
cristologia. Il suo concetto di prósopon non mira infatti a mettere in rilievo l‟ipostasi del
Logos come la sola ed unica, sebbene egli intenda certamente parlare di unità di
persona. Questo prósopon è infatti sinonimo di unione del Verbo con l‟umanità - si
potrebbe aggiungere, sulla base di uno statuto paritario. Al contrario, nella visione di
Cirillo l‟ipostasi del Logos costituisce il nucleo originario della persona di Cristo.
Malgrado il rilievo dato alla divinità del Logos, il suo ritratto di Cristo è
costruito in maniera talmente simmetrica che non risulta sufficientemente focalizzato
sull‟ipostasi del Logos. Per lui, infatti, il soggetto delle manifestazioni umane e divine è
sempre lo stesso „Cristo‟ (che risulta dalla congiunzione delle due nature), e le singole
espressioni, divina e umana, si giustificano unicamente in quanto riferite ad un solo
soggetto. D‟altra parte, la formula: „il Logos ha sofferto‟ significa per lui: il Logos ha
sofferto nella sua natura divina. Ciò spiega perché, fino al 448-449, egli faccia fatica ad
accettare il titolo di Theotokos. È ormai nota la sua riluttanza a distinguere nettamente
1‟unità personale da quella naturale e ad evidenziare la centralità dell‟ipostasi del Verbo
come unico soggetto dell‟„Io‟ metafisico di Cristo. D‟altra parte, la sua concezione
incompleta e simmetrica di Cristo, secondo cui l‟ipostasi del Logos non si realizzerebbe
perfettamente, non rappresenta ancora il suo approdo in ambito cristologico. In due
lettere successive, infatti, databili al 449, durante il suo internamento (soprattutto,
nell‟ep. 146), egli torna a dibattere il problema e giunge ad una interpretazione più
profonda e soddisfacente del concetto di prósopon, esprimendo con maggiore chiarezza
e precisione l‟unità di soggetto e di persona in Cristo.
Oltre a Teodoreto, si dovrebbe accennare anche della cristologia di Andrea,
vescovo di Samosata, per capire la posizione degli antiocheni riguardo alla
confutazione dei 12 anatematismi.
Nonostante l‟abisso incolmabile che separa gli alessandrini e gli antiocheni,
emergono ben presto indizi di un possibile riavvicinamento. Infatti, dopo la formale
lettura dei 12 anatemi di Cirillo, durante la sessione del 22 giugno, non c‟è stata alcuna
iniziativa volta a dar loro veste ufficiale insieme con la seconda lettera del patriarca di
Alessandria. Analogamente, dopo aver condannato Cirillo e Memnone, i vescovi
orientali, guidati da Giovanni di Antiochia, assumono un atteggiamento discreto
passando sotto silenzio il nome di Nestorio. Infine, sotto il profilo teologico, i due fronti
contrapposti si muovono verso il raggiungimento di una possibile intesa.
Ricevuta il 4 novembre 430 la lettera di Cirillo, che gli chiede di sottoscrivere
gli anatematismi, Nestorio la invia subito a Giovanni di Antiochia, che considera quelle
proposizioni di chiara tendenza apollinarista, per cui incarica Teodoreto, che
inizialmente si è mostrato ostile nei confronti dell‟espressione cirilliana „unione
ipostatica‟, di confutarli, e incomincia egli stesso a usare il termine „ipostasi‟ come
sinonimo di prosopon. Sembra che analogamente lo stesso Andrea di Samosata si sia
lasciato convincere ad usare la formula „una sola ipostasi‟ nella sua replica a Cirillo.
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Nei due anni successivi al concilio di Efeso, vngono fatti grandi sforzi per
sanare le divisioni all‟interno della Chiesa. La strada viene spianata dalla morte di papa
Celestino, avvenuta il 16 luglio 432; il nuovo papa, Sisto III, cerca di favorire la
riconciliazione, a patto che si riconoscano le decisioni di Efeso. I principali ostacoli
sono ora rappresentati, da una parte dagli anatemi di Cirillo, considerati irricevibili dagli
antiocheni; dall‟altra, dalla condanna di Nestorio, posta come condizione sine qua non
da Cirillo e che gli antiocheni si mostrano riluttanti ad accettare. Alla fine, si giunge ad
un accordo, frutto di estenuanti trattative, nelle quali Acacio vescovo di Berea (Aleppo)
svolge un ruolo decisivo. Cirillo, che è sempre stato accusato di tendenze apollinariane,
chiarisce alcuni suoi presupposti dottrinali e giustifica il suo rifiuto di qualsiasi
mutamento e/o confusione delle due nature. Le sue argomentazioni vengono accettate e
i principali esponenti antiocheni, quantunque con comprensibile riluttanza, accettano di
sottoscrivere la condanna di Nestorio. L‟atto di accordo (noto come „Simbolo di unione‟
del 433), contenuto nella lettera (ep. 38), inviata da Giovanni a Cirillo, contiene una
formula di fede elaborata presumibilmente dallo stesso Teodoreto, che i vescovi
orientali hanno approvato ad Efeso nell‟agosto del 431 e inviato a Teodosio.
«Noi perciò confessiamo il nostro Signore Gesù Cristo,
l‟unigenito Figlio di Dio. Dio perfetto e uomo perfetto,
composto di un‟anima razionale e di un corpo, concepito prima
dei secoli da suo Padre rispetto alla sua divinità, ma allo stesso
modo () negli ultimi giorni per noi e per la nostra
salvezza dalla Vergine Maria rispetto alla sua umanità,
consustanziale con il Padre rispetto alla sua divinità e allo stesso
tempo (ton auton) consustanziale con noi rispetto alla sua
umanità. Poiché è stata compiuta una unione (henosis) di due
nature. Perciò noi confessiamo un solo Cristo, un Figlio, un
Signore. In virtù di questa concezione di una unione senza
confusione, noi confessiamo la Beata Vergine come Theotokos,
perché il Verbo divino divenne carne e fu fatto uomo e fin dalla
concezione il tempio preso da lei fu unito a lui. Per ciò che
riguarda le affermazioni dei vangeli e degli apostoli a proposito
del Signore, noi riconosciamo che i teologi ne usano
indifferentemente in vista dell‟unità delle persone (hos eph
henòs prosópou) ma ne distinguono altre in vista della dualità
delle nature (hos epi duo phúseon), applicando quelle che sono
adatte a Dio alla divinità di Cristo, e quelle umili alla sua
umanità».
Nella sua lettera, Laetentur coeli, Cirillo saluta con entusiasmo tale
formulazione, che sembra conceda molto agli antiocheni sotto il profilo dottrinale. In
questo simbolo, non solo gli anatematismi rimangono in secondo piano, ma scompaiono
perfino le espressioni tipiche di Cirillo: „una sola natura‟ e „unione ipostatica‟; inoltre,
ora Cirillo si trova addirittura a dover accettare le formule tipicamente antiochene di „un
solo prosopon‟ e „unione di due nature‟ mentre una sola frase (hos epi duo phuseon)
sottolinea l‟unità delle due nature dopo l‟unione. Viene ribadita la pertinenza del
termine Theotokos, ma controbilanciata dalla ammissione della definizione che essi
davano tradizionalmente dell‟umanità come „tempio‟ del Verbo. Si avvalla, infine, una
forma di communicatio idiomatum molto meno radicale di quella per la quale si è
battuto Cirillo. D‟altra parte, lo stesso Cirillo può registrare qualche punto a suo favore:
anzitutto, la condanna di Nestorio; in secondo luogo, l‟accettazione del termine
Theotokos, giudicato ortodosso, anche se con qualche limitazione; in terzo luogo,
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l‟esclusione della dottrina dei „due Figli‟ di stampo nestorianesimo, che non viene
neppure menzionata. Inoltre, l‟unità di soggetto viene chiaramente identificata con il
Verbo Dio-uomo, la Parola eterna, sinteticamente espressa con la formula ton auton;
infine, non si parla più di „congiunzione‟, ma di unione in senso forte, definita con il
termine henosis. Concludendo quindi, se si valuta sul piano sostanziale la formulazione
del Simbolo d‟unione, si può ben comprendere che Cirillo, che ha già ottenuto una netta
vittoria sul piano politico, consideri l‟accordo con ragionevole soddisfazione.
Nei successivi quindici anni, intercorsi tra gli accordi raggiunti nel 433 e l‟inizio
della crisi eutichiana (nel 448), non si assiste a significativi sviluppi sul piano
cristologico. Nessuno dei due schieramenti può dichiararsi del tutto soddisfatto della
formulazione del „Simbolo di unione‟. I primi a considerarlo con disappunto sono gli
alleati di Cirillo, che gli rimproverano di aver accettato formalmente la dottrina delle
due nature. Nella sua autodifesa, il patriarca di Alessandria è costretto a fornire
argomenti (ep. 40; 44) per dimostrare che, nonostante il linguaggio usato e che a prima
vista può sembrare criticabile, si tratta pur sempre della stessa dottrina sostenuta in
passato. Ma l‟insoddisfazione serpeggia anche tra gli antiocheni, un gruppo dei quali (i
più estremisti), provenienti dalla Cilicia, insiste affinché Cirillo venga dichiarato
eretico. Il fatto stesso di aver accettato la condanna di Nestorio angoscia la coscienza
degli antiocheni moderati che hanno riconosciuto l‟ortodossia di Cirillo, e, tra questi,
soprattutto Teodoreto di Ciro, che rifiuta di sottoscriverla.
Il Tomus ad Armenios, pubblicato nel 435 da Proclo, nuovo partriarca di
Costantinopoli (434-436, successore non di Nestorio ma di Massimino), dove è elencata
una serie di estratti ricavati dagli scritti di Teodoro definiti eretici, è la riprova di un
intensificarsi delle tensioni esistenti. D‟altra parte, lo stesso Cirillo assume un
atteggiamento gradualmente più moderato e, finché rimane in vita, riesce a tenere a
freno i suoi partigiani più accesi. Con la sua morte, nel 444, si rafforza la reazione
contro la dottrina delle due nature, espressa negli attacchi contro l‟insegnamento di
Teodoreto, il teologo più in vista della scuola di Antiochia. Il successore di Cirillo,
Dioscoro, un prelato energico e senza scrupoli, che si considera legittimo esponente e
capo indiscusso del fronte reazionario, è deciso a riaffermare a qualunque costo la
dottrina di una „sola natura‟, dottrina che egli attribuisce all‟autorità dei Padri e che
considera compromessa da Cirillo in un momento di debolezza.
Proclo sceglie deliberatamente una posizione intermedia tra la terminologia più
intransigente di Alessandria e quella più sottile degli Antiocheni. Nella famosa omelia
di Proclo, Sermo de dogmate incarnationis compare un‟affermazione di una certa
importanza: «C‟è un solo Figlio; le nature non sono infatti divise in due ipostasi; la
veneranda economia della salvezza ha unito le due nature in una sola ipostasi».
Dopo Apollinare, Marco Eremita, Cirillo, Isidoro di Pelusio e Andrea di
Samosata, anche Proclo fa ricorso in ambito cristologico al termine ipostasi. Sebbene la
formula sia comune a tutti questi autori, non si possono sottacere le differenze che
sussistono all‟interno delle rispettive posizioni teologiche. Ma da chi ha ripreso Proclo
questo termine? La fonte più probabile sembra essere Cirillo d‟Alessandria. Ma, se è
vero che la dualità delle nature viene da Proclo che la controbilancia con l‟affermazione
congiunta dell‟unità d‟ipostasi, egli s‟allontana comunque dalla formula di Cirillo, per
fare una concessione agli antiocheni, i quali preferiscono il termine prosopon a
hupostasis. Sensibile alla tensione creatasi tra la formula giovannea dell‟Incarnazione e
quella paolina (Io 1,14; Phil 2,5-7), egli cerca di trovare una sintesi tra le due, come
dimostra il suo Tomus ad Armenios.
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Divenuto partriarca nel 434, Proclo è costretto a prendere posizione sulla
questione della dottrina dell‟Incarnazione. Nel 435, un‟ambasceria gli consegna una
richiesta di informazioni da parte dell‟episcopato armeno sulla dottrina di Teodoro di
Mopsuestia. Il dossier, che gli viene recapitato, contiene alcuni estratti delle opere di
Teodoro. In risposta a tali proposizioni, Proclo invia il Tomus ad Armenios, al quale
vengono poi aggiunti alcuni capitula provenienti dalla raccolta fatta dagli armeni. In
questo il documento non si menziona mai Teodoro e ciò manifesta l‟esplicita intenzione
del curatore o dei curatori di procedere con moderazione e spirito di mediazione,
evitando ogni possibile alzata di scudi. Antiocheni e Alessandrini possono così
riconoscervi certe caratteristiche della propria dottrina, benché le formule più esplicite
delle due posizioni vengano volutamente evitate. Lo stesso termine hupostasis, ormai
largamente diffuso e accettato, entra nel Tomus: «Conoscendo infatti ed essendomi stato
piamente insegnato (che c‟è) un solo Figlio, io confesso una sola ipostasi del Verbo
incarnato» (PG 65,864D).
La formula di Cirillo qui viene leggermente modificata, con un preciso intento:
superare il divario che divide alessandrini e antiocheni. Infatti, al posto dell‟espressione:
mia hypostasis tou theou logou sesarkoméne (una ipostasi incarnata del Verbo divino),
si introduce la proposizione: mia hypostasis tou theou logou sarkothéntos (una sola
ipostasi del Verbo incarnato). Si può presumere che anche Cirillo conoscesse la
versione che riferiva l‟aggettivo „incarnato‟ al Logos. Ma tale interpretazione era di
fatto poco seguita. La formula di Proclo chiarisce in qualche modo il senso
dell‟ipostatico o del personale, mentre la formula propria di Cirillo, da lui
prevalentemente usata, utilizza il termine ipostasi nel senso di sostanza. Il Tomus di
Proclo, composto nel 435, svolge un ulteriore compito tre anni più tardi, quando il
patriarca invia il suo Tomus agli Antiocheni, insieme con i capitula, chiedendo loro che
lo sottoscrivano e sconfessino al tempo stesso gli estratti di Teodoro. Ma gli Orientali,
avendo subito individuato la provenienza dei testi anonimi, oppongono una dura
resistenza alle richieste del partriarca di Costantinopoli, mentre accettano il Tomus
senza opposizione. Questo fatto, anche se non contiene ancora alcun esplicito
riconoscimento della formula cristologica inviata, getta tuttavia le basi perché alla fine
anche gli Antiocheni l‟accettino.
Flaviano, divenuto patriarca di Costantinopoli, alla morte di Proclo, nel 446, fin
dagli inizi del suo ministero episcopale assiste alla reviviscenza delle dispute
dogmatiche, di cui egli stesso rimarrà vittima. Le parti contendenti sono rappresentate,
da un lato, da Eutiche, l‟archimadrita di tendenza monofisita; dall‟altro, da Teodoreto di
Ciro. Dall‟Eranistes [=il Mendicante] di Teodoreto (447) si possono rinvenire i
principali elementi dogmatici di questa controversia, mentre dall‟epistolario del vescovo
di Cirro ci si può rendere conto della gravità della situazione nella Chiesa d‟Oriente.
Nella disputa entra il potente Dioscoro con tutti i suoi partigiani dall‟Egitto a
Costantinopoli, mentre l‟imperatore Teodosio II si mostra inizialmente incerto e
incapace di prendere posizione.
La controversia scoppia intorno ad Eutiche, il quale, per il favore e l‟influenza di
cui gode a corte si trova ad essere il punto di cristallizzazione di tutti coloro che non
approvano l‟accordo di 433. L‟8 novembre del 448, in una riunione del Sinodo
permanente di Costantinopoli, il monaco, archimandrita di un monastero nei pressi di
Costantinopoli, viene denunciato come eretico da Eusebio di Dorìleo. La discussione
formale si svolge il 12 novembre, sotto la presidenza di Flaviano. Quest‟ultimo coglie
l‟occasione per leggere una professione di fede che contiene una proposizione
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importante: «Confessiamo che Cristo consiste di due nature (ek duo phuseon) dopo
l‟Incarnazione, confessando un solo Cristo, un solo Figlio, un solo Signore in una sola
ipostasi e in un solo prosopon». Tale affermazione è usata da Flaviano per affermare la
presenza nell‟Incarnato di due nature. La sua identificazione di ipostasi e prosopon
segna un importante passo avanti verso Calcedonia.
In questa prima assise, Eutiche rifiuta di comparire e, quando si presenta, il 22
novembre, assiste al verdetto ufficiale che sancisce la sua ufficiale condanna come
seguace di Valentino e di Apollinare, per cui viene immediatamente deposto.
Storicamente, Eutiche è considerato il fondatore di una forma estrema e virtualmente
doceta di monofisismo, poiché insegna che l‟umanità del Signore è totalmente assorbita
dalla sua divinità. Si presume che tali idee fossero a quel tempo abbastanza diffuse.
Teodoreto stesso, l‟anno prima, ha dedicato il suo Eranistes a coloro i quali, ritenendo
che la divinità e l‟umanità di Cristo formino „una sola natura‟, insegnano che la natura
divina di Cristo non deriva realmente dalla Vergine e che solo l‟umanità ha sofferto.
Costoro sono convinti che solo „la natura divina rimane, mentre l‟umanità è assorbita‟.
La natura assunta non viene annientata, ma piuttosto trasformata nella sostanza (ousia)
della divinità. Nonostante non faccia mai i nomi dei suoi avversari, è quasi certo che
Teodoreto si riferisca ad Eutiche.
La vera dottrina di Eutiche non è facile da definire. A un primo esame, di fronte
agli inviati del Sinodo, egli dichiara esplicitamente: «Dopo la nascita del nostro Signore
Gesù Cristo, io adoro una sola natura, cioè quella di Dio fatto carne e divenuto uomo».
Egli rifiuta decisamente l‟ipotesi della compresenza delle due nature nell‟Incarnato,
considerandola non conforme alla Scrittura e contraria all‟insegnamento dei Padri.
Riconosce, però, apertamente che Gesú è nato dalla Vergine ed è insieme Dio perfetto e
uomo perfetto. Nega di aver detto che la sua carne è venuta dal cielo, ma rifiuta l‟idea
che il Figlio di Dio sia consustanziale con noi. Interrogato davanti al Sinodo, ammette
che Cristo sia «di due nature (ex duo phuseon)», tuttavia sostiene che lo è solamente
prima dell‟unione: «dopo l‟unione – afferma -, io confesso una sola natura». Egli insiste
dunque nel dire che Cristo ha preso la sua carne dalla Vergine e precisa che, in ogni
caso, si è trattato di una Incarnazione completa (enanthropesai ... teleíos) e che la
Vergine è consustanziale con noi. A questo riguardo, Flaviano lo costringe ad ammetere
che il Signore è consustanziale con noi. Eutiche acconsente, ma solo perché il Sinodo
insiste. Spiega, infatti, che la sua riluttanza di fondo è dovuta essenzialmente al fatto che
egli considera il corpo di Cristo come il corpo di Dio; per cui esita a chiamare il corpo
di Dio „il corpo di un uomo‟.
Si può ben comprendere che la valutazione della dottrina di Eutiche si sia
formata raccogliendo alcune sue affermazioni e portandole alle estreme conseguenze.
Dalla sua riluttanza ad accettare il „consustanziale con noi‟ se ne è dedotto, ad esempio,
che l‟umanità di Cristo sia per lui pura apparenza; per cui è considerato tout court un
doceta. Inoltre, dalla sua affermazione delle due nature prima e una sola natura dopo
l‟unione, si è giunti alla conclusione che le due nature siano state fuse in un tertium
quid, oppure che l‟umanità sia stata assorbita dalla divinità. Sembra comunque certo che
Eutiche sia stato un pensatore confuso e poco abile, impegnato testardamente a
difendere l‟unità di Cristo contro ogni tentativo di divisione. Non può pertanto essere
definito un doceta e, neppure, un apollinarista. Nulla infatti è piú esplicito della sua
affermazione della realtà e concretezza della natura umana di Cristo. La sua esitazione
nei confronti del „consustaziale con noi‟ nasce unicamente dal fatto che egli rifiuta
categoricamente la concezione nestoriana dell‟umanità, intesa come assunzione
dell‟uomo Gesù da parte della divinità. Il suo rifiuto dell‟impiego della formula „due
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nature‟ è motivato dal fatto che, alla stessa stregua di molti alessandrini, egli intende
physis, o „natura‟, come sinonimo di esistenza concreta. Formatosi alla scuola
apollinarista, che considera ortodossa, egli si basa essenzialmente nella sua
formulazione dottrinale sulla formula di Cirillo „una sola natura‟, trascurandone la
qualificazione essenziale: „fatta carne‟. Se si vuole quindi giustificare la sua condanna,
si deve farlo alla luce di considerazioni più ampie: la Chiesa del suo tempo sta ancora
cercando la strada verso una cristologia più equilibrata. Il pensiero di Eutiche risulta
ancora, tutto sommato, troppo unilaterale, per cui, avvallandolo, si rischia di incorrere
negli errori che gli attribuivano i suoi avversari.
Deposto e scomunicato, Eutiche scrive al papa. Ma la sua lettera non ottiene il
risultato sperato. Flaviano, che ha già informato Leone della sua condanna, gli invia una
documentazione completa e rigorosa circa la sua dottrina. E Leone, il 13 giugno 449, gli
spedisce la sua famosa Epistula dogmatica o Tomus (= Ep. 28) a Flaviano, dimostrando
chiaramente la sua ostilità nei confronti della dottrina „una sola natura‟. Eutiche riceve
tuttavia l‟appoggio di Dioscoro (patriarca di Alessandria), che fin dall‟inizio ha rifiutato
di riconoscere la sua scomunica e, con il suo aiuto, riesce a convincere Teodosio II a
convocare un concilio. Il concilio si riunisce ad Efeso nell‟agosto del 449 ed è
caratterizzato dalla rude efficienza di Dioscoro, che impedisce ai legati papali di leggere
il Tomus ad Flavianum. Eutiche viene ipso facto riabilitato e la sua ortodossia
riaffermata. Il „Simbolo di unione‟ è formalmente abrogato, poiché, secondo i
sostenitori del partito di Dioscoro, andrebbe ben al di là delle decisioni del Sinodo di
Efeso del 431, e la stessa affermazione delle „due nature‟ dopo l‟unione viene
anatemizzata. Flaviano, Eusebio di Dorileo, Teodoreto e tutti i principali esponenti della
dottrina delle due nature sono condannati e deposti. Per i nefasti esiti conseguiti, questo
concilio è tristemente noto come Sinodo dei ladroni o „latrocinium‟ di Efeso.
II.
Il Contributo di Leone Magno
Sotto il profilo cristologico, il Tomus di Leone non è particolarmente originale, in
quanto riproduce e codifica con magistrale precisione le idee dei suoi predecessori.
Anzitutto, la persona del Dio-uomo è identica a quella della Parola divina. Si legge
infatti nel documento: «Colui che divenne uomo nella forma di servo è colui che nella
forma di Dio creò l‟uomo». Pur presentando l‟Incarnazione come „svuotamento di sé‟
(exinanitio), afferma che ciò non comporta alcuna diminuzione della potenza del Verbo.
Egli stesso infatti discende dal suo trono nei cieli, ma non cede la gloria del Padre.
Inoltre, si afferma che la natura divina e quella umana coesistono nella sola persona del
Verbo, senza mescolanza né confusione. Al contrario, unendosi per formare una sola
persona, ciascuna delle due conserva integralmente le proprie qualità naturali (salva ...
proprietate utriusque naturae et substantiae); infatti, come la forma di Dio non
distrugge la forma di servo, così la forma di servo non sminuisce o annulla la forma di
Dio. Anzi, il mistero della redenzione postula che «l‟unico e medesimo mediatore fra
Dio e gli uomini, l‟uomo Gesù Cristo, dovesse poter morire per quanto riguarda l‟uno e
non morire per quanto riguarda l‟altro». Quindi, le nature sono considerate principi di
operazione separati, quantunque agiscano sempre in perfetto accordo tra loro. Si giunge
così alla formula decisiva: «Ciascuna forma compie d‟accordo con l‟altra ciò che le è
proprio, il Verbo compie ciò che è proprio del Verbo e la carne realizza ciò che è
proprio della carne». Infine, l‟unità della persona presuppone la legittimità della
„communicazione degli idiomi‟. È legittimo infatti affermare che il Figlio di Dio è stato
crocifisso e sepolto, e parimenti che il Figlio dell‟uomo è venuto dal cielo.
Queste proposizioni contribuiscono ad avvicinare fra loro le due scuole di
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pensiero che lottano per la supremazia in Oriente. Gli antiocheni possono finalmente
veder riconosciuta la loro teologia nell‟affermazione di Leone della dualità in Cristo e
della realtà e indipendenza delle due nature. Alcune sue formulazioni, in effetti, e
particolarmente quella citata, saranno recepite come pietre d‟inciampo dai teologi
alessandrini. Tuttavia, anche costoro sono indotti a riconoscere che i presupposti
fondamentali della loro impostazione dottrinale sono chiaramente affermati nella
identificazione, fatta dal pontefice, dell‟identità della persona di Gesù con quella del
Verbo eterno. In un sermone di Natale, papa Leone afferma chiaramente: «Nelle due
nature esiste l‟unico e medesimo Figlio di Dio, che assume in sé ciò che è nostro, senza
perdere ciò che gli è proprio» (Serm. 27,1).
III.
Il Concilio di Calcedonia (451)
Poiché il Latrocinium si è tenuto sotto gli auspici imperiali, Teodosio si mostra
fermamente deciso a mantenere le sue posizioni, nonostante i tentativi di Leone di
riaprire la questione dottrinale. Di lì a poco, però, accade un fatto nuovo. Un militare di
professione, Marciano, sale al trono, consolidando la sua posizione mediante il
matrimonio con la sorella dell‟imperatore defunto, Pulcheria. Entrambi simpatizzano
per la dottrina delle „due nature‟ e, auspicando un avvicinamento delle parti contendenti
e un‟intesa sul piano dottrinale per il bene della Chiesa e l‟unificazione dell‟impero,
avanzano la proposta di un nuovo concilio generale. Il papa stesso cerca di convincere
Teodosio a convocarlo in Italia, per poter in tal modo riaffermare le proprie posizioni
nei confronti degli alessandrini e annullare le definizioni del Latrocinium. Anche
Teodoreto, appena rientrato dall‟esilio, rinnova la richiesta. Originariamente stabito a
Nicea (e non in Italia, come voleva il papa), il concilio è spostato a Calcedonia, più
vicina alla capitale e quindi più conveniente per Marciano. Vi partecipano più di
cinquecento vescovi; il papa, come al solito, invia i suoi legati come rappresentanti.
I lavori iniziano 1‟8 ottobre 451. L‟obiettivo principale del concilio, secondo le
aspettative dell‟imperatore, è quello di stabilire un‟unica fede in tutto l‟impero. La
maggioranza dei vescovi presenti rifiuta inizialmente l‟idea di procedere a una nuova
definizione dottrinale, ritenendo sufficiente riaffermare la fede nicena e riconoscere la
forza vincolante delle Epistulae dogmatiche di Cirillo e del Tomus di Leone. Ma, per
favorire un avvicinamento degli schieramenti contrapposti, i legati imperiali insistono
sulla necessità di proporre una formulazione, che tutti i partecipanti avrebbero poi
dovuto sottoscrivere. La definizione, sulla quale alla fine ci si accorda, si articola in tre
punti.
1. Anzitutto, riafferma solennemente il Credo del concilio di Costantinopoli e,
conseguentemente, confuta le eresie sorte dopo Nicea.
2. In secondo luogo, canonizza le due Lettere di Cirillo e il Tomus di Leone, le
prime come sconfessione del nestorianesimo e sana interpretazione del Credo,
il secondo come rifiuto dell‟eutichianesimo e conferma della vera fede.
3. Infine, stabilisce una confessione di fede, che viene così formulata:
«Perciò, in conformità con i santi Padri, noi tutti unanimemente
insegniamo che dobbiamo confessare che il nostro Signore Gesù
Cristo è un solo e stesso Figlio, lo stesso perfetto nella divinità e
lo stesso perfetto nell‟umanità, veramente Dio e veramente
uomo, lo stesso composto di un‟anima razionale e di un corpo,
consustanziale col Padre nella divinità, e lo stesso
16
consustanziale con noi nell‟umanità, in tutto simile a noi tranne
il peccato; generato da Dio prima di tutti i secoli quanto alla sua
divinità, e in questi ultimi tempi, lo stesso per noi e per la nostra
salvezza, generato dalla Vergine Maria, la Theotokos, secondo la
sua umanità; un solo e stesso Cristo, Figlio, Signore, Unigenito,
da riconoscersi in due nature, senza confusione, senza
trasformazione, senza divisione, senza separazione, poichè la
differenza delle nature non è affatto soppressa a causa della loro
unione, ma la proprietà di ciascuna natura è conservata
convergendo in un solo prosopon e in una sola hupostasis; non
separato o diviso in due prosopa, ma un solo e stesso Figlio,
Unigenito, Verbo divino, il Signore Gesú Cristo, come gli
antichi profeti e lo stesso Gesú Cristo ci hanno insegnato di Lui
e il Credo dei nostro Padri ci ha tramandato».
Durante i lavori conciliari, i legati imperiali, preoccupati di evitare la rottura,
intervengono per cercare di mettere d‟accordo le parti contendenti. Essi fanno pressione,
affinché vengano superate non poche resistenze. Infatti, a parte la diffusa obiezione alla
formulazione di un nuovo Credo, tre passi del Tomus di Leone suscitano gravi
inquietudini nelle delegazioni dell‟Illiria e della Palestina. Intervengono allora i legati
romani, che forniscono spiegazioni esaurienti e un dossier di citazioni di Cirillo per
convincerli che il papa non intende dividere Cristo, come ha fatto Nestorio, ma
riconosce semmai le conseguenze pratiche della distinzione delle nature. In secondo
luogo, pare che il primo abbozzo della confessione formale, presentato durante la quinta
sessione del 22 ottobre, non tenesse conto degli estratti dal Tomus, che sono stati invece
aggiunti e integrati nella versione finale, e riportasse la formula „da due nature‟ (ek duo
phuseon) anziché „in due nature‟ (en duo phusesin). Quindi, pur richiamando la
dichiarazione di fede di Flaviano al Sinodo permanente di Costantinopoli, non afferma
chiaramente la sussistenza delle due nature dopo l‟unione e, alla luce della posizione di
Eutiche, appare coerente con la sua negazione. Solo a forza di consumata abilità
diplomatica, l‟assemblea è indotta ad accettare gli emendamenti necessari.
Nella sua formulazione definitiva, la definizione di Calcedonia appare come un
mosaico di proposizioni tratte dalle due Lettere di Cirillo, dal Tomus di Leone, dal
Simbolo di unione (433) e dalla professione di fede di Flaviano al Sinodo permanente.
La sua peculiarità consiste nel pari riconoscimento che essa accorda all‟unità e alla
dualità del Dio-uomo. si osservi, inoltre, oltre alla formula „un solo prosopon e una sola
hupostasis‟, ripresa dalla professione di fede di Flaviano, la monotona ripetizione della
parola „lo stesso‟ e l‟insistenza sul fatto che, nonostante le nature siano distinte, il Cristo
è unico e lo stesso, „indivisibile e inseparabile‟. Il Figlio – precisa il Simbolo - „non è
separato o diviso in due prosopa‟. Benché l‟espressione tecnica di Cirillo, „unione
ipostatica‟, venga accantonata, si ribadisce con forza l‟unità di soggetto, identificato con
l‟Incarnato, e ciò è rafforzato dall‟introduzione del titolo, Theotokos, già approvato ad
Efeso. D‟altra parte, il lungo dibattito ha fatto comprendere che questa verità non può
sussistere da sola. Senza un esplicito riconoscimento della completa umanità di Cristo,
la tradizione antiochena non sarebbe stata pienamente soddisfata e si sarebbe aperto un
varco verso pericolose derive monofisite, sul modello di quella eutichiana. Accanto
all‟unità, la formula stabilisce quindi che il Verbo, identificato con l‟Incarnato, esiste „in
due nature‟, ciascuna delle quali completa e ciascuna con le sue peculiari caratteristiche
e operazioni, senza che sia compromessa o sminuita dall‟unione. Rifiutando l‟„unione
naturale‟ con le sue implicanze monofisite, il testo conciliare equipara di fatto
17
hupostasis a prosopon, e li considera entrambi idonei ad esprimere l‟unità di persona,
distinguendo una volta per tutte questi termini da physis, riferito esclusivamente alla
natura.
IV. La recezione del concilio di Calcedonia in Oriente
Per meglio comprendere la recezione in Oriente del Concilio di Calcedonia
dobbiamo soffermarci su due documenti: il Codex Encyclius del 458 e l‟Henotikon (o
Messaggio di Unione) del 482. La presentazione dettagliata di tali documenti,
unitamente all‟illustrazione articolata del Costantinopolitano II e della grande corrente
teologica rappresentata dal neocalcedonismo, completano il quadro del periodo che va
dal 451 al 553, cioè il periodo di maggior fervore teologico intorno alla figura del Cristo
nella regione del vicino Oriente
1. Il Codex Encyclius
Spinto dal desiderio di unificare sia sul piano politico sia su quello religioso
l‟Impero, l‟imperatore Marciano diventa subito paladino del Concilio di Calcedonia.
Per cui impone il simbolo calcedonese come legge dell‟Impero e ribadisce il divieto in
merito di ogni discussione.Fa eleggere con la forza come patriarca d‟Egitto Proterio, un
calcedonese convinto, il quale cerca di convincere la popolazione che Calcedonia non
apporta alcuna modifica ai tre Concili precedenti, sui cui pronunciamenti l‟accordo è
ormai pressoché unanime.
Alla morte di Marciano, tuttavia, nella primavera del 457, gli Egiziani cacciano
Proterio e lo fanno assassinare; quindi, eleggono come Patriarca un discepolo di
Dioscuro, Timoteo, chiamato significativamente Ailuro (il gatto), un prete monofisita ,
convinto anticalcedoniano, il quale chiede al nuovo imperatore Leone I (457-474)
d‟indire un sinodo ecumenico, che cancelli l‟eresia di Calcedonia e che lo riconosca
come legittimo Patriarca d‟Alessandria.
Per tutta risposta l‟Imperatore invia una circolare a Papa Leone I, a tutti i
metropoliti e ad alcuni monaci orientali di alto grado, nella quale li sollecita a convocare
sinodi provinciali straordinari al fine di esaminare la regolarità dell‟ordinazione di
Timoteo Ailuro e il valore delle decisioni di Calcedonia, contestate ad Alessandria. Il
medesimo impone ai latori delle missive di inviare in seguito i risultati della
consultazione alla Corte di Costantinopoli. Le risposte pervenute all‟imperatore con la
firma di 280 metropoliti e numerosi monaci sono raccolte nel Codex Encyclius. Secondo
il rapporto di Fozio, Biblioteca, cod 229, le firme sarebbero state addirittura 4801.
La reazione appare del tutto singolare. A pochi anni dal Concilio di Calcedonia,
il Codex Encyclius costituisce una testimonianza autorevole della sua recezione in
ambito ecclesiale. Tutti i firmatari, eccetto uno, confermano la validità delle decisioni di
Calcedonia; ma un‟attenta analisi di questi atti, piuttosto frammentari, mostra che non
vi è alcun riferimento diretto alla formula dogmatica, poiché per la maggior parte dei
firmatari valgono solamente le decisioni di Nicea, Costantinopoli ed Efeso e la
sconfessione delle eresie di Eutiche e Nestorio.
I1 Codex Encyclius è quindi il primo importante testimone di un‟interpretazione
cirilliana del Calcedonese. Rimane aperto l‟interrogativo se i Vescovi interpellati
dall‟Imperatore conoscessero il vero tenore della formula calcedonese. Si sa, ad es., che
il Metropolita Cappadoce, Alpio di Cesarea, scrisse accanto alla sua firma una postilla
in cui ammetteva di non conoscere le decisioni di Calcedonia.
1
Cf. A. Grillmeier, Fragmente zur Theologie. Studien zum altkirchlichen Christusbild, Freiburg, Herder,
1997,135.
18
Non si conoscono altri avversari della formula calcedonese, posteriori al Codex
Encyclius.
Grillmeier ha recentemente (1997) pubblicato uno studio: Fragmente zur
Cristologie, in cui mette in luce l‟importanza di questa raccolta di risposte per la lettura
della primissima recezione del Concilio di Calcedonia e spiega come il Vescovo
Equippo (CE 40) abbia posto per primo il dilemma circa la duplice lettura del testo,
optando fra due avverbi: „piscatorie’ o „aristotelice’.
Su questa base, egli illustra i due diversi modi d‟interpretare il documento
conciliare, operando una sorta di discernimento tra una lettura kerigmatica (piscatorie)
o una lettura di carattere filosofico (aristotelice). Come risulta dal Codex Encyclius, la
maggior parte dei Vescovi pare sia stata più propensa a valutare la formula come
kerigmatica, assumendo quindi come chiave di lettura il termine „piscatorie’. I
medesimi tuttavia avrebbero ritenuto che la nuova definizione non dovesse assumere la
stessa importanza dell‟istruzione battesimale o della fede battesimale.
Il simbolo battesimale di riferimento è ancora quello di Nicea, che essi
avrebbero difeso come documento inoppugnabile, per cui avrebbero espresso parere
negativo circa l‟ipotesi che la nuova definizione potesse essere utilizzata nell‟istruzione
battesimale.
Solo i vescovi, incaricati della catechesi battesimale avrebbero dovuto farne uso,
ma al solo scopo di combattere gli eretici; così si esprime il Vescovo Epifanio di Perge
nella sua lettera, contenuta nel Codex Ecyclius al n. 312. Egli ammette la piena validità
di Calcedonia, ma, nel medesimo tempo, afferma che la formula non va considerata un
vero e proprio symbolum e che il suo linguaggio è difficile e pone dei dubbi ai semplici
credenti.
Pur adottando dunque un linguaggio “al modo dei pescatori”, soprattutto nella
prima parte, la formula calcedonese avrebbe introdotto legittimamente una nuova
terminologia di carattere filosofico, l‟unica disponibile all‟epoca. Se consideriamo che
lo stesso procedimento è stato adottato a Nicea, dove compare il termine extrabiblico
, non si capisce perché la formula di Calcedonia, che ne rappresenta
l‟ulteriore conferma e interpretazione, non sia stata accolta.
2. Zenone Isaurico, Messaggio di unione (Henotikon) (autunno del 482)
Nel frattempo, i vari Imperatori si schierano dalla parte di Calcedonia, ma è
soprattutto l‟imperatore Zenone ad avallare la tesi della validità di Calcedonia, pur
avviando una politica di distensione verso il partito monofisita egiziano. Temendo
infatti un doppio scisma e la secessione della Chiesa dell‟Egitto, egli cerca di mantenere
un certo equilibrio promulgando l‟Henotikon o Messaggio di Unione, detto anche
Edictum Zenonis, redatto dal Patriarca Acacio.
Non si tratta di una confessione di fede, come alcuni si aspettavano3, ma di una
dichiarazione indirizzata principalmente agli Egiziani, con l‟intento ai aiutarli a superare
gli ostacoli sollevati dalla definizione di Calcedonia alle convinzioni monofisite degli
Egiziani e del popolo palestinese di stretta osservanza cirilliana. Tale documento
propone infatti di riconoscere Calcedonia nel suo insieme e soprattutto nella sua parte
antieretica contro Eutiche e Nestorio. Il testo offre, analogamente al Codex Encyclius,
un‟interpretazione cirilliana di Calcedonia, ma non va interpretato come monofisita, o
2
Cf. Epiphanius, Ep. Perg., CE 31: ACO 11,5,59,7-24.
3
Cf. H.C Brennecke, «Chalkedonese und Henotikon», in Chalkedon: Geschichte und Aktualität, a cura di
J.Van Oort J. Roldanus, (= Patristic Studies 4) Peeters, Lonvain, 1998, 43.
19
come anticalcedonese, poiché resta ancorato, almeno nelle intenzioni, all‟ortodossia più
rigorosa.
L‟importanza dell‟Enotico consiste principalmente nell‟aver favorito in Oriente
l‟unità politico-religiosa, anche se il suo effetto appare poco incisivo e di breve durata.
Tuttavia, non per questo va considerato un indebito intervento dell‟autorità imperiale in
campo religioso, come talvolta si vorrebbe far credere. Infatti, come giustamente
osserva A. Zani, «Il Messaggio di Unione si colloca all‟inizio di una diversa
impostazione ideologica dei rapporti tra l‟Imperatore e la Chiesa. Con essa la politica
generalmente seguita dall‟autorità imperiale da Costantino a Leone I, volta a tutelare
l‟ordine e la salute dello Stato con la protezione accordata alla Chiesa e ai suoi
rappresentanti, viene sostituita dall‟intromissione nelle questioni religiose non tanto per
motivi di fede, quanto soprattutto con finalità e aspettative esclusivamente politiche.
L‟intento di Zenone, emanando il suo Henotikon, redatto dal patriarca di
Costantinopoli Acacio (472-489), è di proporre una formula di fede che, con ricercata
ambiguità prenda le distanze dalla definizione cristologica calcedonese, senza apparire
apertamente monofisita, onde consentire un compromesso agevole fra le opposte
posizioni teologiche e raggiungere, finalmente, l‟unione politico-religiosa. Vengono
così confermate le decisioni di Nicea, Costantinopoli, Efeso, condannate le dottrine di
Nestorio ed Eutiche, accettati gli anatematismi di Cirillo [nn.347-358]. Ancorché in
modo equivoco, non si rifiuta né si accetta il concilio di Calcedonia; non si menziona
espressamente il Tomo di Leone, ma se ne critica apertamente un‟espressione
significativa [nn.366-389]. Zenone, con un irenismo pragmatico, cerca di mediare due
cristologie, la calcedonese e l‟anticalcedonese, ma in una maniera tanto ambigua da non
rispettare né l‟una né l‟altra»4.
Per il suo carattere di compromesso, l‟Enotico risulta quindi teologicamente
insoddisfacente e contestabile da ogni punto di vista, e rappresenta per certi versi un
passo indietro rispetto alle formule di fede precedenti e a quanto è stato definito, ma
non del tutto recepito, al Concilio di Calcedonia.
L‟Enotico, o editto di Zenone, è strettamente legato alla Formula di Unione del
433, che costituisce il fondamento teologico del Concilio di Calcedonia; vengono
approvati i primi tre Concili Ecumenici, confermato il Credo niceno-costantinopolitano,
dichiarato valido e vincolante per tutte le chiese sparse nel mondo. Si sottoscrive
nuovamente la condanna di Nestorio e di Eutiche, mentre vengono riconfermati i dodici
anatematismi di Cirillo contro Nestorio, nonostante non siano stati accolti e convalidati
a Calcedonia. Tali proposizioni sono ritenute conformi alla retta fede, in quanto già
contenute nel precedente Codex Encyclius del 458 e considerate conformi a quanto è
stato definito a Calcedonia. Tale presa di posizione costituisce un preoccupante
spostamento dalle posizioni calcedonesi a quelle rigidamente ciriliane di tendenza
monofisita.
Indirettamente viene rifiutata la stessa formula di Leone: «Il Verbo mette in atto
ciò che riguarda il Verbo, la carne quello che riguarda la carne; l‟uno risplende nei
miracoli, l‟altra si arrende alle ingiurie». Si ribadisce infatti che Cristo è uno e non due,
e viene espressamente affermato che tanto i suoi miracoli quanto le sue sofferenze, che
Egli di sua volontà ha sopportato nella carne, appartengono a un‟unica persona, e
vengono rigettati tutti coloro che creano a questo riguardo confusione o predicano due
figli. Infine, si sottolinea il concetto della doppia omoousia e della vera umanità e
divinità di Cristo, «poiché la Trinità è rimasta Trinità anche quando Uno della Trinità, il
4
I Documenti Dottrinali del Magistero, a cura di G. Canobbio, Queriniana, Brescia, 1996, A ZANI
Cristologia, 246-496, soprattutto 384-386.
20
Verbo Dio, è divenuto carne». Manca la citazione dei quattro avverbi che precisano il
tipo di unione, ed è solo sottintesa la precisazione dell‟unione „inconfusa‟, presente
nella formula di unione del 433. Inoltre, diversamente dalla formula calcedonese, non si
introduce alcun termine filosofico.
Non si è ovviamente ancora in grado di superare ogni pregiudiziale di carattere
ideologico e di accettare il confronto, per favorire il progresso dogmatico e costruire
l‟unità della Chiesa5.
V. Il Concilio Costantinopolitano II (553)
1. Il contesto che lo prepara
Il Costantinopolitano II si svolge un secolo dopo quello di Calcedonia. In questo
lasso di tempo, la corrente monofisita prende le distanze da quella eutichiana, ormai
marchiata di eresia, e si salda con lo schieramento che si riconosce nelle posizioni di
Cirillo d‟Alessandria, ritenute più adatte a illustrare l‟identità del Cristo.
La formula dell‟“unica natura ( incarnata del Dio Verbo” crea
paradossalmente un unico fronte sia ad Antiochia con Severo (ca. 465- 538) che ad
Alessandria. Il dibattito cristologico non è più incentrato sulla costituzione ontologica
del Cristo, ma sulla formula stessa, per cui più che di un ritorno al monofisismo
radicale, si tratta di una riscoperta dell‟orientamento cristologico di Calcedonia.
Severo di Antiochia, il più illustre interprete di questo fronte anticalcedonese
antiocheno, elabora una formulazione conciliare, che sarà approvata nel successivo
Concilio Costantinopolitano ed entrerà a far parte del dogma della Chiesa. Il vescovo di
Antiochia pone la questione delle “due ”, e, quindi, della loro distinzione nel
senso dell‟assoluta non confusione, che però non deve sfociare nell‟affermazione di due
individui. Esclude quindi ogni sorta di separazione, poiché l‟unione 
(“secondo la composizione”) permane anche dopo la risurrezione e l‟ascensione.
Conseguentemente, egli ammette che solo in abstracto si possa parlare di due nature,
cioè di due sostanze potenzialmente capaci di ipostatizzarsi, ma poiché una simile
concezione potrebbe di fatto (in re) presupporre l‟esistenza di due persone, egli afferma
chiaramente che non c’è stato un solo istante in cui l’umanità assunta sia stata
disgiunta dal Verbo, altrimenti l‟umanità assunta avrebbe avuto bisogno di un supporto
ipostatico.
In merito alla cristologia di Severo di Antiochia, Antonio Zani osserva: «Dopo
l‟unione reale, fisica e ipostatica che ha costituito il Cristo come soggetto unico, Dio
divenuto uomo, una natura e ipostasi „da due‟, non è possibile confessare che le qualità,
gli attributi, le attività appartengano in maniera esclusiva a una delle due realtà
concepite come nature, a meno che non si voglia concludere a una loro relazione
estrinseca o accidentale, nestoriana. A motivo dell‟unione e della composizione
dell‟Incarnazione il Cristo è l’unica natura ipostasi e persona incarnata del Dio Verbo;
solo attraverso il pensiero, la riflessione, la sottile contemplazione è possibile una
distinzione delle due nature, poiché essi compiono un‟astrazione dall‟unione che le
compone in modo indissolubile nell‟unità di soggetto incarnato»6.
Sulla scorta della cristologia di Severo d’Antiochia e di Leonzio di
Gerusalemme, il concilio Costantinopolitano II cerca di dare un‟interpretazione
corretta della definizione di Calcedonia, che esuli il più possibile dal nestorianesimo,
considerato, a ragione o a torto, il suo limite intrinseco.
5
Cf. H.C. Brennecke, «Chalkedonese und Henotikon», in Chalbedon: Geschichte und Aktualität, a cura di
J.Van Oort J. Roldanus (= Patristic Studies 4), Peeters, Louvain, 1998, 51.
6
A. Zani,Cristologia,390-391.
21
2. Gli anatematismi e la cristologia del concilio
Degli atti del concilio Costantinopolitano II abbiamo soltanto una traduzione
latina, poiché gli originali sono andati perduti probabilmente durante la presa di
Costantinopoli dell‟anno 1453. Gli anatematismi ci consegnano un compendio di
“cristologia neocalcedonese”. I nuclei fondamentali, attorno ai quali si sintetizza la
cristologia del concilio, sono contenuti nei primi dieci anatematismi e riguardano
anzitutto il rapporto tra l‟unica natura e le tre ipostasi o persone.
«Si enumerano quindi le nature non certo con l‟intenzione di porle ognuna come
un sussistente a parte (con la sua propria ipostasi), ma per “cogliere la loro differenza
mediante la sola considerazione concettuale ()”. In altre parole, le si
enumera semplicemente in funzione della loro alterità, ma facendo astrazione dalla loro
esistenza concreta. In questo ordine esse non sono che una sola realtà sussistente ...
 è considerata come atto puramente intellettuale di una conoscenza che astrae i
concetti dalla realtà»7.
La formula, relativa al primo anatematismo, dice che la dualità è solo un
momento ‘concettuale’ della ontologia del Cristo, ma che il punto di partenza e il punto
di arrivo della medesima è rappresentato dall‟unità. Non si deve pertanto parlare di due
nella considerazione del Cristo, poiché così facendo si avvalla l‟ipotesi che le due realtà
siano equivalenti; si deve invece parlare di due unicamente per spiegare che l‟umanità
non è riconducibile alla divinità, nonostante che l‟ipostasi del Cristo sia ipostasi del
Verbo, poiché egli ha un‟esistenza umana reale e concreta. Di fatto, le ‘due’ nature sono
percepite solo da un atto del nostro spirito, che non può spiegare in modo diverso
l‟identità umano-divina del Salvatore.
Nella professione trinitaria viene inoltre direttamente inserito il Verbo incarnato.
Nel X anatematismo, si afferma che egli è il “Dio vero”, Signore della gloria e Uno
della Trinità, stabilendo così uno stretto collegamento tra dottrina trinitaria e cristologia.
Si prendono poi le distanze dalla cristologia divisiva nestoriana. Infatti in diversi
anatematismi e, soprattutto, nel IV, si afferma che non si può dividere Gesù Cristo dal
Verbo e ritenere l‟unione delle due nature secondo le modalità della cristologia
nestoriana. Si sottolinea che esiste un unico modo d‟intendere l‟unione secondo la
composizione
o
secondo
l‟ipostasi
(), quindi non secondo la formula
forte dell‟-, già avanzata da Leonzio di Gerusalemme, ma secondo quella
più moderata, in base alla quale, sebbene ogni natura esistente abbia una propria
ipostasi, nel caso dell’ipostasi del Verbo, essa diventa ‘composta’, nel senso di un solo
atto di sussistere (unam subsistentiam compositam), cosi ché l’umanità di Cristo
sussista in modo ipostatico nell’umanità del Verbo. I1 soggetto delle azioni umane e
divine del Cristo non è il Verbo, ma il Verbo umanizzato. Conseguentemente la persona
composita del Verbo incarnato è, al tempo stesso, umana e divina. Pertanto, la formula
“in due nature” sussite soltanto a livello teorico, ma non esiste in realtà, per cui il
numero due significa che nell‟unione permane la differenza delle nature, senza che ciò
implichi una reale divisione o separazione delle medesime. Infatti, l‟unione per
composizione delle due nature fa sì che la natura umana sia „posta insieme‟ con la
natura divina senza subire alterazione. L’unione ipostatica fa sì che che le due nature
rimangano nell’unione ciò che sono per natura.
Con il Costantinopolitano II «il modello calcedonese della cristologia è per la
seconda volta consegnato alla comunità cristiana senza il sospetto dell‟equivoco
nestoriano», la cui conferma è data, non solo dalla condanna, ma anche
7
B. Sesboüé, Gesù Cristo nella tradizione della Chiesa, Ed. Paoline, Milano,1986,160.
22
dall‟«integrazione della prospettiva cristologica antinestoriana di Cirillo»8.
I1 Costantinopolitano II ha voluto in tal modo dare l‟autentica interpretazione
del concilio precedente, ovvero di quello di Calcedonia. Esso ha avuto il merito di
chiarire il senso di unione ipostatica, secondo cui Gesù Cristo non è più considerato
l‟effetto dell‟unione delle due nature, ma il Verbo incarnato, che realizza l‟unione,
ovvero la compositio delle due nature nella sua divina ipostasi, senza causare nessuna
confusione, né divisione. Non troviamo nel testo conciliare il termine ,
perché ancora carico di un senso rigorosamente calcedonese per essere universalmente
recepito. Pertanto, il concilio si assesta su una posizione cristologica più moderata.
3. Caratteri neocalcedonesi del concilio
Anche se, dal punto di vista dogmatico, il II concilio di Costantinopoli non
formula alcuna professione di fede, vuole tuttavia dare l‟autentica interpretazione alla
definizione del concilio di Calcedonia. Questo concilio conferma infatti l‟uso corretto
della formula «in due nature» e la definizione dell‟unione «secondo l‟ipostasi», intesa
come compositio delle nature. Si ribadisce, in definitiva, che è l‟ipostasi divina quella
che fonda l‟unione; inoltre, si sottolinea che la distinzione delle due nature è solo teorica
e non reale, secondo l‟insegnamento di Cirillo. La novità, apportata dal concilio,
consiste, in definitiva, nel chiarire il senso dell‟unione ipostatica, in cui Gesù Cristo non
è più considerato l‟effetto dell‟unione delle due nature, ma il Verbo incarnato. D‟ora in
poi, non si guarda più all‟unica ipostasi a partire dalle due nature, ma si parte dalla fonte
stessa dell‟unione, ossia dal Verbo che realizza l‟unione, ovvero la compositio delle due
nature nella sua divina ipostasi senza causare alcuna confusione, né divisione.
Nei pronunciamenti del consilio non troviamo il termine , perché
ancora troppo connotato in senso rigidamente calcedonese, ma vi confluiscono le
intuizioni cirilliane, in particolare quella dell’unità ipostatica del Verbo Incarnato, che
determina un avvicinamento all‟ortodossia del partito monofisita.
Tale tentativo di mediazione, incoraggiato da Giustiniano e riconosciuto dal
Pontefice, determina in area bizantina un approfondimento del tema dell‟unità ipostatica
sulla base dei registri più cari alla tradizione alessandrina, con il risultato che tutta la
tradizione antiochena viene bollata di nestorianesimo e i suoi migliori spiriti vengono
condannati.
Questa sintesi dottrinale, che non tradisce Calcedonia, ma la reinterpreta in
senso moderatamente cirilliano, è stata abbozzata da Giustiniano, che ha inserito
ufficialmente nella fede ufficiale la formula cara ai monaci sciti Unus de Trinitate
passus est carne, che è stata il filo conduttore e il baluardo della riflessione teologica.
Questa formula accentuava appunto l‟azione ipostatizzante del Verbo nei confronti della
carne e assicurava l‟intrinseca unione di divinità e umanità nell‟ipostasi divina.
La corte imperiale diventa in questo momento il baricentro dell‟attività
neocalcedonese, finalizzata al recupero delle frange monofisite. L‟iniziativa più
importante è la famosa lotta contro i Tre Capitoli, culminata nelle decisioni del
Costantinopolitano II (553), in cui vengono liquidati come nestoriani tre grandi autori
antiocheni (Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Ciro e Iba di Edessa), che larga parte
hanno avuto nella formulazione duofisita.
Va però osservato che la recezione del neocalcedonismo non avviene senza
traumi: non solo l‟Occidente (specie l‟Africa romana, l‟Illirico, la Spagna e l‟Italia
settentrionale) rimane assai perplesso di fronte a questi sviluppi, che sembrano
un‟arbitraria riduzione di quanto solennemente sancito nel concilio di Calcedonia del
8
A. Zani, 394.
23
451, quantunque nella sostanza non sia minimamente intaccata l‟ortodossia cristologica,
ma anche buona parte dell‟Oriente respinge tale forma di calcedonismo (basato
essenzialmente sull‟unione ipostatica come sintesi o compositio, che si verifica
nell‟ipostasi del Logos), tra cui le cosidette Chiese non calcedonesi (Sira, Armenia,
Egitto, Etiopia, Persia) e la chiesa nestoriana di Persia.
Ciononostante, non si può non convenire che quella fede abbia cambiato il volto
della cristianità e abbia esercitato la sua influenza nel corso della teologia fino ad oggi.
24

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