il ritorno del nazionalismo tedesco

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il ritorno del nazionalismo tedesco
ESPORTO, DUNQUE SONO –
IL RITORNO DEL
NAZIONALISMO TEDESCO
Pubblicato in: 2014-1914 L'EREDITÀ DEI GRANDI IMPERI - n°5 - 2014
14/05/2014
La nascita del Reich nel 1871 disintegra gli equilibri continentali, dando vita a
una potenza espansionista. Oggi al militarismo è subentrata l’economia, ma le
analogie non mancano. L’idea weberiana di missione. Il cauchemar des
coalitions.
di Hans Kundnani
ARTICOLI, Germania, Prima Guerra Mondiale, Ue, Angela Merkel, Europa
1. DALL’INIZIO DELLA CRISI DELL’EURO NEL 2010, la dolorosa storia della
Germania è tornata a perseguitare il paese. I quotidiani greci hanno paragonato più volte il
cancelliere Angela Merkel ad Adolf Hitler; quando Merkel ha visitato Atene, nell’ottobre
2012, manifestanti hanno bruciato bandiere tedesche con sopra la svastica, hanno indossato
uniformi naziste e mostrato striscioni con lo slogan «Hitler, Merkel – stessa merda». Ci
sono voluti 7 mila poliziotti greci per proteggere la delegazione tedesca. Alcuni sono tornati
a chiedere alla Germania il pagamento delle riparazioni di guerra, che secondo un rapporto
del governo ellenico pubblicato nel 2012 ammontano a 162 miliardi di euro. Sempre nel
2012 il Corriere della Sera ha dichiarato che «l’Italia non è più in Europa, ora fa parte del
Quarto Reich». Nel 2013 anche un editoriale dello spagnolo El País ha equiparato Merkel al
Führer.
Non sono però solo i manifestanti e i giornalisti della cosiddetta periferia europea ad aver
rivangato il passato tedesco nel contesto dell’eurocrisi; ad essi si sono uniti anche autorevoli
analisti e accademici nel resto d’Europa. Nel 1953 Thomas Mann fece appello a una
«Germania europea» per scongiurare un’«Europa germanica», ma negli ultimi anni si sono
moltiplicati quanti additano in un’Europa d’impronta tedesca l’esito ultimo della crisi. Molti
studiosi parlano del riemergere della «questione tedesca»: vi è un intenso dibattito circa il
vero o presunto esercizio da parte di Berlino di un’egemonia sul Vecchio Continente e
alcuni, come George Soros o Martin Wolf, intravedono addirittura l’emergere di una sorta
di «impero» tedesco dentro l’Europa. Persino Anthony Giddens scrive che «la Germania
sembra aver raggiunto con mezzi pacifici quanto non era riuscita a ottenere mediante la
conquista militare: il dominio dell’Europa»1.
I tedeschi, nel frattempo, si mostrano offesi e sconcertati da queste allusioni. Malgrado i
paragoni tra Merkel e Bismarck fatti dalla Bild, la maggior parte vede la storia nazionale
precedente il 1945 come irrilevante rispetto all’attuale crisi europea e alcuni leggono nei
paralleli storici un tentativo di estorsione da parte dei governi più indebitati. Politici,
diplomatici e analisti tedeschi hanno sottolineato quanto l’Europa e la Germania siano
cambiate: la «questione tedesca» semplicemente non esiste e i presunti disegni egemonici
risultano del tutto anacronistici. Al contempo, alcuni tedeschi hanno invocato altri paralleli
storici. Dominik Geppert, un giovane storico euroscettico, ha ammonito ad esempio che in
futuro il termine «Maastricht» potrebbe assumere in Germania la stessa connotazione
negativa un tempo propria di «Versailles»2.
A un secolo dallo scoppio della Grande guerra, il dibattito sulla potenza tedesca vede
dunque posizioni fortemente contrapposte. In assenza di accordo circa la rilevanza o meno
della storia tedesca, vi è stata poca discussione sul come tale storia possa influire sull’attuale
situazione europea. Eppure, a ben vedere l’influenza c’è, sotto almeno due profili. Il primo
emerge dal paragone strutturale con la cosiddetta Mittelage; il secondo dal parallelo
ideologico con il senso di «missione» della nazione tedesca. Entrambi i concetti rendono la
storia tedesca che ha portato alla prima guerra mondiale particolarmente interessante e
rilevante rispetto alla situazione odierna e la loro attenta analisi può aiutare a comprendere i
dilemmi attuali.
2. L’unificazione della Germania trasformò l’Europa. Con la spettacolare sconfitta della
Francia e la proclamazione di un Reich tedesco unificato nella Sala degli specchi di
Versailles, nel gennaio 1871 emergeva un nuovo gigante nel cuore del continente. Lo
storico Brendan Simms ha scritto che «dove per secoli vi era stata una pletora di staterelli e
dove appena sette anni prima vi erano ancora quaranta distinte entità politiche, si ergeva ora
una singola potenza»3. La forza tedesca e la debolezza francese sconvolsero l’equilibrio in
essere dalla fine delle guerre napoleoniche, che aveva mantenuto la pace in Europa. Nel
febbraio 1871 il premier britannico Benjamin Disraeli disse alla Camera dei Comuni che la
«rivoluzione tedesca» aveva creato «un nuovo mondo. (…) L’equilibrio di potenza è stato
spazzato via», sentenziò4.
Il nuovo Reich tedesco creato dal cancelliere prussiano Otto von Bismarck univa la
Confederazione Tedesca del Nord creata dopo la sconfitta dell’Austria nel 1866 con gli Stati
meridionali del Baden, della Baviera e del Württemberg (che fino alla guerra francoprussiana avevano avuto tendenze filofrancesi), più i territori annessi di Alsazia e Lorena.
La nuova Germania aveva una popolazione di 41 milioni di persone – maggiore di quelle
francese (36 milioni), austro-ungarica (35,8 milioni) e britannica (31 milioni), ma inferiore a
quella russa (77 milioni) – in rapida crescita. Aveva anche un’economia industriale
altamente avanzata, anch’essa in rapida espansione, nonché il miglior sistema d’istruzione
del mondo e un esercito formidabile.
Tuttavia, malgrado queste risorse impressionanti, nemmeno la Germania era abbastanza
grande e potente da imporre la propria volontà in Europa. Sebbene avesse appena vinto tre
guerre consecutive, non poteva sconfiggere la coalizione fra due o più delle altre cinque
grandi potenze. Lo storico tedesco Ludwig Dehio avrebbe in seguito correttamente descritto
la problematica posizione del Kaiserreich nell’Europa continentale come una condizione di
semi-egemonia: il paese non era abbastanza forte da imporre la propria volontà sul
continente; ma al contempo lo era abbastanza da essere percepito come una minaccia dalle
altre potenze5. Dunque le sue dimensioni e la posizione geografica centrale in Europa – la
cosiddetta Mittelage – rendevano la Germania una presenza intrinsecamente destabilizzante.
Tale circostanza divenne nota come «questione tedesca».
Questo problema strutturale incoraggiò progressivamente altri Stati europei a formare
coalizioni per controbilanciare la potenza tedesca. Ciò, a sua volta, alimentò in Germania il
timore che si materializzasse una coalizione ostile di grandi potenze – il cosiddetto
cauchemar des coalitions , l’incubo delle coalizioni. La paura dell’ Einkreisung
(accerchiamento) spinse la Germania a prendere misure per proteggersi, il che indusse le
altre potenze a prendere contromisure. Sorse così quello che Hans-Peter Schwarz ha definito
«la dialettica dell’accerchiamento»6. Quando Berlino divenne una minaccia all’equilibrio
europeo, ha scritto Henry Kissinger in L’arte della diplomazia, «le profezie autoavverantesi
divennero parte integrante del sistema internazionale»7. Questo periodo culminò fatalmente
nella prima guerra mondiale, sebbene il ruolo della Germania nello scoppio della stessa resti
ad oggi materia di dibattito tra gli storici8.
3. Le eventuali analogie tra quella situazione e il contesto attuale e le implicazioni dell’idea
di «questione tedesca» applicata all’oggi sono materia assai controversa. La questione
tedesca è apparsa definitivamente risolta dopo il secondo conflitto mondiale, con la
divisione della Germania e l’integrazione della Repubblica Federale Germania nel campo
occidentale attraverso la Nato e l’Ue. Dalla fine della guerra fredda la Germania è tornata
centrale in Europa, almeno in senso geografico. Ma mentre nel passato il paese fronteggiava
nemici ovunque e temeva l’accerchiamento, oggi è circondata da alleati Nato e partner
europei. La «saturazione strategica» della Germania post-riunificazione e l’interdipendenza
della sua economia con quella dei paesi vicini implica che Berlino non cerchi più
l’espansione territoriale e non si senta più minacciata. In termini geopolitici, la Germania è
divenuta una potenza benigna.
Tuttavia, si può sostenere che la dimensione dell’economia tedesca e l’interdipendenza di
essa con le altre economie europee stiano creando instabilità in Europa. Dopo la
riunificazione la Germania è diventata più grande, ma in un primo momento
economicamente debole, impegnata com’era a sostenere il fardello dei Länder orientali.
Inoltre, ha visto i suoi interessi allineati a quelli della Nato e dell’Unione Europea. Nel
corso dell’ultimo decennio, con il progressivo recupero economico, Berlino è diventata
tuttavia più incline a imporre le sue preferenze agli altri. Nel contesto dell’Ue, l’economia
tedesca è troppo grande per essere sfidata dai suoi vicini, Francia inclusa: è «un colosso»,
come l’ha definita Jürgen Habermas nel 2010. Al contempo, non è però sufficientemente
grande da esercitare un’egemonia completa9. Alcuni hanno visto nella Germania un
egemone «riluttante» e l’hanno spronata a esercitare un ruolo di guida più incisivo per
risolvere l’eurocrisi10.
Tuttavia, il fallimento di Berlino in tal senso riflette i limiti della potenza tedesca.
L’economia tedesca ha recuperato negli anni Duemila, ma lo ha fatto in gran parte
attraverso le delocalizzazioni produttive e la compressione salariale, in un contesto
mondiale complessivamente favorevole. La Germania resta troppo fragile per assumersi il
fardello dell’egemonia, a prescindere dal fatto che questa si concreti in trasferimenti fiscali
o nella condivisione del debito europeo, nell’accettazione di una moderata inflazione o nel
ruolo di consumatore di ultima istanza. Di fatto, la Germania persegue una politica
economica da piccolo paese, piuttosto che da peso massimo continentale. Pertanto, sebbene
il suo vantaggio sulla Francia in termini di potenza le abbia consentito di imporre la propria
volontà ad altri paesi dell’Eurozona, è troppo piccola per svolgere il ruolo di egemone
europeo.
Piuttosto, come diversi storici tedeschi suggeriscono, Berlino è tornata alla posizione di
semi-egemonia in Europa identificata da Dehio11. Tuttavia, è chiaramente una forma diversa
di semi-egemonia rispetto a quella che caratterizzò il periodo 1871-1945. Ho sostenuto
altrove che il modo migliore di comprendere la Germania oggi è quello di pensarla come
potenza geoeconomica12: il pericolo in Europa non è più una guerra, bensì la competizione
con mezzi economici. La Germania ha rigettato l’uso della forza militare in modo più
drastico di quanto fatto da quasi ogni altro Stato europeo, ma usa il suo potere economico in
modo attivo nel contesto comunitario, specie da quando è iniziata la crisi. La questione
tedesca sembra dunque riaffiorare in termini economici.
Il pericolo è che in Europa prenda piede una versione geoeconomica dei conflitti che
funestarono il continente dopo l’unificazione tedesca. In particolare, il riemergere della
questione tedesca in forma economica potrebbe comportare un ritorno alle dinamiche di
coalizione che videro protagoniste le altre potenze europee fino al 1945. Da quando è
iniziata la crisi, la diplomazia bilaterale nell’Ue si è incentrata su Berlino, la quale è tornata
ad essere la «capitale diplomatica d’Europa», come negli anni Ottanta dell’Ottocento.
Stiamo probabilmente assistendo a una riconfigurazione del sistema diplomatico europeo,
che sembra andare verso un assetto incentrato sulla Germania. In particolare, i paesi
dell’Europa centrale – le cui economie si sono profondamente integrate con quella tedesca
negli ultimi vent’anni – cominciano a formare l’equivalente economico di una sfera
d’influenza. Tanto che alcuni analisti intravedono il ritorno di una Mitteleuropa a guida
germanica13.
Al contempo però, come notato da George Soros14, altri Stati europei – in particolare quelli
della cosiddetta periferia – sono stati spinti in misura crescente a fare fronte comune contro
Berlino. Ciò minaccia di rinverdire, in versione geoeconomica, l’antico timore tedesco
dell’accerchiamento. Dopo il 1871, nessun altro paese europeo era sufficientemente forte da
tener testa alla Germania da solo, pertanto non vi erano alternative alla formazione di una
coalizione antitedesca. Se al tempo la Germania temeva l’accerchiamento militare, oggi
teme invece di essere assediata da una coalizione di economie deboli15. I mezzi differiscono,
ma la dialettica dell’accerchiamento appare di nuovo in azione.
I timori tedeschi al riguardo sono aumentati specialmente dal vertice europeo di giugno
2012, in cui la Merkel dovette soccombere alle pressioni di Francia, Italia e Spagna
acconsentendo alla creazione dello European Stability Mechanism (Esm), il fondo
permanente di salvataggio dell’Eurozona per la ricapitalizzazione diretta delle banche nei
paesi colpiti dalla crisi. L’istituzione dell’Esm è stata vista in gran parte dell’Europa come
una svolta in grado di rompere il nesso perverso banchegoverni – laddove i secondi sono
chiamati a salvare le prime emettendo debito pubblico, con il risultato di aggravare la crisi
in cui versano. In Germania, invece, è stata vissuta come una sconfitta, accolta dallo Spiegel
con il laconico titolo: «La notte in cui Merkel perse». Berlino teme che la Banca centrale
europea (Bce) abbia abbandonato la rigida ortodossia monetaria e finanziaria tedesca per
abbracciare il modello inflazionistico latino e che Francia, Italia e Spagna – i tre paesi che
unirono le forze nel 2012 – rappresentino il nuovo cuore dell’Eurozona. Il punto è quanta
conflittualità sia necessaria oggi in Europa per sciogliere questo nodo.
4. La politica estera tedesca praticata nel periodo anteriore al 1914 non rispondeva solo a
criteri militari, economici e geografici; essa era guidata anche da ciò che potremmo definire
un’ideologia. In particolare, dopo l’unificazione la Germania era pervasa da uno spirito
trionfalistico. Nel 1873 Nietzsche ravvisò una perniciosa tendenza a pensare che «[anche] la
cultura tedesca abbia vinto» nel conflitto con la Francia16. Il senso di superiorità tedesco non
era solo tecnico, ma anche culturale: la Germania sembrava incarnare una combinazione
unica di istituzioni politiche, economiche, militari ed educative e di valori «spirituali».
Dopo il 1848 – il momento in cui «la storia tedesca raggiunse il punto di svolta e non riuscì
a svoltare», come ha scritto lo storico A.J.P. Taylor17 – il nazionalismo tedesco tese sempre
più a definire se stesso in antitesi all’Occidente.
Quel nazionalismo era emerso al principio dell’Ottocento, quando molte delle centinaia di
Stati che più tardi avrebbero dato vita a una singola nazione erano sotto l’occupazione
francese, nell’ambito delle guerre napoleoniche. Nella seconda metà del secolo, i
nazionalisti tedeschi definirono in misura crescente la Kultur nazionale in opposizione alla
Zivilisation francese e, a volte, occidentale. C’era, come ha scritto Michael Hughes, un
«rigetto intellettuale da parte di alcuni nazionalisti tedeschi delle idee e dei modelli
occidentali e la ricerca di una via specificamente tedesca nel campo delle idee, della politica
e dell’organizzazione sociale»18. Questo modello alternativo era inteso come diverso e
superiore a quelli occidentali. In particolare, i nazionalisti tedeschi rifiutavano il liberalismo
politico sviluppato in Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Pertanto, un senso di
eccezionalità divenne centrale nel nazionalismo tedesco.
Al contempo, tuttavia, questo nazionalismo includeva l’idea che la cultura tedesca dovesse,
in qualche modo non specificato, trovare espressione a livello globale. In particolare, i
nazionalisti immaginavano che, nel realizzare la propria identità, la Germania non avrebbe
solo liberato se stessa, ma anche redento il mondo intero. Questo senso di missione storica
trovò memorabile espressione nel poema Deutschlands Beruf (La missione della
Germania), scritto da Emanuel Geibel nel 1861: Und es mag am deutschen Wesen/ Einmal
noch die Welt genesen (L’essenza della nazione tedesca/ Sarà un giorno la salvezza del
mondo).
Tale sentimento andò rafforzandosi negli anni anteriori alla prima guerra mondiale: quando
l’intelligencija tedesca andò alla guerra nell’agosto 1914, era – come ha scritto David
Blackbourn – «la presunta superiorità della sua cultura ad essere brandita contro il
nemico»19. Per un breve periodo, dopo aver acquisito vasti territori sulla scorta del trattato
di Brest-Litovsk del marzo 1918, la Germania intraprese in Europa orientale una missione
civilizzatrice, nel nome della Mitteleuropa. Si trattava, nelle parole di Geoff Eley, di «un
grande progetto d’integrazione continentale sotto l’egida tedesca». Dopo l’interludio della
Repubblica di Weimar, i nazisti portarono agli estremi questo progetto imperiale, descritto
da Mark Mazower come il più grande, brutale e ambizioso sforzo di ridisegno dell’Europa
mai intrapreso nella storia20.
I paragoni ideologici tra la Germania del 1871-1945 e quella attuale risultano ancor più
controversi di quelli relativi alla condizione strutturale del paese, non da ultimo perché
adombrano la possibilità che sussistano similitudini tra le intenzioni e le azioni tedesche di
allora e di oggi. Come al tempo dell’unificazione, si respira aria di trionfalismo in
Germania: un’atmosfera attestata nel novembre 2011 dalle dichiarazioni del capogruppo
democratico-cristiano in parlamento Volker Kauder, secondo cui «oggi l’Europa parla
tedesco»21. In particolare, ancora una volta la Germania sembra nutrire la convinzione di
non aver conseguito solo una vittoria tecnica, ma che a risultare vincenti siano stati anche i
suoi valori.
Questo trionfalismo si basa su una nuova versione dell’idea di «via tedesca». Gerhard
Schröder usò l’espressione nella campagna elettorale del 2002 per motivare la sua
opposizione alla guerra in Iraq, ma in senso lato si riferiva anche al modello
socioeconomico – l’economia sociale di mercato tedesca risalente ad Adenauer e al
«miracolo economico» degli anni Cinquanta – da lui posta in contrasto con il modello
economico anglosassone. La crisi finanziaria del 2008, letta come crisi del capitalismo
anglosassone, ha ulteriormente rafforzato la fiducia della Germania nella propria economia.
Da allora, come ha mostrato Andreas Rödder, il dibattito pubblico tedesco ha visto
riemergere l’idea di Modell Deuschland apparsa inizialmente negli anni Settanta22.
Si può dunque parlare anche di una nuova versione dell’idea di missione tedesca: la
convinzione che, ancora una volta, l’essenza della nazione tedesca si estrinsecherà un giorno
nella salvezza del mondo – o almeno dell’Europa. Dall’inizio della crisi, la Germania ha –
nel bene e nel male – cercato di esportare il suo modello economico al resto dell’Eurozona,
al fine di rendere l’Europa nel suo insieme sempre più «competitiva». Forse il migliore
esempio di questo tentativo è la Schuldenbremse, l’impegno all’abbattimento del debito che
i paesi della zona euro hanno accettato di inscrivere in costituzione. Le politiche e le
preferenze che la Germania ha mirato a esportare – ad esempio la bassa inflazione – si
basano sulle lezioni tratte dal suo passato. In breve, la Germania sta cercando di
universalizzare la propria storia.
Spesso si indica nella Repubblica Federale l’esempio massimo di identità statale postnazionale, basata sull’idea di «patriottismo costituzionale» di Dolf Sternberger. Ma anche
prima della riunificazione, il nazionalismo tedesco ha continuato a esistere in Germania
Ovest, tanto a sinistra quanto a destra dello spettro politico. Dalla riunificazione, la
Germania ha sviluppato una più forte identità nazionale nel senso classico del termine, non
da ultimo perché la fusione di BRD e DDR ha reso più semplice parlare semplicemente di
«Germania». L’attuale nazionalismo tedesco differisce certamente da quello di un tempo,
soprattutto in quanto non è più associato al militarismo. Ma negli ultimi anni sembra
emergere una nuova forma di nazionalismo tedesco.
Quest’ultimo si basa in parte sul concetto di pace e in quanto tale è in certa misura opposto
al suo antesignano pre-bellico. Negli anni della Repubblica Federale, il concetto di pace
faceva molta presa sul pubblico tedesco: in particolare, la decisione della Nato di schierare
missili nucleari Cruise e Pershing II in Germania Occidentale negli anni Ottanta produsse il
movimento pacifista, definito da due politologi «il più grande ed eterogeneo movimento di
massa nella storia della Repubblica Federale»23. Dai tempi del dibattito sulla guerra in Iraq,
la pace ha occupato un posto ancor più importante nell’identità nazionale tedesca. La
Germania si vede ora soprattutto come una Friedensmacht, una potenza di pace.
Parallelamente, è emersa però anche una forma di nazionalismo economico. Nel marzo
1990, Jürgen Habermas scrisse un saggio su Die Zeit sull’emergere di ciò che chiamava «il
nazionalismo del marco»: una nuova forma di nazionalismo economico che avrebbe potuto
usurpare l’identità post-nazionale tedesco-occidentale24. Poco dopo la Germania acconsentì
a cedere la sua moneta in cambio dell’euro, ma ora il nazionalismo economico tedesco
sembra riemergere sotto altra specie. Esso fa leva sull’export ipercompetitivo, che pare aver
rimpiazzato il marco come simbolo del successo economico tedesco. Dagli anni Duemila le
esportazioni sono assurte a perno non solo dell’economia, ma anche dell’identità nazionale:
la Germania sembra pensarsi sempre più come una Exportnation. Il nazionalismo del marco
è stato rimpiazzato dal nazionalismo dell’export.
5. È stata soprattutto la riunificazione ad aver consentito alla Germania di ribaltare la sua
condizione di semi-egemonia; proprio come l’unificazione nazionale nel 1871 creò le
condizioni di tale posizione. Sono passati 24 anni da quell’evento storico, dunque è forse al
1895 – 24 anni dopo l’unità nazionale – che dobbiamo guardare, piuttosto che al 1914. Nel
1895, Max Weber dichiarò nella sua lezione inaugurale a Friburgo che l’unificazione si
sarebbe risolta in «una burla» se la Germania non l’avesse usata per divenire una
Weltmacht, una potenza mondiale25. L’anno seguente, il Kaiser annunciò una nuova
Weltpolitik e Bernhard von Bülow dichiarò che anche la Germania meritava «un posto al
sole». Fu questa svolta globale nella politica estera tedesca che innescò la corsa agli
armamenti navali tra Germania e Gran Bretagna.
La spinta alla creazione di un impero tedesco veniva non solo dal nazionalismo, ma anche
dall’idea – molto diffusa a fine Ottocento – secondo cui il futuro apparteneva alle potenze di
taglia continentale. Molti credevano che la prosperità e finanche la sopravvivenza della
Germania nel XX secolo dipendessero dall’acquisizione delle risorse necessarie a competere
con la Gran Bretagna, la Russia e gli Stati Uniti, divenendo ciò che Paul Rohrbach ha
definito «il quarto impero». Gli strateghi tedeschi pensavano, come ha scritto lo storico
Harold James, che «lo Stato nazione fosse ormai troppo piccolo per gestire le nuove sfide» e
che «solo le grandi unità politiche imperiali e globali potessero essere veramente
funzionali»26. In altri termini, la Germania appariva forte, ma si sentiva vulnerabile. Fu il
senso di vulnerabilità che la spinse a cercare di forgiarsi un impero: prima in mare, poi sulla
terraferma.
L’idea che le dimensioni contino è presente con forza nel dibattito europeo odierno. Ancora
una volta, la Germania appare potente, ma si sente indifesa. Gli europeisti sostengono
frequentemente che lo Stato nazione non è più in grado di affrontare le sfide attuali e future.
Pensiamo che oggi sia diverso, perché la costruzione europea non è un impero – sebbene
alcuni accademici, come Jan Zielonka, abbiano sostenuto che l’Ue possa essere assimilata a
una costruzione imperiale. Ma la fine del XIX secolo e l’inizio del XX sono stati anche un
periodo di crescente competizione e interdipendenza economica. Allora, come oggi, si
parlava di ciò che Geoff Eley ha denominato «globalizzazione competitiva». Forse, un
ulteriore parallelo tra la Germania del passato e quella presente può essere cercato nel modo
in cui Berlino sta tentando di unire l’Europa al fine di poter competere a livello globale.
(traduzione di Fabrizio Maronta)
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1. A. GIDDENS, Turbulent and Mighty Continent: What Future for Europe?, Cambridge
2013, Polity Press, p. 9.
2. D. GEPPERT, Ein Europa, das es nicht gibt. Die fatale Sprengkraft des Euro, Berlin
2013, Europa Verlag, p. 144.
3. B. SIMMS, Europe: The Struggle for Supremacy, 1453 to the Present, London 2013,
Allen Lane, p. 243.
4. Discorso del 9 febbraio 1871, disponibile in germanhistorydocs.ghidc.org/sub_document.cfm?- document_id=1849
5. L. DEHIO, Germany and World Politics in the Twentieth Century , New York 1959,
Norton, p. 15. Prima edizione: Deutschland und die Weltpolitik im 20. Jahrhundert ,
München 1955, Verlag R. Oldenbourg. Il termine usato da Dehio in tedesco è
Halbhegemonie, tradotto in inglese come semi-supremacy. Tuttavia, preferisco il termine
semi-egemonia, che mantiene il nesso con il concetto originario.
6. H.-P. SCHWARZ, Die Zentralmacht Europas. Deutschlands Rückkehr auf die
Weltbühne, Berlin 1994, Siedler Verlag, p. 204
7. H. KISSINGER, L’arte della diplomazia, Milano 2012, Sperling & Kupfer.
8. C. CLARK, The Sleepwalkers. How Europe Went to War in 1914, London 2013, Allen
Lane.
9. J. HABERMAS, «Germany’s Mindset Has Become Solipsistic», The Guardian ,
11/6/2010.
10. H. KUNDNANI, «AAA, leader europeo cercasi», Limes , «La Francia senza Europa», n.
3/2012, pp. 181-184.
11. Cfr. ad esempio A. WIRSCHING, «Der große Preis», Frankfurter Allgemeine Zeitung,
11/9/2012; A. RÖDDER, «Dilemma und Strategie», Frankfurter Allgemeine Zeitung,
13/1/2013; D. GEPPERT, «Halbe Hegemonie: Das deutsche Dilemma», Aus Politik und
Zeitgeschichte , 6-7/2013, 4/2/2013; D. G EPPERT, «Die Rückkehr der deutschen Frage»,
Journal of Modern European History , vol. 11, n. 3/2013, pp. 272-278.
12. H. KUNDNANI, «La Germania come potenza geoeconomica», Limes, «La Germania
tedesca nella crisi dell’euro», n. 4/2011, pp. 67-84.
13. Cfr. A. WESS MITCHELL, J. HAVRANEK , «Atlanticism in Retreat», The American
Interest , novembre-dicembre 2013.
14. G. SOROS, «The Tragedy of the European Union and How to Resolve It», New York
Review of Books, 27/9/2012.
15. Sull’idea di «incubo delle coalizioni» nell’Eurozona cfr. W. PROISSL, «Why Germany
Fell Out of Love with Europe», Brussels, luglio 2010, Bruegel Essay and Lecture Series, p.
18; D. MARSH, Europe’s Deadlock. How the Euro Crisis Could Be Solved – and Why It
Won’t Happen , New Haven-London 2013, Yale University Press, p. 116.
16. Citato in G.A. CRAIG, Germany: 1866-1945 , New York 1978, Oxford University
Press, p. 36.
17. A.J.P. TAYLOR, The Course of German History, London 1945, Hamish Hamilton, p.
68.
18. M. HUGHES, Nationalism and Society. Germany: 1800-1945, London 1988, Edward
Arnold, p. 22.
19. D. BLACKBOURN, History of Germany, 1780-1918: The long nineteenth century ,
Oxford 1997, Blackwell, p. xv.
20. M. MAZOWER, Hitler’s Empire: Nazi Rule in Occupied Europe, Harmondsworth
2008, Penguin.
21. «“Now Europe Is Speaking German”: Merkel Ally Demands that Britain “Contribute”
to EU Success », Spiegel Online , 15/11/2011.
22. A. RÖDDER, «“Modell Deutschland” 1950-2011. Konjunkturen einer bundesdeutschen
Ordnungs-vorstellung », in T. MAYER, K.-H. PAQUÉ, A.H. APELT, Modell Deutschland,
Berlin 2013, Duncker & Humblot, pp. 39-51.
23. A.S. MARKOVITS, P.S. GORSKI, The German Left. Red, Green and Beyond,
Cambridge 1993, Polity, p. 56.
24. J. HABERMAS, «Der DM-Nationalismus», Die Zeit, 30/3/1990.
25. M. WEBER, «The Nation State and Economic Policy», in P. LASSMANN, R. SPEIRS
(a cura di), Weber: Political Writings, Cambridge 1994, Cambridge University Press, pp. 128.
26. H. JAMES, «Cosmos, Chaos: Finance, Power and Conflict», International Affairs , vol.
90, n. 1, gennaio 2014, pp. 37-57.