Fiori della Carnia L`ANNO DEL VENTICINQUENNALE
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Fiori della Carnia L`ANNO DEL VENTICINQUENNALE
CLUB ALPINO ITALIANO Sezione Valdarno Superiore Via Cennano, 105 – 52025 MONTEVARCHI (AR) Tel/Fax 055900682 – Mobile 3425316802 - [email protected] – www.caivaldarnosuperiore.it Settembre 2012 - Anno11 ° - Num. 3 - Notiziario Trimestrale della Sezione Valdarno Superiore del Club Alpino Italiano - Autorizz. del Trib. di Arezzo n. 12/2001 - Spedizione in A.P. Tariffe stampe Periodiche Articolo10 DL n.159/2007 conv. L. n. 222/2007 - DC/DCI/125/ SP del 06/02/2002 AREZZO TARIFFA STAMPE PERIODICHE Art. 10 DL n.159/2007 conv. L. n. 222/2007 DC/DCI/125/SP del 06/02/2002 AREZZO L’ANNO DEL VENTICINQUENNALE Naturalmente i conti precisi si faranno alla fine dell’anno, ma già oggi possiamo sentirci soddisfatti di come sono andate le cose. L’impegno era quello di festeggiare con i soci, ma forte è stato il desiderio di portare all’esterno la nostra gioia ed il nostro entusiasmo, per far vedere a chi non ci conosceva bene chi siamo e cosa facciamo. Perciò abbiamo cercato ogni possibile occasione per far scrivere di noi sui giornali e per far parlare di noi alla televisione ; naturalmente abbiamo cercato di collaborare ancor di più con i Comuni e con altre associazioni per trovare nuovi sentieri o valorizzare i vecchi, tracciare cartine, accompagnare gruppi, siamo stati spesso presenti con uno stand a fiere, notti bianche e similari. Diciamo subito che siamo molto soddisfatti di come è andato il programma dei festeggiamenti. Come tutti ricordano, abbiamo iniziato con un ciclo di conferenze sui sentieri medioevali. Tenute in sezione da Cimarri, Vannini e Borchi, Fabbri e Frontani, le conferenze hanno visto una straordinaria presenza di soci Abbiamo poi proseguito con la fase centrale delle iniziative intitolata “settimana sulla cultura e valorizzazione del territorio”. Straordinario successo ha avuto la giornata della pulizia dei sentieri, caratterizzata in questa particolare occasione dalla rimozione a cura del Gruppo Alpinistico Pratomagno dell’aereo caduto nel Pratomagno nel 1980, iniziativa ripresa con grande rilievo dalla stampa e televisione locale. Ma il momento più significativo è stato certamente quello della cerimonia ufficiale, tenutasi il 27 maggio. Abbiamo avuto la presenza della dirigenza CAI regionale al massimo livello, il Presidente della Provincia, il Sindaco di Montevarchi con diversi assessori e il Presidente della BCC del Valdarno; e poi la storia della sezione, la conferenza sull’inquinamento di Federico Fazzuoli, la premiazione con varie motivazioni di tanti soci. E ci siamo poi permessi il regalo dello straordinario coro alpino della Martinella all’interno della chiesa di Cennano. In piazza una eccezionale mostra delle foto più significative di questi 25 anni di storia insieme. Non ci sono parole per descrivere il successo della giornata. Grande soddisfazione per la presenza a tutte le manifestazioni di centinaia di persone piene di entusiasmo. Soddisfazione anche dalla meraviglia espressa dagli ospiti che pur abituati a simili cerimonie, raramente trovano una così calorosa accoglienza da così tanto pubblico. Ancora, per completare l’anno, rimangono alcune manifestazioni importanti quale quella del 24 novembre quando la nostra sezione accoglierà l’ Assemblea di tutte le sezioni toscane e presenterà (prima in Toscana) il rilievo effettuato in modalità GPS di tutti i sentieri CAI della propria zona, altro passo decisivo per poter andare in montagna con sicurezza. Come detto, i conti precisi si faranno alla fine, ma devo fin da ora esternare tutta la mia soddisfazione per come si sono svolti i festeggiamenti, soprattutto perché i soci hanno dimostrato grande attaccamento e grandissimo interesse per tutti gli avvenimenti, a dimostrazione che la sezione è in fase di crescita e ci aspetta un buon futuro. Devo ringraziare il Comune di Montevarchi, le aziende Reporter Viaggi, Brandi Bus, Ristorante Pin Rose, Pasticcerie Bonci e Macelleria Singali che hanno contribuito alla riuscita delle manifestazioni . Un ringraziamento speciale ai tanti soci che spesso con sacrificio personale hanno collaborato per la migliore riuscita delle iniziative come pure a tutti coloro che, soci o simpatizzanti, hanno partecipato attivamente alle manifestazioni, sottolineando il successo delle stesse. Il presidente Mauro Brogi Fiori della Carnia Giglio della Carnia (Lilium Carniolicum). Una pianta molto rara in Italia che ha trovato l’habitat solo nel Veneto e nel Friuli. È abbastanza diffusa invece in Bosnia/Erzegovina e Istria. La pianta è molto bella, perenne e può essere scambiata per il Giglio Martagone che appartiene alla stessa famiglia (Liliacee) ma che si differenzia in piccoli particolari delle foglie. Ha un fusto vigoroso alto da 40 a 50 cm. ed è presente generalmente in forma singola. Preferisce luoghi rocciosi, pendii soleggiati, terreni calcarei e altezze che vanno da 300 a 1300m. Nella zona del Monte Canin (Canino) è segnalata fino a 1900m. Periodo di fioritura: Maggio-Luglio. Specie super-protetta. Papavero Giallo (Papaver Alpinum). Famiglia delle Papaveraceae. Questa specie appartiene al grande ciclo dei papaveri europei di montagna, di cui la specie più diffusa è il il Papaver Rhaeticum (nella foto) a fiori gialli, che è presente soprattutto nel Triveneto. Cresce soprattutto nei luoghi sassosi, sulle rocce, nei ghiaioni, su terreno con substrato calcareo da 1800 a 2700 m. I fiori, solitari e portati in cima a peduncoli alti 10-20 cm, sono gialli, abbastanza ampi (2-4 cm di diametro) con calice a due sepali e corolla di 4 petali. I frutti solo le classiche capsule dei papaveri e contengono numerosi semi. Fiorisce da Maggio ad Agosto. Le foto sono state scattate sul Monte Canino. Sosta nella foresta L’acqua fresca e spumeggiante Gioca con il battito ritmato dei piedi Delle colombelle sui levigati sassi E le loro leggere risate si fondono Con l’armonia della foresta. Su un ponte di tronchi Gli occhi amorevoli e famelici Carpiscono la scenografia del creato Con il cuore pieno di gioia Lo sguardo sale al cielo Per ringraziare. Anche questo è camminare. Il serpeggiante acciottolato sentiero I massi arrotondati, consumati dal tempo Gli alberi maestosi, spettatori silenti In una sinfonia libera e naturale La musica del ruscello sale Fra il fruscio angelico del vento Gli sparsi richiami e i vivaci cinguettii Luigi Cardelli Pensierino Sapevamo che Luigi ha tanti interessi; ha attirato la nostra attenzione come interessato escursionista (lo abbiamo visto sul Vettore rimanere estasiato davanti al panorama e ammutolito di fronte a un ciuffo di stelle alpine appenniniche) e come assiduo frequentatore della sede CAI. Lo abbiamo conosciuto come cultore del folclore e delle tradizioni di montagna, ottimo cuoco appassionato di gastronomia; sappiamo che è un alpino (Tridentino di Fureria) orgoglioso della sua penna nera, una persona che durante gite si mostra piena di solidarietà verso chi si trova in difficoltà, tanto che sta entrando nella Protezione Civile Alpina (dove non si scherza e contano i fatti e non le parole). Non lo conoscevamo affatto però, come poeta; adesso abbiamo modo di leggere le sue parole ispirate alla passione che condividiamo per la montagna. Gli Amici del Martedì RAGAZZACCI CAI Il punto di ritrovo, come ogni martedì, è il parcheggio dell’Ipercoop. Arriviamo alla spicciolata e, come parti di un ingranaggio che si va assemblando a mano a mano, diamo vita al gruppo, creatura ancestrale dalle molte teste e un corpo soltanto. Per l’esattezza oggi le teste saranno 9 ed io l’unica quota rosa ma la cosa non mi imbarazza affatto, so di essere per loro solo un paio di scarponi in più. La nostra meta è il polmone verde di Vallombrosa attraverso il quale respira una natura che pulsa di una bellezza imponente. A guidarci un Luigi in piena forma che alla fine della camminata offrirà da bere a tutti e si fermerà a chiacchierare con qualunque creatura incontrerà sul suo cammino in grado di articolare un qualsivoglia suono. Dall’ospedale ci chiama Lampadina che darebbe chissà cosa per essere qui con noi a impugnare ancora i bastoncini come un’arma per combattere l’incalzare del tempo al quale non vuole arrendersi. Lo salutiamo con affetto questo nonno bionico, come lo chiama Marcello il quale gli augura un clisterone di acqua saponata. Il mitico Lampa se la ride perché Marcello ha il dono di dire le cose più divertenti col tono più compassato e serio di questo mondo. E quando ci troviamo a dover scavalcare un grosso albero abbattuto sul sentiero e Marcello mima, con voce baritonale prima e bianca da impubere poi, le conseguenze del rischio che una parte del loro corpo possa rimanere appiccicata al tronco determinando il repentino cambiamento di voce di cui sopra, l’idea che quella sorta di Polifemo addormentato possa trasformarsi di lì a poco in un insolito quanto bizzarro albero di Natale, mi fa letteralmente piegare in due dal ridere. Sauro, il migliore amico di Marcello, gli regge la parte. Li chiamano i gemellini perché viaggiano sempre in coppia e sono da consigliare qualora aveste bisogno di condividere con qualcuno un vostro recondito segreto. Loro vi assicurano affidabilità e discrezione per un’ora e mezza circa. Altra figura di spicco della combriccola di oggi è Paolo, detto San Paolo. Allampanato, la barba lunga e una vezzosa pronuncia blesa fanno di Paolo qualcosa che è a metà strada tra un montanaro e un nobile decaduto. Ma quando cammina appoggiandosi al suo bordone, la sua figura alta e slanciata assume effettivamente un che di ieratico e di solenne. Tra battute più o meno innocenti e commenti sulle mogli a casa arriviamo sotto le pale eoliche. Sono maestose a vedersi ma il rumore che ora sento alle mie spalle, pur avendo attinenza col vento, è qualcosa di avulso all’atmosfera del luogo. E se veramente l’uomo è ciò che mangia il rumore di pocanzi è la più libera espressione della nostra essenza primordiale. I probabili artefici di un così profondo alito vitale sono due e si rimbalzano reciprocamente l’accusa, non già per una sorta di pudore nei miei confronti ma per il gusto puro e semplice di lasciarmi macerare nella curiosità che effettivamente mi rode. È bello camminare tutti insieme. Gli animi sono distesi, Aldo canta un’aria di un’opera lirica e quando Gommina gli chiede di raccontargliene la trama non se lo fa ripetere. È la più classica delle storie d’amore: un uomo e una donna si amano e un terzo incomodo trama aspirando alle belle grazie della fanciulla. In verità le parole che Aldo usa non sono esattamente queste e quando dice: “Se la voleva tromb…” rende con una chiarezza disarmante che il cattivo di turno non intendeva esattamente dedicare alla donna oggetto dei suoi desideri una romantica serenata per pianoforte e fiati. Le espressioni talvolta colorite aggiungono pennellate di vivida schiettezza ai discorsi senza tuttavia gravarli di alcuna volgarità. Colgo una spontaneità senza infingimenti e il fatto di non usarmi alcun riguardo è il modo più bello per dirmi che mi considerano una di loro. Carissimi ragazzacci, stamani venendo via da casa avevo un magone alla bocca dello stomaco e ora, tornando, mi ritrovo che sto cantando e non per smorzare il silenzio come faccio sempre ma perché dentro sento una gioia calma e serena. Di questo volevo semplicemente dirvi grazie. Un grazie lo devo anche a Vannetto. In questa cellula CAI, che prese a pulsare qui nel Valdarno grazie alla tenacia di un alpino, confluiscono oggi circa 400 anime che in un mondo di rapporti umani sempre più virtuali che porta ad incistarsi nel bozzolo delle nostre solitudini, si incontrano scambiandosi calore umano, cibo per l’anima che nel nostro tempo ipertecnologizzato è diventato merce rara, e alla cui carenza talvolta dobbiamo compensare con scatole di antidepressivi che non ci restituiranno tuttavia la bellezza delle veglie al fresco della sera o al canto del fuoco né potranno mai sostituire una salutare e scanzonata camminata tra amici. Per il venticinquesimo anniversario di questa cellula CAI la chiesa della Collegiata era gremitissima e Vannetto, che si sente molto più a suo agio col cappello da alpino, era piuttosto impacciato in giacca e cravatta. Gli occhi, che mentre cantava il coro della Martinella gli brillavano di orgoglio e commozione, mi ricordarono per un istante i miei nonni. Avevano avuto sei figli i quali gli avevano sfornato una caterva di nipoti, e quando ci riunivamo tutti eravamo una autentica tribù. Allora mia nonna, non senza un certo orgoglio, prendeva la mano di mio nonno e, con la tenerezza che è propria dei vecchi, gli diceva: “Rafé …, hai visto che siamo stati capaci di fare?” Pina Daniele Di Costanzo CONGRATULAZIONI ISABELLA!!!!! Il socio Guido Bartoli ha una bella notizia che desidera condividere con tutti noi: Isabella, sua figlia, che molti di noi conoscono perché ha partecipato ad alcune nostre escursioni, lo scorso 16 luglio ha conseguito la laurea in Scenografia con 110 e lode. Congratulazioni Isabella! Da parte di tutta la redazione, direttore in testa! CANTI DELLA MONTAGNA Quel mazzolin di fiori È considerata una delle dieci canzoni che “hanno fatto l’Italia” ed è un canto conosciuto in tutto il mondo ad opera degli emigranti friulani, veneti e trentini che lo cantavano, con nostalgia per la loro terra d’origine, nei paesi dove si erano trasferiti. Per un lungo tempo, all’estero, questa canzone ha voluto dire “Italia”. È una canzone popolare di montagna, ma si trova anche nel repertorio delle cantate degli alpini, in quanto furono proprio questi soldati che la fecero diventare un “canto nazionale”. È un canto popolare di lontanissima origine, nato nell’arco alpino, ma la cui terra natale è totalmente ignota, c’è chi dice della Lombardia o del Triveneto soprattutto del Friuli e racconta la storia di una donna abbandonata. Ha una struttura canora a canti e controcanti che ne ha facilitato la diffusione La canzone ebbe un po’ notorietà nella guerra di Libia, perché se in Italia si cantava “Tripoli bel suol d’amore”, in Libia e Cirenaica, i soldati in guerra, di Tripoli ne avrebbero fatto volentieri a meno. Furono soprattutto i battaglioni alpini impegnati laggiù a cantarla e a proporla ad altri reparti. La maggior diffusione si ebbe poi con la guerra 15/18 e la canzone ebbe grandissima notorietà, e quando i soldati, finita la guerra, ritornarono ai loro paesi, seguitarono a cantare questa e altre canzoni imparate in trincea e “Quel mazzolin di fiori” fu cantata dalle Alpi alla Sicilia. Ancora oggi è il simbolo dei canti di montagna. Bellissima l’interpretazione di Gigliola Cinquetti, con un disco che ebbe molto successo. Non l'è vegnù da me l'è andà dalla Rosina. Quel mazzolin di fiori e perchè mi son poverina che vien dalla montagna e guarda ben che no 'l se bagna mi fa pianger e sospirar. che lo voglio regalar. Mi fa pianger e sospirare, sul letto dei lamenti Lo voglio regalare, cosa mai diran le genti, perche è l'è un bel mazzetto. Lo voglio dare al mio moretto cosa mai diran di me? questa sera quando 'l vien. Sta sera quando 'l viene sarà una brutta sera e perchè sabato di sera lu non l'è vegnù da me. Diran che son tradita Tradita nell'onore e a me mi piange il core e per sempre piangerà. Chi ci guida e ci conduce???? No, non è certo un duce, ma uno di noi. Sì lo so, ci sono tanti tipi di accompagnatori: solo per l’escursionismo ci sono gli ASE Accompagnatori Sezionali di Escursionismo (ASE, ASE-C, ASE-S), figure qualificate; gli AE Accompagnatore di Escursionismo (AE – AE-C), con titolo di Primo Livello; gli ANE Accompagnatore Nazionale di Escursionismo e poi gli AAG, gli ANAG (Accompagnatori nazionali o meno di alpinismo giovanile. E non è finita: ho scoperto anche gli IA, IAL, INA e INAL, gli ISFE, gli ISA e gli INSA… lascio a chi vuole il giochino dello scioglimento degli acronimi. Tutte persone diversamente qualificate, con preparazione e competenze specifiche. Anche fra noi ci sono tante sigle, e se avete voglia potete chiedere in sezione, ma non è questo che mi interessava dire. Quel che volevo sottolineare non sono le differenze, ma è quel che accomuna gli accompagnatori e le accompagnatrici. Al di là delle sigle, per la mia quasi decennale esperienza so che ci sono accompagnatori bruschi, tranquilli, ansiosi e pazienti; conosco quelli che siamo appena arrivati e subito si riparte; quelli che sanno chi resta indietro anche se sono davanti; quelli che hanno capito dal fondo della fila che in cima c’è un problema; conosco chi ti fa una partaccia e chi ti rimprovera con calma, chi ti prende un po’ in giro e chi si prende troppo sul serio. Ma di tutti, di quelli di vecchia data e lunga esperienza, di quelli più recenti e di quelli recentissimi, ammiro incondizionatamente la forza: la forza della pazienza, di sopportare i “ma che ci si fa qui fermi, ci si ghiaccia il sudore!” e i “no, no, qui si corre troppo, non sono venuto a soffrire!”. Ammiro la voglia di affrontare l’ansia propria e del gruppo di fronte a inconvenienti, più o meno grandi; la rassegnazione dell’ultimo in fila ad aspettare chi, proprio al momento di partire, dopo la sosta di mezz’ora, si ricorda che aveva un bisogno fisiologico; ammiro la caparbietà di ricordare ogni volta che la natura va rispettata anche quando non fa comodo, che certi paesaggi esigono il silenzio, che il passo di ognuno deve accordarsi col passo del gruppo. Senza parlare della fatica dell’organizzazione, dalle piccole alle grandi cose. Mi è venuta la voglia di ringraziare, indipendentemente dalla sigla, tutti i gli accompagnatori: grazie di permettermi ogni volta di lasciare i remi e di occuparmi solo del piacere dell’escursione, della fatica e della compagnia. Matilde Paoli Incontri ravvicinati con la gente di montagna: Dino Campana e i Canti Orfici Nelle riviste di trekking si parla spesso di Dino Campana come un escursionista solitario e attento, al quale difficilmente, camminando, sfuggiva un particolare nel paesaggio o un panorama grandioso. Il suo viaggio a piedi da Marradi alla Verna è ormai famoso sia fra gli escursionisti che fra i letterati, perché Campana ha voluto riportare in un libro i ricordi di questo viaggio, insieme alle sensazioni provate e a proprie considerazioni. Il libro, intitolato Canti Orfici è uno dei lavori letterari più complessi del secolo scorso, ricco di simboli e di oscurità, ma affascinante per la vivezza delle immagini, il senso tormentato dell’esistenza, la continua ossessiva ricerca di un linguaggio difficile e soprattutto personale. Penso che in primis vada conosciuta molto bene la vita dell’autore e il periodo in cui ha vissuto; infine credo che la lettura del libro vada fatta con molta attenzione, centellinando parola per parola, come si centellina un bicchierino di grappa stravecchia, gustandolo lentamente per ricercarne il segreto dell’aroma e dei profumi. Nella storia della poesia italiana del novecento il “caso” di Dino Campana ha stupito e disorientato e poi generato una serie di equivoci. Campana era per natura un irregolare, uno che difficilmente trovava una propria identificazione e nella vita quotidiana non riuscì mai ad avere una sistemazione appena soddisfacente. All’origine c’era la malattia che ha avvelenato la sua esistenza, una malattia che sembra fosse già della sua famiglia e che aveva un nome terribile: follia. Nato a Marradi il 20 Agosto 1885 da una famiglia della media borghesia, ebbe fin da piccolo grossi problemi di comunicazione con la madre, donna molto autoritaria. Campana anche da giovane nella stagione degli studi, non riuscì mai a trovare un ordine interiore. Arrivato all’università si iscrisse alla facoltà di chimica, ma non portò mai a termine la sua carriera. In realtà il suo unico punto di riferimento era la poesia e alla passione poetica ha poi dedicato e sacrificato la tormentata serie delle sue giornate, tra disperazione ed esaltazione. La follia, la vita inquieta e vagabonda, il disordine dell’esistenza sono alla base della sua leggenda, una leggenda da “poeta maledetto” tanto che nel 1906 viene internato per la prima volta nel manicomio di Imola per due mesi. Campana era un solitario, odiava il suo paese e gli unici amici erano boscaioli e carbonai; soprattutto nella stagione della essiccazione delle castagne passava con loro molto tempo dentro ai seccatoi a mangiare bruciate (termine usato dallo stesso poeta), scaldarsi e bere vino. Furono questi i momenti più belli della sua vita, che ricorderà sempre con lucidità e nostalgia. Egli sa bene di essere un tipo psicologicamente debole e per questo emarginato dalla società, ma non si arrende: lotta sempre, si trova nella stessa condizione di un alpinista che tenta disperatamente una scalata di una montagna la cui vetta capisce che non raggiungerà mai. Sa di essere un estraneo alla società costituita ed è sicuramente per questo che odia quella società che a lui non concede niente; è forse per questo odio profondo che calibra le sue frasi di prosa e poetiche verso una poesia difficile e piena di fantasie irreali, allucinazioni, brevi esaltazioni seguite da profonde ricadute psicologiche che sconvolgono l’equilibrio letterario delle sue rime. Dopo un lungo viaggio in Argentina, nel 1909 Campana ritorna in Europa. Le tracce del suo passaggio sono però per lo più legate a luoghi di cura: Firenze (manicomio di San Salvi), Livorno (ospedale), Bruxelles (prigione di San Gilles) e poi Tournay (manicomio). Verso la metà del 1910 il poeta torna a Marradi ed effettua il “pellegrinaggio” a piedi da Marradi alla Verna: è proprio in questa occasione che stende il “diario di viaggio” al quale viene dato il titolo di Il più lungo giorno. Con il manoscritto sotto il braccio, si presenta alla fine del 1913 ai due principali animatori della cultura fiorentina dell’epoca, Papini e Soffici, ai quali consegna l’unica copia esistente. I due intellettuali non solo non lo prendono in considerazione, ma addirittura smarriscono il manoscritto (verrà ritrovato solo nel 1971 fra le carte di Soffici). Per Campana è una tale “mazzata” che sprofonda nella disperazione più nera e pensa addirittura a una aggressione ai due;ma poi, in pochi giorni, lavorando “da matto” riesce a ricostruire e riscrivere il libro, cambiando il titolo in Canti Orfici. Il volumetto, dopo grandi insistenze e sembra anche minacce, verrà pubblicato nel 1914 da un suo amico tipografo di Marradi e sarà lo stesso Campana a venderne le copie, autografate e con propria dedica in base alla personalità dell’acquirente, per le strade e i caffè di Firenze e Bologna (questi volumetti oggi sono ricercatissimi dai bibliografi). Anche se il libro viene edito in un momento delicato della storia europea (la Grande Guerra è in arrivo), alcuni intellettuali più avveduti come Emilio Cecchi, Giovanni Boine, De Robertis si accorsero della novità della poesia; comunque la fama del libro non superò il cerchio ristretto di un piccolo gruppo di estimatori. Nel 1915 Campana è di nuovo in Svizzera. Con l’intervento dell’Italia in guerra torna in patria per arruolarsi volontario e chiede espressamente di essere destinato alle Truppe Alpine, dove combattono gran parte dei suoi amici boscaioli e carbonai, dai quali aveva avuto sincera amicizia e solidarietà; ma viene riformato e nuovamente internato in clinica. Nell’estate del 1916 conosce di persona Sibilla Aleramo ricevendola nella specie di grotta dove vive; con lei allaccia un intenso e impossibile rapporto d’amore (la storia dei due amanti costituisce il soggetto del film Un viaggio chiamato amore del 2002 diretto da Michele Placido). Nel Gennaio 1918 Campana chiede nuovamente di partire con gli Alpini per il fronte di guerra, di nuovo riformato è definitivamente rinchiuso nel manicomio di Castel Pulci, vicino a Firenze dove resterà fino alla morte (1° marzo 1932). Fu sepolto nel cimitero di Badia a Settimo. Nel 1942 per interessamento di Piero Bargellini le spoglie mortali di Dino Campana furono inumate in una cappella sotto il campanile della chiesa di San Salvatore di Badia a Settimo, luogo ritenuto abbastanza sicuro da probabili bombardamenti alleati. Nel 1946, sempre all’interno della stessa chiesa, i resti mortali del poeta ebbero migliore collocazione durante una cerimonia alla quale parteciparono Eugenio Montale, Alfonso Gatto, Emilio Cecchi, Carlo Bo, Ottone Rosai, Pratolini e altri. A questa cerimonia non presero parte i due big intellettuali che avevano animato la vita letteraria fiorentina: Papini, diventato nel frattempo Terziario Francescano, pensò bene di aspettare la fine della guerra e oltre chiudendosi nel Santuario della Verna, mentre Soffici era sotto processo come collaborazionista con i tedeschi, accusa da cui fu assolto pienamente. Oggi, Dino Campana viene riconosciuto un personaggio importante della letteratura italiana della prima metà del ‘900; un riconoscimento postumo per lo sfortunato poeta di Marradi. Canti Orfici I Canti Orfici di Dino Campana costituiscono un testo piuttosto difficile, che va letto forse più volte, perché può nascere la sensazione sbagliata che l’intento principale del libro sia proprio quello di esprimere e produrre qualcosa di inesprimibile. Una teoria questa sostenuta anche da alcuni critici letterari, convinti che non sempre la poesia (in particolare la poesia novecentesca) debba sempre dire con chiarezza qualcosa di preciso e di razionale, ma spesso rimane nel vago e nell’incertezza concettuale. La poesia di Campana parte dai presupposti della poesia dannunziana scivolando quindi verso il crepuscolarismo e assorbendo poi gli slanci più estremi della poesia di Poe e Budelaire (i poeti maledetti); è soprattutto per questo che Campana è stato considerato il nostro esponente più significativo della “poesia maledetta”. Leggendo attentamente quest’opera si viene subito colpiti dalla tensione emotiva che è la caratteristica più evidente dalla prima all’ultima pagina. I Canti sono una raccolta di versi e prose poetiche dal ritmo incalzante e convulso e da una eccezionale forza visiva. Quando si legge “…ho salito la Falterona lentamente seguendo / il corso del torrente rubesto: / ho riposato nella limpidezza angelica / dell’alta montagna addolcita dai toni cupi per la / pioggia recente, ingemmata nel cielo / con contorni nitidi e luminosi che mi facevano / sognare davanti alle colline dei quadri antichi…” emerge Campana poeta e viandante che annota in un particolare “diario di viaggio” la lunga attraversata a piedi da Marradi alla Verna, creando una sorta di straordinaria guida escursionistica, che con i suoi versi fa rivivere la propria esperienza di pellegrino. Cammina sempre solo; salendo da Castagno la sua mente si estranea dal tempo osservando le “interminabili valli selvose”. I paesaggi, i borghi, le montagne descritte e la gente incontrata sono un qualcosa di vivo, che colpisce e rimane a lungo nella memoria. Ma proseguendo, prende forma anche la certezza di un’esistenza irrequieta e disordinata, il bisogno di fuggire dal mondo civile, che trova solo sfogo in lunghi viaggi e in solitarie meditazioni fra i boschi lontano dal paese, un po’come Giacomo Leopardi, di cui il Campana si sente l’erede. “La sua – ha scritto Eugenio Montale – è una poesia in fuga che si disfà sempre sul punto di concludere. Bisogna cogliere allo stato nascente la musica del poeta, viva un po’ ovunque. Campana si arresta alle soglie di una porta che non s’apre, o talora si apre solo per lui”. Qualche critico ha avvicinato il destino di Campana con quello di altri scrittori (come Rimbaud) che hanno subito lo stesso difficile percorso, con la differenza che Campana non darà mai un addio alla poesia e alla letteratura. Campana è un “mulo alpino tosto e testone” perché, anche quando è internato in manicomio, continua a battersi per la poesia e contro una vita che non aveva avuto mai nulla da offrirgli. Nella sua opera il poeta ricerca cadenze ritmiche particolari e i versi non hanno una misura regolare, il discorso viene interrotto da parentesi e interrogazioni, lo stesso titolo dell’opera è molto profondo e arcano, un titolo che ha dato luogo a numerose disquisizioni e presupposizioni. Questa di Campana è quindi una delle opere più complesse del secolo scorso, bella di una bellezza tragica e tenebrosa nata da un personaggio, che la società e l’intellighenzia letteraria del tempo hanno trascurato e preso in giro, contribuendo, con questo loro atteggiamento, a spingere verso un destino doloroso. Il volumetto è presente nella nostra biblioCAI ed è possibile chiederlo in prestito per la lettura. Vannetto Vannini L’itinerario escursionistico consigliato Dal Falzarego all’Armentarola Lunghezza sentiero: 12 chilometri (circa) - Dislivello in salita: 650 metri (circa) Avevo preparato un percorso sui nostri monti chiantigiani ma, appena di ritorno dalla Settimana Verde in Cadore, non posso che posticiparlo ad un prossimo numero. Voglio infatti sottolinearvi uno dei percorsi che sono stati oggetto delle nostre escursioni sui monti cadorini. È un percorso denso di storia e di bellezze paesaggistiche indimenticabili, sono sicuro che i partecipanti alla Settimana Verde saranno d’accordo con me. La partenza si trova al passo Falzarego, nell’ampio parcheggio si lascia la macchina o vi si arriva in pullman di linea e si inizia ad arrampicarsi sul monte che abbiamo davanti, il Piz Lagazuoi. L’ascesa è abbastanza ripida, ma tutto sommato i vari tornanti permettono un passo regolare e non troppo faticoso. Si aprono subito le viste sui monti lontani della Marmolada e del Sella. Arriviamo così all’imbocco inferiore della galleria elicoidale di guerra del Lagazuoi, che viene affrontata con torcia e guanti dal momento che è completamente buia in alcuni tratti e la corda di ferro è spesso umida come i gradini, a cui deve essere prestata attenzione perché di altezza variabile. Occorrerebbe anche il casco ma, da quello che ho visto, la prescrizione è spesso disattesa. Una mezzoretta di salita, se la salita è senza traffico, fra brevi soste per affacciarsi alle aperture laterali e leggere i cartelli esplicativi. Si rimane colpiti dal pensiero del lavoro dei soldati e dall’inutilità dell’immane tragedia e dell’immenso dolore che ha provocato la Grande Guerra. Usciti in alto dalla galleria e percorso il breve tratto attraverso le trincee, dopo aver dato un’occhiata al cratere lasciato dallo scoppio della galleria di mina, si arriva al rifugio Lagazuoi. Un breve ristoro e via in discesa seguendo il sentiero 20 o Alta Via delle Dolomiti n°1. Siamo ora in un territorio scabro, quasi senza vegetazione, che ricorda la traversata del Sella. Il fascino dei monti che ci circondano e ci fanno sentire piccoli accidenti nel paesaggio, è notevole. Improvvisamente si apre davanti a noi la bellissima conca del Lé de Lagacio. Un ridente e freschissimo laghetto naturale che ci accoglie con macchia di Mughi e ci offre un posto godibilissimo per consumare un frugale pranzo. Davanti a noi la Zimes de Fanes di colore rosso e grigio con una insenatura che ci ricorda un tempio buddista inciso nella roccia senza la statua del Budda; pensiamo alla ferrata Tomaselli, che procede tutto lungo la cresta. Ripreso il cammino sempre seguendo il sentiero 20 arriviamo all’Utia Scotoni: siamo in Alto Adige e non più in Veneto e ci gustiamo un caffè o una birra su un bellissimo prato pieno di famiglie e bimbi che scorrazzano. Proseguiamo in ripida discesa per stradella sassosa per arrivare alla strada che viene dal Passo Valparola. Subito troviamo una fermata del bus per ritornare sui nostri passi. Un percorso che presumibilmente molti di voi conosceranno, in uno dei territori più belli e per questo più battuti delle Dolomiti, ma lasciatemi ricordare un giorno di godimento assoluto nella nostalgia del rientro a casa! Lorenzo Bigi (RI)CONOSCERE I FUNGHI COPRINUS COMATU (fungo dell’inchiostro) Etimologia Dal latino comatus = dotato di chioma. Per le squame filamentose che ricoprono l’apice del cappello come una chioma. Ordine Agaricales Famiglia Coprinaceae Carne Tenera, acquosa, bianca, poi rosea, infine nerastra e deliquescente. Odore mite. Sapore grato. Habitat Dalla primavera all’autunno in gruppi numerosi nei terreni umidi e concimati, sciolti o sabbiosi, ricchi di materiale calcareo e di sostanze fertilizzanti organiche, nei prati, nei giardini, ai lati dei sentieri del bosco. Nelle piazzole boschive dove si esegue il taglio della legna, sembra particolarmente apprezzare i tanti trucioli che nel tempo si accumulano in queste aree e la compressione del terreno realizzata dai mezzi pesanti che ci transitano sopra. Commestibilità e tossicità Considerato da molti autori il miglior fungo in assoluto. Delicato, commestibile solo se le lamelle sono bianche. Da consumarsi appena colto perché si altera rapidamente, in pratica è il solo corpino commestibile e senza eccedere lo possiamo anche mangiare crudo. Si consiglia di eliminare il gambo subito dopo averlo raccolto, per rallentare la maturazione. È veramente ottimo saltato in padella con una noce di burro. ( È consigliabile evitare, o ridurre al minimo, l’assunzione di bevande alcoliche con il Coprinus comatus). PHALLUS IMPUDICUS (satirione) NON COMMESTIBILE Passeggiando nei boschi avremo sicuramente incontrato qualche volta questo strano fungo. È un fungo appartenente alle Phallaceae, un gruppo che racchiude i gasteromiceti, dal corpo gelatinoso, sferico, che si apre a maturità per liberare un ricettacolo a forma fallica portante una gleba pastosa e maleodorante. Il ricettacolo cilindrico non è diviso e la testa è sovente conica, gelatinosa verdastra, con indusio* pendente (attira ed è ambito dalle mosche). *indusio: si tratta di un velo reticolato biancastro che come il velo di una sposa contorna il gambo partendo dall’orlo del cappello. CURIOSITA’ In Cina è conosciuto come zhu sheng ed è utilizzato nell’alta cucina delle regioni del Canton e dello Yunnan. Viene intensamente coltivato su truciolame di bambù, sul quale si sviluppa in numerosi esemplari: negli Stati Uniti lo hanno così ribattezzato Bamboo fungus. Studi affermano che il suo aroma (giudicato maleodorante) abbia causato spontaneamente orgasmi in individui di sesso femminile. Questo fungo (e numerose specie simili) è comune nelle zone subtropicali e umide, in particolare Cina, Giappone, Vietnam, India, Stati Uniti centromeridionali e isole tropicali (Hawaii). Il Phallus impudicus, viene consumato allo stadio di uovo non ancora schiuso, crudo in insalata, da pochi... mitomani più che micologi. Vincenzo Monda Attività sezionale SETTEMBRE - DICEMBRE 2012 Ogni martedì si svolgono escursioni infrasettimanali, solitamente di tipo E e sempre con mezzi propri, sul territorio regionale; il programma delle escursioni è visibile, aggiornato mese per mese, sul nostro sito nella sezione PROGRAMMA, in sede e presso le varie ProLoco. Si raccomanda a tutti gli interessati (soci e non soci) di contattare il referente della singola escursione (nome e recapito telefonico nella circolare) il pomeriggio del lunedì per avere conferma. sabato 15 e domenica 16 settembre TRENTINO: Massiccio del Latemar con il Gruppo Alpinistico Pratomagno pullman DIFFICOLTA’: percorso di tipo EE/EEA Accompagnatori sez.: Gabriele Piccardi e Stefano Colasurdo *** domenica 30 settembre APUANE: Monte Corchia - anello dei tre Fiumi pullman DIFFICOLTA’: percorso di tipo EE Accompagnatori sez.: Francesca Failli e Daniele Menabeni *** domenica 7 ottobre TRENO TREKKING VALDARNO: Rignano sull’Arno - Pontassieve mezzi propri + treno DIFFICOLTA’: percorso di tipo E Accompagnatori sez.: Carmelo Macaluso e Gabriele Piccardi *** domenica 14 ottobre *** CON IL CALCIT *** VALDARNO: Terranuova - Montevarchi - San Giovanni mezzi propri DIFFICOLTA’: percorso di tipo E/T *** domenica 21 ottobre INTERSEZIONALE MONTAGNOLA SENESE: Via Francigena pullman DIFFICOLTA’: percorso di tipo E Accompagnatori sez.: Mauro Brogi e Giampiero Maffeis *** domenica 28 ottobre CASTAGNATA a Sereto mezzi propri DIFFICOLTA’: percorso di tipo E/T *** domenica 4 novembre VALDARNO: Santa Brigida - Barbiana pullman DIFFICOLTA’: percorso di tipo E/EE Accompagnatori sez.: Marcello Mancini e Sauro Sottili *** domenica 18 novembre CHIANTI: Gaiole - Castagnoli - Meleto - Gaiole mezzi propri DIFFICOLTA’: percorso di tipo E Accompagnatori sez.: Mauro Borchi e Roberto Zaganelli *** domenica 2 dicembre VALDARNO: Neri - Pian d’Albola - parco Cavriglia Neri mezzi propri DIFFICOLTA’: percorso di tipo E Accompagnatori sez.: Mauro Borchi e Roberto Zaganelli *** domenica 9 dicembre TUSCIA VITERBESE: Bomarzo: gli Orsini, gli Etruschi e le necropoli pullman DIFFICOLTA’: percorso di tipo E/T Accompagnatori sez.: Marcello Mancini e Vannetto Vannini *** domenica 16 dicembre **** PRANZO SOCIALE **** Le ricette di Luigi e... Cucina della montagna fiorentina: Coniglio all’aceto Ingredienti: Coniglio – Olio extravergine d’oliva – Sale – Aceto rosso (un bicchiere) – Rosmarino (abbondante) – Aglio (4 spicchi) Fare un battuto di rosmarino e aglio, metterlo in una tazza insieme all’aceto rosso e lasciare marinare per 24 ore. In un tegame mettere il coniglio a pezzi insieme all’olio d’oliva e rosolare bene, poi salare. Quando è ben rosolato, aggiungere la marinata, coprire e portare con fuoco lento alla cottura, mescolando di tanto in tanto controllando che la carne non si attacchi al fondo del tegame. Piatto semplice e molto appetitoso. Buon appetito!!! Luigi Cardelli ...di Daniela Mi hanno chiesto di aprire questa rubrica gastronomica con Luigi, mi auguro di trasmettervi la mia esperienza e nello stesso tempo di acquisirne di nuova. “Scrivi una ricetta della montagna!” Polenta? Troppo caldo! Funghi? Non è stagione. E allora? Attingo ai miei ricordi di bambina e vi propongo una ricetta che mia nonna Assunta, o meglio mio nonno Ruggero cucinava per la sua numerosa famiglia: la Trippa finta È fatta di ingredienti poveri tutti reperibili nell’orto e nel pollaio (oggi al supermercato). Fate un soffritto con una bella cipolla, sedano, prezzemolo e carota. Quando è biondo aggiungete pomodoro passato e mezzo bicchiere d’acqua. A parte sbattete 5 uova con sale e pepe e fate tante frittatine fini. Arrotolatele e tagliatele a listarelle come la trippa e rimettetele nel sugo. Quando mio nonno portava il tegame in tavola i suoi 5 figli erano entusiasti, spero che anche voi apprezzerete questa ricetta semplice di gente di montagna che non poteva permettersi sempre la trippa vera. Daniela Venturi Editore Direttore responsabile Mauro Brogi Vannetto Vannini Redazione Patrizia Culicchi, Marcello Mancini, Matilde Paoli Collaboratori Lorenzo Bigi, Daniele Menabeni, Vincenzo Monda