su montagne e colline fiorentine

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su montagne e colline fiorentine
INDICE:
1-NOTIZIE PRATICHE PER L’ESCURSIONISTA
A) Descrizione dei percorsi
B) Segnaletica
C) Orientamento
D) Equipaggiamento
E) Viveri
F) La marcia
G) Le insidie
H) Rispetto della natura
2- L’AMBIENTE NATURALE
-Orografia
-Clima
-Flora e Fauna
3- IL CRINALE APPENNINICO DAL PASSO CITERNA AL M. FALCO
4- IL MUGELLO SETTENTRIONALE
5- LA ROMAGNA TOSCANA
6- IL GRUPPO DEL FALTERONA
7- IL GRUPPO DEL MONTE GIOVI
8- IL PRATOMAGNO
9- I MONTI DEL CHIANTI
10 - LE COLLINE FIORENTINE
11- IL MONTE MORELLO
12- IL MONTE SENARIO
13- LE COLLINE DI SCANDICCI
14- IL MONTALBANO
1-NOTIZIE PRATICHE PER L’ESCURSIONISTA
A) Descrizione dei percorsi
Gli itinerari descritti percorrono quasi ovunque sentieri, mulattiere e stradelle utilizzati da tempo come
pubbliche vie di comunicazione dalla gente di montagna: non presentano perciò difficoltà. Qualche tratto
che richiede attenzione è descritto con maggiori dettagli.
I tempi indicati sono calcolati con passo normale e in base al senso di marcia; pertanto un itinerario
descritto in salita richiede, per la discesa, un tempo molto inferiore, e viceversa.
In assenza di specificazioni, la «destra» e la «sinistra» si intendono riferite al senso di marcia. Se ci si
riferisce ad un corso d'acqua, la destra o la sinistra «idrografica» sono quelle che si hanno dando le spalle
alla sorgente.
Gli «accessi» sono le località ove si può giungere in auto o con mezzi pubblici
Abbiamo inserito per consentire una “visione globale” della segnaletica che l’escursionista incontra
andando sul territorio l’indicazione di altri percorsi “non CAI” che possono sovrapporsi o incrociarsi con
quelli di competenza di questo Sodalizio.
B) Segnaletica
I segnavia sono quelli, adottati intenazionalmente, di colore bianco-rosso con numeri in nero sulla
parte bianca, talora integrati da strisce rosse di collegamento, riservando il numero «00» agli itinerari di
crinale delle 4 principali dorsali (Appennino; Falterona/Pratomagno; M. Senario/M. Giovi; Chianti).
I numeri degli itinerari che interessano la dorsale appenninica e che si staccano dall'itinerario 00 di
crinale sono dispari sul versante emiliano-romagnolo e pari sul versante toscano, e, in linea di
massima, progressivi da est verso ovest.
La cosa può tornare utile in caso di difficoltà di orientamento.
La L.R. 17/98 prevede che in Toscana tutta la segnalazione escursionistica debba essere bianco-rossa,
eventualmente utilizzando un logo distintivo per i percorsi tematici (GEA, SO.F.T, Vie Romee, via
Francigena, ecc). Pertanto altri precorsi, compresi quelli istituiti per iniziative dei comuni, si
sovrappongono e si incrociano con quelli della rete CAI e non sempre la segnalazione è adeguata per
seguire la direzione giusta dell’itinerario che si sta seguendo. Il CAI pone, di norma agli incroci una
segnaletica verticale (palo che sostiene cartelli che indicano la direzione per una o più destinazioni) o
“bandiere” con indicato il nome dell’itinerario; anche altri enti utilizzano questo sistema per facilitare
l’orientamento dell’escursionista; in altri casi bisogna porre maggiore attenzione utilizzando la
cartografia o gli strumenti necessari.
Occorre quindi porre attenzione alla suddetta possibilità d’errore e, in qualche località, a non confondere
le strisce rosse di collegamento intercalate dal CAI fra i segnavia bianco-rossi con i segnavia rossi dell'ENEL
(peraltro molto più vistosi e ben riconoscibili anche per la direzione, verso vicini tralicci) e con quelli
apposti da altri Enti, spesso con colori prossimi al rosso, per percorsi o manifestazioni sportive locali.
Nelle radure, ove ovviamente le segnalazioni sono più distanziate, si raccomanda attenzione alla
direzione indicata dalle strisce degli ultimi segnavia.
Utile norma è quella di non lasciare a caso l'itinerario segnalato, credendo di abbreviare il percorso, a
meno che non si conosca bene la zona, e di non continuare a lungo per un sentiero privo di segnavia; se
dopo un certo tratto non se ne sono incontrati occorre tornare indietro e cercarne in altra direzione la
continuazione.
C) Orientamento
L'orientamento non presenta difficoltà se si ha una bussola e la cartina della zona.
Il GPS è un supporto molto utile se si è preventivamente scaricato, da questo o da altri siti web, la traccia
da percorrere. Per l’uso esclusivo di questo strumento va tenuto conto dei limiti di ricezione, diversi a
seconda della tipologia di strumento, dovuti alla situazione ambientale o meteorologica che in particolari
situazioni potrebbe determinare dei rischi nel definire l’orientamento.
Chi fosse sprovvisto di bussola, ma non della cartina, può orientarsi facendo coincidere la direzione, sul
terreno, di una retta ideale che congiunga il punto di sosta con un altro punto di riferimento visibile (una
chiesa, un paese, una cima, l'ansa di un torrente, ecc.) con la direzione risultante sulla cartina.
D) Equipaggiamento
L’adeguata organizzazione di Un’ escursione è fondamentale per la propria sicurezza e quella dei
compagni di gita. Vedere i consigli nella sezione MONTAGNA AMICA
La cosa più importante è avere delle idonee calzature: almeno robuste pedule alte, meglio se con
rinforzo posteriore, e sempre con suola semi-rigida del tipo a «carro armato», non usurata. Non adatti,
invece, gli scarponi da roccia perché troppo rigidi e le scarpe basse perché non assicurano un sostegno
sufficiente.
La loro misura deve esser tale da poter portare un paio di calzettoni Da trekking, per facilitare la
traspirazione e per evitare che il piede sia troppo stretto.
Occorrono poi calzoni adatti, a seconda della stagione e dell'altitudine. A quote elevate e in periodi
freddi occorrono camicie o pile pesanti , maglione, giacca a vento, guanti e passamontagna di lana.
Contro la pioggia è sufficiente una giacca traspirante o un impermeabile di nylon. Utile anche un paio di
ghette leggere, per evitare di bagnare la parte inferiore dei pantaloni fra erbe ed arbusti. Non sarà poi
male portarsi dietro anche un prosaico ombrello ripiegabile (in assenza di vento esso è sempre la
copertura più efficace e comoda, perché non fa sudare e non ostacola i movimenti) e un paio di calzoni e
calzini di ricambio.
Dopo il vestiario adatto, occorre un sacco da montagna, sufficiente a contenere maglione, giacca a
vento, impermeabile, borraccia, viveri e altri oggetti che si consiglia di portare comunque: coltello multiuso,
pacchetto di pronto soccorso (bende elastiche, cerotti, cotone idrofilo, disinfettante, laccio emostatico),
cappellino e occhiali da sole, pila per marce al buio, cartina e guida, spago, aghetti, crema contro le
scottature solari e qualche sacchetto di plastica, utile sia per riportare a valle i rifiuti, sia (ottimi quelli
grandi) per foderare l'interno dello zaino e renderlo impermeabile in caso di pioggia.
Utili sono la bussola e l'altimetro, in caso di escursione in zone non conosciute. Utile il GPS se utilizzato
adeguatamente. Consigliabili anche i bastoncini da trekking o un bastone, con la punta, se possibile,
chiodata, che torna utile nelle discese, per aprirsi un varco nelle zone infrascate, per difesa contro animali
male intenzionati, etc.
E) Viveri
Durante le escursioni sono sconsigliabili pasti abbondanti.
Non partire mai con la borraccia vuota; consigliabile, specie in estate, riempirla alla partenza, anche se
con acqua... di cannella perché talvolta le sorgenti risultano asciutte o inquinate.
È bene, infine, non abbondare con il vino, da usare, puro, solo nelle escursioni invernali.
In una parola è bene mangiare e bere solo lo stretto necessario, facendo una prima colazione
abbondante prima della partenza.
E’ invece utile, specie in inverno, portare un piccolo termos con bevande calde (tè o caffè). Da evitare
alcolici e superalcolici, specie durante i periodi caldi o temperati.
Si raccomanda di non ingerire cibi o bevande durante le salite, se possibile, e di cercare di consumare il
pasto di mezzogiorno al termine della salita o in un punto elevato, per compiere almeno il primo tratto
dopo il pasto in discesa o su terreno pianeggiante.
F) La marcia
È bene mantenere ritmo e lunghezza di passo costanti e limitare la durata delle soste. Evitare di
consumare durante le salite «spuntini» troppo abbondanti e limitarsi a bere lo stretto necessario.
In discesa, scendere in «souplesse», piegando elasticamente le ginocchia. Mai correre o saltare: ci si
stanca di più e si va incontro a infortuni.
G) Le insidie
Un primo rischio cui va incontro l'escursionista è quello dello smarrimento in caso di nebbia. Conviene
allora fermarsi e attendere una schiarita, se si è incerti sul percorso da seguire; qualora la nebbia persista
chi non conosce la zona farà meglio a tornare sui propri passi, senza avventurarsi su percorsi sconosciuti. Lo
stesso consiglio vale, in qualsiasi caso, per chi venga a trovarsi completamente disorientato.
Altro pericolo può essere costituito dai fulmini. Pertanto, in caso di forti temporali, è bene tenersi
lontani da alti alberi isolati, creste, vette, da corsi d'acqua e pareti verticali e allontanare gli oggetti
metallici.
Un'altra insidia, spesso trascurata, è costituita dai pendii, specie se percorsi in traversata. Se erbosi e
molto inclinati possono essere causa di rovinose cadute; occorre perciò, in questi punti, porre il piede su
terreno sicuro e non distrarsi.
Altro pericolo è rappresentato dalle vipere. Esse non attaccano mai l'uomo, se non molestate. Anzitutto,
perciò, è buona norma non lasciare il sentiero, né frugare fra sassi e frasche senza un po' di attenzione.
Una prima protezione è comunque rappresentata dagli scarponi (altro motivo per non portare scarpe
basse), dal tessuto pesante dei pantaloni e dallo spessore dei calzettoni.
In caso di morso occorre portare subito il ferito, affaticandolo il meno possibile, alla più vicina farmacia
(o al posto di soccorso).
Per finire, un consiglio importantissimo: non percorrere mai da soli zone impervie e disabitate. Anche
un lieve incidente, per mancanza di aiuti, può trasformarsi in un dramma.
H) Rispetto della natura
II vero escursionista ama la natura e la rispetta.
Egli perciò:
a) riporterà a valle i rifiuti;
b) eviterà di accendere fuochi in periodi secchi e non getterà via fiammiferi o mozziconi accesi;
e) eviterà di raccogliere fiori di montagna (severe norme vietano comunque, in maniera assoluta, di
cogliere fiori appartenenti a specie protette);
d) eviterà urla, schiamazzi o rumori;
e) per il doveroso rispetto delle proprietà attraversate dai sentieri richiuderà i cancelli delle recinzioni ed
eviterà di entrare nei coltivi e nei rimboschimenti.
2-L'AMBIENTE NATURALE
A) L'orografia
L'attuale configurazione orografica della zona montana della provincia di Firenze è l'effetto di una
poderosa spinta geologica iniziatasi nel miocene medio.
Tale spinta, con direzione del Tirreno verso l'Adriatico, si esercitò sulla falda di sedimenti marini
depositatisi nelle ere precedenti e dette luogo a grandi rughe od accavallamenti del terreno.
Quando essa cessò seguì una fase di distensione e quindi di cedimenti, con la conseguente
formazione di estese fratture che originarono profonde fosse tettoniche, sempre con direzione nordovest - sud-est.
In questi avvallamenti si formarono, nel Pliocene superiore e nel Quaternario antico, le conche
lacustri di Firenze, del Mugello e del Valdarno Superiore. La pressione e le infiltrazioni delle acque incisero
poi gli sbarramenti naturali che, a valle, (alla Golfolina, a Vicchio e a Incisa) le avevano in precedenza
create; il loro graduale svuotamento, intervallato da pause, e la successiva azione erosiva dei corsi
d'acqua laterali determinarono, infine, l'attuale aspetto delle nostre vallate e delle colline che ad esse
fanno corona.
Ai lati delle depressioni lacustri rimase una serie di pieghe montuose, più o meno parallele, digradanti
verso il Tirreno; esse costituiscono oggi la dorsale appenninica, il Pratomagno, la catena delle colline del
Chianti, quella dal M. Senario al M. Giovi, la Calvana pratese e il Montalbano.
B) II clima
II clima della Provincia risente della benefica vicinanza del Tirreno, dal quale la separano rilievi
relativamente modesti, e della protezione costituita, contro i venti del nord, dalla dorsale dell'Appennino.
Pertanto, pur situata all'interno della penisola, il suo clima può definirsi abbastanza mite.
La primavera è alquanto piovosa, specie al suo inizio e nella parte centrale; l'estate è secca, ma fresca e
con buona ventilazione sui rilievi, mitigata talvolta anche da improvvisi temporali; l'autunno è mite, anche se
piovoso, spesso, nella sua seconda parte; l'inverno è caratterizzato da una notevole instabilità termica ed
atmosferica e da rilevanti precipitazioni nevose sulle montagne.
Le conche interne del Mugello e del Valdarno Superiore risentono, più delle altre, della lontananza dal
mare e del fatto di essere circondate da rilievi montuosi; di qui il loro particolare clima, intermedio fra
quello tirrenico e quello del versante adriatico e padano.
La temperatura media annua nella montagna fiorentina si aggira attorno ai 10 gradi centigradi a 1000
metri di quota, con valori superiori per le quote più basse e meglio esposte, inferiori nel caso inverso.
Le precipitazioni sono relativamente abbondanti e strettamente legate all'altitudine; mentre nelle
conche si aggirano sui 900-1000 mm annui, si sale a 1300-1400 mm sulle montagne circostanti con valori di
1400-1500 mm nella Romagna Toscana, di 1600 mm sul Pratomagno e di 1800 mm sul Gruppo del
Falterona. I massimi di precipitazioni si registrano in genere in autunno e verso la metà della primavera.
La neve è abbondante sui versanti settentrionali dell'Appennino e del Falterona e nella parte più
elevata del Pratomagno.
Nebbie sono frequenti, nelle stagioni autunnale ed invernale, nelle conche e nel basso delle vallate,
specie di primo mattino
C) La flora e la fauna
Fino ai 400-500 m di altezza predominano nelle conche e nelle vallate colture a seminativi ed arboree
(specie vite e olivo). Fra di esse, però con ampiezza sempre più ridotta per la crescente antropizzazione,
sono frequenti anche cespuglieti o ampie siepi formate da Ginepri, Biancospini, Rosi selvatici, Ginestre,
Eriche, Prugnoli, Cisti, Robinie, etc.
La fauna di questa zona è ormai ridotta a quelle specie che riescono a «convivere», in qualche modo,
con l'Uomo. Rara è la lepre, decimata non solo dai cacciatori, ma anche dall'inquinamento e dai
fitofarmaci. Il Fagiano è invece sparso un po' ovunque, per la sua adattabilità e per i ripopolamenti;
favoriscono la sua sopravvivenza anche l'abbondanza di cibo, reperito spigolando nei campi, e gli inverni
meno freddi.
Negli incolti e nei cespuglieti nidificano varie specie ornitiche come il Merlo, il Passero, il Saltimpalo,
l'Averla piccola, lo Scricciolo, il Cardellino, il Beccafico, il Verdone. Ancora numerosi, fra gli uccelli stanziali,
l'Allodola e lo Strillozzo.
Tra i Mammiferi carnivori sono presenti — talora anche troppo — la Volpe, la Faina e la Donnola.
Sempre al disotto dei 400-500 m, il manto vegetativo è più folto nella vegetazione di ripa, lungo ji
fiumi e sul fondo delle vallette che incidono i rilievi più bassi. È costituita da Pioppi, Salici, Frassini, Ontani
neri, Sambuchi, Cornioli, oltre a Edere, Vitalbe, Felci etc. Scarsa è purtroppo la fauna tipica della vegetazione di ripa, a causa dell'inquinamento e della presenza dell'uomo. Qui si possono ormai trovare solo
animali provenienti dalle zone vicine, in cerca di riparo o di cibo (il Cinghiale, la Tortora, il Merlo, insettivori
con abitudini arboricole come l'Usignolo, il Pettirosso, la Capinera e lo Scricciolo, e qualche Fagiano, durante i mesi caldi). In ottobre vi si può incontrare anche la Beccaccia, lo Storno e il Tordo bottaccio. Sempre
più spesso però, fra i pioppi e i salici si accumulano ormai solo spazzature e residui della civiltà dei
consumi.
Nelle quote più elevate di questa fascia collinare, assieme a frequenti e vasti boschi di pino, è molto
diffuso il cipresso, piantato a filari come frangivento, oppure accanto a chiese o cimiteri; ma non mancano
veri e propri boschi.
Nei filari e nei parchi predomina il cipresso piramidale (o maschio), più alto e slanciato; nel bosco è
invece più frequente il cipresso orizzontale (o femmina), perché di accrescimento più rapido e di natura più
resistente.
Il sottobosco delle pinete e delle cipressete è rappresentato da Ginepri, Ginestre, Cisti e altre specie
proprie della macchia mediterranea. Esso, di per sé, non presenta particolarità faunistiche, sia perché di
limitata estensione sia perché in effetti popolato da specie provenienti dalle zone vicine (Istrice, Coniglio
selvatico, e, fra i volatili, Passeracei, Colombacci, Fringuelli, Verdoni, etc.); vi si incontra spesso anche il
Merlo, che ama nidificarvi, e la Lepre.
Alle quote superiori, e fino ai 900-1000 m di altezza, predominano castagneti (da frutto o da palina) e
boschi cedui di latifoglie.
Il castagneto da frutto si diffuse nel medioevo allo scopo di integrare l'alimentazione delle
popolazioni di montagna, specie sui monti a settentrione e ad oriente del Mugello e su quelli del
Pratomagno. Negli ultimi tempi, con l'abbandono graduale della montagna, esso è stato però molto
trascurato. Il suo sottobosco ospita — impoverita — la flora dei querceti (Roverella, Cerro, Pioppo Tremolo) e
specie erbacee come la Felce aquilina, la Festuca Ovina, etc. Per quanto riguarda la fauna, frequenti i
ruminanti selvatici e i cinghiali, che trovano nel castagneto abbondante sostentamento, anche invernale.
I castagni più grossi ospitano nidi di Picchio nelle cavità dei tronchi e nidi di Falconiformi (Poiane,
Gheppi), fra i rami più alti. Fra le cavità nidificano però anche il Gufo, l'Assiolo e la Civetta. Fra le radici
scavano le loro tane la Volpe, la Puzzola, il Tasso, lo Scoiattolo e la Martora.
Oltre che dal castagno, e sempre alle quote inferiori ai 900-1000 m, le nostre pendici montane sono
coperte da vasti boschi cedui di latifoglie. Si hanno boschi puri, ma più spesso misti,
di Roverella, di Cerro e di Leccio, associati ad altre specie legnose come l'Acero, l'Olmo, il Carpino nero,
l'Orniello, il Ciliegio, il Nocciolo, la Robinia, il Biancospino, il Ligustro, la Vitalba, etc. Le specie dominanti
sono però la Roverella, l'Orniello, il Carpino nero e il Cerro.
Come per il castagneto, il Cinghiale ha trovato nella minore utilizzazione del ceduo e nella cessata
concorrenza del maiale domestico il fattore decisivo per riprendere possesso anche della zona a bosco
ceduo. Ghiande e bosco folto, ricco di acqua, costituiscono infatti il suo habitat ideale.
Altre specie presenti sono la Volpe, la Faina, la Puzzola, la Donnola; più rari, lo scoiattolo e il tasso. Fra
i piccoli Mammiferi, l'Istrice e il Ghiro.
Numerosa è l'avifauna della zona, che comprende molte specie di Silvidi, di Turdidi (Tordella, Merlo,
Bottaccio), di Corvidi (Ghiandaia, Gazza, Cornacchia grigia), di Fringillidi (Fringuello, Verdone).
Negli ultimi decenni massicci ripopolamenti, principalmente a scopo venatorio, hanno incrementato
la presenza del Cinghiale e del Capriolo, della Lepre e, specialmente, del Fagiano. Per queste ultime due
specie, però, a causa dei numerosi incroci fra le razze immesse e quelle esistenti, gli animali non presentano più le caratteristiche originali della razza appenninica.
Al disopra dei 900-1000 m prevale infine la faggeta, sia ad alto che a basso fusto. Frequenti però anche
l'abete, specie quello bianco, e il pino silvestre, immessi attraverso antichi o recenti rimboschimenti in
zone del Mugello, della Calvana Settentrionale, nelle foreste di Vallombrosa e del Gruppo del Falterona.
Specie alle quote più elevate, la cessazione del pascolo ha portato negli ultimi tempi ad una notevole
espansione del faggio arbustivo (come, ad es. nel Pratomagno).
È auspicabile la conversione delle attuali vaste faggete cedue in fustaie, sia per la migliore resa in
legname sia per l'alimentazione che il frutto della fustaia (la c.d. «faggiola») fornisce a Cinghiali, Caprioli,
Daini, Mufloni e a molti Roditori.
Oltre all'abete bianco e al pino silvestre si associano spesso al Faggio anche il Tiglio, il Sorbo degli
Uccellatori, l'Acero di monte, l'Olmo montano, il Carpino bianco, la Betulla pendente, il Pioppo tremolo, etc.;
fra gli arbusti, il Rovo, il Lampone, il Salicene, la Ginestra, l'Agrifoglio, etc.
Dal punto di vista faunistico, la zona della faggeta rappresenta l'ambiente naturale meglio conservato
della Provincia. Anche se la caccia spietata fatta dall'uomo ha eliminato molte specie di selvatici, un
tempo presenti, come orsi, cervi (presenti nel parco delle foreste casentinesi), lupi (in fase di forte
ripopolamento), etc., numerose sono le specie di ripopolamento, come i caprioli , i daini e i cinghiali. Il
muflone è presente nelle riserve demaniali del Giogo. Altre specie ancora presenti sono la volpe e lo
scoiattolo.
Nella zona della dorsale nidificano con frequenza varie specie di uccelli, come lo Zigolo, l'Ortolano, il
Rigogolo, il Codirosso, il Saltimpalo, il Frosone, le Averle e, nei prati di crinale, lo Spioncello e il Fanello.
Anche gli Alaudidi (Cappellaccia, Lodo-la) sono frequenti negli spazi aperti. Il Picchio nidifica spesso nei
grossi faggi. Fra gli uccelli stanziali si possono citare il Merlo, la Tordella, la Cinciallegra, il Fringuello, il
Verdone, il Cardellino, il Passero, la Ghiandaia, etc.
Durante il passo autunnale degli uccelli migratori, la vasta insellatura del crinale fra il Corno alle Scale e il
M. Falco costituisce la porta di comunicazione fra il versante adriatico, e quindi l'Europa nord-orientale,
ed il versante tirrenico.
Lungo i fiumi è possibile incontrare anche il Martin Pescatore, magnifico uccello, anche se di piccole
dimensioni, che attende al varco i pesci che cattura con audaci tuffi.
Fra i rapaci, ormai quasi sterminati, sopravvive solo la poiana che è facile osservare mentre esegue
lunghe e lente spirali, sfruttando le colonne d'aria ascendenti. In basso, nelle zone di media e bassa
collina, è ancora presente il gheppio, gran cacciatore di topi, che attende al varco la preda, spesso
immobile a una ventina di metri da terra, in prossimità dei coltivi e dei pascoli, nonché l'albanella
minore.
Un ultimo cenno riguardante i rettili e gli anfibi. I rettili presenti nelle nostre montagne sono la biscia
d'acqua, il biacco, l'orbettino, il ramarro, la lucertola e la vipera (che è l'unico velenoso, ma non pericoloso
se non lo si molesta).
Fra gli anfibi, non mancano rane, rospi, raganelle.
3-IL CRINALE APPENNINICO DAL PASSO CITERNA AL M. FALCO
II tratto di crinale appenninico dell’area fiorentina è compreso nella depressione che va dal Corno alle
Scale (1945 m) al M. Falco (1658 m). Le montagne che vi si incontrano non sono molto elevate: il M.
Gazzaro (1125 m), l'Alpe di Vitigliano (1117 m), il M. Peschiena (1198 m), costituiscono perciò, con le altre,
più basse, fra esse intercalate, un insieme di sommità non impegnative, in continuo saliscendi, ma senza
grossi dislivelli.
Maggiori elevazioni si trovano invece al di fuori dello spartiacque (Sasso di Castro 1276 m, M. Lavane
1241 m). Esse sono perciò incluse negli itinerari laterali.
I terreni sono, in linea di massima, formati da arenaria «macigno» nella dorsale (oligocene);
lateralmente, specie sul versante romagnolo, predominano invece terreni della serie marnoso-arenacea
(miocene). La notevole presenza del «macigno» conferisce una certa uniformità alla dorsale, ricca di strati
rocciosi affioranti, talora franosi, che consentono uno scarso suolo vegetale. Più frequenti, pertanto, i tratti
aperti, con ampie radure sommitali. Contribuiscono a formare tali tratti aperti, non di rado spogli di
vegetazione, anche i forti venti invernali, lo scarso manto nevoso e il gelo, che impediscono il formarsi di
una cotica erbosa continua.
Ai lati il paesaggio presenta una fitta serie di rilievi incisi da solchi di erosione molto ripidi, quasi
paralleli sul versante mugellano, con andamento più irregolare su quello emiliano, coperti da boschi di
faggi, castagni e roverelle.
Sotto il profilo escursionistico, le caratteristiche del terreno sono, in un certo modo, contrastanti. Da
un lato quote non elevate e mancanza di difficoltà alpinistiche facilitano le escursioni; d'altro lato non
vanno sottaciuti altri elementi, come le distanze, in qualche tratto notevoli, la scarsità di sorgenti, i tratti
con fitta vegetazione e le radure coperte di felci, rovi o altri arbusti/tutti elementi che possono essere di
ostacolo sia per la rapidità di marcia, sia per l'orientamento e la individuazione dei sentieri.
La non elevata altitudine della dorsale ha favorito, fin dai tempi antichi, l'apertura di valichi stradali.
Il primo fu quello del Passo dell'Osteria Bruciata, aperto fin dall'alto Medioevo, su un tracciato
forse già esistente.
Dopo il 1300 la Repubblica di Firenze, per sottrarre i suoi traffici alle molestie degli Ubaldini, costruì le
«terre nuove» di Scarperia e di Firenzuola e aprì sotto la loro protezione la via del Giogo, in pratica una
variante che sostituì la via precedente nel tratto, grosso modo, fra Scarperia e Firenzuola.
Ma anche questa nuova via, troppo ripida, stretta e franosa, venne sostituita nel tratto fra Novoli e
Pietramala con la nuova «carrozzabile» della Futa, che si affiancò così, dal 1764, alla strada del Giogo,
impercorribile con carriaggi pesanti (la via dell'Osteria Bruciata era già stata da tempo abbandonata) (1).
Più ad est altre due antiche vie superavano, seppure con molte difficoltà, la dorsale: una, aperta in
epoca romana, passava dalla Colla di Casaglia e l'altra, aperta in epoca medioevale, dalla Colla dei Lastri.
Entrambe (la seconda spostata al Passo Muraglione) furono rese carrozzabili nella prima metà del 1800.
I valichi della Futa, del Giogo, della Colla di Casaglia e del Muraglione sono oggi interessati da ampie
Statali e serviti da autoservizi; sono quindi ottime basi di partenza per escursioni sulla dorsale.
( 1 ) Ci si può chiedere perché si attese fino al 1764. Probabilmente perché, per rendere sicuri i confini
settentrionali del Granducato, nulla era più efficace del lasciarvi strade impercorribili da grossi eserciti e
da artiglierie. Con i Lorena, legati all'Austria, la paura scomparve.
4 - IL MUGELLO SETTENTRIONALE
La valle del Mugello si formò durante il Miocene, quando una grande spinta geologica creò nell'attuale
Toscana una serie di corrugamenti montuosi, pressappoco paralleli, fra i quali si formarono vari bacini
lacustri; la conca mugellana fu quella che si creò fra i corrugamenti della dorsale appenninica e della
catena M. Morello-M. Giovi.
Durante lo svuotamento avvenuto nel Pliocene, i torrenti che si riversavano nella conca incominciarono,
a seguito dell'abbassarsi del livello del lago, ad erodere il fondo, aumentando così la profondità delle
vallette laterali circostanti. Durante il graduale svuotamento si verificarono però degli intervalli, durante i
quali le parti inferiori delle vallette si riempirono di altri materiali provenienti da monte; successivamente,
si verificarono nuove incisioni, dando così luogo alla formazione di quei terrazzi che oggi fiancheggiano
molti affluenti della Sieve.
È a questo complesso di fenomeni che si può far risalire la particolare natura orografica della
montagna mugellana.
La maggior quantità di detriti trasportata dai torrenti provenienti da nord, cioè dalla dorsale
appenninica, ha fatto sì che il tratto più impervio di questa catena abbia una profondità limitata; a distanza
relativamente breve dal crinale, infatti, il paesaggio si ingentilisce con rilievi più dolci, che man mano
degradano, a terrazze, verso la pianura di fondovalle.
Per i motivi opposti, sul versante sud, alla pianura fa invece seguito, bruscamente, una ripida zona
montagnosa che sale, occupando una estensione assai più ampia, fino al crinale M. Senario-M. Giovi.
La parte montuosa del Mugello a nord della Sieve si presenta pertanto come una fitta serie di
contrafforti quasi paralleli che, dopo una lieve pendenza nella parte inferiore, salgono poi bruscamente
verso il crinale presentando ai due lati, nella parte terminale, versanti ripidi e scoscesi. La minore portata
dei torrenti, conseguenza della brevità del loro corso e della minore altezza dei rilievi, ha invece dato alle
vallate a sud della Sieve una disposizione meno uniforme e con un improvviso passaggio dalla bassa
collina alla montagna.
Geologicamente, nella parte alta dei monti, specie a nord della Sieve, predominano strati alternati di
arenarie e marne, di struttura assai aspra e incisi, come sopra detto, dalle valli strette e ripide degli
affluenti. Più in basso, specie a sud, predominano le argille scagliose che cedono poi il posto, in valle, ai
depositi lacustri quaternari.
Dopo la stretta fra Vicchio e Dicomano — dove la conca lacustre terminava — il più regolare regime
dell'emissario ha dato invece al tratto inferiore del bacino della Sieve un profilo più stretto, cui è stato dato
il nome di Val di Sieve. In questa parte della valle i rilievi sono molto ripidi e prossimi al fiume sulla riva destra; a sinistra invece predominano i rilievi collinari. Essendo le quote inferiori vi predominano, nelle
composizioni dei suoli, in alto le argille scagliose e, a valle, i depositi di natura alluvionale.
Tutta la zona montuosa del Mugello era un tempo ricoperta di querce, faggi e castagni. Successivi
disboscamenti ne ridussero assai l'estensione, anche se questa venne in seguito aumentata con la
ricostituzione di molti boschi cedui e di fustaie e, negli ultimi tempi, con piantagioni a cura del Corpo
Forestale e della ex-Comunità Montana.
Allo stato attuale molto diffuso è ancora il castagno, anche se attaccato di recente da malattie e non
più curato dalle popolazioni locali. Molto vasti sono tuttora i boschi di querce, frammisti a carpini e
frassini, anche essi però a carattere ceduo e a basso sviluppo.
Magnifici esemplari di querce esistono invece nella parte bassa delle valli laterali, specie lungo le strade,
presso alcuni casolari e nei parchi delle ville.
Nella parte inferiore della valle, cioè nella Val di Sieve, le estese coltivazioni a vigneto e l'olivicoltura della
riva sinistra (idr.) limitano le superfici boschive alle quote più elevate; sulla riva destra, dove i rilievi
scendono più ripidamente, i boschi giungono invece fino al fondo valle.
Per altre notizie sul versante meridionale del Mugello e sulla Val di Sieve, nonché per i relativi
itinerari, si rinvia, rispettivamente, alla descrizione dei gruppi del Monte Falterona e del Monte Giovi.
I primi abitanti del Mugello sembra siano stati i Liguri Magelli (dai quali deriva il nome di Mugello) e gli
Umbri, cui subentrarono gli Etruschi provenienti dalla vicina Fiesole. Molti cimeli (recenti ritrovamenti sono
avvenuti presso Vicchio e Dicomano) e alcuni nomi di località (Lumena, Ampinana, ecc.) ne testimoniano la
presenza. Al tempo di Siila comparvero i Romani, dei quali restano testimonianze in nomi di altre località
(Grezzano, Pulicciano, Petrognano, ecc.).
Dopo il crollo dell'Impero Romano giunsero i Longobardi, che eressero nella zona vari castelli. Tra i
feudatari, presto in lotta fra di loro, si affermarono gli Ubaldini (nel nord) e i Guidi (nella Val di Sieve e
nella parte orientale). Sorsero in questo periodo le prime chiese romaniche del Mugello, per lo più
erette dagli Ubaldini.
Durante l'XI e il XII secolo il Mugello fu teatro di altre lotte tra Guidi, Ubaldini, i Vescovi di Firenze e di
Fiesole.
All'inizio del XIII sec. Firenze, divenuta florido Comune, cominciò ad espandere il suo dominio nel
Mugello. Sconfiggendo definitivamente gli Ubaldini nel 1373, allargò i propri possessi fino all'attuale
Romagna Toscana, al di là dello spartiacque appenninico.
Nei secoli successivi la storia del Mugello si identificherà con quella di Firenze, del Granducato di T oscana
e dello Stato italiano. Durante l'ultimo conflitto il Mugello fu teatro di molti episodi di lotta partigiana e di
una aspra battaglia in occasione dello sfondamento della Linea Gotica (settembre 1944) da parte delle
truppe americane.
Il Mugello è stato, per lunghi secoli, fonte di prodotti agricoli per Firenze e luogo di soggiorno per molte
ricche famiglie della città; l'insediamento umano appare perciò, ancor oggi, molto frazionato e sparso e
molte sono le abitazioni rurali, anche se molte delle quali abbandonate, che si incontrano a notevole distanza
dai paesi.
D'altro lato, però, nella parte montana del Mugello, emarginata dalle principali aree produttive e dalle
maggiori linee di comunicazione, come ferrovie e autostrade, il processo di spopolamento si è
notevolmente accentuato negli ultimi anni, con lo spostamento di una parte consistente della popolazione
più giovane verso i centri di fondovalle. Notevole anche il pendolarismo, diretto quasi esclusivamente
verso l'area di Firenze.
Sempre negli ultimi anni, peraltro, l'economia della zona montana ha trovato un certo incentivo nello
sviluppo del turismo estivo e di quello escursionistico. Devono essere poi tenute presenti, per l'avvenire, le
notevoli possibilità di sfruttamento razionale del patrimonio boschivo, specie per quanto riguarda il complesso demaniale Giogo-Casaglia.
5 - LA ROMAGNA TOSCANA
Viene generalmente denominata Romagna Toscana (o Alto Mugello) una vasta area, facente parte della
Provincia di Firenze, posta a nord dello spartiacque appenninico, all'incirca fra il Passo della Futa e quello
del Muraglione.
Alla base delle vicende storiche che la portarono sotto il dominio di Firenze sta la scarsità di vie di
comunicazione che, nell'Alto Medioevo, fece sì che alcune famiglie di feudatari spadroneggiassero nella zona
fra il Mugello e le basse valli emiliane, imponendo pedaggi per il passaggio attraverso i propri feudi. Da qui
l'acerrima lotta condotta da Firenze contro questi feudatari, specie contro gli Ubaldini e i Guidi, fino alla
definitiva conquista dei loro territori. Essendo questi a cavallo dello spartiacque, la parte di essi posta sul
versante emiliano entrò ugualmente a far parte dei domini fiorentini e così - sia pure con qualche
successiva rettifica - essi sono ancor oggi compresi nella Provincia di Firenze.
1) La conca di Firenzuola
La natura del terreno presenta particolari caratteristiche nella conca di Firenzuola, ove predominano
formazioni di argille scagliose, con colline poco elevate e scarso manto vegetativo. Le rocce ivi inglobate caratteristiche di queste formazioni - sono generalmente molto resistenti e così affiorano al disopra del
manto argilloso, spesso distaccandosi nettamente da esso con pareti assai scoscese. I blocchi più
importanti, che formano vere e proprie montagne, sono costituiti da ofioliti, generalmente chiamati
«pietre verdi» per il particolare colore verde-scuro, tendente al nero. Esempi ne sono il Sasso di Castro, il
Monte Beni, il Sasso della Mantesca e il Sasso di S. Zanobi.
La zona è ricca di acque e di boschi (cerro, castagno) e fino all'anteguerra basava la propria economia
sui prodotti del bosco e dei pascoli; nel dopoguerra si è verificato, anche qui, il fenomeno dell'abbandono.
Successivamente sono stati comunque effettuati vasti rimboschimenti con abete bianco e pino nero e con
cedui avviati all'alto fusto.
2) Le alte valli del Santerno, Senio, Lamone e Montone
In queste valli, poste a est della conca di Firenzuola, predominano invece formazioni marnoso-arenacee
( 1 ). Qui l'azione degli agenti atmosferici e soprattutto l'erosione fluviale, dopo che queste rocce si
sollevarono dal fondo marino, ha portato, data la loro facile erodibilità, ad un modellamento diverso del
paesaggio, segnato di frequente da improvvisi pendii, aspri e scoscesi.
Per quanto riguarda la vegetazione, fino alla quota di 800 m si hanno castagneti (specie sui versanti
più freschi ed esposti a nord) e boschi di cerro, roverella e carpine nero, spesso degradati. Più in alto
predomina il faggio, di forma cedua e frammisto ad aceri ed altre essenze, con ampie radure spesso
invase da felci, lamponi, cardi, ecc.
La zona, anche se impervia, appare tuttavia meritevole di tutela sotto il profilo naturalistico, e qui un
discorso particolare va fatto in merito all'attività estrattiva.
Numerose cave di pietra, spesso aperte con una programmazione e con studi preliminari a dir poco
approssimativi, stanno arrecando danni irreparabili all'ambiente, specie nella Val di Santerno, in quella del
Rovigo e nel complesso Sasso di Castro-Monte Beni e appare sempre più urgente un serio intervento
normativo che, pur tenendo conto della necessità di assicurare fonti di reddito alla popolazione locale,
valga a salvaguardare anche l'ambiente, nello stesso interesse della popolazione medesima.
Nell'alto Medioevo i territori della Romagna Toscana erano, come detto più sopra, dominio di alcune
potenti famiglie di feudatari.
Gli Ubaldini, acerrimi nemici dei Fiorentini, furono da questi sconfitti, dopo alterne vicende, solo
nella seconda metà del XIV secolo. Altri feudatari cedettero invece i loro territori alla Repubblica
Fiorentina anche attraverso pacifici negoziati. Comunque, alla fine del XIV sec., tutto il territorio della c.d.
«Romagna Toscana» era passato a Firenze e ne seguì le sorti fino ai nostri giorni.
Testimonianze delle antiche lotte restano ormai solo i ruderi di castelli sulla sommità di montagne
impervie e molte case-fortilizi in vari borghi montani; per quanto riguarda invece gli insediamenti
civili, moltissimi sono i casolari, purtroppo quasi tutti in abbandono, risalenti ai secoli scorsi, che si
incontrano lungo gli itinerari montani: fra di essi, case di tipo peninsulare e case di pendio, piccole
casupole, di minime dimensioni e con qualche piccola finestrella, mulini, etc. Non mancano antiche chiese,
tabernacoli in pietra, e altre testimonianze religiose.
( 1 ) Tali formazioni sono costituite da strati alternati di arenaria, siltite, marna e argilla.
6 - IL GRUPPO DEL FALTERONA
Il gruppo del Falterona è caratterizzato da un alto nucleo centrale (M. Falco 1658 m, M. Falterona 1654 m)
che si articola in numerosi contrafforti ed è formato in massima parte di arenarie eoceniche con strati di
scisti argillosi, marnosi e calcarei. A tale struttura sono dovute le frequenti frane di alcune pendici. Per la
maggior parte della superficie è tuttavia coperto di belle foreste, specie sul lato casentinese. Nel XIX
secolo la parte di bosco di proprietà privata ha risentito di un eccesso di sfruttamento e, poi di un
abbandono quasi totale, per cui molto estese sono, in questo settore, le boscaglie degradate.
La zona presenta tuttavia un elevato interesse naturalistico e paesaggistico. Essa è infatti tra le più elevate
dell'Appennino Tosco-Romagnolo, con dorsali particolarmente ampie rispetto alle altre parti della catena. Il
paesaggio, oltre che dalla maggiore superficie delle parti sommitali, è reso suggestivo anche dall'alternarsi
della vegetazione boschiva con vaste praterie.
Da citare la vasta proprietà demaniale delle «Foreste Casentinesi Monte Falterona e Campigna», che
interessa anche il versante occidentale del M. Falterona con vaste zone di faggio ceduo e ad alto fusto.
Gli insediamenti, assai rilevanti nelle zone collinari circostanti e nelle vallate, sono invece scarsi nella parte
superiore del massiccio, ove esistono solo pochi nuclei rurali, case pastorali in disuso e resti di carbonaie.
Le attività della zona si limitano pertanto alla conservazione e allo sfruttamento del patrimonio forestale e
allo sviluppo del turismo residenziale ed escursionistico (S. Godenzo, Castagno d'Andrea, Campigna).
AVVERTENZE PARTICOLARI
La numerazione dei sentieri in questa zona è stata impostata in tempi e con criteri diversi rispetto a quelli
della adiacente dorsale appenninica.
Dal Falterona inizia un altro itinerario 00 di crinale diretto verso il Pratomagno, con una propria
numerazione per i sentieri laterali. Si potranno quindi incontrare itinerari con numeri già visti
sull’Appennino, esiste però una sufficiente distanza e non potranno conseguentemente sorgere incertezze.
ITINERARI LATERALI ALLA CRESTA FALTERONA-CONSUMA
Gli itinerari 1 ed 1/A ripercorrono, il primo in parte ed il secondo per intero, il tracciato di una via
medioevale (VI-X sec.) o etrusca (nella zona prossima a Dicomano) che dal Casentino scendeva per la valle
del Moscia alla zona ove sorsero i castelli di Londa e risaliva poi, in parte sul percorso dell'itinerario 1, al
Poggio S. Martino. Da qui si biforcava in due rami, sul percorso dell'itinerario 1/A; il primo scendeva a
sinistra nella val di Sieve, ove ora si trova Dicomano, ed il secondo risaliva a destra - toccando il castello del
Pozzo - verso Tizzano, e continuava, per un altro tratto dell'it. 1, verso Castagno ed il Varco delle Crocicchie.
È molto suggestivo, osservando i luoghi e le testimonianze ancora esistenti, rivivere un lontano passato.
7- IL GRUPPO DEL MONTE GIOVI
E’ una catena di media montagna fra le valli della Sieve e dell'Arno che si snoda da ovest a est a una quota
di 800-900 m (M.Ripaghera 914 m, M. Giovi 992 m), facilmente accessibile sia da Firenze che dal Mugello.
La catena ripete nelle sue grandi linee la morfologia dei rilievi appenninici, caratterizzata da dorsali
arrotondate dalle quali si dipartono valli di erosione, più incassate e boscose a nord, più dolci e coltivate a
sud. Anche per la natura geologica il gruppo montuoso ha caratteristiche affini all'Appennino, con
prevalenza nella parte centro-meridionale di argille scagliose, con calcari e pietraforte (Giurese Eocene) e
nella parte settentrionale di arenarie-macigno (Oligocene). Nel primo caso si tratta di terreni permeabili,
soggetti a dissesti idrogeologici; nel secondo, di terreni più consistenti, scarsamente permeabili, con i
versanti in buone condizioni e autoregolatori del deflusso delle acque.
Il paesaggio è dominato dai boschi (castagni, cerro, roverella). Alle quote più alte (Giovi, Ripaghera) è pure
presente il faggio, frammisto a carpini, castagni e roverelle. Ancor più frequente è il faggio nella zona di M.
Giovi, con estesi boschi talora frammisti a castagni.
Sul territorio dominavano nell'alto medioevo i Conti Guidi. Tra il XII e XIII secolo il Comune di Firenze, per
ampliare il proprio contado, ne favorì la cessione alla Curia Episcopale. Vennero così acquistati dai Vescovi
fiorentini i castelli di Monte Giovi,Monte Bonello, Acone, Aceraia, Monterotondo. Altri castelli passarono a
Firenze con acquisti diretti (Galiga, Colognole, Arliano). Il castello di Monte Croce, sopra le Sieci, fu invece
teatro di aspre lotte prima di essere tolto ai Conti Guidi.
Anche il M. Giovi presenta estesi fenomeni di degrado ambientale. Opportuna appare una rivalorizzazione
del patrimonio boschivo, dell'agricoltura e del turismo.
8 - IL PRATOMAGNO
É l'ultima e la più elevata delle quinte preappenniniche originate dai corrugamenti geologici che hanno
interessato la Toscana nel Miocene. La dorsale si estende per una trentina di km, da nord verso sud, con
una larghezza media di circa 10 km, fra il Valdarno Superiore e il Casentino. Si presenta come un grande
contrafforte dell'Appennino che si stacca dalla catena principale presso il Monte Falco e ne continua
l'aspetto morfologico e la natura geologica, caratterizzata da una fascia superiore di cime ampie e
tondeggianti, caratteristiche del paesaggio arenaceo appenninico, con aspetti ambientali di eccezionale
valore e di notevole tipicità, e che si mantiene a quote elevate, fra i 1200 e i 1500 m s.l.m., raggiungendo i
1592 m di altitudine alla Croce di Pratomagno.
Il suolo e geologicamente composto di arenaria-macigno, di marne giallastre e rigide a fattura scheggiosa,
intercalata a macigno e a scisti siltosi, con presenza occasionale di dolomite e con vasta diffusione di argille
scagliose. La parte di crinale compresa fra il Passo della Consuma e il M. Secchieta è ricoperta da belle
foreste di conifere e di faggi; in quella ancora più a sud si estendono invece vaste praterie sommitali, di
rilevante interesse panoramico e naturalistico, che formano una fascia continua di circa 13 km (da qui il
nome di Pratomagno -La parte della catena a nord del Passo della Consuma è stata descritta assieme al
Gruppo del Falterona, al quale più si avvicina dal punto di vista geologico, litologico e vegetazionale).
Le valli laterali presentano un andamento piuttosto ripido nel versante fiorentino, sia pure senza vasti
scoscendimenti o grosse rocce affioranti; un declivio più dolce hanno invece le pendici sul versante
casentinese. Vi predominano, in alto, boschi cedui di faggio, di cerro, di castagno e foreste di resinose, in
gran parte di rimboschimento; a quote più basse, cedui di quercia, con predominio della roverella.
I boschi più noti e validi sotto l'aspetto naturalistico sono quelli di rimboschimento (abete bianco, abete
americano, pino rosso e pino laricio). In questo contesto emerge la vasta foresta demaniale di
Vallombrosa, che si estende per circa 2400 ha, a una quota compresa trai 500 ei 1450 metri s.l.m., con
bellissiìme abetaie e faggete.
L'area della foresta demaniale di Vallombrosa è stata classificata come biotopo dal C.N.R; (1971,) e censita
come tale anche dalla Società Botanica Italiana (1971). Tutto il Pratomagno è stato inoltre censito come
biotopo dal C.N.R.; l'area del Pratomagno, assieme a quella della foresta demaniale di Vallombrosa è stata
censita dal Gruppo Regionale di Lavoro per i Parchi in Toscana come comprensorio di notevole interesse
floristico e vegetazionale meritevole di conservazione (1975). Il territorio stesso è stato incluso nelle aree da
sottoporre a tutela ambientale nel quadro di attuazione della legge 29/6/1982 n. 52 (Delibera del Cons.
Rcg.le Toscana 14/7/82 n. 420, scheda n. 17).
Sulle pendici più basse della catena, specie sul versante occidentale, assai più abitato, predominano oliveti
e vigneti. Sul versante casentinese, che presenta un declivio più dolce, si incontrano, talora fino ai 1000 m
di altezza, anche molti superbi castagneti. Ancora più in basso, verso i 300/350 m di quota, tra il fondovalle
dell'Arno - letto di un antico bacino lacustre- e i due corrugamenti ad esso laterali, costituiti dai monti del
Pratomagno e da quelli del Chianti, si sono formati, in ere preistoriche, due stretti altipiani ondulati, in
corrispondenza della parte superiore del fondo dell'antico lago. Quello che, si appoggia al Pratomagno
presenta, molto più dell'altro, margini frastagliatissimi e franosi che danno luogo ad una interessante e
caratteristica zona terminale (inferiore) formata da un insieme di piccole colline che, per l'incoerenza dei
materiali - sabbie e ciottoli- che la compongono, ha profondamente risentito dell’erosione delle acque,
assumendo delle forme assai pittoresche (le ripide “balze” e le caratteristiche “lame”), ravvivate dal colore
giallo delle rocce scoperte e dal verde scuro che copre la cima delle piramidi e delle piccole creste. Il
fenomeno può essere bene osservato in modo particolare dalla strada che da Leccio, sulla Statale 69, sale a
Reggello, nel tratto fra Leccio e Cancelli, nel quale la strada corre incassata fra le alte “balze” naturali.
La zona fu abitata dagli Etruschi e dai Romani, seppure con scarsi insediamenti limitati ai bordi collinari. Nel
periodo romano fu costruita la «Cassia vetus», ora strada dei “Setteponti” che univa Arezzo a Fiesole e
Firenze. Essa seguiva, nel Valdarno Superiore, il tracciato dell’attuale strada pedemontana che unisce
Castiglion Fibocchi a Reggello e Diacceto.
Nel medioevo il territorio fu acquisito dalla Repubblica Fiorentina con pacifici negoziati ma più spesso con
aspre lotte, prima contro i feudatari locali, fra i quali primeggiavano gli Ubaldini, gli Ubertini, i Guidi e i
Pazzi, poi contro Arezzo.
Nella zona numerose testimonianze storico-statistiche, come chiese (Vallombrosa, Cascia, Magnale,
S.Agata, Ponticelli, Pian di Scò, Gropina, S. Giustino), castelli (S. Ellero, Incisa, Figline,Pelago, etc), torri
(S.Ellero, Ristonchi, etc) e ville (S. Mezzano,Pitiana) ricordano ancora, nella parte inferiore degli itinerari,
la storia e l'arte dei secoli trascorsi.
Al disopra dei 350-400 m di quota gli insediamenti sono ancora accentrati lungo le strade, in piccole frazioni
a mezza costa,senza invadere quasi mai la zona di crinale; quasi assente l'insediamento sparso, anche per le
antiche tradizioni che volevano le case disposte intorno ai castelli.
L’economia prevalente è pertanto ancora quella di tipo montano, con attività mista, agricola, pastorale e
forestale. Larghi tratti della catena sono ora in gran parte quasi deserti, a causa del clima avverso per lunghi
mesi, dell'abbandono del taglio dei boschi, della scomparsa delle greggi anche nelle praterie più elevate.
Una buona coltivazione e utilizzazione delle foreste si ha tuttavia nelle aree demaniali di Vallombrosa. Altra
eccezione a questa situazione generale di prevalente abbandono e costituita da un certo sviluppo del
turismo estivo - in genere, di soggiorno - che si registra nelle località più elevate, da poco collegate al
fondovalle da una buona viabilità, o unite fra loro dalla strada panoramica che dal Passo della Crocina porta
al Varco di Castelfranco, con il proseguimento fino al Varco di Reggello, ove già arriva l'altro ramo
proveniente da Secchieta.
Buoni centri di villeggiatura estiva, dotati di una discreta attrezzatura ricettiva, sono quelli di SaltinoVallombrosa e della Consuma.
Nella zona al disotto dei 350-400 m di quota (corrispondente, all'incirca, nel lato Valdarnese, all'altipiano a
valle della strada dei Setteponti) predominano invece i vigneti e, ancor di più, gli oliveti che vennero
impiantati nella zona stessa durante il periodo granducale. Gli insediamenti hanno quindi carattere più
sparso e numerose sono, nella campagna, le ville-fattorie e le caratteristiche case coloniche con la torrecolombaia costruite in quell'epoca.
Il territorio attorno a Reggello, in particolare, è tuttora rinomato per la produzione dell'olio di oliva.
Nel periodo della occupazione tedesca (Settembre 1943-Lglio 1944) il Pratomagno fu teatro di molti episodi
di lotta partìgiana.
Nell'ottobre 1943 si costituì a Loro Ciuffenna, su iniziativa di Rodolfo Chiosi, ex-capitano dell'Esercito, la
Brigata “Mameli”. Formata in gran parte di militari sbandati e di renitenti alla leva fascista, operò in piccoli
gruppi, dando appoggio agli Alleati, dapprima con attività informative, aiuto ad ex-prigionieri etc., poi,
avvicinandosi il fronte, con sabotaggi e attacchi alle truppe tedesche. La sua azione prevalente fu però
quella di sostegno e difesa delle popolazioni. Contava su circa 150 uomini, e si sciolse il 27/8/44, dopo la
ritirata tedesca.
Sempre alla fine del 1943 si costituì a Ferrano (ved. It. 6), su iniziativa di Giuseppe Politi (“Braccioforte”) e di
Remo Sottili ex-sottufficiale dei carabinieri, la Brigata “Perseo”, che raggiunse la consistenza di circa 200
uomini. Essa operò dapprima fra Ferrano e la Consuma, poi, anche per motivi di approwigionamento, nella
zona a monte di Reggello. Come per la “Mameli” lo scarso armamento non permise azioni militari di rilievo;
furono tuttavia compiuti vari sabotaggi alle vie di comunicazione e venne svolta una valida azione a difesa
delle popolazioni contro le razzie dei tedeschi e dei fascisti.
Una maggiore attività di guerriglia militare venne invece svolta dalle Brigate “garibaldine”. Il 23/11/1943
venne costituita a Subiano la Brigata “Pio Borri” che operò nel Casentino sotto il comando di Siro Rossetti,
della quale il 3" Btg. “Licio Nencetti” operava nella zona orientale del Pratomagno. Nel febbraio 1944
questo Battaglione si divise in vari piccoli gruppi, ad ognuno dei quali venne affidata una zona della catena.
Il Gruppo “Alterini” si spostò sul Falterona.
Nell'Aprile 1944 giunsero sul Pratomagno altre formazioni partigiane provenienti dal M. Morello e dal M.
Giovi e venne costituita, con le altre formazioni garibaldine già presenti, la 23° Brigata “Lanciotto”›, grossa
formazione di circa 900 uomini, con un notevole armamento, naturalmente di tipo leggero. La Brigata si
divise in 8 Compagnie che alternativamente operarono per un certo periodo sui due versanti del
Pratomagno, assumendosi l'iniziativa e la responsabilità delle maggiori operazioni partigiane nella zona. Ciò
creò qualche screzio con le Brigate «Mameli» e «Perseo» (specie con la prima) che, sia per questo, sia per la
diversa connotazione politica, preferirono agire indipendentemente.
Nel luglio 1944, avvicinandosi la linea del fronte, il Generale Kesselring, Comandante tedesco sul fronte
italiano, decise di attaccare in forze le formazioni partigiane insediate sul Pratomagno per distruggerle e
utilizzare il crinale sia come una sicura linea sussidiaria di ritirata dalla val di Chiana, sia come protezione
delle truppe operanti nelle due vallate laterali del Casentino e del Valdarno. Fu utilizzata l'agguerrita
Divisione Paracadutisti «Hermann Goering» con lo scopo, denominato «ritirata aggressiva», di facilitare il
passaggio delle sopraggiungenti truppe in ritirata con massicci rastrellamenti preventivi, cattura di ostaggi,
razzie a scopo di approvvigionamento, etc. Teatro di tale gesta furono principalmente Cetica, La Rocca, Loro
Ciuffenna, Poggio di Loro, Trappola, Pontenano, etc.
Dopo una riunione avvenuta il 7 luglio al Varco di Gastra venne allora ritenuto opportuno unificare la
Brigata Lanciotto e le altre Brigate operanti presso Firenze nella «Divisione Arno». Gran parte della Brigata
Lanciotto abbandonò pertanto il Pratomagno, in due scaglioni, congiungendosi alla Brigata «Sinigaglia»
nella zona di M. Scalari e partecipando infine alla liberazione di Firenze.
Alcune unità si unirono invece alla Brigata “Fanciullacci” spostandosi di nuovo a nord, sul M. Giovi.
9 - I MONTI DEL CHIANTI
La catena montuosa del Chianti rappresenta, geologicamente, la continuazione di quella formata dal
Monte Albano e dalle Colline fiorentine (parte sud) e, assieme ad essa, costituisce il penultimo
corrugamento miocenico prima del Pratomagno. È caratterizzata da cime tondeggianti (che
raggiungono l'altezza di 892 m s.l.m. al Monte S. Michele), e da strette vallette laterali, con versanti
assai ripidi. Il terreno è prevalentemente costituito da calcari marnosi (alberese), da arenarie
(arenaria macigno) e da scisti argillosi (galestro). Tra il fondovalle dell'Arno - letto di un antico bacino
lacustre - e i due corrugamenti ad esso laterali, costituiti dai monti del Chianti e del Pratomagno,
verso i 300/350 m di quota, si sono formati due stretti altopiani ondulati in corrispondenza della
parte superiore del fondo del lago.
Questi altipiani, formatisi a mezzacosta ai due lati della valle, si appoggiano da un lato al
Pratomagno, dall'altro alla catena del Chianti e precipitano nel fondovalle con margini
frastagliatissimi e franosi dando luogo a due interessanti zone intermedie formate da un insieme
caotico di piccole colline che per l'incoerenza dei materiali - sabbie e ciottoli - che le compongono
hanno profondamente risentito dell'erosione delle acque, assumendo forme assai pittoresche,
ravvivate dal colore giallo delle rocce scoperte e dal verde scuro che protegge la cima delle piramidi
e delle piccole creste.
Il manto boschivo è costituito nella zona di Poggio Firenze da cedui di querce e castagni (specie
sul lato ovest), con ricco sottobosco. (Il lato orientale è stato devastato da violenti incendi). Più a sud
esso è invece composto da querceti misti di cerro e roverella; le zone sommitali, composte di expascoli e di terreni incolti, sono oggetto di rimboschimenti (M.S. Michele, M. Querciabella, etc.),
Molto ampie sono, sui due versanti, in conseguenza dei molti incendi e dell'abbandono dei
coltivi, le zone ora coperte da felci, rovi, ginestre e scope.
È certo che la zona fu abitata dagli etruschi, che vi introdussero la cultura della vite. Pochi,
invece, i segni della presenza romana.
Nell'alto medioevo la zona fu oggetto di contese fra i Vescovi di Siena e Arezzo; poi, poco alla
volta, Firenze si inserì nella contesa e, alla fine, dopo aspre lotte con Siena, riuscì ad impadronirsi, nel
XII sec., di tutto il territorio adesso compreso nella nostra provincia.
Nel XV e XVI sec., il Chianti fu teatro di ripetute invasioni dirette contro Firenze: nel 1397 da
parte delle soldatesche di Giangaleazzo Visconti, che devastarono Panzano e Greve, nel 1447 e nel
1452 da quelle di Alfonso d'Aragona, alleato dei Visconti e ancora nel 1478 da quelle di Ferdinando
d'Aragona, alleatosi a Siena contro Firenze. Altre distruzioni ebbero luogo nel 1527 e nel 1530 ad
opera dei lanzichenecchi di Carlo V e dei senesi nella lotta fra gli spagnoli e la Repubblica fiorentina.
Con la caduta di Siena (1555) la zona conobbe finalmente la pace, che durò fino all'ultimo
conflitto.
Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 anche nella zona fra Chianti e Valdarno cominciarono
a formarsi piccoli gruppi di partigiani e di patrioti, con una attività, almeno all'inizio, più frazionata e
meno coordinata di quanto avveniva sul M. Morello, sull'Appennino, sul M. Giovi e sul Pratomagno,
per l'impossibilità di creare nuclei troppo numerosi a causa della minore elevazione dei rilievi
montani e della limitata superficie dei boschi, frammisti quasi ovunque a coltivazioni e a pascoli.
Comunque, già il 7.12.1943 una formazione partigiana, guidata da Faliero Pucci, si scontrava
presso Greve con un reparto fascista, respingendone l'attacco e mettendolo in fuga.
Un'altra formazione, il «Distaccamento Fantasma», che operava più a nord, occupò il
16.2.1944 a scopo dimostrativo S. Polo e Poggio La Croce.
Il 1/6/1944 venne costituita, presso M. Scalari, la 22a/bis Brigata Sinigaglia, con la unificazione
del «Distaccamento Fantasma », già operante nella zona a nord del monte stesso, di altri due gruppi
provenienti dal Pratomagno (la formazione «Faliero Pucci» proveniente dal M. Giovi e dal M.
Secchieta - ove era stata attaccata e decimata in una imboscata - e il gruppo «Gino», formatosi a
Pomino nel febbraio 1944) e dei gruppi «Caiani», «Castellani » e «Faliero Pucci/bis». A questi gruppi,
non molto numerosi, si aggiunsero in quei giorni altri elementi del posto che preferivano i rischi della
guerra partigiana a quelli dei rastrellamenti tedeschi, che si stavano intensificando con l'avvicinarsi
del fronte.
Gli effettivi dei primi tre gruppi furono inquadrati nella 1a Compagnia «Mario Pagni e nella 2a
Compagnia «Faliero Pucci», mentre i distaccamenti «Caiani» e «Castellani» formarono la 3a e la 4a
Compagnia. Le operazioni di queste ultime due unità continuarono a svolgersi nel quadrilatero
Figline-Greve-Radda-S. Giovanni V ., mentre il distaccamento «Faliero Pucci-/bis», pur divenendo la
5a Compagnia, continuò ad agire nella zona di S. Donato in Poggio, presso Tavarnelle Val di Pesa,
come reparto autonomo.
La consistenza della Brigata passò in breve da 70 a circa 500 uomini; molti però erano poco
esperti, disarmati o male armati e trovavano ricovero per la notte nei cascinali della zona; negli
stessi giorni i tedeschi, avvalendosi della disponibilità di reparti che sostavano nelle retrovie
dell'ormai vicino fronte di combattimento e per la necessità di rendere sicure le vie di ritirata,
intensificarono i rastrellamenti e in uno di questi, a Pian d'Albero, il 20/6/1944, vennero uccisi o
impiccati dopo la cattura 29 partigiani e civili (ved. It. 7, nota 5).
L'azione tedesca fu forse anche una rappresaglia per l'attacco, avvenuto il 14/6/1944, in località
Burchio, presso Incisa, al 113' Btg. Genio della Repubblica di Salò, che si concluse con la dissoluzione
del reparto fascista e la cattura di abbondante bottino.
Il 7 luglio, in un altro sanguinoso rastrellamento fra il Valdarno e il M.S. Michele, vennero
devastati o incendiati i paesi della zona (Meleto, Castelnuovo dei Sabbioni, S. Martino in Avane, etc.)
ed uccisi circa 200 civili.
Nonostante i rastrellamenti, i partigiani continuarono tuttavia ad attaccare o molestare i
tedeschi in ritirata; ripetuti scontri ebbero luogo a La Capannuccia (2/7/1944) e nella zona di M.
Scalari. I tedeschi contrattaccarono con armi pesanti ed autoblindo (erano ormai giunti, ritirandosi, i
reparti combattenti sulla linea del fronte, meglio armati di quelli delle retrovie) e i partigiani del
Chianti dovettero sganciarsi, ritirandosi più a nord e unendosi, presso Poggio Firenze, alle formazioni
partigiane del Pratomagno, che nel frattempo avevano raggiunto la zona.
Riorganizzatisi nella Divisione «Arno», i partigiani ripresero l'offensiva ai primi di agosto.
Respinto un contrattacco tedesco, appoggiato da lanciafiamme ed autoblindo, nella zona fra Fonte
Santa e Montisoni, il 3/8/44 presero contatto con le truppe inglesi presso Villa Belvedere ed il giorno
successivo per le direttrici della Val d'Ema e del Bandino entrarono a Firenze e assieme alle altre
formazioni collaborarono con gli Alleati alla liberazione della città.
Caratteristiche sono le testimonianze della presenza dell'uomo, specie nei versanti laterali della
catena e nelle colline sottostanti. Come in tutto il resto del Chianti e del Valdarno Superiore esse
richiamano il tempo medioevale con castelli ancora dotati di alte mura e di torri merlate. I feudatari
della zona, poi vinti o assoggettatisi a Firenze, (Guidi, Ubaldini e Ubertini nel Valdarno; Gherardini,
Ricasoli, Firidolfi nel Chianti) vi possedevano infatti i castelli di Figline, Montagliari, Montefioralle,
Panzano, Volpaia, Uzzano, Verrazzano, Cintoia, etc. Si può però dire che ogni nucleo abitato, specie
sul versante chiantigiano, a causa delle continue scorrerie di armati durante le contese fra Firenze e
Siena, si dotasse di proprie strutture di difesa, come i castelli veri e propri, e ad essi rassomigliasse.
Basta guardare i molti piccoli borghi e le isolate case coloniche, sistemati quasi tutti in posizione
strategica e incorporanti vecchie torri. Con la «pax fiorentina» tutto cambiò, le case-torri si
trasformarono in case coloniche e i castelli in ville o fattorie manomettendo però il meno possibile le
vecchie strutture, a differenza di quanto avveniva altrove e cercando, anzi, di dare ad esse il
massimo risalto.
Negli ultimi tempi, però, i mutamenti intervenuti nel tradizionale assetto socio-economico del
Chianti, e in particolare nello spazio agricolo, già celebrato modello di «paesaggio costruito», hanno
determinato da un lato la sottoutilizzazione delle zone meno produttive con il conseguente
abbandono dei boschi, dei campi e dei pascoli, dall'altro lo sviluppo della produzione vinicola
qualificata e specializzata nelle basse pendici montane. In queste zone l'impianto di vasti vigneti a
«rittochino» su pendenze eccessive e senza adeguati drenaggi sta causando però danni non
indifferenti all'ambiente, sia per le frane e gli smottamenti dovuti alla erosione del suolo, sia per la
sedimentazione sulle vecchie cunette di ingenti masse di materiale di scarico. Gli effetti della rottura
degli equilibri fra società rurale e attività produttiva si rilevano poi Anche nel settore
dell'insediamento tradizionale. La generalità dei centri montani e delle case sparse ha conosciuto
infatti negli ultimi anni due sole alternative: quella dell'abbandono e quella del mutamento di
destinazione (seconda casa, etc.).
10 – LE COLLINE FIORENTINE
Dal lungo e bellissimo arco di colline che circonda da vicino, tranne che da ovest, la città di
Firenze, emergono varie sommità relativamente elevate: M. Ceceri (414 m), Poggio Pratone (702 m),
Poggio alle Tortore (513 m), a nord dell'Arno; Poggio Alberaccio (497 m), Poggio Incontro (557 m),
Poggio Firenze (693 m), M. Poggiona (353 m), Poggio Sughera (340 m) a sud.
La restante parte (cioè quella, grosso modo, ad ovest della Via Chiantigiana), sia pure ricchissima
di vedute paesaggistiche, di bellezze ambientali e di antichi edifici di valore storico-artistico non può
invece presentare, per le minori quote e per la maggiore - e, in certe zone, massiccia antropizzazione, dei veri e propri percorsi escursionistici. Si presta peraltro a belle passeggiate
collinari e viene perciò descritta non in questa «Guida Escursionistica (digitale)» (la collocazione
sarebbe stata impropria) ma nella pubblicazione del C.A.I. , dal titolo «Attorno a Firenze».
Si è fatta eccezione per l'It. 0, che segue il bel crinale boscoso che da villa Collazzi, sulla Via
Volterrana, toccando le sommità di M. Poggiona (353 m), M. Sughera (398 m) e Poggio Leccia (347
m) scende a Roveta ed a Lastra a Signa.
Nella costituzione geologica del terreno predominano le argille scagliose con calcari e pietraforte
(giurese-eocene) e sabbie, ciottoli e argille di origine fluviale e lacustre (periodo villafranchiano).
Nelle zone a nord affiora di frequente anche l'arenaria-macigno della dorsale appenninica
(oligocene).
Trattandosi di rilievi piuttosto bassi, la più facile erodibilità del suolo ha conferito ad essi forme
raddolcite e tondeggianti, specie a sud.
Insediamenti preistorici sono stati accertati tra Tavarnuzze, Chiesanuova e Marciola e monumenti
e reperti etruschi ricordano l'antica locumonia fiesolana. La presenza romana si concentrò, invece,
nella città.
A partire dal XII sec. Firenze, erettasi in libero comune, talvolta con lotte durissime (la conquista e
la distruzione di Castel Gualandi, presso Signa, nel 1107, di Fiesole nel 1123, di Quona nel 1148 e di
Monte Croce nel 1151, di Semifonte nel 1206, etc.), ma, più spesso, con pacifici negoziati, entrò
gradualmente in possesso di tutto il territorio collinare circostante che, successivamente, le rimase
sempre fedele e ne seguì le sorti fino ai nostri giorni.
Dal punto di vista ambientale l'elemento di base è senz'altro costituito dal paesaggio agrario,
caratterizzato in gran parte da oliveti, ma anche da vigneti e seminativi, interrotti sui dossi esposti a
nord e sulle sommità dei poggi da cedui di quercioli o da pinete, uniti spesso a carpini, lecci ed altre
essenze mediterranee (1). A nord di Firenze, il Monte Ceceri presenta un notevole interesse
vegetazionale. A sud, al disopra degli oliveti, sono vasti boschi di pini ad alto fusto, con ricco
sottobosco (2).
In tale contesto si è gradualmente inserito, a partire dal primo medioevo, un insediamento
umano selezionato e del tutto particolare: piccoli centri, case da signore, case coloniche quasi
sempre ricavate da antiche case-torri e, successivamente, ville signorili e altre case coloniche dei
periodo granducale, con loggiati e torre-colombaia e infine, nelle epoche più recenti, altre ville con
vasti parchi. Altri elementi caratteristici del paesaggio fiorentino, che si sono man mano aggiunti a
quelli precedenti, sono anche gli alti muri lungo le strade suburbane - spesso intonacati e graffiti - i
muretti a secco a contenimento dei declivi dei giardini e dei campi, i tabernacoli e i filari di cipressi
presso chiese e cimiteri di collina, lungo i crinali e le strade collinari (3).
Il lungo periodo di pace avutosi dopo il XIII sec. (interrotto solo dall'assedio del 1530 e dai
combattimenti dell'ultima guerra, nel 1944) è stato determinante per plasmare definitivamente il
contado fiorentino in un perfetto esempio di simbiosi fra campagna e città. Il tutto si è armonizzato e
fuso, in modo mirabile e, vorrei dire, unico al mondo, con il meraviglioso senso della misura proprio
della gente toscana (4). E il risultato è quello che ancora oggi è dato vedere a chi giri il proprio
sguardo sull'arco delle colline attorno alla città.
(1) Numerose sono le iniziative per la valorizzazione e la conservazione della zona.
(2) Nel Comune di Scandicci le pinete di pino silvestre coprono circa 836 ha e quelle di pino marittimo
208 ha. Tra le più pregevoli sono da citare quelle di M. Poggiona e di Poggio al Pino.
(3) Il cipresso costituisce, si può dire, l'emblema del paesaggio fiorentino; lo si ritrova ovunque, non
solo nei pressi delle case coloniche, delle chiese e dei cimiteri ma anche a segnare confini, a fungere
da cortina frangivento, ad abbellire gli antichi castelli ed i parchi delle ville.
(4) Tale graduale processo di trasformazione non è stato, peraltro, scevro da errori o da forzature. Nei
secoli XIV e XV molti turriti edifici medioevali furono trasformati in ville rinascimentali scapitozzando
le torri, trasformando i cortili ed aprendo finestre nelle antiche mura.
Nel Seicento e nel Settecento si costruirono altri edifici secondo il nuovo stile barocco (ma si
intervenne spesso anche su quelli preesistenti, medioevali o rinascimentali) dapprima in modo
equilibrato (il c.d. «barocco fiorentino »), poi con soluzioni più scenografiche e grandiose. Per quanto
riguarda le abitazioni rurali tali interventi furono invece meno radicali ed ecco perché sono spesso le
antiche case coloniche a fornire ad un attento osservatore le più genuine testimonianze del passato.
Nell'Ottocento si verificò poi una ulteriore trasformazione. Oltre a costruire altre ville, in un piacevole
stile ottocentesco che, spesso, tutto sommato, risultava ben inserito nell'ambiente, ci si dedicò anche
- specie da parte di molti nuovi proprietari inglesi - a trasformare antichi edifici, o a costruirne dei
nuovi, in forme neo-medioevali. Si vedono perciò spuntare spesso dalla campagna, accanto alle
antiche case-torri e ai vecchi casolari, degli scenografici manieri che si richiamano esteriormente alla
architettura medioevale, ma che di antico hanno poco o niente.
In alcuni casi, anzi, l'eccesso di sovrastrutture e di decorazioni fantasiose è proprio l'elemento che li fa
riconoscere subito - anche ai più sprovveduti - come poco felici imitazioni delle lineari, semplici e
severe costruzioni medioevali.
Nell'estate del 1944 moltissimi antichi edifici, sia attorno a Firenze che nel Chianti, furono
gravemente danneggiati (e alcuni, purtroppo, completamente distrutti) a causa delle azioni belliche.
A chi non visse quelle tristi giornate o all'escursionista non fiorentino ciò oggi potrà apparire
strano, poiché la zona non è ricordata dalla storia dell'ultimo conflitto per grosse battaglie fra le
opposte forze combattenti (1).
Non sarà perciò inutile spiegare, per sommi capi, come e perché ciò avvenne.
Nell'estate del 1944 la 14a Armata tedesca, in ritirata dopo lo sfondamento di Cassino, attuò - e
non poteva fare altro, per le gravi perdite subite e per la scarsità di rinforzi e di rifornimenti - una
forma di resistenza elastica e ritardatrice, per dare tempo ai genieri - e agli ostaggi rastrellati - di
ultimare sull'Appennino le postazioni della «Linea Gotica». Con i pochi superstiti mezzi corazzati e
poche batterie di cannoni da 88 mm, in continuo movimento per far credere agli alleati di poter
disporre di forze maggiori, e privi di appoggio aereo, i tedeschi si limitarono a costituire, su quasi
tutte le sommità collinari e, purtroppo, anche negli antichi edifici che su di esse sorgevano, dei piccoli
capisaldi difensivi sui quali le artiglierie alleate si accanivano con massicci bombardamenti. Presi
particolarmente di mira erano i campanili e le torri che, a torto o a ragione, erano ritenuti pericolosi
posti di osservazione. Quando la situazione si faceva insostenibile i tedeschi si ritiravano su capisaldi
più arretrati, nel frattempo predisposti, spesso distruggendo senza alcun motivo quanto restava.
Furono in ciò agevolati anche dalla tattica degli Alleati, i quali non procedettero mai ad un massiccio
attacco risolutivo, che li avrebbe esposti a maggiori perdite, (Mi rispose un ufficiale americano, per
spiegare la cosa, che «per fare un proiettile bastavano pochi dollari e qualche minuto, per fare un
uomo occorrevano venti anni»).
Oltre al desiderio degli Alleati di contenere le proprie perdite, altri fatti contribuirono a
determinare tale situazione, e cioè:
a) lo spostamento nel sud della Francia, per lo sbarco ivi avvenuto a metà agosto, di gran parte
degli effettivi e dei mezzi corazzati della 5a Armata americana e di due divisioni francesi (2);
b) un rallentamento dell'avanzata da parte degli americani, per dare tempo agli inglesi dell’8a
Armata, che sopraggiungevano dal Valdarno Superiore, di entrare per primi a Firenze; ciò per
meschine questioni di prestigio, poiché, sembra, gli americani, contrariamente ai patti intercorsi e
commettendo un grosso errore tattico (3) vollero essere i primi ad entrare a Roma (come già era
accaduto a Napoli) e dovevano perciò ricambiare, per così dire, il favore, anche se ciò avesse poi
comportato - come infatti avvenne - un rallentamento dell'avanzata.
Per questi motivi la liberazione di Firenze fu lunga e sofferta e tante furono le distruzioni. Si pensi
che, per avanzare dal Monte S. Michele fino alle colline a sud di Firenze (una distanza di 25-30 km)
occorse agli Alleati circa un mese. Nonostante l'appoggio delle forze partigiane e i massicci
bombardamenti sulle colline a sud della città (specie nella zona di M. Poggiona e di P. Sughera) solo il
4 Agosto le prime truppe inglesi giunsero all'Arno.
I tedeschi, distrutti i ponti con tutto comodo, si ritirarono sulla riva opposta e solo l’11 agosto
abbandonarono il centro di Firenze.
Sesto Fiorentino, Fiesole e le colline a nord della città dovettero poi attendere, per la liberazione,
la prima decade del successivo mese di settembre, Nel frattempo, come al solito, anche esse furono
oggetto di duri bombardamenti da parte degli Alleati e di gravi distruzioni da parte dei tedeschi.
Un valido contributo alla liberazione della città venne dato dalle formazioni partigiane, che quasi
ovunque precedettero gli Alleati nella prima occupazione del territorio liberato e nella caccia ai
franchi tiratori e alle retroguardie tedesche. Comunque, negli anni ormai trascorsi, gran parte degli
edifici distrutti o danneggiati sono stati ricostruiti o riparati; ma per alcuni di essi, purtroppo, la
ricostruzione è stata impossibile.
(1) Fanno eccezione, forse, gli scontri avvenuti nella zona di M. S Michele , che non condussero,
comunque. a risultati risolutivi.
(2) Il governo inglese si oppose, evidenziando la possibilità di annientare la 14a armata tedesca,
ancora in crisi dopo lo sfondamento di Cassino, e di arrivare in breve a Trieste e alle Alpi; ma quello
americano, per motivi elettorali o, forse, politici, collegati a precedenti intese con l'U.R.S.S., decise
invece di concentrare gli sforzi nell'apertura del secondo fronte e nella invasione della Francia.
(3) L'occupazione di Roma comportò una deviazione dalla direttrice principale dell'avanzata verso
l'Umbria e la Toscana e consentì alle truppe tedesche di sganciarsi con maggiore facilità.
11- IL MONTE MORELLO
Trattasi di una zona di alta collina e di media montagna, a nord-ovest di Firenze, delimitata, grosso modo,
dal tratto Calenzano-Barberino dell'Autosole a ovest, dalla S.S. 65 (della Futa) ad est, dalla pianura del
Mugello a nord e da quella fiorentina a sud. Raggiunge la sua altezza massima a Poggio all'Aia (934 m),
facente parte del gruppo di M. Morello, che ne costituisce la parte centrale e principale.
La parte più a nord e formata da una serie di rilievi collinari che scendono con lievi pendenze, dallo
spartiacque fra l'Arno e la Sieve, verso la pianura mugellana.
Il massiccio del Monte Morello, pur presentando un aspetto diverso fra il versante sud, assai ripido, e
quello nord, formato da lunghi dossi separati da valli profonde, ha una propria omogeneità paesistica
emergendo e distinguendosi nettamente dalle aree circostanti per la sua costituzione geologica,
eminentemente calcarea, che presenta forme peculiari di copertura boschiva e di uso del suolo.
La natura del terreno, composto da rocce eoceniche calcareo-argillose molto compatte (alberese) alternate
a strati calcareo-marnosi più teneri e scagliosi comporta infatti, ovunque, un buon grado di impermeabilità
e quindi di fertilità. Numerosi, perciò, i corsi d'acqua e le sorgenti, oggi danneggiati o scomparsi dalla
costruzione di un tunnel ferroviario per i treni dell’alta velocità fra Firenze e Bologna.
Il territorio ha subito in passato un forte processo di antropizzazione testimoniato dalla diffusione degli
insediamenti e dalla prevalente destinazione agricola delle basse pendici (sino a 300/400 m), specie dei
versanti esposti a sud, ove predominano gli oliveti. Le fasce superiori sono per larghi tratti coperte da
macchie cedue di quercie e da boschi d'alto fusto di conifere di rimboschimento, mentre sulle sommità
esistono vaste zone prative destinate a pascolo.
Il rimboschimento di M. Morello merita un discorso a parte.
Esso, iniziato nel 1909, ha trasformato un'area di oltre 500 ha, devastata per più di sei secoli da un
indiscriminato sfruttamento, in bellissimi boschi di pino nero e di cipresso, con qualche zona di abete
bianco. Esistono anche boschi misti di pino laricio e abete bianco; quest’ultimo, da solo, si trova soltanto
alle quote più alte (Poggio All'Aia).
I più antichi nuclei abitati alle falde di M. Morello hanno origine alto-medioevale, come Gualdo (che deriva
dal tedesco (Wald»-foresta) o il castello di Castiglioni, presso Cercina. Non mancano però testimonianze di
isolati insediamenti anche di epoche più remote, come quelli di Palastreto e della Castellina, gli ipogei di
Quinto e le tombe della Mula e della Montagnola, del periodo etrusco più antico.
Altri castelli (Carmignanello, Legri, Baroncoli, Trebbio, etc.), case-torri, chiesette, ville e altre notevoli
emergenze restano ancor oggi a testimonianza dei successivi insediamenti avvenuti nel tardo medioevo.
A seguito dell'esodo di gran parte della popolazione, attratta dalle industrie della pianura fiorentina e
pratese, l'ambiente agricolo si presenta oggi, però, assai degradato. Molti centri minori, anche con
pregevoli antiche strutture abitative (Pescina, Cerreto Maggio etc.), sono quasi abbandonati. Per contro, si
è avuta invece una forte rivalutazione della zona come area ricreazionale e meta di escursioni del
comprensorio fiorentino e sestese in particolare. Tale rivalutazione è favorita dalla strada panoramica dei
«Colli Alti» che unisce Sesto Fiorentino a Pratolino.
Il Monte Morello fu teatro di molti episodi della Resistenza.
Una prima base per l'assistenza agli sbandati e ai renitenti alla leva si costituì a Querceto subito dopo
l'8 Settembre 1943 e continuò la sua attività fino alla liberazione, aiutando in vari modi i gruppi
partigiani che si trovavano sul M. Morello.
La prima formazione partigiana, composta da alcune diecine di uomini, si formò nel 1943, con a capo
Lanciotto Ballerini e Giulio Bruschi. Per le difficoltà di rifornimento, aggravate dal clima invernale,
lasciò però la zona nel gennaio 1944, dividendosi in due gruppi. Il primo, di una ventina di uomini,
guidato da
L. Ballerini, tentò di raggiungere i monti del Pistoiese ma cadde in un’ imboscata a Valibona, sulla
Calvana ove morì, combattendo eroicamente, Lanciotto Ballerini; il secondo, guidato da Bruschi, si
trasferì sul M. Giovi e poi sul Pratomagno, confluendo nella Divisione Arno.
Sul M. Morello, poco e poco, ricominciarono però a formarsi altri gruppi partigiani.
Alcuni uomini, nel marzo 1944, si unirono alla formazione «Orlando Storai» che dal M. Javello, nel
Pratese, si spostava sul Pratomagno e parteciparono al combattimento di Fontebuona. I più rimasero
su M. Morello e, con nuovi elementi che a loro si unirono, formarono la Brigata “Fanciullacci”, che ai
primi di Settembre scese a valle e collaboro con la Divisione Arno e con gli Alleati alla liberazione di
Firenze e di Sesto.
La vicinanza di grossi centri abitati e il timore di rappresaglie sulla popolazione locale e sui numerosi
sfollati non consigliarono l'effettuazione di azioni spettacolari. Ma i cippi e le lapidi che si vedono in
molte località restano a testimoniare gli episodi di quella lotta - frammentaria, ma non per questo
meno dura - le fucilazioni sommarie, i rastrellamenti, etc.
A Collina di Morello è stato istituito nel 1980 un Centro Culturale della Resistenza.
12 - IL MONTE SENARIO
Il gruppo del Monte Senario costituisce una appendice montuosa della lunga catena preappenninica che,
staccandosi dalla Calvana e passando per le Croci di Calenzano, Monte Morello e i passi di Pratolino e di
Vetta Le Croci, giunge fino al MonteGiovi.
Essa si stacca dalla catena suddetta presso il passo di Vetta Le Croci e prosegue, prima verso nord poi verso
nord-ovest, per 10-12 km, a quote alquanto elevate (M. Senario 819 m, M. Giogo 768 m) per scendere poi
nella valle del Carza con due brevi rami terminanti l'uno (percorso dalla strada Bivigliano-Vaglia) a Vaglia e
l'altro (interessato dal Poggio Uccellini) presso il bivio stradale di Paterno.
Il terreno si presenta argilloso nella prima parte, ove dominano ampi dossi coltivati. La dorsale del
M.Senario è invece costituita, come la vicina dorsale appenninica, da arenarie «macigno» (oligocene) con
terreni e rocce consistenti, specie a nord,scarsamente permeabili; i suoi versanti sono perciò assai stabili e
in buone condizioni, autoregolatori del deflusso dei corsi d'acqua.
Sulle pendici settentrionali del Monte, nei pressi del convento, esistono varie grotte.
La parte sommitale del Monte Senario e coronata da una folta abetaia, frutto del lavoro secolare dei
monaci del convento, mentre le pendici più basse sono coperte da cedui di castagni o querce, alternati a
zone a seminativi. Lungo il versante di Polcanto sono stati eseguiti vasti rimboschimenti.
Fin dal Medioevo il territorio e stato sempre in possesso della vicina Firenze; il castello che sorgeva sul
Monte Senario fu trasformato in convento nel 1234.
Negli ultimi decenni, a seguito dell'abbandono delle attività montane, si è dovuto registrare nella zona un
accentuato degrado dell'antico patrimonio edilizio e del paesaggio, determinato in gran parte da fenomeni
di privatizzazione e di mutamento di destinazione di numerose piccole aree di territorio (case coloniche
trasformate in seconde case, uso ricreazionale del bosco,ecc.). Gli attuali orientamenti, e in particolare
l'inserimento dell'area nel previsto parco territoriale del M. Giovi, tendono a fare della zona una vitale
cerniera fra il bacino di Firenze, intensamente popolato, e l'adiacente Mugello nelle quali incentivare le
varie forme di turismo montano.
13 - LE COLLINE DI SCANDICCI
Villa Collazzi - Pian dei Cerri - M. Sughera – Roveta - Lastra a Signa
Gli itinerari ricadenti nella zona collinare a sud di Firenze e di Scandicci non hanno un vero
carattere escursionistico e sono pertanto descritti in una apposita Guida di diverso carattere,
dedicata alle colline attorno a Firenze.
Fa eccezione un bel percorso che segue il crinale fra la Greve e il Pesa formato da una
panoramica serie di modeste elevazioni, con predominio di affioramenti di arenaria-macigno, e
rivestito fin da tempi remoti da una fitta vegetazione boschiva, come è comprovato anche dai
numerosi toponimi (La Sughera, Poggio al Pino, Pian dei Cerri, La Leccia, La Farnia, etc.).
In epoca medicea vennero aggiunte ai cipressi ed ai querceti le attuali pinete (pino silvestre e
pino domestico). Si è formata così una vasta zona boscosa che, alla precedente presenza di
cipresso, roverella e leccio unisce altre essenze tipiche della flora mediterranea (pino,
corbezzolo, erica, cisti, mirto, ginepro, mortella, etc.).
I boschi, dominanti sulle sommità collinari alternati ai coltivi alle quote inferiori,
conferiscono al paesaggio un carattere del tutto particolare.
Numerose le testimonianze storico-artistiche, specie nella parte orientale.
Descriviamo pertanto, suddividendolo in tre parti, il percorso suddetto, segnalato in bianco-rosso
senza numerazione fino a Castellino.
14 - IL MONTALBANO
Si tratta di un’area collinare che, staccandosi dall’Appennino a Serravalle Pistoiese, emerge per una
quindicina di chilometri fino a declinare dolcemente verso sud fino al corso dell’Arno.
La natura è sicuramente uno dei punti di forza di questo comprensorio, dal crinale ininterrottamente
boscato, al Barco Reale -una delle più vaste aree venatorie istituite dai Medici e circondato da un muro di
circa 50 km per separare la fauna dalle coltivazioni-, ai filari di viti e agli ulivi di grande estensione.
Nel Rinascimento il Montalbano fu tra i territori prediletti dalla famiglia Medici, che governò la città di
Firenze e gran parte della Toscana tra il XV e la prima metà del XVIII secolo, soprattutto per le risorse
venatorie e agricole.
Fra le misure di tutela, da evidenziare quelle del Barco Reale Mediceo, un muro di pietra alto circa due
metri che superando forre e pendii accidentati racchiudeva per il perimetro suddetto buona parte del
crinale con la funzione di bandita recintata per custodire la selvaggina dedicata alle cacce medicee. Nel
periodo dello sviluppo industriale e della modernizzazione del paese, nella seconda metà del XX secolo, si
sono avuti molti cambiamenti e anche forme di degrado ambientale tipiche dello sviluppo incontrollato o
selvaggio; anche il muro del Barco Reale Mediceo viene in buona parte distrutto per ignoranza e incuria.
Fra i complessi monumentali la famiglia fece realizzare alcune ville circondate da splendidi parchi e giardini.
Nel comprensorio sono presenti ben cinque di questi meravigliosi complessi architettonici che, insieme ai
numerosi piccoli centri medioevali rende molto interessante il territorio. Fra quest’ultimi, Vinci, la città
natale di Leonardo