Machek (italiano)

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Machek (italiano)
associazione culturale Larici – http://www.larici.it
Václav Machek
Saggio comparativo sulla
mitologia slava
Essai comparatif sur la mythologie slave
19471
1 V. Machek, Essai comparatif sur la mythologie slave, in “Revue des etudes slaves”, t. 23,
fasc. 1-4, 1947, pp. 48- 65. Traduzione dal francese e note (N.d.T.): © associazione
culturale Larici. L’illustrazione mostra gli idoli slavi del IV-IX secolo.
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Una descrizione soddisfacente della mitologia slava sembra dover restare
il sogno irrealizzabile di tutti gli slavisti. Gravi difficoltà si oppongono alla
sua realizzazione: la penuria di documenti, il loro carattere incerto e la loro
data recente. In generale, i documenti sono dovuti ad autori cristiani, che
mostravano, verso il paganesimo, preconcetti e incomprensione e che, per
la maggior parte, descrissero – come per i Russi – una fase in cui l’antica
religione era già in via di sparizione. Di fronte agli abbondanti e brillanti
documenti che possediamo sulle religioni indiane, greche, romane e
germaniche, per gli Slavi troviamo soltanto miseri frammenti appena
utilizzabili. Rispetto ai testi classici e indiani, quelli slavi sono più giovani di
1500/2000 anni.
Poiche il grande pubblico se ne interessava, si è scritto sulla mitologia
slava innumerevoli libri e articoli, di valore, ovviamente, molto
disomogenea. Il desiderio di erigere un pantheon slavo fece adottare a
lungo senza diffidenza delle storie romanzate e delle falsificazioni di diversi
autori antichi e moderni, in modo tale la mitologia slava fu sovraccaricata di
una massa di documenti che non ha resistito a una critica appena un poco
rigorosa. Di conseguenza, si ha quasi l’impressione di doversi scusare di
ritornare su una questione così spesso trattata e così profanata!
Varie opinioni si opponevano nell’interpretazione delle divinità: secondo
alcuni, queste divinità erano autoctone, mentre per altri erano state
importate dall’estero, compreso Perun. Naturalmente, tali interpretazioni
riflettevano le teorie della scienza mitologica generale2.
2 Si ha, in francese, un’esposizione d’insieme sobria e precisa sulla mitologia slava in Louis
Leger, La mythologie slave, Parigi (Leroux), 1901. – I più recenti lavori in altre lingue
sono: 1) Lubor Niederle, Život starých Slovanû (Slovanské starožitnosti, oddil kulturni),
II, 1 (2° ed.; Praga, 1924), di cui un riassunto del VI capitolo (Religion, croyance et culte)
è apparso in francese nel libro: Manuel de l’antiquité slave (t. II: La civilisation, Paris
(Champion), 1926; 2) Alexandre Brückner, Mitologja słowiańska, Kraków, 1918. Lo spirito
critico di Brückner ha estirpato dalla mitologia slava tutto ciò che era più o meno sospetto,
così questi due lavori si completano: quello di Niederle dà un’analisi dettagliata di tutto ciò
che considera come veramente antico, con la documentazione necessaria; quello di
Brückner mostra ciò che ha resistito anche alla sua critica più severa.
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La materia della mitologia slava è divisa, da Niederle, in due gruppi: la
mitologia inferiore, o demonologia, e la mitologia superiore, o teologia. La
demonologia comprende lo studio delle potenze inferiori quali le ondine, i
geni, le fate, le fanciulle dei boschi. Dato che si trovano in abbondanza nella
mitologia di altre nazioni, non li considererò in questo saggio.
Ciò che qui interesserà è il mondo degli dèi superiori e lo si avvicinerà dal
punto di vista comparativo. Calcheremo, perciò, le tracce della mitologia
detta comparativa, rappresentata nel secolo scorso da Adalbert Kuhn e Max
Müller. In seguito, la mitologia comparativa è caduta in totale disistima,
dovuta soprattutto alla falsità di alcune etimologie e alle conseguenti
interpretazioni. Essa fu, per così dire, completamente seppellita nell’oblio e
lasciata alla storia come uno dei frequenti errori della scienza; tuttavia, ai
nostri giorni, alcuni studiosi stanno ritornando su questo metodo – per
esempio, Georges Dumezil e Franz Rolf Schröder – ottenendo brillanti
successi. La scienza non ha trattenuto che ben poco del vecchio metodo
comparativo e questo poco è, nello stesso tempo, tutto ciò che sappiamo
della religione indoeuropea3. Lasciando da parte le generalizzazioni – tipo il
fatto che la linguistica comparativa prova che realmente gli Indoeuropei, al
tempo della loro unità, conoscevano già la nozione di Dio opposta a quella di
creatura terrestre, che credevano all’immortalità dei dèi, e che avevano
anche alcuni termini per designare i sacrifici, le divinazioni e i sacerdoti – e
considerando solamente il catalogo dei dèi, noi arriviamo a una sola
equazione completamente sicura ed evidente: Dyāuš pitā = Zeús πατήρ =
Diēspiter.
Essa ci attesta che, fin dal periodo dell’unità, si riconosceva una divinità
celeste suprema, alla quale si dava lo stesso nome del cielo chiaro e
luminoso: era una divinità molto potente, che disponeva del fulmine e del
tuono e procurava successo, vittoria e lunga vita. Qui si pone la questione di
sapere se tale divinità era già personificata in modo preciso fin dal periodo
dell’unità indoeuropea, ma vi torneremo più avanti. Oltre a questa
equazione, l’unica che è possibile mettere nel periodo di unità, non esiste
nulla di certo. Essa è tuttavia molto importante, perche prova che la divinità
suprema era una divinità celeste e non terrestre, o sotterranea (come quelle
che si adoravano in alcune religioni asiatiche), e che c’era una divinità
patriarcale e non matriarcale; in breve, essa fornisce informazioni sul
carattere della religione indoeuropea. In seguito, nuove ricerche di Dumezil
hanno riabilitato un’altra antica equazione, ma meno precisa, cioè ουρανός:
Varuṇa. Varuṇa era il dio del cielo, dove appariva un certo ordine cosmico
nel movimento delle stelle, del sole e della luna, ed era, in generale, una
divinità dell’ordine e della giustizia. Mi sembra che anche il germanico
Wodan, Odino, si eguagli a Varuṇa, ουρανός, benche le vocali non
concordino e che invece di r si abbia un’esplosiva dentale (la sostituzione da
r a d, invece, non è rara, sebbene sporadica): il carattere di Wodan
3 A. Meillet, «La religion indo-europeenne», in Linguistique historique et linguistique
générale, 1, Paris, 1921, pp 322-334.
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coincide, nelle sue principali caratteristiche, con quello di Varuṇa.
Prima di iniziare l’esposizione, mi permetto di dare una breve descrizione
del contenuto della teologia slava. Vi si distinguono due cicli di divinità. Il
primo è il ciclo russo, con Perun, la dea Mokoš, il dio del sole Svarog, il dio
degli armenti Veles. Sono i soli di cui si conosce qualcosa in più dei semplici
nomi. Al loro fianco, si menzionano tra i Russi altre divinità, Stribog, Khors,
Simargl, Trojan, di cui non sappiamo quasi nulla. Il secondo ciclo è il ciclo
baltico. dove si nominano Svantovit, Rugiewit, Gerovit, Svarožič, Radogost,
Triglav, Porevit, Prove, Černobog e altri: si possiedono alcune informazioni
soltanto su Svantovit e Triglav, le altre divinità sono più o meno semplici
nomi, o anche delle invenzioni o degli inganni. Nessun Olimpo pagano si è
conservato presso i Cechi e gli Slavi del Sud, eccetto alcune deboli tracce di
Veles. È vero che i cronisti polacchi Długosz e Miechowski hanno citato un
ricco pantheon, ma Brückner l’ha respinto come un’invenzione tardiva. Le
informazioni sull’Olimpo russo sono dunque di importanza fondamentale per
la nostra mitologia, ed è a esse che ci atterremo.
Per il seguito, mi baso su due articoli che ho pubblicato, nell’Archiv
orientální, sull’origine e il nome del dio Indra (XII, pp. 143-154) e
sull’origine degli Aśvins (XIV, pp. 413-419). Ne riporterò qui le idee
principali. Durante il periodo di unità, il dio supremo del cielo, Diēus, non
era che per metà dio e per metà cielo. Questa conclusione è dovuta al fatto
che, presso gli antichi Indiani, Dyāus è piuttosto il “cielo”: nessun inno gli è
dedicato nel Rigveda, benche sia già pitā, padre di alcuni esseri. La vera
figura antropomorfica del dio supremo, negli Indiani, si chiama Indra (“il
forte” = slavo jędrz “forte, agile, rapido”, cf r. ujadrét’ “diventare forti”).
Indra non è che un nuovo nome della divinità che i Greci adorano come
Zeus, i Romani come Jupiter, i Germani come Donar. Indra è, inoltre, il
vincitore del mostro Vṛtra e di alcuni altri: è un dio guerriero. È anche un
grande bevitore, come Zeus, e un seduttore di donne, tal quale Zeus. Il
pensiero religioso degli Indoeuropei si rappresentava il dio supremo come
analogo al pater familias. La base dell’organizzazione sociale era costituita
dalla “grande famiglia”, la zadruga serba, avente in cima il “padre”, padrone
sovrano. Nella sua “grande famiglia”, era capo supremo, sacrificatore,
giudice, aveva il diritto di vita e di morte; tutti gli dovevano obbedienza e
rispetto. Con il termine di “grande famiglia” sottomessa al pater familias, si
intende una famiglia libera, o, come diremmo, nobile: i sudditi e gli schiavi
non avevano un’organizzazione simile. Nella “grande famiglia” del padrone
vivevano anche i figli sposati e i loro bambini, come pure le ragazze non
ancora sposate. L’etnologia attuale riconosce che la “grande famiglia”
esisteva già nel periodo dell’unità indoeuropea poiche ne fa fede, nella
documentazione linguistica, una terminologia di relazione molto abbondante
e molto antica4.
Per quanto riguarda il concetto di “nobiltà”, secondo Medlet, occorre
4 Cf. A. Meillet, Introduction a l’étude comparative des langues indo-européennes, Paris,
1934, pp 389-392.
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riconoscere anche presso gli antichi Indoeuropei una classe superiore, libera
e nobile, nettamente differenziata dalla classe dei lavoratori sottomessi e
degli schiavi. Dalla classe nobile uscivano i sacerdoti e i giudici, e
naturalmente i guerrieri, i difensori. Quanto alla lingua, la classe nobile si
distingueva per un lessico verbale molto antico, mentre la lingua dei sudditi
era piuttosto una “lingua parlata”, segnata dall’impiego di alcuni modi
“popolari” di carattere espressivo, come la geminazione consonantica.
Se il dio supremo aveva il titolo o la designazione di “padre”, ciò significa
che l’immaginazione dei credenti lo rappresentava prima di tutto come un
vero capofamiglia. Gli si attribuì dunque una sposa: πότνια – pátnī (in slavo
panьji, con la vṛddhi iniziale come nell’ind. nārī “sposa” accanto a nar“uomo”), detta Indrānī dagli Indiani, Διώνη, Ήρη dai Greci, Juno dai
Romani. Il ruolo di questa “padrona” nella grande famiglia non è quello di
capo, ma soltanto di sposa del padrone. Non le spetta dare ordini agli
uomini liberi, di governarli e dirigerli, può comandare al massimo le sue
figlie e i suoi servitori. Ma è lei a prendersi cura della casa e dei lavori
domestici, e a vegliare sull’istruzione dei bambini e, nel campo della
religione, a praticare diverse operazioni magiche in occasione degli eventi
familiari importanti. Naturalmente, agli occhi dei sudditi, è la “padrona”
*5potnī (appartenente al potis, al padrone), ma il suo potere, comparato con
quello del padrone, è pressoche insignificante. Così Indrānī non ottiene
quasi alcuna citazione importante nel Rigveda; non ci si indirizza a lei negli
inni.
La famiglia comprende anche i bambini. Da tempo la mitologia
comparativa ha constatato che gli Aśvins indiani e i Dioscuri greci sono
identici. Il Donar dei Germani ha due figli, e presso i Lettoni si è trovata una
coppia simile. Sono in numero di due, e chiaramente designati come divo
napātā “figli del cielo”, Διός κούροι. Sono giovani, belli, forti, ma non
combattono; ciò significa che li si rappresentava come adolescenti non
ancora giunti all’età virile. Amano i cavalli, da cui il nome di Aśvins6, e piace
loro condurre i carri: in breve, praticano lo sport preferito dei giovani di
nobile famiglia. Gli Aśvins erano esclusi dal sacrificio del soma, avevano per
bevanda l’idromele (mádhu), cosa che concorda con l’idea che ci si faceva
della loro gioventù, essendo le bevande alcoliche forti proibite ai giovani. Gli
Aśvins e i Dioscuri sono θεοι σωτηρες, dèi protettori da tutti i pericoli e le
disgrazie, soprattutto in mare, e guaritori di malattie. Tutto ciò può essere
semplicemente spiegato dal fatto che gli antichi si indirizzavano a loro
quando non osavano rivolgere una preghiera diretta al dio supremo: essi
speravano, invocando i figli, di deviare le minacce provenienti dal padre
onnipotente, il padrone del fulmine e del tuono, della pioggia e del tempo. Il
Rigveda contiene un numero relativamente grande di inni dedicati agli
Aśvins. D’altronde, i cattolici pregano la Vergine e i santi di intercedere
presso Dio, o si indirizzano direttamente a Gesù, il Dio Figlio, quando
5 In linguistica, l’asterisco posto prima di una parola ne indica la forma ricostruita. (N.d.T.)
6 Aśvins (o Ashvin) significa “cavalieri” o “domatori di cavalli”. (N.d.T.)
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vogliono ottenere qualcosa da Dio Padre. Questi due figli accompagnavano il
loro padre; in una formula ittita di giuramento, sono nominati a fianco di
Indra e in compagnia degli dèi celesti più grandi, Mitra e Varuṇa.
Il dio supremo Diēus (Indra) generò anche una figlia legittima, Ušās –
Ηώς – Aurora, notevole per la sua bellezza. Una femmina contro due
maschi: questa proporzione corrisponde al fatto che nelle antiche grandi
famiglie un figlio era molto più apprezzato di una figlia: egli era un
guerriero, un protettore. Negli inni, gli antichi chiedono sempre numerosi
figli, le figlie non sono menzionate. Avere il doppio di maschi rispetto alle
femmine risponde dunque ai desideri degli antichi Indoeuropei e al loro
ideale di famiglia; di conseguenza applicarono la stessa proporzione alla
famiglia di Diēus. Diēus patĕr era il dio sovrano del cielo e del fulmine: sua
figlia fu perciò identificata con un fenomeno celeste, l’aurora. Ma ciò,
sebbene antico, non è originale: presso i Greci, la sorella dei Dioscuri è
Elena. È originale che la divina famiglia patriarcale sia concepita a immagine
di una famiglia nobile. A quest’idea si aggiunsero poi altre caratteristiche: il
gruppo di nobili guerrieri, sorta di armata signorile-feudale (i Marut indiani),
e le concubine, donne di secondo rango (ind. Apsarasaḥ); alla corte nobile
appartenevano anche gli artigiani (ind. ṛbhavaḥ, sing. ṛbhu-), ecc.
Se riteniamo che tale fosse, fin dal periodo dell’unità, l’idea che si faceva
l’indoeuropeo del dio supremo, concepito come un padre di famiglia, e di
tutta la sua famiglia, cioè di tutta la corte nobile divina, noi possiamo
supporre che anche gli antichi Slavi avessero conservato qualcosa di quel
quadro. Tale ipotesi non è assurda. Gli Slavi hanno proprio con gli
Indoiranici alcuni punti di contatto, cioè alcuni elementi di grammatica e di
vocabolario7 di cui alcuni nella religione. Questi tratti comuni non sono delle
innovazioni, ma un patrimonio antico, che i due rami, slavo e iranico, hanno
conservato dal periodo dell’unità indoeuropea. Occorre dunque chiedersi se
qualcosa nella mitologia slava può corrispondere all’immagine del mondo
divino degli Indoeuropei, e se si trova qualche analogia con i personaggi
della mitologia vedica, anche se solo deboli tracce o congetture.
In primo piano è, naturalmente, il dio supremo, padrone del cielo, del
fulmine e del tuono, il più potente di tutti i dèi. Già, nel periodo dell’unità,
gli Indoeuropei possedevano un tale dio e, come abbiamo detto più sopra,
avevano cominciato ad antropomorfizzarlo. Era Dyāuš pitā, Diēspiter, Zeús
πατήρ. Abbiamo visto che gli Indiani antropomorfizzavano questa divinità
suprema, onnipotente, sotto il nome di Indra, mentre l’antico Diēus restava
piuttosto il cielo divinizzato, divinità ancora nebulosa: tra loro, qualsiasi
adorazione portata a Diēus passa da Indra, sua chiara personificazione.
Occorre pure sapere che il dio supremo può ricevere un altro nome, anche
se egli resta, per la sua origine, un essere che risale al periodo dell’unità, e
che la sua figura può differire, nei particolari, da quelle che si sono
conservate, per lo stesso dio, presso altri popoli indoeuropei. Lo stesso
dicasi per il Donar germanico che è l’antico Diēus. Tra gli Slavi, la parola
7 A. Meillet, Les dialectes indo-européens (Paris, 1922), p. 127.
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Diēus non è conservata sotto questa forma: non esiste che una parola
derivata, dьnь “il giorno”, che non ha nulla di divino, e dus-dius>dožd’ь
“pioggia”8. Ma la credenza in un solo dio supremo, “padrone del fulmine e
sovrano del mondo”, si è conservata tra gli Slavi ed è ben attestata da
Procopio e altri. E, come tra gli Indoiranici Diēus si personificò in Indra, e il
suo epiteto indra “forte” diventò il nome stesso della divinità, in modo
analogo possiamo supporre che i diversi nomi slavi del dio supremo siano
soltanto degli antichi epiteti, perciò che questo dio sia sempre lo stesso e
che lo si sia chiamato Perun, Svantovit, Triglav, Rugievit o altro secondo i
paesi, le città o i santuari. Questa soluzione è davvero la più semplice, e
non può incontrare alcuna seria obiezione. Ovviamente, i culti locali hanno
trasformato e differenziato le figure dei dèi, aggiungendo loro attributi
diversi, ma, una volta scartate tali aggiunte, c’è sempre sotto questi nomi la
divinità suprema, la divinità guerriera (Indra) e divinatrice (Zeus di Dodona
). Di conseguenza non posso essere d’accordo con Niederle, il quale 9 prende
Svantovit, Triglav, Radogost per semplici dèi locali, elevati dai sacerdoti “al
primo posto davanti agli altri”, e al loro fianco riconosce una divinità
suprema anonima, equivalente allo Zeus Jupiter – Dyāuš, posto al di sopra
di Svantovit e degli altri dèi locali. È tutto il contrario: Perun, Svantovit e gli
altri sono una sorta di Indra locali, personificazioni regionali del nebuloso
Diēus indo-europeo10.
Naturalmente, ovunque il supremo pater familias possiede una sposa.
Ecco dunque la prima questione: gli Slavi avevano anch’essi una dea di
carattere tale da rappresentare la sposa del divino padre di famiglia?
Certamente: è Mokoš, una dea russa, citata negli antichi testi russi accanto
a Perun, Veles e altri dei, e non con le vily (fate) e spiriti simili; è dunque un
divinità superiore che appartiene alla “teologia” e non alla “demonologia”. Si
può anche trascurare il fatto che il popolo russo abbia conservato, nelle
proprie abitudini e superstizioni, una nozione, confusa è vero, della dea fino
ai nostri giorni. La conosceva sotto il nome di Mokuša: «È una donna che
8 Cf. A. Vaillant, R.È. Sl. [Revue des etudes slaves], VII, 1927, p. 112.
9 Niederle, Život, op. cit., p. 279.
10 Colgo l’occasione per correggere un piccolo dettaglio. Nei lavori sulla mitologia slava (p.
es. Leger, p. 59; Niederle, Manuel, II, p. 139; Brückner p. 37), per spiegare il nome di
Perun, si cita la parola bulgara e serba perunika come prova che precedentemente Perun
era conosciuto anche dagli Slavi del Sud. Questo nome designa lo “iris”. Già la sola parola
fa nascere dei dubbi: quale relazione avrebbe con Perun? Perunika si avvicina piuttosto al
meglenorumeno piruniga “papavero” (cf. W. Meyer-Lübke, Roman. etym. Wörterbuch, n.
6310). La differenza di senso non è però grande: l’iris in fiore può ricordare per l’altezza e
i fiori il papavero bianco (Papaver sativus) in fiore. In futuro bisognerà chiarire questi
termini botanici, la loro localizzazione e il loro significato originale, ora non posso dire che
questo: dopo P. Kozarov (Bălgarski narodni nazvanija na rastenijata, in Sbornik na Bălg.
akad., XX, 1925), il nome popolare del Papaver rhoeas è paparonka vicino a Pazardžik,
папаруна nel villaggio di Arbanasi (= Albanesi?) vicino a Tárnovo. L’Iris germanica si
chiama perunika a Dupnica nei pressi di Sofia. Questa parola è stata importata dalla
Penisola balcanica in Slovacchia centrale: nel 1839, B. Němcová la usa sotto la forma di
peruník (masch.) = Iris germanica, cf. Spisy B. Němcové [Sebrane spisy Boženy Němcove
], VII, Praha (Borovy), 1929, p. 602.
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appare durante la Grande Quaresima, visita le case, sorveglia la figliolanza.
Se l’arcolaio si muove, se stride durante il loro sonno, essi dicono che è
Mokuša che ha filato. Ella si occupa anche del bestiame: se un agnello non
tosato perde la lana, essi dicono che Mokuša l’ha tosato; la notte si lascia
vicino alle forbici un batuffolo di lana. È un’offerta a Mokuša»11. «In un testo
religioso del XVI secolo... figura un personaggio chiamato Mokuša che
svolge il ruolo di una fattucchiera»12.
Tutti questi tratti caratteristici appartengono all’idea che dobbiamo farci
dell’antica padrona di casa nobile, idea risalente alla vita signorile-feudale
esistita in Russia fino al XVIII secolo, come l’ha descritta, per esempio,
Saltykov-Ščedrin nel suo lavoro Pošechon’skaja starina. La padrona di casa
non è una “signora” che non lavora e non fa che divertirsi e adornarsi; ella
ha cura di alcuni lavori femminili e di certi affari di famiglia, e dirige una
folla di servi. La filatura e la lavorazione della lana sono il suo specifico
campo di attività. Inoltre, in occasione di alcuni eventi familiari, la padrona
compie o indirizza gli atti superstiziosi o magici di circostanza e veglia su
tutti i riti magici necessari, quando nasce un bambino (ella dirige tutto
durante la venuta al mondo dei suoi nipoti) e in caso di nozze, di decessi, di
malattie, di epidemie che colpiscono gli uomini e il bestiame, di calamità. È
dunque ovvio che i riti magici o le stregonerie siano un altro suo campo.
Dato che Mokoš è la sola dea superiore presso gli Slavi, e che dirige o
patrocina alcune funzioni domestiche puramente femminili, possiamo
proclamarla divina “padrona di casa”, divina mater familias, cioè possiamo
vedere in lei la semplice e modesta sposa del dio supremo, il corrispondente
slavo della vedica Indrānī. Ripeto che non si parla quasi mai di Indrānī nel
Rigveda. È vero che presso gli Slavi Mokoš non è espressamente citata da
alcuna parte come sposa di un dio, ma la causa è unicamente nella
spiacevole scarsità di documenti di cui abbiamo già detto. Presso i Germani,
Frija, sposa di Odino, figura con il suo fuso come padrona di casa; inoltre è
lei che aiuta le donne sterili a rimanere incinta, che le fa partorire e così via.
Abbiamo buone ragioni di credere che questa divina “padrona di casa”
fosse conosciuta non soltanto dai Russi, ma anche da altri Slavi. Antonin
Václavik mi ha fatto osservare che per i Cechi la prova stava in un’usanza
popolare. La sera del 13 dicembre, Santa Lucia, arrivava un personaggio
mascherato detto Luса o Lucka: dicembre era il mese invernale in cui si
iniziava a filare, e varie usanze e distrazioni erano unite a questo lavoro.
Luca appariva «come una donna vestita di bianco, un fuso e le forbici tra le
mani e faceva paura ai bambini; innanzitutto visitava le filatrici e secondo il
loro merito si felicitava con loro o le batteva sulle dita con dei cucchiai di
legno»13. Lucka era generalmente conosciuta fra i Cechi e la si incontra
ancora in alcuni luoghi14. I suoi attributi e la data della sua comparsa
11 L. Leger, La mythologie slave, pp 123-124.
12 Ibidem.
13 E. Kovář, Národopisná výstava českoslovanská, Praha, 1895, p. 227.
14 A. Václavik, Luhačovské Zálesí, [Luhačovice, 1930], p. 401.
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corrispondono alle caratteristiche della russa Mokoša. «Ovunque Lucka è il
contrario di una santa, ed è evidente che una sorta di divinità dei cereali fu
rimpiazzata da Santa Lucia», scrive Václavik15. Secondo noi, questa non è
una divinità dei cereali, bensì è l’antica Mokoš slava che fu sostituita da
Santa Lucia. Occorre anche citare che, secondo Josef Janko16, la collina
Mokošin in Boemia testimonierebbe con il proprio nome che Mokoš era
conosciuta tra i Cechi17.
Al contrario la mitologia slava non ha conservato alcuna informazione sui
bambini divini, due figli e una figlia. La zorja “aurora” slava non ha niente di
divino che si possa far risalire all’epoca antica.
Accanto a Perun, il dio Svarog, o piuttosto suo figlio Svarožyt’ь (Svarožič
in russo), aveva un posto notevole. Di loro si parla collegandoli al fuoco e al
sole. È vero che non si fa espressa menzione del dio Svarog che in due
passaggi della traduzione in slavone della Cronaca di Malalas18. In
compenso, il nome patronimico Svarožič, che significa “figlio di Svarog”, è
più spesso attestato, soprattutto sul territorio russo, e tra gli Slavi baltici è
in tre fonti sotto le forme Zuarasici, Zuarasiz, Svarasiz19. È dunque
incontestabile che esso fosse un nome importante e noto alla maggioranza
degli Slavi, se non a tutti, e che la divinità con questo nome aveva il proprio
posto fra i principali dèi slavi. Il nome Dažьbogь20 appare come il nome del
figlio di Svarog; non c’è alcun dubbio tra gli slavisti che Svarožičь e
Dažьbogь siano lo stesso essere. Noi non lo dubitiamo neppure, e quindi
non citeremo più Dažьbogь separatamente. Secondo il Malalas slavo,
esisteva un dio Svarog’ь, il cui figlio era il sole (Dažьbogь). Secondo altre
fonti, gli Slavi adorano il fuoco chiamandolo Svarožič. È da questo dato che
occorre partire per continuare la nostra esposizione.
Il culto del fuoco è attestato da alcuni documenti che provengono
15 Ibidem.
16 J. Janko, O pravèku slovanském, Praha, 1912, р. 223.
17 Сiò che dice di Mokoš L. Niederle (Život starých Slovanů, II, 1, p. 123; Manuel, II, p. 144)
è completamente sbagliato. Il nome Mokoš, Mokuša non è chiaro. Le ipotesi fatte finora
non sono convincenti, poiche la presunta radice mok-, che secondo Niederle
significherebbe solo “bagnare”, è identico al latino mac- in macerare, cosa che mostra il
suo significato originale, e la trasposizione di mok- nel campo dei rapporti sessuali è
assolutamente inverosimile. Allo stesso modo rifiutiamo le ipotesi di Niederle sul
corrispondente greco Μαλακία come “languore sessuale” o “onanismo”. È piuttosto da
supporre che Mokoš sia collegato all’antico indiano makhá che, secondo Geldner (Rigveda
im Auswahl, I, Stuttgart, 1907, s. V), significa “nobile, ricco, generoso, protettivo, gran
signore” (Makha- è anche il nome di un demone!). Comunque sia, l’oscurità di questo
nome non può nuocere al valore della nostra relazione: il nome non è altrettanto oscuro.
18 G. Malalas, Cronografia, VI secolo, tradotta in slavone nell’XI secolo. (N.d.T.)
19 L. Leger, op. cit., p. 236.
20 Il nome Dažьbogь non solleva difficoltà: molto probabilmente, è Dad’ьbogь, dispensator
divitiarum, come interpreta Miklosich. La prima parte della parola non è l’imperativo in
senso stretto del termine, ma, come in altri composti detti all’imperativo, soltanto una
forma che, per caso, somiglia all’imperativo, cioè la più facile da formare del verbo dam’ь.
Questo nome non offre un appiglio speciale nelle ricerche mitologiche: si indirizzavano
delle preghiere per ottenere la ricchezza ad altri dèi ancora.
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dall’epoca antica21. Soprattutto si fa osservare che lo si adorava pod
ovinomь (“sotto l’essiccatoio”22), cioè che si adorava il fuoco fiammeggiante
sotto l’ovin’ь, una costruzione speciale per essiccare il grano; là, la sua
funzione era quasi sacra, perche il fuoco dell’essiccatoio asciugava il grano
umido garantendo così il nutrimento per tutto l’anno. In ogni caso, il fuoco
aveva il proprio posto nelle cerimonie: per esempio, dopo le nozze, quando
la sposa entrava per la prima volta nella casa dello sposo, faceva tre volte il
giro del focolare, cosa che è un antico elemento delle nozze indoeuropee.
L’adorazione del fuoco non era un culto occasionale di un demone
qualunque dimorante nel fuoco; questo culto non è simile a quello dei
demoni che abitavano gli alberi, le fontane, i fiumi e i ruscelli. Il fuoco era
qualcosa di più nobile, lo si avvicinava al sole, donatore di vita. I mitologi
sono d’accordo nel constatare che, per questa ragione, c’era soprattutto il
fuoco cosiddetto “vivo” (o “secco”) che godeva di gran stima: era il fuoco
ottenuto sfregando un pezzo di legno contro un altro, di cui si aveva bisogno
in certe occasioni solenni e importanti; ancora al giorno d’oggi i pastori in
Slovacchia accendono così il fuoco quando in primavera iniziano a vivere
nelle baite; le antiche testimonianze sul fuoco “vivo” sono numerose 23. Un
culto simile del fuoco è attestato presso altri Indoeuropei, soprattutto
presso gli Aryens. Inoltre, gli Indiani hanno lo stesso nome del fuoco, agni(tema in -i-), che, lettera per lettera, risponde allo slavo ognь (quest’ultimo
passato ai temi in -io-). Nel Rigveda, 194 inni sono dedicati al dio Agni, 240
a Indra, 52 agli Aśvins! Tuttavia, benche gli siano dedicati tanti inni, Agni
non è una divinità perfettamente personificata nel Rigveda. Poiche l’uomo
non vede Indra e gli altri dei, di conseguenza può facilmente figurarselo a
immagine degli uomini: si vede sempre il fuoco come fuoco. Ecco ciò che
dice Oldenberg24: «Questo elemento... è sede o corpo del dio? Il solo nome
di Agni testimonia per la seconda concezione: il dio si chiama “il fuoco”. Egli
è dove c’è il fuoco; dove non c’è il fuoco, nel Rigveda si trova appena
menzione della presenza del dio». Dunque gli antichi Indiani non si
immaginavano che il dio Agni avesse sede nel fuoco, ma che Agni fosse il
fuoco stesso e risiedesse nel legno o nell’acqua. Macdonell25 si esprime in
modo analogo: «As his name is also the regular designation of fire, the
anthropomorphism of his physical appearance is only rudimentary»26.
Siccome anche gli Slavi adorano direttamente il fuoco e non lo chiamano in
modo differente (cioè non hanno una “divinità del fuoco” con un nome
specifico diverso dalla parola ognь), si può supporre che la concezione
fondamentale del dio fuoco fosse identica tra gli Slavi e gli Indiani. Inoltre,
risulta dalle varie informazioni sul culto che la stessa base di questi culti era
21 L. Niederle, Život, p. 81 ss., Manuel, op. cit., II, p. 114.
22 Cf. L. Niederle, Manuel.
23 L. Niederle, Život, p. 82, p. 3.
24 H. Oldenberg, Die Religion des Veda, 3°-4° ed., Stuttgart, 1923, p. 42.
25 A. Macdonell, Vedic mythology, [Strassburg 1897], p. 88.
26 «Poiche il suo nome è anche la normale designazione del fuoco, l’antropomorfismo del suo
aspetto fisico è solo rudimentale». (N.d.T.)
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quasi simile tra gli Slavi e gli Indiani. L’affermazione di Macdonell: «Though
agni is an Indo-European Word (Lat. igni-s, Slavonic ognь), the worship of
fire under this name is purely Indian»27, è confutata da testimonianze
antico-russe.
Lasciamo il fuoco per un momento e proviamo a spiegare il nome di
Svarogь28. Nel Rigveda alcune divinità superiori possiedono l’epiteto svarāj“che regna da solo, indipendente”: essi sono Indra, Soma, Parjanya, i
Marut, Âdityah, una volta anche Agni. Si può supporre che Svarogь sia una
forma parallela di svarāj-. La parola indiana è composta da sva-, dalla
radice del pronome latino suus, svojь slavo, ecc., il tema consonantico rājcorrisponde al tema consonantico rēx latino, gen. rēg-is, con -ē- nelle due
forme, ed appartiene alla radice del vedico rāšţí, rājati “il regno” e, con -ebreve originale, del latino regō. È facile riconoscere che Svarogь sia
qualcosa di simile: anche se non è proprio la forma corrispondente suono
per suono a quella indiana, è composta dagli stessi elementi. La forma
preslava *svō-rog-o-s mostra nel secondo componente un grado che alterna
о rispetto a e del lat. reg-ō, e una -o suffisso come nel greco φωσ-φόρος da
φέρω; *svō-, rispetto allo *svo- indiano, può spiegarsi con un allungamento
del primo termine dei composti analogo a quello di cui parlano J.
Wackernagel per il sanscrito29 e Duchesne-Guillemin30 per l’iranico31.
Abbiamo citato svarāj- come epiteto di alcuni dèi superiori nel Rigveda.
Quale tra loro corrisponderebbe allo stato slavo? Per la connessione con il
sole, solo Mitra e Indra potrebbero essere presi in considerazione, mentre
Varuṇa sarebbe piuttosto il cielo notturno, in quanto i percorsi degli astri,
regolari e misurati, evocano l’idea dell’ordine eterno. È vero che il sole di
Mitra viaggia nello spazio celeste, ma non ha nulla in comune con il fuoco.
Al contrario, Indra è, in tre o quattro passi, identificato più o meno
chiaramente con Sūrya, il sole. Parlando in prima persona, Indra afferma di
essere stato precedentemente Manu e Sūrya32; Sūrya e Indra sono invocati
insieme in un altro verso33 come se fossero un unico essere. In un
passaggio, si dà a Indra l’epiteto Savitr. Il Śatapathabrahmana identifica 34
una volta Indra con il sole, essendo Vŗtra la luna35. Si può allora supporre
27 A. Macdonell, op. cit., p. 99: «Anche se la parola agni è indoeuropeoa (lat. igni-s, ognь
slavo), il culto del fuoco sotto questo nome è puramente indiano». (N.d.T.)
28 Per le spiegazioni precedenti, cf. Niederle, Život, p. 188 e Brückner. p. 52 ss. Osserviamo,
circa la spiegazione di Brückner, che un suffisso -ogь non è garantito in slavo, come
Brückner riconosce: le parole aventi questa conclusione sono oscure, evidentemente
straniere, e non formano gruppi semantici omogenei. Cf. il mio articolo su rarogь nella
rivista Linguistica slovaca, III, 1941, p. 84.
29 J. Wackernagel, Altind. Gr. [Altindische Grammatik], II, 1, § 56.
30 J. Duchesne-Guillemin, Les composés de l’Avesta, Paris-Liège, 1936, § 16.
31 Questo sarebbe il primo e forse unico esempio in slavo, ma lo slavo presenta anche, per
esempio, l’indoeuropeo dus- “male, me-”, nel solo esempio dьžd’ь < dus-diu-s «pioggia»,
che è assolutamente convincente (Cf. testo e nota 7).
32 Rigveda, X, 89, 2.
33 Id. VIII, 82, 4.
34 A. Macdonell, op. cit., p. 57.
35 È vero che c’è contraddizione con i passaggi in cui si dice che Indra ha generato il sole (II.
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che, presso gli Slavi, Svarog’ь (= svarāj-) sia la stessa divinità che, tra gli
Indiani, è rappresentata da Indra identificato con il sole.
Poiche il Fuoco è figlio di Svarog, ciò coincide con ciò che dice il Rigveda
sull’origine di Agni. «D’accordo con l’opinione generale dei poeti vedici, il
padre di Agni, che l’ha generato, è Dyāus (X, 45, 8). È figlio di Dyāus (IV,
15, 6; VI, 49, 2)… Spesso è nominato figlio di Dyāus e di Prthivi»36. Poiche
Dyāus ed Indra sono identici37 e, poiche anche Indra e Sūrya possono
essere identici, il fuoco è realmente figlio del dio supremo, del padrone del
fulmine, di Diēus, e, allo stesso tempo, figlio del sole o di Svarog’ь. In
questo modo si può collegare senza difficoltà lo stato slavo allo stato vedico.
Questa strada ci ha dunque indotti a riconoscere che, tra gli Slavi, il culto
del Sole e di suo figlio il Fuoco è molto antico, ereditato dal periodo
dell’unità indoeuropea. E siamo giunti all’idea verso la quale tendeva anche
Niederle38. L’intensità e la persistenza del culto del fuoco bastano da sole a
mostrarci che qui si tratta di un culto preslavo, cioè precedente all’epoca
dell’unità slava.
Eccoci arrivati alla conclusione che gli Slavi rendevano un culto al Sole
come a una delle numerose figure del dio Diēus e che riconoscevano il
Fuoco come suo figlio, al pari degli Indiani. Lo Svarog’ь slavo è dunque il dio
del Sole, una delle figure di Diēus, analogo al Sūrya indiano, e il Fuoco è
una divinità del tutto simile a quella che era Agni tra gli Indiani.
Degli dèi superiori la cui esistenza è provata, resta soltanto Veles.
Purtroppo, anche di lui sappiamo soltanto pochissime cose39. Dall’epoca
antica sappiamo soltanto che era skotii bogь, dio degli armenti, e che gli
prestavano giuramento. Di un’epoca più recente scrive Leger: «Secondo
Afanas’ev, ecco ciò che succede al momento del raccolto. Una delle mietitrici
prende un pugno di spighe e l’intreccia. Questo mazzo è sacro. Nessuno
deve toccarlo. È chiamato “torcere la barba di Volos o Perun”. La barba di
Volos protegge le messi contro qualunque specie di malefici». È tutto quello
che vale la pena menzionare. Veles è perciò conosciuto come dio dagli Slavi
dell’Est. Il nome di Veles è attestato anche nell’antico ceco, ma solamente
come “diavolo, demone” in alcune citazioni altrimenti senza valore per noi40.
In Russia, la forma del nome è di rado Veles, più spesso è Volos, nei
documenti cechi soltanto Veles. La doppia forma ele/olo ha reso molto
difficile l’interpretazione del nome; per -olo-, si è pensato a un suo
avvicinamento al nome di certo Priapo scandinavo, Volsi, un personaggio in
realtà completamente diverso da Veles. Altre spiegazioni non sono più
convincenti. Di solito, si vuole elaborare una relazione con il lituano vēlės
“imagines mortuorum” e con vélnias “diavolo”: da questa falsa etimologia si
19, 3, e altri). ma tali contrasti nel Rigveda non sorprendono.
36 A. Macdonell, op. cit., p. 90. La qualità di padre di Agni è attribuita anche ad altri dei.
37 Cf. il mio articolo, già citato, nell’Archiv orientální.
38 L. Niederle, Život, p. 109
39 Cf. L. Leger, op. cit., p. 111 ss.
40 L. Leger, op. cit., p. 114, per esempio, «Quale diavolo o quale Veles o quale drago ti ha
eccitato contro di me?».
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sono tirate deduzioni sulle attribuzioni di Veles, che sarebbe in collegamento
con le anime dei morti e i demoni degli inferni. Alexander Brückner nega a
Veles, ma a torto, il carattere di “dio degli armenti” e lo considera soltanto
come un dio del giuramento.
Noi riteniamo che le prove antico-russe che designano Veles come “dio
degli armenti” sono chiare e incontestabili. Se non vi ci attenessimo, non
sarebbe difficile rinvenire altrove l’equivalente divino di Veles. Lo troviamo
presso gli Indiani: è Rudra, che i testi vedici più recenti designano come
paśu-pati “padrone del bestiame”, padrone anche dei campi e degli alberi. Il
mazzo di spighe legate per Veles presso i Russi sono probabilmente un
regalo offerto al gran padrone dei campi, perche esso non è un sacrificio nel
senso proprio della parola. Rudra non era onorato da un vero sacrificio,
doveva accontentarsi dei frutti selvatici della foresta, di resti di altri sacrifici,
ma anche, cosa significativa, di un mazzo di erba del barhiš-41, immerso
nella ghŗta (bevanda fabbricata con la crema del latte) e gettata nel fuoco.
Forse si potrebbe avvicinare il nome di Veles anche a un soprannome del
dio Rudra, il quale possiede – ciò è sorprendente – numerosi soprannomi.
Uno è Ṥarva-, parola molto antica, perche appare tanto nel Rigveda che
nell’Avesta (qua come vero nome del dio), e di cui l’etimologia è oscura.
Nell’Avesta sotto la forma Saurva-, o *Sarva-, è citato due volte, sempre
vicino a Indra e ai Nāsatyas (Aśvins); differentemente questi passaggi non
hanno nulla di significativo, e tutti questi dèi sono presentati, nell’Avesta,
come daēva “demoni, diavoli”, divinità delle religioni ostili allo zoroastrismo.
Molto più importante è quando Saurva- è, nell’Avesta, accanto a divinità
d’età indoeuropea che hanno un ruolo preminente nel mondo indoiranico.
Inoltre, anche Saurva- è una divinità molto antica e ciò è per noi di gran
valore essendo il dominio iranico vicino al mondo slavo. Ci si può allora
arrischiare a supporre che il nome di Veles sia in collegamento con il nome
*Sarva-, ed ecco come. Se si assume la forma *Velsь come forma dello
slavo comune, esso è identico al śarva/sarva- indoiranico, e bisogna
soltanto riconoscere in slavo una metatesi delle consonanti: indo-europeo
k’elvo-s; *selvь>*velsь. Senza dubbio questa ipotesi costringe a spiegare la
forma Veles con il polnoglas’je42 russo e ad ammettere che il ceco veles
viene dal russo. Ma nulla vi si oppone, perche fin dall’epoca di san
Venceslao (X secolo) le relazioni culturali tra i Cechi e i Russi erano molto
vive, come ha dimostrato A.V. Florovskij43. La parola veles non poteva
essere trasmessa ai Cechi che come nome di un demone spaventoso, senza
l’aspetto preciso di “dio degli armenti”. Il fatto che in ceco la parola veles
significhi solo “diavolo, demone” è illuminata dal parallelo iranico Indra =
“demone”: gli zoroastriani sapevano che un’altra credenza straniera rendeva
un culto al potente dio Indra e, giustamente in quanto dio straniero, l’hanno
fatto decadere, per il disprezzo, a un mero “demone”. Allo stesso modo, i
41 Prato sacro. (N.d.T.)
42 Polnoglasie o, in italiano, pleofonia. (N.d.T.)
43 A.V. Florovskij, Čechi і vostočnyje Slavjane, I, Praha, 1935.
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mercanti, i soldati e i vagabondi di ogni genere hanno portato dalla Russia
in Boemia la conoscenza di un certo dio Veles, tuttavia, siccome la
conversione degli Slavi al cristianesimo era già cominciata e non si trattava
della trasposizione di una credenza vera e propria ma di un semplice nome
senza un contenuto ben definito, Veles è stato conosciuto in Boemia come
un vago demone. La forma volos quindi presenterebbe l’alternanza normale,
del tipo russo polon “prigionia” rispetto all’antico-slavo plènь da *pelnь. La
forma russa che fu portata in Boemia è dunque quella uscita da velsь
anteriormente alla normale labializzazione da -ele- a -olo-. Non deve stupire
la metatesi *selvь<*velsь perche si trovano numerosi esempi di tale
“metatesi a distanza”. Per esempio in baltico, rispetto allo slavo peķo “io
cuocio”, greco πέσσω, indiano pačāmi , si ha il lettone kepù, letto cepu; e in
slavo, rispetto al greco τείχος, si ha zьdь “muro”, rispetto al greco σταίς,
gen. σταιτ-ός, tĕst-o “pasta”, rispetto a δρίμύς, *mridьkь>bridьkь, rispetto
a στίλζω *blьst-jati, v. sl. blьštati sę, rispetto a vьlga “umidità”44, ceco vlha,
ma anche *gьlva>žluva. Nel caso di *selvь<*velsь, la metatesi tra gli Slavi
trae la sua origine da motivi di tabù45.
Il Veles slavo concorda dunque con Ṥarva- tanto nel suo carattere
essenziale che nel nome. Un solo fatto tuttavia non corrisponde a Rudra: gli
Slavi giuravano con il nome di Veles. Ma questo è forse uno sviluppo
secondario, spiegandosi con il fatto che Veles-Rudra formava una sorta di
contrappeso terrestre a Perun, dio celeste.
Se abbiamo ragione, anche gli Slavi possedevano un dio che, almeno
nelle principali caratteristiche, corrispondeva a Rudra. Rudra è il sovrano
della natura terrestre, degli animali e delle piante, Indra, al contrario, è il
sovrano del cielo e delle cose celesti, il nobile pater familias della famiglia
divina. Rudra è un dio potente e temuto: ha in suo potere la prosperità e il
deperimento del bestiame, cioè della principale ricchezza e del nutrimento
di tutta la famiglia. Se Veles è il Rudra slavo, allora occorre farlo risalire
all’epoca della vita comune degli Indoeuropei. Il suo vero nome sarebbe
dunque stato *K’elvos, mentre la forma indiana Rudra sarebbe più recente,
come nel caso di Indra (notiamo che Rudra fa rima con Indra!) rispetto a
Diēus.
Con Veles abbiamo completato la serie di alcune divinità superiori che
possiamo studiare, sapendo un po’ più del loro semplice nome. Se le
deduzioni che qui si sono presentate sono giuste, la mitologia slava deve
acquisire un’importanza un poco maggiore di quella avuta fra le mitologie
delle altre nazioni indoeuropee, perche essa possiede alcuni elementi che
ora possiamo collocare senza esitazione nel periodo dell’unità indoeuropea.
Di conseuenza, essa arricchisce l’elenco, assai povero finora, dei fatti che
possiamo attribuire alla religione degli Indoeuropei prima della loro
44 In francese “loriot”, probabile neologismo derivato da Antoine-Joseph Loriot che nel 1774
scoperse una malta impermeabile che induriva sotto l’acqua. Il significato del protoslavo
vьlga è “umidità, fradicezza”. (N.d.T.)
45 «La metatesi è spesso una conseguenza del tabù», ha scritto G. Bonfante, Mélanges de
linguistique offerts à Charles Bally, Genève, 1989, p. 196.
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separazione, religione ancora così mal conosciuta da noi. La mitologia slava
si colloca vicino alle religioni dei popoli indoiranici e si illumina da esse, ma
in un caso, quello di Veles, è essa che rischiara la religione vedica
sostenendo la teoria che fa di Rudra una divinità autoctona, indoeuropea e
non straniera.
Questa stretta parentela con la religione vedica non sorprende: è in
accordo con il fatto che, anche in altri campi, lo slavo è abbastanza vicino al
mondo indoiranico, ciò che si può meglio spiegare con la teoria dell’antica
vicinanza di questi due rami dell’indoeuropeo.
Brno, luglio 1946
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