Introduzione

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Introduzione
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Le peripezie dei Quarantasette Ronin non sono leggenda, ma un avvenimento storico su cui l’immaginazione popolare ha indugiato spesso, abbellendolo. Gli Annali del Giappone citano gli avvenimenti
fondamentali di quei drammatici giorni e la fine degli Eroi; le famiglie mostrano orgogliose le reliquie
dei loro illustri antenati e anno dopo anno un gran
numero di pellegrini si reca sulle sacre tombe, allineate intorno al monumento funebre del principe di
Enya, il loro daimyo.
Rammento quanto la devozione straordinaria ricevuta da questi sepolcri mi avesse impressionato.
Si trovano vicino a Tokyo, solo sei chilometri a sud
del Palazzo imperiale, lungo la Grande strada del
Tokaido (la «Via del Mare orientale») nel distretto
suburbano di Takanawa.
Superato l’alto recinto e lasciati alle spalle i rossi portici dei torii, un’ampia scalinata in pietra co-
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sparsa di muschio conduce al tempio di Sengakuji:
lì sono i luoghi sacri. Nella quiete dei giardini che
delimitano il monastero le foglie lasciano filtrare
una luce soffusa il cui ricamo cangiante si intreccia
con quello dorato del lichene che ha attecchito sulle
lapidi basse sparse qua e là. Da due secoli a questa
parte la penombra è punteggiata dalle fiammelle vacillanti delle candele votive accese ogni giorno dai
pellegrini.
I devoti in visita fasciati in kimono a stampe floreali passano in rassegna i monumenti insieme ai
famigliari nei loro vestiti dai colori intensi, rievocano mentalmente le avventure e le virtù di ciascun
Ronin, oppure raccontano ai figli, rapiti da quella
forma di eroismo tipicamente giapponese – Yamato
damashii – che sa essere più inebriante di qualsiasi
liquore.
Dominando quella collina come vulcani sempre
fumanti, gli Eroi defunti tengono accesa la fiamma
splendente dell’onore, il Bushido, la «Via del samurai», che arde nel cuore di tutti i giapponesi. Grazie
a essa, l’Impero del Sol Levante non fu mai invaso
o vinto, e si coprì di gloria in pace come in guerra,
nella vita famigliare e nelle relazioni internazionali:
una caratteristica unica nella storia. Se un popolo
plasmato da tali sentimenti dedica una venerazione simile ai Quarantasette samurai è perché questi
prodi combattenti hanno dimostrato una lealtà e un
coraggio senza eguali.
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Bisogna sottolineare come l’eroismo nipponico
non si riveli solo nell’ambito militare, con conflitti e successi ottenuti grazie alla violenza, ma anche
in quello civile, nel compiere il proprio dovere arrivando a vincere se stessi. Il Bushido è una via di
innalzamento morale rivolta, oltre che agli uomini,
altrettanto alle donne e a i ragazzi.
L’impresa dei Ronin è celebre non soltanto per la
straordinaria dignità dimostrata da ciascuno di loro,
ma anche poiché chi li ha aiutati ha dato esempio
delle virtù più grandi conosciute dal genere umano.
Il maresciallo Nogi, colui che trionfò sulla Russia,
si suicidò nel 1912 quando seppe della scomparsa dell’imperatore Meiji e nel proprio testamento
richiamò la fedeltà dei Ronin, citandone il motto:
«Un samurai non serve due padroni».
La storia dei Quarantasette incarna magistralmente lo spirito di tutti gli eroismi che fioriscono
tanto spesso in questo Paese di audaci. Ciascun avvenimento è l’esempio di una regola del Bushido.
Madri, mogli, figli, mariti e genitori dimostrano come i doveri accessori ma anche i sentimenti più intimi debbano essere messi da parte, con coraggio, per
poter compiere l’impresa e liberare la Terra dall’ingiustizia. In ciò lo spirito del Giappone si mostra al
suo apice ideale.
Le epiche vicende dei Ronin sono citate in ogni
libro di storia. Ma l’esistenza di questi prodi, fin da
quando la dispersione del clan di Enya fece di loro
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dei Ronin (dal modo giapponese di pronunciare due
ideogrammi cinesi, «Lang» e «Jen», ovvero «uomini onda»), è tramandata con memorie, racconti di
autori contemporanei, storie orali tenute vive da famiglie; queste però non sempre si attengono a una
veridicità scrupolosa. Le motivazioni delle imprese
dei Quarantasette aprono il campo a numerose ipotesi. Non esiste una versione univoca delle vicende
in secondo piano, e nemmeno gli storici hanno saputo fugare i numerosi dubbi. Nell’importante raccolta Tesoro dei leali vassalli si trovano fino a tredici
versioni delle stesse scene. Addirittura i nomi a volte
sono diversi. Nelle numerosissime versioni romanzate e nelle rappresentazioni teatrali, non sempre è
lo stesso Eroe a essere in primo piano.
È importante non scordare che ciascuna di queste
narrazioni è basata su documenti diversi. Ogni famiglia aveva tradizioni proprie e le leggende, insieme
alla fantasia del popolo, contribuivano ad arricchirle, modificandone i particolari.
Oltre i fatti accertati, la leggenda storica trova la
sua autentica ragione di interesse nella rappresentazione di ciascun personaggio che l’immaginazione
giapponese è stata in grado di creare.
Cercando metaforicamente di assortire un bouquet con i fiori più belli, abbiamo selezionato gli
episodi che tornavano di frequente nelle pubblicazioni più note. Alcuni sono stati tradotti alla lettera, senza alcun taglio (in particolare il passo che
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racconta il suicidio della madre di Hara Mototochi,
tratto dall’Iroha bunko). Altri invece hanno richiesto una sorta di adattamento, poiché a volte le diverse trasposizioni si rivelavano troppo prolisse oppure
troppo sintetiche.
In questo arduo lavoro ci è venuto in aiuto Burgois, console di Francia, autore di svariati studi sulla
lingua giapponese, e Martinie, ex addetto navale a
Tokyo, che è stato così gentile da prestarci le opere
alle quali abbiamo fatto riferimento.
George Soulié de Morant
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Epilogo
in funzione di preludio
La stessa sentenza che il 4 febbraio 1702 condannava quegli eroici samurai a darsi la morte, ordinava
anche a Terasaka Kichiemon, il più giovane tra loro,
di sopravvivere in modo da assicurarsi che le offerte
rituali agli spiriti dei Quarantasette valorosi venissero effettuate in modo corretto. Soltanto uno di loro
era eroico a sufficienza affinché le sue offerte fossero gradite, e la scelta cadde sul più giovane, considerando che in circostanze diverse sarebbe vissuto
più a lungo. Difatti Terasaka Kichiemon, sedicenne
nel 1702, morì a ottantun anni nel 1767.
L’aurea quasi soprannaturale di gloria che lo circondò fino alla fine della sua esistenza richiamò la
riverenza di molti appassionati ammiratori. Quasi tutti gli storici si sono serviti proprio delle loro
memorie, e a volte anche di semplici ricordi. Ma,
per quanto preziose fossero, queste testimonianze
riguardano quasi solo l’Eroe sopravvissuto, perché
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erano pochissimi i visitatori con cui Terasaka accettava di parlare del passato.
Ciononostante l’Eroe acconsentì a confidarsi con
un giovane mercante di seta del quartiere di Chiba, a
Edo, che si chiamava Odagiri Kanesada. Per fortuna,
comprendendo quanto fosse grande il dono che stava
ricevendo da colui che riteneva quasi una divinità, il
mercante riportò con cura gli insegnamenti ricevuti.
Così scrive egli stesso:
Niente può eguagliare, in quanto a convincimento,
ciò che è visto dagli occhi e udito dalle orecchie.
Ecco perché quotidianamente trascrivevo con venerazione i racconti che avevo ascoltato: la mia testimonianza doveva resistere anche dopo che la mia
debole voce avrebbe taciuto in eterno.
Odagiri Kanesada, giovane e tendente all’esaltazione, terminò gli studi quando ormai la lunga vita di
Terasaka Kichiemon scemava. Nell’universo si udiva ancora l’eco della recente gloria dei Quarantasette. Ogni giovane sognava di eguagliare il coraggio
e l’abnegazione degli Eroi compiendo atti straordinari. Ma i soli che potevano portare a termine erano quelli che la vita famigliare e le relazioni sociali
richiedono, compiti comunque per nulla semplici.
Odagiri decise di assistere alla commemorazione annuale un quinto giorno di prima luna, data in
cui cadeva l’anniversario della morte dei prodi. Nel
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suo manoscritto bastano poche parole per illustrare
il fermento che in quell’epoca animava la Grande
strada del Tokaido: file di carri arrivavano impolverati da città lontane; viaggiatori partivano dalla capitale colmi di bagagli, cantando allegri nel luminoso
mattino d’inverno, con il freddo mitigato dal sole.
Proprio come i pellegrini dei giorni nostri, appena giunse al villaggio di Takanawa lasciò la Grande
strada e proseguì lungo il sentiero che s’inerpica oltre i maestosi pini profumati, fino ai torii scarlatti e
alla recinzione grigia del monastero.
Una folla composta circondava le tombe, costellate da una miriade di lumi accesi. Il giovane mercante
descrive con parole sincere lo sconvolgimento in cui
cadde, suggestionato dal silenzio carico di tensione dei pellegrini, dalla fredda ombra dei pini, dalle
fiammelle danzanti dei ceri, e forse anche dall’anima
vigile dei morti.
Quando fu dinnanzi all’Eroe in persona, rivestito con la sua corazza ammaccata, appoggiato a una
lancia corta e accompagnato dai religiosi che portavano l’abito da cerimonia, corse verso di lui e s’inginocchiò, implorandolo di concedergli di offrire la
propria vita sui sepolcri sacri, proprio quel giorno,
per contribuire all’onore dei morti e alla gloria della
propria famiglia.
Odagiri racconta che l’anziano guerriero fu commosso da questo autentico fervore. Ciononostante
spiegò che un sacrificio di quella portata non si poteva
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compiere sull’onda dell’entusiasmo di un istante: una
preparazione profonda e duratura era imprescindibile.
Al termine della cerimonia Terasaka fece entrare
il giovane nella sua cella e lo interrogò a lungo con
gli «occhi che fiammeggiavano in un volto d’avorio». Stimò di certo Odagiri, dato che a partire da
quel giorno egli visitò in più occasioni il monastero,
ascoltando entusiasta gli aneddoti che l’Eroe gli raccontava riguardo ai propri compagni, in modo da
spiegare l’insegnamento dell’inflessibile onore – Yamato damashii – che costituisce lo scheletro dell’anima giapponese.
Affinché nessuna di quelle inestimabili parole andasse perduta, Odagiri trascrisse quotidianamente
quanto ascoltato. Così, in breve tempo, si trovò ad
aver riempito completamente uno spesso quaderno.
Allora pregò l’Eroe di firmare il libro, in modo
che nessuno potesse dubitare della sua autenticità.
Pare che rileggendo quelle pagine Terasaka ne
fosse rimasto intensamente turbato, al punto che
forse ne affrettò la lettura per terminarle al più presto. Odagiri riferisce che, già alle prime righe, le lacrime corsero lungo il viso del guerriero e sospiri
penosi gli scossero il petto. Il giovane mercante, a
disagio, si allontanò educatamente.
Il giorno seguente, presentandosi al monastero,
scoprì che l’Eroe era morto. Il superiore dei religiosi
gli restituì il suo manoscritto, alla cui prima pagina
era stata aggiunta questa epigrafe:
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Io, Terasaka Kichiemon, samurai di Enya, avendo
ricevuto dal Signore dei Signori l’ordine di sopravvivere agli altri vendicatori di Enya, ora ho raggiunto l’ultimo limite della vecchiaia.
Tutti i mirabili accadimenti che ricordo sarebbero
spirati con me. Li ha trascritti un uomo fidato che,
per passione, ha desiderato che il mondo intero potesse conoscerli. Il suo pennello ha assicurato sulla
carta le mie parole, per sempre.
Quando gli occhi e le orecchie che hanno visto e
udito saranno scomparsi, il suo lavoro resterà, a
onorare il nostro perduto daimyo e gli uomini intrepidi che l’hanno vendicato. I cuori nobili, commemorando le nostre gesta di generazione in generazione, scalderanno i nostri gelidi spiriti nell’aldilà.
La lealtà, il vigore, la correttezza sbocceranno in
ogni anima del Giappone!
Scritto il Ventesimo giorno della Dodicesima luna
per il devoto e onorevole Odagiri Kanesada.
Terasaka Kichiemon
Dal momento che Odagiri trascrisse le parole di
Terasaka proprio come le ascoltava, malgrado il
trascorrere dei secoli la voce dell’Eroe continua a
vibrare oltre la sua tomba.
Sono le sue stesse labbra a raccontare «ciò che i
suoi occhi e le sue orecchie hanno visto e udito».
Accogliete con rispetto la sua lezione.
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