“Da proletari a possidenti”. - Biblioteca Provinciale di Foggia La

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“Da proletari a possidenti”. - Biblioteca Provinciale di Foggia La
Carmen Sferruzzi Siniscalco
“Da proletari a possidenti”.
Un progetto di sviluppo in età liberale
di Carmen Sferruzzi Siniscalco
“È desiderio di tutti i cittadini indistintamente che il demanio Comunale in
stato di divisione sia ripartito in tante quote per quante sono le famiglie di questa
comunità, ossia fra quelle in generale che vivono separatamente l’una dall’altra con
letti ed economia separata”.1
Nel novembre 1864 il consiglio comunale di Accadia sottoponeva all’approvazione del Prefetto di Avellino la proposta di divisione dei terreni demaniali in
quote tutte uguali nella estensione, contrariamente alla legge che prevedeva l’uguaglianza nel valore della quota. In breve si chiedeva: quote uguali nell’estensione per
tutti, canone diverso a seconda della qualità del terreno. Un progetto di democrazia
immediata, visibile, un ausilio per mantenere l’ordine pubblico, per calmare gli animi dei “proletari di Accadia” che “fremono perché burlati da tre anni”.2
Questa proposta non fu autorizzata dalla Prefettura di Avellino, in quanto
contraria al decreto del 3 dicembre 1808. Tale decreto prevedeva che la divisione
poteva effettuarsi “o per teste, o per offerte”.3 Il Prefetto non mancò di sottolineare
il fine moralizzatore della legge:
Queste disposizioni di legge sono dettate dai principi eminentemente economici e politici volendosi elevare alla condizione di possidenti i proletari e dare
alla terra, con l’industria de’ coltivatori operosi il maggior valore possibile, il
che non si ottiene dà coltivatori precari, e moralizzare con l’amore alla proprietà ed alla fatica una classe che per mancanza di averi suol essere ricorsa alla
società e specialmente ai comuni cui appartiene. Da ciò credo bene che il Consiglio proponendo una divisione a suo modo contro la legge e con intendimento poco onesto e disinteressato si opporrebbe alle mire del Governo, le più
provvide, le più sante.4
1
A.S.AV.,
2
A.S.AV.
(Archivio di Stato di Avellino), Atti demaniali, bs.2, f.17, Delibera consiliare 7 novembre 1864.
, Atti demaniali, bs.2, f.17, Corrispondenza periti agrimensori-Prefettura.
3
Il primo caso si verificava solo quando l’estensione del demanio divisibile era tale da poter destinare una
quota del valore di due tomoli del migliore terreno di seconda classe, ad ogni cittadino di qualunque età e
sesso. Non verificandosi questa situazione ad Accadia, bisognava eseguire la divisione per offerte, riducendo
queste al numero di quote disponibili, preferendo nelle assegnazioni i non possidenti.
4
A.S.AV., Atti demaniali, bs.2, f.17, Lettera del Prefetto di Avellino al Sindaco di Accadia, 28 novembre 1864.
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È l’eterno fine moralizzatore, “moralizzare con l’amore alla proprietà ed alla
fatica”, ricetta per lo sviluppo, dai tempi del riformismo illuminista, della polemica
antifeudale, dal Genovesi a Giuseppe Zurlo, ripresa e riproposta dall’autorità di
governo, il Prefetto di Avellino ai cittadini di Accadia, i quali a pochi anni dai
discorsi encomiastici della svolta liberale, sulle “cure del governo, le più provvide,
le più sante”, dovettero scontrarsi con una dura realtà, dove alla maggior parte dei
“beneficiati”, per mancanza di mezzi, non restò altro che l’abbandono, o l’alienazione della quota demaniale assegnata. Attualmente si parla tanto di sviluppo sostenibile dei terrirori rurali, i riformisti, con le leggi eversive della feudalità, del
decennio francese, aspiravano alla formazione della proprietà privata della terra,
come premessa al moderno sviluppo dell’agricoltura. In teoria, una volta quotizzate
le grandi estensioni di terreni demaniali, eliminato il sistema di tutela ai contadini,
in questo caso gli usi civici garantiti all’interno del sistema feudale, con la proprietà
privata i contadini sarebbero stati costretti a lavorare sodo e a produrre di più per il
mercato.5 Ma la realtà si presentava più complessa e le teorie dei legislatori avrebbero incontrato non poche difficoltà in fase di applicazione.
Durante il decennio francese la cittadinanza di Accadia nonostante i ripetuti
inviti per la quotizzazione del demanio non presentò domande per partecipare all’assegnazione di quote. La principale fonte di reddito in Accadia era costituita dai pascoli più che dalle coltivazioni. Il comune, dopo le sentenze della commissione feudale fu reintegrato del Bosco Montuccio e della Difesa delle Coste, ebbe così a disposizione ampie zone per il pascolo, che oltre ai bisogni del comune, soddisfavano anche
le esigenze di utenti forestieri. Una masseria specializzata nel settore armentizio era
molto produttiva in questa zona prossima alle pianure pugliesi, dove la trazione animale era elemento essenziale per lo svolgimento dei lavori di aratura. Da qui la grande
importanza dell’uso civico del pascolo esercitato sul suolo demaniale.
Nel 1794 furono ridotti a coltura alcuni demani,6 i terreni furono poi censiti
con un modesto canone di affitto. I coltivatori, constatando a loro spese le esigenze
e le difficoltà di conduzione dei terreni in questione, preferivano restare semplici
fittuari, piuttosto che divenire proprietari di territori gravati da un alto rischio di
frane e quindi necessitanti di lavori di terrazzamento - coltura a gradoni, e relativa
continua manutenzione - in aggiunta ai normali lavori di coltivazione. Il tipo di
intervento richiesto dal territorio, il pagamento del canone e della temuta imposta
fondiaria, era nelle possibilità di pochi intestatari, come emerge dalla lettura dell’incartamento relativo alle verifiche effettuate sui fondi in pendio, in ottemperanza a
quanto previsto della legge del 21 agosto 1826. Dallo Stato delle terre appese coltivate prima e dopo del 1815, datato 19 maggio 1834, su 86 quote, solo in due di esse
5
Domenico MORLINO, Riformismo e ambizioni borghesi, in «Studi Cattolici», 2002, 501 (novembre), Il
pensiero economico di Vincenzo Cuoco: agricoltura, demani e usi civici, «Rassegna Storica del Risorgimento»,
anno LXXXIX (2002), f. IV.
6
F. SCANDONE, Cronache del giacobinismo irpino, in Atti della Società Storica del Sannio, Benevento, Tip.
Istituto Maschile Vittorio Emanuele III, 1923.
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fu ridotta la coltura “a gradoni”, come disposto dall’ordinanza dell’Intendenza di
Capitanata nel luglio 1831.7
Queste periodiche inchieste sul territorio, documentano l’andamento discontinuo delle coltivazioni, dove fasi di sviluppo si alternavano a fasi di abbandono.
Frequenti erano le frane, a danno delle colture e strade sottoposte, mentre la parte
alta della montagna, restava esposta a fenomeni di erosione. Nella contrada comunale “Costa di Faggeto”, nel 1831 vi erano 58 quote censite ad altrettanti quotisti a
colonia perpetua. Per circa metà delle quote, inclinate verso settentrione, è riportato: “Il terreno è sassoso. Le acque piovane che scorrono dalle quote appese danneggiano le proprietà sative sottoposte del medesimo comune, e quindi si uniscono nel
sottoposto Vallone denominato Fontana di Faggeto”.
Non mancavano conflitti tra pastori ed agricoltori. Nel novembre 1830, “molti piccoli padronali di poche pecore del comune di Accadia”, denunciarono alla
sottointendenza di Bovino, che pur pagando il pascolo “in fida”, i terreni erano stati
dissodati da vari cittadini, e che tra gli autori delle usurpazioni figuravano il sindaco e
alcuni decurioni. Il sindaco in questione fu interpellato solo nel 1847, dalla
sottointendenza di Bovino. Questi non negò le usurpazioni, e convenne che diversi
proprietari del paese, dal 1820 in poi, si erano impossessati di varie estensioni demaniali,
in maniera quasi impercettibile, a danno del “demanio erbifero addetto al pascolo
degli animali”, ma nessuna regolare verifica era stata eseguita , non potendo l’amministrazione municipale esibire alcun titolo attestante i confini delle sue proprietà.
Le verifiche delle usurpazioni, una costante nella corrispondenza con l’Intendenza, progettate a tavolino, si rivelarono di difficile attuazione pratica. L’incarico fu
prima affidato al Sindaco di Santagata, Alfonso Volpe,8 successivamente al consigliere distrettuale Luigi Albani di Savignano, ma al 1857 nessuna verifica era stata
compiuta.
Questi accertamenti erano destinati a rimanere pure elaborazioni teoriche,
spesso il decurionato giustificava la loro mancata esecuzione adducendo che la spesa occorrente per le stesse superava il valore dei terreni usurpati, giustificazione,
che potrebbe essere letta anche come alibi per sfuggire ad uno scomodo accertamento, che avrebbe potuto rilevare la posizione di usurpatori nelle stesse persone
dei denuncianti. È necessario un equilibrio nell’interpretare il documento, come
7
A.S.AV., Atti Demaniali, bs.1, f.6. L’ordinanza prevedeva che i fondi in pendio, classificati come dissodati
anteriormente al 1815, potevano continuare ad essere coltivati, a condizione che nel termine di due anni si
fosse adempiuto ai lavori di “riparo”. Per i fondi dissodati dopo il 1815, invece vigeva il divieto di coltivazione. Il fatto che i terreni di Accadia siano stati classificati tutti come dissodati prima del 1815, probabilmente
non doveva essere estraneo a questa disposizione di legge.
8
Alfonso Volpe, di Decio, (1803-1873) esponente di una facoltosa famiglia borghese del comune di Santagata
di Puglia, esercitò la professione medica con grande prestigio. L’archivio di famiglia, offre materiale documentario dal 1597 al 1959, con notizie risalenti al 1548. Viviano IAZZETTI (a cura di), L’Archivio Volpe di
Sant’Agata di Puglia, Sant’Agata di Puglia, Comune di S. Agata di Puglia, 1990. Un profilo del Volpe, in
Lorenzo AGNELLI, Cronaca di Santagata di Puglia, Cefalù, Tipografia Salv. Guscio, 1902. Su Lorenzo Agnelli, cfr. D. DEL VECCHIO, Cultura e società nel Mezzogiorno d’Italia nell’opera di Lorenzo Agnelli (1830-1904),
Vicum, 2004.
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vedremo, si tratta di terre difficili, e ai primi anni di coltivazione, seguiva spesso
l’abbandono a volte fittizio, spesso a causa delle frane, reale.
Nel periodo post-unitario, l’amministrazione comunale, cerca di perseguire,
in materia di gestione demaniale, la linea politica adottata dalle precedenti amministrazioni: detenere il controllo della questione eludendo qualsiasi ingerenza esterna. Ma questa strategia, dovette scontrarsi con l’impegno dell’agente demaniale e
consigliere provinciale Francesco Paolo Trombetti, proveniente dal vicino comune
di Monteleone, il quale avviò malgrado molte difficoltà le operazioni di divisione.
Nel novembre 1861, Trombetti, inviò al commissariato demaniale di Avellino, una
nota nella quale elencava i demani, che secondo le sue stime potevano essere
quotizzati, e non mancò di sottolineare che il Municipio era fin troppo restio a far
eseguire la reintegra delle usurpazioni avvenute, in quanto nella maggior parte dei
casi erano proprio i consiglieri comunali i detentori dei terreni in questione. Nel
gennaio 1862, dopo un lungo discorso del nostro agente, e di fronte alle pendenze
demaniali da questi denunciate, il consiglio comunale non potè sottrarsi al voto
favorevole per la ripresa delle operazioni di quotizzazione. La procedura, andò per
le lunghe.
Escluse le tenute boschive, Trombetti, nel novembre successivo, terminò i
lavori preparatori e presentò il verbale, ma il lavoro del nostro agente fu reso vano
dall’intervento del duca Dentice, ex feudatario di Accadia, il quale sostenendo di
vantare alcuni diritti su un fondo inserito nel progetto, apportò un notevole allungamento dei tempi delle operazioni, e alle dimissioni di Trombetti. L’amministrazione, in seguito propose di verificare solo le eventuali usurpazioni, lasciando questi fondi allo stato boschivo, addetti all’uso civico del pascolo in determinati periodi dell’anno. Arrivò il nuovo agente, Nicola Miletti, medico di Bonito. Il consiglio
comunale, profittando della poca esperienza del medico in materia di quotizzazioni,
intesse una fitta corrispondenza con la Prefettura, e finalmente il 4 febbraio 1866,
“alle ore 11.00 nella Casa Comunale di Accadia vengono sorteggiate 300 quote alla
presenza della Guardia Nazionale, dei Reali Carabinieri, nonché di tutti i notabili
del paese.”9
Vari disordini seguirono la quotizzazione. La divisione del 1866 era stata
effettuata su territori del comune già coltivati dai cittadini, questa redistribuzione
dei fondi, scatenò conflitti con i vecchi affittuari, con ripercussioni negative sull’agricoltura e sulle le finanze comunali. Furono denunciate varie irregolarità nello
svolgimento delle operazioni, inoltre si evidenziava che tra i quotisti sorteggiati, i
più bisognosi, avevano ceduto la loro quota “ai proprietari del paese di accadia i
quali li hanno somministrati delle somme per far fronte alle spese.....come poi può
coltivare la terra e pagare il censo al comune se non ha mezzi?”10
Se da una parte, gli esclusi, invocavano l’intervento dello Stato per fare giustizia delle varie illegalità commesse, sull’altro versante, i “fortunati” sorteggiati, si
9
A.S.AV.,
10
Atti Demaniali, bs.2, f.17.
Ibid., bs.3, f. 24.
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ritrovarono a fare i conti con la tenacia dei precedenti affittuari, i quali non avevano
alcuna intenzione di abbandonare le loro terre, per cederle ai nuovi quotisti. Si
invocava l’intervento delle autorità, al fine di sedare le violenze dei vecchi affittuari,
“i quali si ostinano a non lasciarsi vincere dà nuovi quotisti, e che ogni mezzo hanno adoperato ed adoperano presso la Prefettura per intercettare i provvedimenti
che l’onorevole signor Prefetto abbia emesso, o che sarebbe per emettere.”11
Mentre vecchi e nuovi quotisti si contendevano le quote demaniali, il consiglio comunale si ritrovò impegnato nel cercare di arginare i dissesti e lo stato di
anarchia in cui versavano le finanze municipali. Dopo la quotizazione, il Comune
non aveva più riscosso i fitti, e alle ingenti spese sostenute per la divisione non era
seguito alcun rimborso. Il cassiere comunale non poteva vantare alcun titolo, oltre
al verbale di quotizzazione, per produrre azione contro i vecchi conduttori, del
resto i nuovi quotisti possedevano solo il possesso precario delle quote, e per confermarlo in definitivo, ad un anno e mezzo dal sorteggio, si attendeva ancora il
“Regio Decreto di approvazione”,12 il quale, a causa delle “intercettazioni” dei vecchi conduttori, tardava ad arrivare.
Non mancarono danni all’agricoltura locale. Entrambe le fazioni avevano
continuato a seminare sui terreni contesi “non rispettando l’alternativa nella coltura”,13 favorendo così raccolti improduttivi. Negli anni seguenti ci furono abbandoni di quote, e la relativa corrispondenza con la Prefettura, rivelava il sospetto da
parte della autorità centrale, che dietro gli abbandoni si nascondesse un esproprio
dei veri bisognosi, in favore di pochi privilegiati. Le indagini promosse dalla Prefettura, non apportarono benefici agli indigenti. Le disposizioni emanate per gestire la
questione delle quote abbandonate o alienate, prevedevano un ampio margine di
discrezionalità a favore del consiglio comunale, la situazione ritornava quindi al
punto di partenza.
Nel dicembre 1873, il consiglio comunale, richiedeva l’autorizzazione alla
Prefettura per procedere a trattative private per l’affitto della tenuta Montuccio,
della estensione totale di 1470 tomola.14
Il Prefetto, una volta accertata la natura di bene demaniale comunale di origine exfeudale, ritenne la tenuta Montuccio soggetta al riparto obbligatorio tra i cittadini a titolo di censo, in quanto l’affitto della stessa li avrebbe “spogliati degli usi
11
Ibid., bs.3, f.24, Seduta consiliare 18 ottobre 1867.
La quotizzazione fu sanzionata con Approvazione Sovrana del 15 marzo 1868. Undici anni dopo, il
Prefetto in qualità di Regio Commissario Riaprtitore pronunciò ordinanza di reintegra per 43 quote, dichiarando di non aver percepito sulle medesime la relativa rendita per più anni.
13
A.S.AV., Atti demaniali, bs.3, f.24, Verbale seduta consiliare 4 febbraio 1868.
14
La tenuta Bosco Montuccio, destinata in età Aragonese al pascolo delle Regie Razze equine, fu venduta
nel 1723 al duca Fabrizio Dentice d’Accadia, e con sentenza della commissione feudale del 20 agosto 1810,
reintegrata al comune. Fu esclusa dalle quotizzazioni con deliberazione del 6 luglio 1812, perché riconosciuta
dal decurionato “frattosa e macchiosa”, e se ne propose il rimboschimento. Successivamente fu affittata per il
pascolo estivo, anche ad utenti dei comuni limitrofi. La cittadinanza continuava ad esercitare l’uso civico del
pascolo dal I° dicembre all’otto marzo e del “legnare sul selvaggio”.
12
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civici che in origine rappresentavano sulle tenute demaniali, ed in considerazione
dè quali i comuni divennero amministratori, anziché assoluti padroni dè fondi soggetti alle servitù reali degli usi civici.”15
Ritornava a questo punto la giustificazione del riparto in quote e a titolo di
censo, secondo la legislazione demaniale, foriero di vantaggi per il comune e per i
cittadini. Il comune si sarebbe assicurato una rendita stabile non soggetta a variazione, il contributo fondiario sarebbe stato a carico dei quotisti, un’operazione vantaggiosa, in quando “elevando al grado di possidenti i proletari questi impiegherebbero tutte le loro cure per migliorare i terreni, specialmente con piantagioni, e far
propri tutti i vantaggi che derivano dalla propria industria e dall’impiego dei propri
capitali.”16 Potremmo chiederci quali capitali avrebbero potuto mai impiegare questi proletari? In questo periodo Giustino Fortunato denunciava la trasformazione
dei Monti Frumentari, i tradizionali istituti di credito agrario dell’Italia Meridionale, in Casse di Previdenza, o di Pegni, riforma nella quale individuava la conferma
della loro liquidazione. Fortunato si schierava per la permanenza di questa antica
istituzione di credito in natura, per la sua funzione di assistenza e di controllo sociale a favore delle masse rurali.
Una lettera dell’architetto Achille Rossi, preposto alle operazioni di misurazione del Bosco Montuccio, fa luce sui retroscena della divisone. Il Rossi, segnalò
l’eccessivo pendio dei terreni in questione, cosa ad arte occultata alla commissione
verificatrice, alla quale fu fatta visionare dalla amministrazione comunale una zona
con pendio inferiore ai 10 gradi.17
L’architetto, suggerì alla Prefettura di impedire il dissodamento, e non mancò di cautelarsi, precisando di aver provveduto ad avvisare il consiglio comunale sui
possibili danni derivanti dal dissodamento di terreni così in pendio, ma “quell’Amministrazione non volle ascoltare”.
La divisione del Montuccio si trasformò in strumento di condizionamento
elettorale, da impiegare per ottenere quanto prima l’autorizzazione per la pubblicazione del bando. Nell’ottobre 1874, il consiglio comunale, scrive alla Prefettura:
“Non ometto di manifestarle che ulteriori remore, e precisamente nella contingenza delle prossime elezioni generali, potrebber esser causa di avversare la candidatura del deputato uscente Guevara, che da questa Amministrazione con energia verrà
sostenuta.”18
Alla pubblicazione del bando, giunsero 705 offerte per le 288 quote disponibili, si passò quindi alla preparazione dell’elenco degli ammessi al sorteggio. Le
discussioni per la riduzione delle offerte avvennero in pubblica seduta, per disposizione dell’agente Albani. Tre mesi dopo fu pubblicata una prima graduatoria, ma la
15
A.S.AV.,
Atti demaniali, bs.5, f.30, Lettera del Prefetto di Avellino al Sindaco di Accadia, 14 gennaio 1874.
Ibid.
17
A.S.AV., Atti demaniali, b.5, f.30.
18
A.S.AV., Atti demaniali, bs.4, fasc.29. I Guevara, Duchi di Bovino, presero parte alla vita politica del Regno
d’Italia. Vedi Enciclopedia Biografica e Bibliografica Italiana.
16
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presentazione di 51 ricorsi allungò i tempi di lavoro, fino a formare una doppia
“classe di miseri e dei quasi miseri del paese.”19 L’inizio di una sommossa popolare,
espressione del malcontento delle 417 famiglie escluse dal sorteggio delle 288 quote, costrinse l’Albani a rivolgere alla Prefettura domanda per una nuova
quotizzazione del Bosco Montuccio “per rendere contento questo popolo di
Accadia”. Promotrice di questa seconda divisione fu la famiglia Vassalli, la quale si
offrì per anticipare tutte le spese necessarie per la divisione. Albani, sottolineava il
valore politico di una nuova distribuzione di quote: “ora il miglior ausilio dell’autorità di Governo per affezionare a sé questo popolo di Accadia, il quale porta ancora
il peccato originale della reazione.......ordinando una nuova quotizzazione darebbe
il battesimo liberale ad un popolo immeritatamente ritenuto retrivo.”20 Negli anni
seguenti, ci fu una seconda quotizzazione del Bosco Montuccio, dal distacco di
altri 118 ettari, si ricavarono 297 quote di estensione ridottissima, per far ciò, i terreni che si badi bene, nella prima divisione erano stati esclusi per l’eccessivo pendio,
furono quasi tutti classificati come terreni di prima classe. In questo modo si formarono quote di appena un tomolo di estensione, vanificando così il fine della
quotizzazione, in quanto quote ridottissime, e, in pendio si rivelarono di poca utilità per i coltivatori. In risposta alla circolare prefettizia del 7 agosto 1877 Albani
denuncia una situazione di grave disordine, dovuta alla “tracotanza municipale,
perché è da osservarsi che le compre per lo più si effettuano da componenti i Municipi. (...) Se loro tocca in sorte per via di maneggi ed intrighi una quota, si cerca di
largarla, e con la forza e l’oppressione il quotista viene ridotto in colono, dall’angheria feudale esercitata dai nuovi baronetti liberali.”21 La documentazione successiva presenta un carattere ripetitivo, incentrandosi sulla questione degli abbandoni
veri o apparenti, alienazioni, mancate verifiche.
La crisi agraria di fine ottocento accelerò il disagio, preludio di un epilogo, la
valvola di sfogo dell’emigrazione di fine ottocento, epilogo già annunciato e scritto
nel lontano 1810, quando la cittadinanza di Accadia, rivolgendosi in una supplica al
Consigliere di Stato Paolo Giampaolo sottolineava l’importanza del bosco per il
pascolo brado, allora principale risorsa del territorio:
[…] questa scarsezza di terreno ha fatto rivolgere la cittadinanza quasi tutta
all’industria degli animali vaccini, bovi aratori, per mezzo dei quali scorrendo
in tempo d’inverno al travaglio nella vicina Puglia e nei paesi limitrofi procura
il sostentamento. Nei mesi estivi, la permanenza degli animali in Puglia è pericolosa, e perché terminato il travaglio della coltura, si ritira ognuno nella propria Patria, ed alimentando detti bovi e vacche aratorie colla indetta erba agreste,
ed ecco come assicura la vita civile. Piantandosi oggi questo poco terreno, e
19
A.S.AV.,
Atti demaniali, bs.4, f.29, Relazione Albani.
Ibid.; Albani, fa riferimento alla reazione popolare del 21 ottobre 1860, nella quale rimase vittima il
giovane medico liberale Luigi Labriola. Sulla richiesta,rimasta inevasa, di indennizzo per la madre della vittima, inoltrata dall’agente Trombetti nel 1862; A.S.AV., Atti demaniali, bs.2, f.17.
21
Ibid.
20
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chiudendosi quei da particolari, luoghi pii, ex baroni, di dietro la divisione ed
abolizione del compascolo, restino assoluti padroni e viene a rimanere chiuso
l’intero tenimento ed ecco posto fine alle masserie di campo, finita la pastorizia, terminato il sostentamento della cittadinanza intera, la quale non ritraendo
il vitto nella propria Patria per la restrizione del territorio, che non basta per gli
abitanti, non può retrarlo dai paesi vicini, né da quei di Puglia con l’aiuto dei
propri animali ai quali mancherebbe il sostentamento nei mesi estivi, e ognuno
morirebbe di fame e a sloggiare dove trova da vivere [...].”22
22
A.S.AV., Atti Demaniali, bs.1, f.1. Sui pericoli inerenti la permanenza degli animali in Puglia nel periodo
estivo, vedi tra gli altri, Macario CHECCHIA, Saggio di osservazioni sulla morte violenta degli animali vaccini in
Puglia, Napoli, Tipografia G. Migliaccio,1853. L’Autore tratta di un “tremendo malore”, chiamato “malvento”
che colpiva mortalmente gli animali vaccini, in Capitanata, manifestandosi ogni anno verso la fine di agosto.
Checchia segnalava la mancanza di “buon pascolo, come suole accadere in Puglia per la scarsezza delle acque
ne’ mesi di agosto, settembre ed ottobre, allora gli animali quasi per fame sogliono cibarsi di quelle erbe
nocive, che forse per naturale istinto rifiuterebbero se avessero del buono ed abbondante pascolo.” Galileo
PALLOTA, Discorso della pianura di Puglia, Napoli, Borel e Bompard, 1851. L’Autore sosteneva che il
“malvento”, fosse “un fenomeno totalmente elettrico”. Sul “Tanto calore estivo nella Puglia”, Francesco
LONGANO, Viaggi dell’Abate Longano per lo Regno di Napoli, Capitanata, Napoli, presso Domenico
Sangiacomo, 1790, p. 43 e segg..
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