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Accanto ai racconti di suspence, Poe fu anche maestro di grandi narrazioni del quotidiano, sempre venate da un lineamento grottesco e spaesante. Macchine narrative che servono a far perdere l’equilibrio, a raccontare che il mondo non è mai quello che sembra, le storie di Poe sono avventure psichiche, ponti di corda gettati tra la percezione della realtà e qualcosa che della realtà non si penserebbe mai. Di Edgar Allan Poe (1809-1849) il catalogo BUR include anche Racconti, Il corvo e Tre donne (Berenice, Morella, Ligeia). Proprietà letteraria riservata © 1949, 1980 RCS. Rizzoli Libri S.p.A., Milano © 1999 RCS Libri S.p.A., Milano eISBN 978-88-58-63747-0 Titolo originale dell’opera: TALES OF THE GROTESQUE AND THE ARABESQUE AND OTHER TALES Traduzione di Maria Gallone Prima edizione digitale 2013 da edizione Radici BUR ottobre 2007 In copertina: Foto di © Douglas Ethridge/Trevillion Images Progetto grafico Mucca Design Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE 1809 19 gennaio. Edgar Poe nasce a Boston, figlio di due attori girovaghi. La madre, Elizabeth Arnold Poe è di origine inglese e sembra fosse dotata di un certo talento drammatico. Il padre, un americano di nome David, è un guitto dedito all’alcool. 1810 Abbandonata dal marito, del quale non si avranno più notizie, Elizabeth porta con sé i tre figli a Richmond. 1811 18 dicembre. Elizabeth Poe muore di tisi sotto gli occhi di Edgar bambino. Edgar viene accolto dai coniugi Allan, senza che tuttavia venga intrapresa una normale procedura di adozione. John Allan, commerciante ed esportatore di tabacco, impone al piccolo il nome della nuova famiglia. Si chiamerà d’ora innanzi Edgar Allan Poe. 1815-1820 Soggiorna con la famiglia Allan in Gran Bretagna. Frequenta la «Manor House School» di Stoke Newington, vicino a Londra, e altre scuole. Unico fra gli scrittori americani della sua generazione, Poe usufruì di un’educazione europea negli anni formativi della fanciullezza e della adolescenza. 1820-1825 Ritorna a Richmond dove s’innamora della madre di un compagno di scuola, Jane Stith Stanard. La donna muore pazza nel 1824, Poe ne piangerà la fine nella sua prima grande lirica: To Helen, che apparirà nella raccolta del 1831. In questo periodo comincia a comporre le prime poesie. 1826 Si iscrive alla Università della Virginia dove dimostra, per il breve periodo che vi resta, impegno e talento. La sua passione è tuttavia per il gioco ove accumula debiti su debiti. Allan si rifiuta di aiutarlo e Poe deve abbandonare l’università. Anche la giovane di cui è innamorato, Sarah Elmira Royster, lo lascia per un altro uomo. Avviene la rottura con John Allan per questioni di denaro. 1827 Si arruola nell’esercito degli Stati Uniti sotto il nome di Edgar A. Perry. Esce la prima raccolta di versi: Tamerlane and Other Poems (Tamerlano e altre poesie). 1829 La morte della signora Allan favorisce il temporaneo riavvicinamento fra Poe e John Allan. Pubblica Al Aaraaf, Tamerlane, and Minor Poems. Divenuto sergente maggiore, si dimette per tentare una più rapida carriera a West Point. 1830-1831 Entra nell’Accademia militare di West Point. Si riaprono i contrasti con lo Allan per questioni di denaro. Poe è convinto che, senza l’aiuto finanziario, la carriera militare sia irrealizzabile. Disobbedisce alla consegna, per cui viene estromesso dall’Accademia. Pubblica la prima organica raccolta di Poems (1831). Si stabilisce a Baltimora presso la zia Maria Clemm. 1832-1833 Il «Philadelphia Saturday Courier» pubblica Metzengerstein e altri quattro racconti. Con MS Found in a Bottle (Manoscritto trovato in una bottiglia) vince il premio indetto da un giornale di Baltimora. Sono tuttavia vittorie sporadiche, poiché i racconti allucinanti di Poe non trovano né facile collocazione, né reali consensi. 1834-1837 Sono gli anni cruciali della vita di Poe: John Allan muore nel ’34 diseredando il figliastro. Poe, che si è trasferito di nuovo a Richmond, inizia quella che sarà una lunga, inquieta attività giornalistica come coeditore del «Southern Literary Messenger». Si sposa con la cugina Virginia Clemm appena tredicenne. Dopo appena due anni di esperienza giornalistica a Richmond, si trasferisce a New York con la moglie e Maria Clemm. 1838-1839 Pubblica The Narrative of Arthur Gordon Pym (Le avventure di A.G. Pym) con il quale tenta la fortuna nel popolare filone del romanzo di avventure, dopo gli insuccessi dei racconti brevi e delle poesie. Il romanzo ha una qualche diffusione, specie in Inghilterra, per l’armamentario familiare delle storie di viaggi, ma non si può certo parlare di un successo editoriale. Lavori saltuari presso redazioni di giornali e inutili sforzi di collocare i propri racconti sulla stampa. Tenta la fortuna a Filadelfia, ove si trasferisce con la famiglia che versa in condizioni di grave indigenza. Entra come critico letterario al «Burton’s Gentleman’s Magazine». Pubblica la prima raccolta di racconti con il titolo criptico di Tales of the Grotesque and the Arabesque (Racconti grotteschi e dell’arabesco). È per il «Gentleman’s Magazine», inoltre, che Poe scrive alcuni fra i suoi racconti più suggestivi e gli articoli critici più sferzanti sulla poesia del tempo, specie contro il Longfellow. L’ormai inveterato vizio del bere, al quale seguono periodi di ipocondria, lo alienano con la proprietà del giornale. Come è già accaduto altre volte, deve abbandonare il lavoro. È stato notato il ripetersi di un medesimo ritmo nella vita di Poe giornalista: la sua genialità contribuisce a lanciare fogli di provincia o testate più che mediocri, finché, col successo, ebrezza e umor nero gli fanno perdere il posto. 1840-1845 Lavora appena un anno al «Graham’s Magazine» prima di farsi licenziare. Incontra il reverendo Rufus W. Griswold, personaggio ambiguo e tipico rappresentante della mentalità piccolo borghese contro cui Poe dovrà sempre lottare. Poe nomina, non si sa bene perché, il Griswold suo esecutore testamentario. Tenta a più riprese la strada del giornalismo indipendente. Trasferitosi a New York, trascorre uno dei periodi più infelici della sua vita: Virginia mostra sempre più evidenti i segni della tisi, la miseria è assoluta. Riesce ad impiegarsi come critico e coeditore nel «New York Evening Mirror». Lascia questo giornale per passare al «Broadway Journal» del quale diventerà presto editore unico. Nel frattempo la pubblicazione di The Raven (Il corvo) lo ha reso famoso nel mondo letterario di New York. Questo poemetto è la prima opera del Poe ad essere ammirata da un vasto pubblico. Pubblica una seconda serie di racconti con il titolo di Tales e una raccolta di poesie The Raven and Other Poems (Il corvo e altre poesie). 1846-1848 Il «Broadway Journal», di cui Poe è divenuto proprietario, è costretto a dichiarare fallimento. Poe, la sua «sposa bambina» ormai morente e Maria Clemm vanno ad abitare in un cottage a Fordham, all’estrema periferia di New York. Pubblica il saggio Philosophy of Composition (Filosofia della composizione) in cui teorizza i principi che sovrintendono alla sua concezione di «racconto»: «Se un’opera letteraria è troppo lunga per essere letta in una sola seduta, dobbiamo rassegnarci a fare a meno dell’effetto immensamente importante che deriva dall’unità di impressione. Se infatti si richiedono due sedute, intervengono gli affari del mondo, e ogni caratteristica di totalità viene subito distrutta». Nel gennaio del 1847 muore Virginia. Pubblica il poemetto cosmogonico Eureka, che vorrebbe essere una sorta di spiegazione filosofica dell’universo. Progetta di dar vita ad una nuova rivista. Soffre dei primi attacchi di delirium tremens che tuttavia non gli ottundono la lucidità vivissima che ancora si esercita, per la cronica mancanza di denaro, in interminabili cicli di conferenze che da New York lo portano a Richmond, Providence, Lowell e in altre città. Fra queste lectures rimane basilare The Poetic Principle (Il principio della poesia) che, insieme al precedente saggio sulla narrativa, costituisce uno dei cardini della nuova estetica postromantica e simbolista. Non meno intenso, e tortuoso, è in questo periodo il mondo affettivo di Poe. Corteggia molte donne, quasi tutte appartenenti al mondo letterario, fra cui Annie L. Richmond (la Annie della omonima poesia) e la poetessa Sarah Helen Whitman (alla quale dedicherà la seconda poesia intitolata appunto To Helen ). Con Helen sembra arrivare ad un passo dal matrimonio che tuttavia fallisce. 1849 Continua le sue peregrinazioni: da Lowell, a Richmond, a Filadelfia, a Norfolk, a Baltimora. Compone alcune delle poesie più note come Annabel Lee e The Bells (Le campane). A Richmond, in occasione di una conferenza, incontra la fiamma della prima giovinezza, Sarah Elmira Royster, che è rimasta vedova. Si fidanza con lei. Il 3 ottobre 1849 viene rinvenuto inanimato, privo di denaro e di documenti, in un caffè di Baltimora. Ricoverato al Washington College Hospital, vi muore il 7 ottobre. BIBLIOGRAFIA I OPERE DI POE The Narrative of Arthur Gordon Pym, 1838. Tamerlane and Other Poems, 1827. Al Aaraaf, Tamerlane and Minor Poems, 1829. Poems, 1831. The Conchologist’s First Book, 1839. Tales of the Grotesque and the Arabesque, 1839. The Murders in the Rue Morgue, and The Man That Was Used Up, 1843. The Rational Verse, 1843. The Raven and Other Poems, 1845. Tales, 1845. The Philosophy of Composition, 1845. Eureka: A Prose Poem, 1848. The Poetic Principle, 1848-1849. The Literati, 1850 (post.). Politian: An Unfinished Tragedy, 1923 (post.). II OPERE COMPLETE The Complete Works of E.A.P., a cura di Charles F. Richardson, 10 voll., New York 1902, che rimane l’edizione più attendibile. Ma si vedano anche The Collected Works, Cambridge Mass. 1969 segg., a cura di T.O. Mabbott e B.R. Pollin. III I RACCONTI Raccolte e scelte dei Racconti sono reperibili presso i maggiori editori inglesi e americani, nonché in tutte le edizioni tascabili. IV STUDI CRITICI SU POE Otto Rank, The Double: A Psychoanalitic Study, 1925 [n. ed. Berkeley 1971]; Marie Bonaparte, E.A.P.: Etude Psychanalitique, Paris 1933 [trad. it. Roma 1976]; T.S. Eliot, From Poe to Valéry, 1948 [ora in To Criticize the Critic, London 1965]; Allen Tate, The Forlorn Demon, Chicago 1953; Allen Tate, Saggi, Roma 1957; Maurice Bowra, The Romantic Imagination, London 1961; N.B. Fargin, The Histrionic Mr. Poe, Baltimore 1966; Leslie A. Fielder, Love and Death in the American Novel, New York 1967 [trad. it.: Amore e morte nel romanzo americano, Milano 1970]; E. Wilson, Saggi letterari, 1920-1950, Milano 1967; Th. Woodson, a cura di, Twentieth-Century Interpretations of «The Fall of the House of Usher», Englewood Cliffs 1969; Burton R. Pollin, Discoveries in Poe, Notre Dame & London 1970; L. William Howarth, a cura di, Twentieth Century Interpretations of P.’s Tales, Princeton, New Jersey, 1971; R. Regan, a cura di, Poe, Englewood Cliffs 1967; T. Todorov, La letteratura fantastica, Milano 1975; H. Beaver, a cura di, The Science Fiction of E.A.P., Harmondsworth 1976; Claude Richard, a cura di, E.A.P., Paris 1974; Roger Forclaz, Le monde d’E.P., Berne 1974; Claudio Gorlier, Il romanzo e la scienza, in «Ulisse», X, 24-25 (1957), p. 1020 segg.; Ada Giaccari, Poe nella critica italiana, in «Studi Americani», 5 (1959), p. 91 segg.; Sergio Rossi, E.A.P. e la Scapigliatura lombarda, ivi, p. 119 segg.; Marisa Bulgheroni, Poe e il demone americano, in «Studi Americani», 9 (1963), p. 69 segg.; Marcello Pagnini, a cura di, Il Simbolismo nella letteratura americana, Firenze 1965 (specie Rosati, La teoria dell’unità di effetto in P. ); Marisa Bulgheroni, Il demone del luogo, Milano-Varese 1968 (si veda in particolare P. e il demone della perversità e P. e l’angelo del bizzarro ); Ruggero Bianchi, a cura di, E.A.P.; Dal gotico alla fantascienza, Milano 1978, con contributi di studiosi di varie discipline. Fra i contributi italiani si veda anche G. Fink in I testimoni dell’immaginario, Roma 1978; C. Giorcelli in E. Zolla, a cura di, L’esotismo nella letteratura angloamericana, II, ivi 1979; L. Marchetti, Edgar Allan Poe: la scrittura eterogenea, Ravenna 1988; G. Balestra, Geometrie visionarie. Composizione e decomposizione in E.A. Poe, Milano 1990. I due saggi che hanno esercitato un’influenza decisiva sulla critica degli ultimi anni sono il Seminario su «La lettera rubata» (1955) di J. Lacan, in Scritti (1966), a cura di G. Contri, Torino 1974, e Il fattore della verità (1975) di J. Derrida, Milano 1978. Di queste prospettive tengono conto gli studi più recenti: S. Levine, Edgar Poe: Seer and Craftsman, Deland, Flo., 1972; D. Halliburton, Edgar Allan Poe: a Phenomenological View, Princeton, N.J., 1973; D. Ketterer, The Rationale of Deception in Poe, Baton Rouge, La., 1979; J.G. Kennedy, Poe, Death, and the Life of Writing, New Haven, Conn., 1987; J. Dayan, Fables of the Mind, Oxford 1987; M.J.S. Williams, A World of Words: Language and Displacement in the Fiction of Edgar Allan Poe, Durham, N.C., 1988. Oltre a questi, si possono ricordare i seguenti studi: C. La Cassagnère, Visages de l’angoisse, Clermont-Ferrand 1989; J. Auerbach, The Romance of Failure: First Person Fiction in Poe, Hawthorne, and James, New York 1989; B.F. Fischer, a cura di, Poe and His Times, voll. 4, Baltimora 1990; N. Nankov, E.A. Poe as an American Romantic, Des Moines 1990; R. Smith, Poe in the Media, New York 1990; D.R. Anderson, The Cunning Craft. Original Essays on Detective Fiction, Macomb 1990; G. Clarke, a cura di, E.A. Poe: Critical Assessments, voll. 4, East Sussex 1991; K. Silverman, E.A. Poe: Mornful and Never-Ending Remembrance, New York 1991; K. Silverman, New Essays on Poe’s Major Tales, Cambridge Mass. 1993; D.E. Peterson, Nabokov and Poe, in The Garland Companion to V. Nabokov, New York 1995; E.W. Carlson, a cura di, A Companion to Poe Studies, Westport, Conn. 1996; D.A. Forster, Sublime Enjoyment: On The Perverse Motive in American Literature, Cambridge Mass. 1997; K.J. Hayes, Poe and the Printed Word, Cambridge 2000; F. Piselli, Interpretazioni di Mallarmé e Poe, Napoli 2000. PREMESSA AL TESTO GROTTESCHE, ARABESCHI E ALTRI REBUS Parlando o scrivendo dei propri racconti, Poe ricorre, come si sa, a varie definizioni: «scritti di fantasia», «romanzi in prosa» (ove la parola romances sta per componimenti in versi di origine romanza), «racconti del raziocinio» e così via. Alcune di queste definizioni estemporanee sarebbero servite, postume, come titoli di altrettante raccolte parziali e come tacito alibi per una difficile distinzione dei racconti in «racconti del terrore», «dell’incubo» ed altri ancora. Sarà bene ricordare che Poe pubblicò due raccolte di racconti che erano già apparsi nei giornali dell’epoca: l’una nel 1839 con il titolo enigmatico di Tales of the Grotesque and the Arabesque (Racconti grotteschi — o del grottesco — e dell’arabesco); l’altra nel 1845 con quello anodino di Tales (Racconti). Nella prefazione alla prima raccolta, Poe fa riferimento alla due parole del titolo, senza tuttavia chiarirle: «Le parole grottesco e arabesco stanno ad indicare con sufficiente precisione il tenore prevalente di questi racconti [...]. Sono indotto per altro a credere che la prevalenza dell’arabesco nei miei racconti seri abbia fatto sì che alcuni critici mi accusassero con ostilità di germanismo" e di tetraggine». Ma quale è il significato delle due parole traslate dalle arti figurative, e quale il valore attribuito loro da Poe? Diciamo subito che la scelta dei due termini che costituiscono lo slogan del titolo rientra in una più vasta strategia linguistica propria di Poe. Come era già apparso chiaro a Baudelaire, Poe usa di preferenza un lessico astratto, volto a condizionare la reazione del lettore. Così la sua scrittura abbonda di superlativi e la retorica del discorso si avvale, per esempio, della ripetizione ossessiva e dell’esagerazione di dettagli. A questa tecnica narrativa appartiene l’uso di gallicismi sul tipo di outré, recherché, bizarre, e anche l’inscrizione di motti ed eserghi strani, nei quali traspare il sottofondo istrionico dello scrittore. Le due parole del titolo rimandano tuttavia anche ad altro. Innanzi tutto Poe deriva i due termini da un testo che gli era particolarmente congeniale: On the Supernatural in Fictitious Composition (Del soprannaturale nelle composizioni narrative) di Sir Walter Scott, un saggio sui racconti di Hoffmann pubblicato nel 1827. Secondo Scott, grottesco e arabesco sarebbero dei sinonimi, affini a loro volta al termine più diffuso di gotico, avente una specifica valenza letteraria. Egli dice infatti di Hoffmann, che è «l’inventore del fantastico o del grottesco soprannaturale» e che «il grottesco delle sue composizioni assomiglia all’arabesco della pittura, il quale introduce mostri strani e complicati e tutte le altre creature dell’immaginazione romantica». Quanto a grottesco, l’uso di Poe è affine alla interpretazione datane dallo Scott. La spiegazione che di questa parola dà W. Kayser nel classico studio Das Grotesque (Il grottesco) potrebbe essere assunta come una sintesi della critica che è stata condotta sui racconti di Poe: «Il grottesco [...] è un caratteristico stile ornamentale che deriva dall’antichità. Esso non è solo giocosa gaiezza o sbrigliata fantasia, bensì qualcosa di sinistro e di minaccioso. Esso ci introduce in un mondo totalmente differente dal nostro, un mondo in cui il regno delle cose inanimate non è più separato da quello vegetale, da quello animale ed umano, e nel quale le leggi della statica, della simmetria e della proporzione non hanno alcun valore. Le grottesche ornamentali, con la dissoluzione della realtà e la partecipazione ad un altro genere di esistenza, danno corpo ad un’esperienza sulla quale l’umanità non ha mai smesso di meditare». Un’ampia fascia della critica a Poe è, per così dire, riassunta in questa breve illustrazione del grottesco: dall’intrico voluttuoso e perverso fra le varie specie della natura di cui parla D.H. Lawrence; all’angoscia dello spazio chiuso, terribilmente asfittico, di tutte le sue ambientazioni che è contenuta nell’etimo stesso della parola inglese grotto (cioè una grotta ricreata artificialmente); all’erotismo vampiristico ipotizzato da A. Tate; alla «coscienza condannata a vivere la nauseabonda liquefazione di quella che era stata la sua esistenza» di cui teorizza G. Poulet. Si direbbe che il termine grottesco sia stato impiegato da Poe come una sorta di etichettatura estremamente precisa della sua arte narrativa: grottesco nel senso dunque di trascendente l’umano, seppure in senso basso, orrido, demoniaco, informe, metamorfico, come violazione della soglia proibita e, in riferimento allo stile, nel senso di comico, burlesco, satirico. Si ritiene inoltre che, sulla scia dello Scott, Poe considerasse l’altro termine, arabesco, con il suo esplicito riferimento all’arte araba e quindi ad un tipo di rappresentazione figurativa geometrica, non antropomorfa, come un sinonimo di grottesco. Ma a guardar bene i due termini vengono assunti da Poe non solo perché alludono entrambi ad una rappresentazione di ciò che è al di là dell’umano, bensì anche per il loro carattere oppositivo e complementare. Infatti l’arabesco si configura come l’altra faccia del grottesco, la astrazione mentale, il disegno del puro raziocinio, il giuoco sottile dell’ironia. Non a caso arabesco era stato usato in senso letterario da F. Schlegel parlando dell’ironia di Don Chisciotte. Grottesco e arabesco costituiscono due degli estremi, sul tipo dell’opposizione di ridicolo a sublime, di sensismo a idealismo, fra i quali corre la tensione del racconto. Essi, in ultima analisi, sono collegati non solo con la particolare visione del mondo trasmessa da Poe, ma anche con la forte aggressività del suo humor (più o meno nero), come un tipo di sublimazione romantica del rapporto impossibile con la realtà. Grottesco e arabesco fendono, per così dire, il singolo racconto restituendo l’immagine stravolta di un reale informe, isolato dal gioco sottile dell’intelligenza. Al di là della valenza artistico-letteraria, i due termini adombrano la separazione inconciliabile fra anima e corpo, ragione e materia in cui si fonda il carattere drammatico dei suoi racconti. Mentre la loro lucida argomentazione e la brevità ipnotica li proiettano nel futuro come antesignani del «giallo», del racconto del «terrore o di altri generi della letteratura fantastica, in senso storico quella separazione rimane uno dei momenti più intensi del dramma romantico. All’utopia negativa dei suoi contemporanei britannici, Poe sostituisce il mito dell’autonomia dell’arte come fuga dalla realtà storica, pur con il pericolo suggestivo di vedersela risorgere innanzi nelle forme degradate e grottesche dei suoi racconti. ATTILIO BRILLI DOCUMENTI E GIUDIZI CRITICI «Delle opere di questo genio singolare, ho poco da dire; il pubblico manifesterà il proprio pensiero. Sarebbe per me difficile, forse, ma non impossibile, spiegare il suo metodo, il suo modo di procedere, specialmente in quelle pagine che basano il loro effetto su un’analisi minuziosamente condotta. Potrei iniziare il lettore ai misteri della loro creazione, dilungarmi su quella particolare inclinazione del genio americano che lo fa godere di una difficoltà superata, di un enigma risolto, di un tour de force riuscito; che lo spinge a divertirsi con gioia infantile e quasi perversa nel mondo delle probabilità, delle congetture, e a inventar frottole dando loro un’apparenza verosimile con la sua arte raffinata. Nessuno potrà negare che Poe è un meraviglioso ciarlatano, ma so che il suo cuore era con un’altra parte delle sue opere. Devo ora fare qualche precisazione più importante, del resto assai brevemente. Anche la foga con la quale si butta nel grottesco per amore del grottesco e nell’orrore per amore dell’orrore, mi conferma la genuinità della sua opera e il completo accordo tra l’uomo e il poeta. Ho rimarcato che tale foga, in molti uomini, è effetto di una grande energia vitale inoperosa, talvolta di una castità dubbia, e di una profonda sensibilità soffocata. Il piacere soprannaturale che l’uomo prova alla vista del proprio sangue, gli scatti improvvisi, violenti, inutili, l’urlo scagliato senza che la mente abbia guidato la gola, sono fenomeni da classificare nella stessa categoria.» (Charles Baudelaire, Notes sur la vie et l’oeuvre d’Edgar Poe, 1856, trad. italiana in E.A. Poe, Racconti, Feltrinelli, Milano 1976) «Il racconto che segue, Eleonora, è una fantasia sui diletti di un uomo con la giovane, tenera moglie. Abitavano, egli, la cugina, e la madre di essa nella romita valle dell’Erba Multicolore, la Valle delle Sensazioni Prismatiche, dove tutte le cose appaiono spettro-colorate. E mai essi si stancavano di mirare le proprie immagini riflesse nel Fiume del Silenzio e di far uscire Eros dalle onde, fuori della propria auto-coscienza. È la descrizione di una vita d’introspezione e d’amore, di un amore figlio di se stesso. Gli alberi, simili a serpenti adoratori del sole, rappresentano la passione fallica nella sua morbosa forma mentale. Tutto si riduce a coscienza, a serpenti adoratori del sole; e l’amplesso stesso, che dovrebbe apportare tenebre e oblio, non fa che recare una più esaltata, solare coscienza. Gran brutta cosa fare l’amore di giorno, quando tutto si riduce a sessuale chiacchiericcio. In Berenice è narrata la storia di un uomo, che sceso al sepolcro della sua amata, le strappa tutti i piccoli, bianchi denti e se li porta via chiusi in una scatoletta. È rivoltante, ma affascina. I denti son fatti per mordere e per combattere, e stanno spesso a simboleggiare piccoli strumenti di distruzione e di oppressione, l’opposizione e la lotta. Da cui, nel mito, i denti del drago, e l’uomo d i Berenice, che vuole a ogni costo impossessarsi di quell’irriducibile parte della sua amante. "Toutes ses dents étaient des idées", egli dice a un certo punto. Piccole idee fisse di "odio", di cui egli finisce per impossessarsi.» (D.H. Lawrence, Edgar Allan Poe, 1923, in Saggi Americani, Bompiani, Milano 1969, pp. 86-87) «Ebbene, la vita di Edgar Poe fu simile a quella degli eroi di questi racconti (Ligeia, Morella, Eleonora). Rimasto fissato alla madre morente e morta nella sua infanzia, invano si sforzava di fuggire da lei: per quanto tirasse la catena, non riusciva a spezzarla. Virginia, la donna a cui rimase più durevolmente attaccato, divenne il grande amore della sua vita solo perché tossiva e sputava sangue come un tempo Elizabeth. Ma quando essa cominciava ad assomigliare troppo all’estinta, il suo sposo, spaventato dall’eccessiva somiglianza, era afferrato dal terrore. Terrore della troppo grande tentazione dell’infanzia, terrore generale dell’incesto e terrore più particolare — a nostro parere — della realizzazione sado-necrofila a cui era portato dal suo istinto. Era allora che lo sposo di Virginia scappava, andava a bere alla taverna in compagnia di soli uomini, che lo aiutavano a fuggire la sua eterosessualità terrificante. E fu allora, quando cioè Virginia, avvicinandosi alla fine, divenne sempre più tremendamente attraente per lui, che si infiammò d’amore con subitanea violenza, come per liberarsi, per Frances Osgood, la prima delle grandi passioni degli ultimi anni della sua vita.» (Marie Bonaparte, Il perenne lutto di Edgar Poe, 1931, in Psicoanalisi e critica lettera ria, Editori Riuniti, Roma 1975, pp. 134-140) «Non è un caso che nel suo racconto Il crollo della casa degli Usher Poe insista sull’atmosfera. Descrive un ambiente non in maniera realistica, come faceva Balzac, ma atmosferica. Non ci vengono descritte le gonne di lady Madeline, non ci vengono offerti particolari su particolari che hanno il compito di materializzare l’atmosfera pesante, oppressiva, piccolo-borghese della Pensione Vauquer, ma solo dettagli connessi al tema centrale: i capelli sottili come fili di ragno di Roderick, l’improvviso rossore sulle guance della catalettica Madeline, l’arco, la volta, ecc. È come se l’autore, all’unisono con il suo Roderick, avesse elaborato il racconto secondo il disegno astratto dettato dall’acutezza dei sensi. Nel modellare l’ambientazione del racconto, ha proceduto in via deduttiva, partendo dal concetto base del terrore al limite della follia per renderlo quindi sensorialmente palpabile, nella misura in cui i sensi vengono stimolati da cotesta follia. Siamo autorizzati a pensare che Poe indulgesse nella descrizione del terrore maniacale, proprio perché tale tema gli offriva la possibilità di procedere per via intellettuale, fuggendo la vita reale e sovrapponendole un’altra realtà, quella della follia. La sua tipica descrizione ambientale, condotta ai limiti dell’irreale, è un aspetto straordinario del realismo romantico di Poe. In Balzac l’irrealtà dei sensi scaturisce da un realismo materiale; egli infatti rende visibile la terra ferma su cui poggia la piramide dei suoi romanzi. Poe lascia trasparire solo il vertice di una piramide immersa nell’atmosfera rarefatta del puro raziocinio.» (Leo Spitzer, A Reinterpretation of «The Fall of the House of Usher», in Essays on English and America Literature, Princeton University Press, 1962, pp. 51-66) «Anche se non posso approfondire il mistero come vorrei, posso almeno porre una domanda: perché Poe non ha mai fatto esplicito ricorso alla leggenda universale del vampiro? Forse se ne ritrasse per motivi estetici [...], ma in ogni caso ha ragione D.H. Lawrence quando dice che lui descrive le sue donne come caratteri che hanno del vampiro. La misteriosa eccitazione spirituale, che costituisce l’unico tratto caratterizzante di eroi ed eroine, non è affatto avulsa dal corpo. Essa abita il corpo umano anche se quel corpo è morto. Gli spiriti si depredano a vicenda con un fuoco vorace che è purgato dal desiderio ed è infernale ad un tempo. Gli eroi di Poe tendono ad una condizione archetipica che è la sopravvivenza dell’anima in un corpo morto, un tema che diviene esplicito nelle Vicende relative al caso Valdemar. Il fuoco è un simbolo doppio: esso illumina e brucia. È senza dubbio la luce della ragione, ma in azione diventa il fuoco divoratore dell’intelletto astratto, privo di spessore morale, che prende possesso dell’amata. È il fuoco che, dopo aver illuminato, distrugge.» (Allen Tate, Our Cousin, Mr. Poe, 1949, in Poe, Prentice Hall, Englewood Cliffs 1967, pp. 38-50) «In questa storia [Il crollo della casa degli Usher] lo strano ha due origini diverse. La prima è costituita da certe coincidenze (non ve ne sono meno che in una storia di soprannaturale spiegato). Così, mentre potrebbero apparire soprannaturali la resurrezione della sorella e il crollo della casa dopo la morte dei suoi abitanti, Poe non ha rinunciato a spiegare razionalmente l’una e l’altra. Della casa scrive: "Forse l’occhio di un osservatore minuzioso avrebbe scoperto una fessura, appena visibile, che partendo dal tetto della facciata, correva a zig zag attraverso il muro e andava a perdersi nelle lugubri acque dello stagno". E della malattia di lady Madeline: "Delle crisi frequenti, benché passeggere, di una sorta quasi di catalessi, ne costituivano le caratteristiche più strane". La spiegazione soprannaturale è quindi soltanto suggerita e non è necessario accettarla [...]. È noto anche che Poe è all’origine del romanzo giallo contemporaneo. L’accostamento non è casuale, e d’altra parte si scrive spesso che le storie poliziesche hanno preso il posto delle storie di fantasmi. Precisiamo la natura di tale relazione. Il romanzo giallo a enigma, dove si cerca di scoprire l’identità del colpevole, è costruito nel modo seguente: da un lato vi sono diverse soluzioni facili, a prima vista allettanti, ma che si rivelano fallaci l’una dopo l’altra; dall’altro, vi è una soluzione del tutto inverosimile, alla quale non si giungerà che alla fine, e che si rivelerà come la sola vera. Appare già chiaro ciò che apparenta il romanzo giallo con il racconto fantastico. Ricordiamo la definizione di Soloviov e di James: anche il racconto fantastico comporta due soluzioni, una verosimile e soprannaturale, l’altra inverosimile e razionale.» (Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica, Garzanti, Milano 1970, pp. 49-50) I DELITTI DELLA VIA MORGUE "Quale canzone cantassero le Sirene, o qual nome abbia assunto Achille quando si nascose nel gineceo, per quanto ci lascino perplessi, non sono quesiti al di sopra di qualsiasi possibile congettura". SIR THOMAS BROWNE, Hydriotaphia 1 LE FACOLTÀ MENTALI definite "analitiche" sono di per sé scarsamente suscettibili di analisi: le valutiamo unicamente per via dei loro effetti. Sappiamo, tra l’altro, che esse offrono, a chi le possiede in misura eccezionale, una fonte continua di godimento vivissimo. Così come l’uomo forte esulta delle proprie doti fisiche e si appassiona a tutti gli esercizi che chiamino in azione i suoi muscoli, altrettanto l’analista si inorgoglisce di quell’attività morale che districa. Egli trae piacere da qualsiasi occupazione, anche la più insignificante, che possa mettere in gioco le sue qualità: gli piacciono gli enigmi, gli indovinelli, i geroglifici, mostrando nelle soluzioni di ognuno di essi un grado di acumen che appare sovrannaturale all’uomo di intelligenza comune. E i risultati, prodotti dallo spirito e dall’essenza stessa del metodo, hanno in verità tutto l’aspetto dell’intuizione. La facoltà di risoluzione è a volte assai rafforzata dallo studio della matematica, e soprattutto dalla massima branca di questa scienza che è stata chiamata erroneamente, e solo a causa delle sue operazioni all’inverso, par excellence , "analisi". Tuttavia, calcolare non significa di per sé analizzare. Un giocatore di scacchi, per esempio, calcola senza sforzarsi di analizzare; ne consegue che il gioco degli scacchi, nei suoi effetti sul carattere mentale, è grandemente sopravvalutato. Non sto scrivendo un trattato, ma faccio semplicemente precedere un racconto piuttosto insolito da osservazioni più o meno a casaccio: coglierò pertanto l’occasione per affermare che le massime facoltà dell’intelletto riflessivo sono più decisamente e più utilmente messe a prova dal modesto gioco della dama, che non da tutta la complicata frivolezza degli scacchi. In quest’ultimo gioco, in cui i pezzi hanno movimenti differenti e bizarres , con valori vari e variabili, ciò che è soltanto complesso viene scambiato (errore non inconsueto) per profondo. L’attenzione entra, sì, fortemente in gioco: se questa vacilla per un attimo, ecco che una svista viene commessa, con conseguente danno e sconfitta; e poiché le mosse possibili non sono soltanto molteplici ma anche involute. le occasioni di sviste sono moltiplicate, e in nove casi su dieci chi vince non è tanto il giocatore più acuto quanto quello che meglio è capace di concentrarsi. Nella dama, al contrario, dove le mosse sono uniques , e subiscono solo pochissime variazioni, le 2 3 4 5 probabilità di commettere inavvertenze sono diminuite, e, dal momento che l’attenzione pura e semplice rimane relativamente inattiva, tutti i vantaggi ottenuti, sia da una parte che dall’altra, lo sono grazie a un acumen superiore. Per esprimermi in forma meno astratta, supponiamo un gioco di dama in cui i pezzi siano ridotti a solo quattro dame, e nel quale, naturalmente, non ci si debba aspettare nessuna svista: è evidente che in questo caso la vittoria può essere decisa (i giocatori essendo di forza in tutto e per tutto uguale) soltanto da qualche mossa recherchée , dal risultato cioè di un grande sforzo dell’intelletto. Privato degli stratagemmi normali, l’analista si lancia entro lo spirito del suo avversario, si identifica con esso, e non è infrequente che egli veda così, in una sola occhiata, l’unico sistema (a volte tanto semplice da sembrare assurdo) grazie al quale gli è possibile indurlo in errore o affrettare un suo calcolo sbagliato. Da molto tempo è stata fatta rilevare l’influenza del whist su ciò che vien definita capacità di calcolo, ed è noto che uomini appartenenti alle più alte sfere dell’intelletto vi si sono appassionati in maniera apparentemente inesplicabile, disdegnando invece gli scacchi come un gioco frivolo; e senza dubbio non vi è nulla del genere che metta a maggior prova la facoltà di analisi. Il migliore scacchista della cristianità resterà più o meno il miglior giocatore di scacchi; ma essere bravi al whist implica capacità di successo in tutte quelle imprese tanto più importanti in cui il cervello deve affrontare il cervello. Quando dico "essere bravi", intendo alludere a quella perfezione nel gioco che racchiude in sé la comprensione di tutte le fonti da cui può derivare un vantaggio legittimo, le quali fonti non sono solamente molteplici, ma anche multiformi, e si trovano sovente entro recessi di pensiero assolutamente inaccessibili all’intelligenza comune. Osservare attentamente significa ricordare distintamente; e, sin qui, lo scacchista che sa concentrarsi riuscirà benissimo al whist, poiché le regole di Hoyle (che a loro volta si basano sul semplice meccanismo del gioco) sono in generale sufficientemente comprensibili. Pertanto, avere una memoria tenace e procedere "secondo il libro" sono i punti che si considerano di solito come tutto quanto occorra per ben giocare. Ma la perizia dell’analista vien posta in evidenza da sottigliezze che oltrepassano i limiti della regola pura e semplice. Egli fa in silenzio una quantità di osservazioni e di illazioni, e altrettanto forse fanno i suoi compagni; ma la differenza nella portata dei dati raccolti non consiste tanto nell’esattezza dell’illazione quanto nella qualità dell’osservazione. Ciò che è necessario conoscere è: che cosa occorre osservare? Il nostro giocatore non si pone limiti, né respinge deduzioni provenienti da fattori esterni al gioco, per il fatto che il gioco stesso è l’oggetto; egli studia l’aspetto del suo compagno, paragonandolo attentamente a quello di ciascuno dei suoi avversari; osserva la maniera con cui le carte vengono da ciascuno disposte in mano, contando spesso un atout dopo l’altro, un onore dopo l’altro, grazie alle occhiate datevi di volta in volta da coloro che li detengono; nota ogni sfumatura di fisionomia, a misura che il gioco progredisce, accumulando una riserva di pensieri dalle mutazioni d’espressione in certezza, sorpresa, trionfo, contrarietà; dal modo con cui viene raccolta una presa giudica se chi la riceve può combinarne un’altra in quel colore; riconosce la carta che viene giocata per finta dalla maniera con cui è buttata sul 6 7 8 tavolo; una parola casuale e pronunciata inavvertitamente, la caduta accidentale e il rovesciarsi di una carta, l’ansietà o la noncuranza che l’accompagnano a seconda che interessi tenerla celata o meno, il conto delle prese e l’ordine della loro successione, imbarazzo, esitazione, impazienza, trepidazione, tutto insomma fornisce indizi del vero stato delle cose alla sua percezione apparentemente intuitiva. Terminati i primi due o tre giri egli è a piena conoscenza di ciò che ciascun giocatore detiene, e pertanto può buttar giù le carte con la stessa assoluta cognizione di causa che se il resto della compagnia giocasse a carte scoperte. Il potere di analisi non deve essere confuso con l’ingegnosità pura e semplice: poiché mentre l’analista è necessariamente ingegnoso, l’uomo ingegnoso è spesso notevolmente sprovvisto di facoltà analitiche. La capacità costruttiva, o combinatrice, attraverso cui l’ingegnosità si manifesta solitamente, e alla quale i frenologi (a torto, io credo) hanno assegnato un organo apposito, ritenendola una facoltà primordiale, è stata tante volte riscontrata in individui il cui cervello confinava per il resto con l’idiozia, da attrarre l’attenzione generale degli scrittori di psicologia. Tra l’ingegnosità e la facoltà analitica esiste una differenza assai maggiore, invero, che non tra la fantasia e l’immaginazione, benché di un carattere strettamente analogo: si noterà, infatti, che gli ingegnosi sono sempre fantasiosi, ma che i veramente immaginativi non sono mai altro che analisti. Il racconto che segue apparirà al lettore in un certo senso come una conferma delle asserzioni sopra enunciate. Trovandomi ad abitare Parigi durante la primavera e parte dell’estate del 18.., mi capitò di farvi la conoscenza di un certo Monsieur C. Auguste Dupin. Questo giovane signore discendeva da una famiglia ottima, anzi illustre, ma per un susseguirsi di vicende sfortunate era stato ridotto in un tale stato di povertà che l’energia del suo carattere si era piegata sotto i colpi della sorte, ed egli aveva cessato sia di interessarsi alle cose della società, sia di tentare il ricupero delle proprie ricchezze. Grazie alla bontà dei suoi creditori gli restava ancora un piccolo avanzo del suo patrimonio, e dal reddito che gliene proveniva egli si destreggiava mediante una rigorosa economia a procacciarsi il necessario per vivere senza curarsi di possedere il superfluo. A dire il vero, i libri costituivano il suo unico lusso, e di libri a Parigi vi è abbondanza. Il nostro primo incontro ebbe luogo in un’oscura bottega di libraio della via Montmartre, dove il caso che entrambi fossimo alla ricerca dello stesso volume raro e pregevole, ci legò subito di reciproca simpatia, e così ci rivedemmo parecchie volte. Io mi interessavo moltissimo alla sua breve storia familiare, di cui egli mi forniva tutti i più minuti particolari con quel candore proprio di ogni francese, quando la sua persona è l’argomento principale del discorso. Mi stupiva inoltre l’enorme vastità delle sue letture, e mi sentivo soprattutto vivificare lo spirito dall’appassionato fervore e dalla vivida freschezza della sua immaginazione. Cercando quel che allora cercavo a Parigi, capivo che la compagnia di un uomo simile sarebbe stata per me un tesoro inestimabile, e schiettamente gli confidai questa mia sensazione. Alla fine decidemmo che avremmo vissuto assieme, durante il mio soggiorno parigino, e, poiché le mie condizioni di fortuna erano alquanto migliori delle sue, fui in grado di affrontare la spesa di affittare e ammobiliare, con uno stile che si adattava alla malinconia piuttosto stravagante delle nostre due indoli, una dimora grottesca, rosa dal tempo, da anni disabitata per certe superstizioni sulle quali non ci curammo di indagare e quasi cadente in rovina, in un tratto appartato e deserto del Faubourg Saint-Germain. Se le abitudini della nostra vita quotidiana in quella casa fossero state note alla gente, certo ci avrebbero giudicati due pazzi, benché, probabilmente due pazzi di natura inoffensiva. La nostra clausura era assoluta:non ammettevamo visitatori. Infatti, avevamo tenuta gelosamente segreta ai miei ex soci la località del nostro ritiro, ed erano oramai molti anni che Dupin aveva cessato di conoscere e di essere conosciuto a Parigi. Esistevamo entro noi stessi soltanto. Era un capriccio della fantasia del mio amico (come diversamente lo potrei chiamare?) essere innamorato della notte per amor della notte, e a questa sua bizzarrerie , come a ogni altro ghiribizzo suo, io finii per indulgere senza reagire, lasciandomi andare completamente, con assoluto abandon , ai suoi estrosi arzigogoli. La bruna divinità non poteva abitare con noi ininterrottamente, ma noi solevamo imitarne la presenza: alle prime luci del mattino chiudevamo tutte le massicce imposte del nostro antico edificio e accendevamo due ceri dall’acuto profumo, che emanavano un chiarore debolissimo, spettrale. In quella penombra così artificialmente creata, le nostre anime s’immergevano nei sogni; leggevamo, scrivevamo, conversavamo, finché la pendola ci avvertiva che l’oscurità vera era venuta. Allora uscivamo sottobraccio per le strade, continuando a discorrere degli argomenti della giornata, oppure vagavamo di qua e di là sino a tarda ora, ricercando in mezzo alle luci abbaglianti e le tenebre della città popolosa quella inesauribilità di iperlucidezza mentale che sola può derivare dallo spirito di osservazione in istato di quiete. In quelle occasioni non potei fare a meno di notare e di ammirare in Dupin un’acuta capacità analitica (sebbene già fossi preparato a scoprirla dalla ricchezza del suo potere di ideazione). Pareva anzi che egli prendesse un vivo piacere ad esercitarla, se non propriamente ad ostentarla, e non esitava a confessarmi la soddisfazione che ne derivava. Si vantava con me, con un piccolo riso soffocato , che la maggior parte dell’umanità, per quel che lo riguardava, portava nel petto finestre aperte, e soleva far seguire simili asserzioni da prove dirette e stupefacenti della sua intima conoscenza dell’animo mio. In quei momenti i suoi modi erano freddi, astratti: gli occhi assumevano un’espressione vacua, mentre la voce, di solito generosamente tenorile, si elevava a un tono acuto che sarebbe potuto apparire irritante se non fosse stato per la determinazione e l’assoluta chiarezza di quanto veniva da lui enunciato. Osservandolo in quegli stati d’animo, spesso mi sprofondavo in meditazioni sull’antica filosofia dell’anima bipartita, e mi divertivo a fantasticare di un Dupin duplice, il creativo e il risolutivo. Non si deve pensare, da quanto ho detto or ora, che io stia descrivendo un qualche mistero o architettando un romanzo. Quel che ho narrato del francese era semplicemente il risultato di un’intelligenza sovreccitata o forse malata. Ma 9 10 un esempio renderà meglio l’idea circa la natura delle sue osservazioni durante quel periodo di tempo. Passeggiavamo una sera giù per una lunga strada sudicia, nelle vicinanze del Palais Royal. Poiché eravamo entrambi, secondo ogni apparenza, immersi in meditazione, nessuno dei due aveva più scambiato una sillaba da almeno un quarto d’ora. Tutt’a un tratto Dupin proruppe con queste parole: "È un uomo piccolissimo, questo è vero, e riuscirebbe molto meglio nel Théatre des Variétés ". "Non vi può essere alcun dubbio su ciò," replicai io meccanicamente e senza rendermi conto a tutta prima (tanto fortemente mi ero assorto nelle mie riflessioni) della maniera straordinaria con la quale il mio interlocutore si era intromesso nella mia meditazione. Immediatamente mi ripresi, e il mio stupore fu profondo. "Dupin," dissi gravemente, "questo supera la mia comprensione. Non esito a dichiararmi sbalordito, e appena posso credere ai miei sensi. Come è possibile che tu sapessi che io stavo pensando a..." A questo punto feci una pausa, per essere certo al di sopra di ogni dubbio che egli realmente sapesse a chi io avevo pensato. "...a Chantilly," rispose lui. "Perché ti sei interrotto? Tu stavi riflettendo fra te e te che la sua figura minuscola mal si adatta alla tragedia." Proprio questo aveva formato l’argomento delle mie riflessioni. Chantilly era stato, quondam , un ciabattino della via Saint-Denis: maniaco del teatro, aveva tentato il rôle dì Serse nell’omonima tragedia di Crébillon , e i suoi sforzi erano stati oggetto di celebri pasquinate. "Ma dimmi, in nome di Dio," esclamai, "il sistema, se sistema esiste, grazie al quale ti è stato possibile sondare il mio animo circa questo argomento." In realtà ero ancora più stupefatto di quel che avrei voluto dare a vedere. "È stato il fruttivendolo," mi rispose il mio amico, "a portarti alla conclusione che quel rappezzator di ciabatte non aveva la statura sufficiente per la parte di Serse et id genus omne ." "Il fruttivendolo!... Non ti capisco!... Non conosco nessun fruttivendolo! " "Quell’uomo che ti ha urtato mentre infilavamo questa strada... sarà stato circa quindici minuti fa..." Subito mi venne in mente che un fruttivendolo, infatti, il quale recava sulla testa un grosso cesto di mele, per poco non mi aveva buttato a terra, per sbaglio, mentre passavamo dalla via C... nell’arteria di grande traffico in cui ci trovavamo attualmente: ma che cosa questo avesse a che fare con Chantilly assolutamente non mi riusciva di capire. Tuttavia in Dupin non vi era ombra di charlatanerie . "Ti spiegherò," mi disse; "e affinché tu possa comprendere tutto chiaramente, risaliremo dapprima il corso delle tue meditazioni dal momento in cui ci siamo parlati fino al momento della tua rencontre con il fruttaiolo in questione. I maggiori anelli della catena si susseguono così: Chantilly, Orione, il dottor Nichols, Epicuro, la stereotomia, le pietre del selciato, il fruttivendolo... Pochi sono coloro che non si siano divertiti, in qualche momento della loro vita, a rintracciare attraverso quali circonvoluzioni la loro mente sia giunta a certe 11 12 13 14 15 16 17 determinate conclusioni. È un gioco a volte pieno di interesse, e chi lo tenta per la prima volta si stupisce della distanza apparentemente illimitata e dell’incoerenza che corre tra il punto di partenza e il punto di arrivo. Immaginate dunque quale dovesse essere il mio stupore quando intesi il francese parlare a quel modo, e dovetti riconoscere che aveva detta la verità! Egli proseguì: "Se ben rammenti, stavamo discutendo di cavalli, giusto poco prima di lasciare la via C... Questo fu l’ultimo argomento di cui parlammo. Mentre attraversavamo questa strada, un ortolano con un grosso cesto sulla testa ci passò accanto frettolosamente e ti spinse su una pila di pietre da pavimentazione, ammucchiate in un angolo in cui il marciapiede è in corso di riparazione. Tu sei inciampato su un ciottolo, sei scivolato, ti sei fatto un lieve strappo alla caviglia, mi sei apparso seccato o di cattivo umore, hai borbottato qualche parola, ti sei girato a osservare il mucchio di sassi, e poi hai proseguito in silenzio. Io non prestavo un’attenzione particolare a quel che tu facevi, ma in questi ultimi tempi il bisogno di osservare è diventato in me una specie di manìa. "Hai tenuti gli occhi a terra... lanciando sguardi irritati alle buche e ai solchi del selciato (cosicché mi resi conto che stavi ancora pensando alle pietre), finché raggiungemmo la stradina intitolata a Lamartine, la quale è stata lastricata, a titolo sperimentale, con blocchi saldati e sovrapposti. Qui il tuo aspetto si rasserenò, e, notando che le tue labbra si muovevano, non ebbi dubbio che tu pronunciassi la parola ‘stereotomia’, termine che molto pomposamente si applica a questo genere di pavimentazione. Ero certo che non avresti potuto pronunciare in pectore il vocabolo ‘stereotomia’ senza esser portato a pensare agli atomi, e conseguentemente alla teoria di Epicuro , e poiché, quando discutemmo di questo argomento non molto tempo fa, io ti feci rilevare quale conferma avessero ricevuto dalla recente cosmogonia nebulare le vaghe intuizioni di quell’illustre greco, intuizioni tanto più singolari quanto meno sorrette da nozioni esatte, ebbi la sensazione che non ti saresti potuto trattenere dall’alzare lo sguardo verso la grande nebula di Orione, ed attesi con certezza che così avresti fatto. E così fu: ebbi pertanto la riprova di aver seguito con esattezza il corso dei tuoi pensieri. Ma nell’aspra tirade contro Chantilly comparsa sul Musée di ieri, l’ironista, nelle sue diffamatorie allusioni circa il mutamento di nome da parte del ciabattino nel calzare di coturno, ha citato un verso latino sul quale abbiamo a lungo discusso. Si tratta del verso 18 19 20 21 Perdidit antiquum litera prima sonum . 22 "Ti avevo detto che questo si riferiva ad Orione, che in antico si scriveva Urione, e da alcuni accenni pungenti connessi con questa spiegazione ero sicuro che tu non potevi essertene dimenticato. Era evidente pertanto che non avresti fatto a meno di associare i due concetti: Orione e Chantilly. E che tu li avessi effettivamente associati mi avvidi dalla natura del sorriso che ti increspò le labbra. Pensavi certo al sacrificio del povero ciabattino. Fino a quel momento avevi seguitato a camminare rannicchiato nella persona, ma ecco che adesso ti vedevo raddrizzarti in tutta la tua altezza: fui certo allora che avevi dovuto riflettere sulla statura minuscola di Chantilly. Ed ecco che a questo punto interruppi le tue meditazioni per osservare che in effetti era un uomo molto piccolo, quello Chantilly, e avrebbe fatta molto miglior figura al Théatre des Variétés". Qualche tempo dopo questo episodio stavamo scorrendo una sera la Gazette des Tribunaux, quando l’articolo seguente attrasse la nostra attenzione. DELITTI SENSAZIONALI "Questa mattina, verso le tre circa, gli abitanti del quartiere Saint-Roch furono svegliati nel sonno da un susseguirsi di strida terrificanti che provenivano con ogni apparenza dal quarto piano di una casa sita nella via Morgue, della quale si sapeva essere uniche occupanti una certa Madame L’Espanaye e una figlia di quest’ultima, Mademoiselle Camille L’Espanaye. Dopo qualche indugio, dovuto a tentativi infruttuosi per cercar di penetrare nell’abitazione in modo normale, la porta fu abbattuta con una spranga di ferro, ed otto o dieci vicini vi fecero irruzione, accompagnati da due gendarmes . Nel frattempo gli urli erano cessati, ma mentre il gruppo correva affannosamente su per la prima rampa di scale, si intesero due e forse più voci rozze che litigavano aspramente, e sembravano provenire dalla parte superiore della casa. Come, però, gli uomini ebbero raggiunto il secondo pianerottolo, anche questi rumori tacquero, ed ogni cosa rientrò nel silenzio più assoluto. Il gruppo si divise, e ciascuno prese a perlustrare una stanza dopo l’altra. Giunti a una vasta camera del quarto piano, che dava sul retro (si dovette forzarne la porta, essendo questa chiusa a chiave dall’interno), si presentò agli occhi degli astanti una visione che riempì ognuno di sbalordimento oltreché di orrore. "L’appartamento offriva uno spettacolo di disordine indescrivibile: il mobilio era stato frantumato e scaraventato in tutte le direzioni. Non esisteva che un’unica lettiera: orbene, da questa il letto era stato divelto e buttato nel mezzo della stanza. Su una seggiola era stato gettato un rasoio lordo di sangue; sul focolare vi erano due lunghe e grosse trecce grige di capelli umani, anch’esse intrise di sangue, che avevano tutta l’apparenza di essere state strappate dalle radici; sul pavimento furono trovati quattro napoleoni, un orecchino di topazio, tre grossi cucchiai d’argento, tre più piccoli in métal d’Alger , e due borse contenenti quasi quattromila franchi in oro. I tiretti di un bureau d’angolo erano aperti ed erano stati probabilmente saccheggiati, sebbene molti oggetti vi rimanessero ancora. Sotto il letto (non sotto la lettiera) fu rinvenuta una minuscola cassaforte di ferro: venne aperta, poiché la chiave si trovava ancora nello sportello, e conteneva soltanto qualche lettera di vecchia data e altre carte di scarsa importanza. "Di Madame L’Espanaye nessuna traccia: ma poiché nel focolare fu notata una quantità insolita di fuliggine, si procedette a un’ispezione del camino, dal quale 23 24 25