Cercasi l`Africa nell`universo tecnologico
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Cercasi l`Africa nell`universo tecnologico
Giovedì 18 ottobre 2001 3 CORRIERE TECNOLOGIE «Raccogliere esemplare. Precedenza assoluta. Assicurarsi ritorno organismo per analisi. Equipaggio sacrificabile» [computer «Mater» da «Alien», regia di Ridley Scott, 1982] Cercasi l’Africa nell’universo tecnologico L’intero continente pesa per appena l’1% nella popolazione degli internauti Ammassando i computer uno sopra l’altro come tanti rilievi del terreno e prendendo le fibre ottiche e i fili telefonici come tanti corsi d’acqua si può disegnare una nuova geografia del mondo: quella basata sul Digital divide, cioè sulla distribuzione geografica della tecnologia digitale. Con un unico limite. I rilevamenti sulla geografia tecnologica del mondo ricordano da vicino le antiche cartine utilizzate dai primi esploratori dei mari: incomplete, contrastanti. In alcune parti sfumate. E non potrebbe essere diversamente, dato che sulla stessa definizione di Digital divide si sono scontrati studiosi e appassionati. Fenomeno culturale per alcuni. Fattore oggettivo — tecnologico — per altri. L’unica certezza è che negli ultimi anni qualcosa, al di là di qualunque definizione, si è mosso. Il 2000 ha visto spostarsi il baricentro della tecnologia dagli Stati Uniti al continente europeo. La «Pinta» del primato tecnologico, salpata dal Nuovo mondo, si è mossa questa volta verso Oriente, buttando le ancore in Svezia (classifica World Times/IDC). E insieme alla Svezia, sono altri tre i Paesi europei nei primi cinque posti della classifica (Finlandia, Norvegia e Danimarca). Utilizzando i dati sugli accessi a Internet si può allora dividere il mondo in diversi colori, redigere graduatorie, registrare sorpassi nella società battezzata dell’Information and communication tecnology. Ma quale che sia l’elemento utilizzato, un solo territorio appare inesplorato. Privo di confini certi e codificati e privo di un «colore» che ne registri le caratteristiche nella mappa «tecnologica»: il continente africano. Con due sole eccezioni, la Repubblica Sudafricana e l’Egitto (dati delle Nazioni Unite). U La grande scommessa per ridurre il divario digitale. Nel 2000 il primato è passato dagli Usa alla Scandinavia Ma nella lista dei luoghi all’avanguardia c’è anche Guteng in Sudafrica Solo qui gli scontri sul Digital divide sembrano appianarsi, trovare un accordo: esiste un fattore oggettivo, come l’assenza di tecnologia elementare, a partire dalle linee telefoniche e dalle imprese che «copiano» la tecnologia (come avviene in Sudamerica e nei Paesi orientali). Ed esiste anche un fattore culturale, di disabitudine, di inesperienza. Di lingua. Quasi il 50% della popolazione mondiale degli internauti utilizza infatti l’inglese. Un fattore che anche in Italia ha causato una partenza al rallentatore (ancora In graduatoria l’Italia figura al 23˚posto e non può vantare luoghi di punta oggi, occupiamo il 23˚ posto nella classifica mondiale della tecnologia, pur restando uno degli otto Paesi più industrializzati del mondo). Esistono dei casi positivi. Come la Guinea che ha tentato di trasformare la tecnologia in uno strumento di accelerazione. O le associazioni internazionali che già dall’anno passato hanno scoperto nella rete un canale privilegiato di raccolta per gli aiuti umanitari (come dimostrato anche recentemente, dopo l’attacco terroristico in America, dalla Croce rossa interna- zionale che ha sfruttato proprio Internet per raccogliere gli aiuti finanziari). Ma l’Africa rimane l’Africa. Nel 2000 il peso del continente sul totale della popolazione degli internauti è stato dell’1%. Probabilmente quasi tutto concentrato a Johannesburg e dintorni. E non è a caso che l’Itu (l’Unione internazionale delle telecomunicazioni) ha annunciato il «Telecom Africa 2001», un appuntamento che si terrà il prossimo 12-16 novembre nella metropoli sudafricana. L’incontro per attirare le imprese e gli ope- ratori del settore ha un precedente (nel 1998 sempre in terra sudafricana) e uno slogan: «Bridging the Digital divide», costruire un ponte per superare e ricoprire la fossa della separazione tecnologica tra i Paesi. Una lotta che in questo caso si presta facilmente all’immagine dello scontro Nord-Sud. E che sarà il leitmotiv di un altro appuntamento, forse ancora più importante per l’Africa perché organizzato dall’interno: la Conferenza mondiale di sviluppo delle telecomunicazioni che si terrà nel 2002. In attesa di incontrarsi per analizzare tutti gli ostacoli alla nascita di una tecnologia dell’informazione africana, i ministri delle Telecomunicazioni di tutti i Paesi africani hanno firmato lo scorso 28 maggio la «Dichiarazione di Yaoundé». Un manifesto per il superamento del Digital divide nel continente che contiene obiettivi e intenti delle amministrazioni locali. E che sottolinea la possibilità di utilizzare il canale informatico anche per lo sviluppo sociale, economico e politico. Come tutte le dichiarazioni l’immissione di denaro pubblico nell’industria e soprattutto nella ricerca. Nel 1966 venne fondata l’Università di Campinas, oggi nota come Unicamp e definita, con qualche ragione, la Stanford del Brasile. Ad essa seguirono, negli anni, altri sei atenei e ottimi laboratori di ricerca, tra cui quello della Telebras, l’allora monopolista dei telefoni. Il Cpqd, oggi una fondazione che vive di sovvenzioni private, viene paragonato ai Bell Lab americani. Con l’avvento del personal computer e poi di Internet, inevitabilmente gran parte delle aziende si installarono qui. Lo Stato brasiliano ha poi esteso l’appeal di Campinas con una serie di esenzioni fiscali e facilitazioni negli investimenti. Il paradosso, oggi, è che Campinas vive e prospera per ragioni diametralmente opposte alle intenzioni dei suoi ideatori. L’industria nazionale high-tech, nonostante le protezioni, è rapidamente evaporata. Al suo posto sono venuti i colossi stranieri, creando posti di lavoro, dando una mano alla bilancia commerciale (da Campinas si esporta in tutta l’America Latina) e creando un volano di iniziative locali. Qualcosa di analogo a quello che avvenne con l’industria automobilista, un quarto di secolo fa. Quando la Fiat e la Volkswagen sbarcarono in Brasile, soppiantarono i produttori locali, di qualità e risorse inferiori. Ma fu una operazione di successo. Oggi le due case sono orgogliosamente percepite come un pezzo di industria nazionale. Tutto bene, quindi? Non proprio. All’arrivo dei capitali stranieri è seguita una rapida diminuzione degli investimenti nazionali in ricerca e le università servono oggi soprattutto a «produrre» manodopera specializzata, non certo brevetti. La Compaq sforna migliaia di computer ad un prezzo accessibile per il Brasile, lo stesso fa la Motorola con i telefoni cellulari. Ma la ricerca, ovviamente, è rimasta negli Stati Uniti. Quel poco di high-tech creativo si limita alla adattazione delle tecnologie alle richieste dei mercati di esportazione. In poche parole alla traduzione in portoghese e spagnolo dei comandi e del software. Come sintetizza un imprenditore di qui, «Campinas è una bella success story. Il Brasile, purtroppo, ancora no». Rocco Cotroneo [email protected] CLaampinas, miracolo dimezzato capitale dell’hi-tech Il polo brasiliano si trova in bilico tra Primo e Terzo mondo non è più un centro di ricerca Da cinque anni le grandi multinazionali si espandono a danno dell’industria locale I capitali stranieri favoriscono l’occupazione, ma soffocano l’attività scientifica Un anno fa, in una panoramica sulle migliori aree high-tech del mondo, la rivista Wired optò per un voto di sufficienza. Metà classifica, tra la celebre Silicon Valley californiana in testa e la semisconosciuta cittadella tunisina di El Ghazala in coda. Il polo tecnologico di Campinas segue così l’eterno destino del grande Paese che lo ospita, il Brasile. Né Primo né Terzo mondo, nazione dal grande futuro che arriva e non arriva, con macchie di straordinaria eccellenza che si stagliano sul fondo del panorama più noto al visitatore di passaggio: spiagge, allegria e drammatici contrasti sociali. A modo suo, Campinas è un piccolo miracolo, ed è certamente unica nell’America del Sud. Un milione di abitanti, nel cuore dello Stato di San Paolo, una delle regioni più densamente popolate del mondo. Un’ora e mezza dalla capitale, che invece di abitanti ne conta 15 milioni. In questa città, nel giro di pochi anni, si sono installate centinaia di aziende, laboratori e fabbriche che operano nel settore dell’alta tecnologia, dall’informatica alle telecomunicazioni alle biotecnologie. Senza una ragione apparente, che non siano quelle classiche del clustering, o distretti industriali che dir si voglia: attività U CORRIERE dello stesso settore proliferano meglio se vicine geograficamente una all’altra. Meglio, poi, se lo Stato dà una mano, le università e i centri di ricerca vengono coinvolti, la geografia e la logistica aiutano. Campinas è orgogliosa, dice uno studio di una agenzia locale, di ospitare cinquanta tra le prime 500 aziende di alta tecnologia della classifica di Fortune: Nortel, Lucent, Motorola, Compaq, Ibm, Texas Instruments e molte altre. In pochi chilometri si produce il 9 per cento del prodotto interno lordo brasiliano, il reddito medio annuo per abitante è di 4.524 dollari (poco meno di 10 milioni di lire), uno dei più alti del Paese. Campinas non è una città indimenticabile, ma si vive bene. Le baracche che assediano le metropoli brasiliane ci sono anche qui, ma in quantità limitata. L’antico altopiano, dove alla fine del secolo scorso caffè e canna da zucchero attrassero milioni di emigranti, tra cui tantissimi italiani, è ancora rigoglioso a tratti, con parchi ben curati e alberi altissimi che ricordano la latitudine alla quale ci si trova, quella tropicale di Rio de Janeiro. Alla Silicon Valley brasiliana, Wired ha assegnato buoni voti sulle voci «università e ri- anche quella di Yaoundé ha un forte limite: quella di rimanere nonostante gli entusiasmi — qualcuno ha azzardato la definizione di Rinascimento africano — un pezzo di carta. Gli host, cioè i nodi di connessione a Internet usati come un indicatore per lo sviluppo tecnologico, rimarranno sempre un primato americano, che ne possiede il 78% del totale attivo nel globo. L’Europa — nonostante i progressi fatti — tenta di difendere il suo 14%. Ma l’Africa non raggiunge lo 0,3% (dati Itu). Per quanto riguarda la presenza di personal computer, la popolazione statunitense ha in casa il 43,9% del totale delle «macchine» vendute su tutti i mercati. Gli europei inseguono il primato americano con il 29,6% (la disparità dal dato precedente sugli host dipende dal minor numero di pc connessi alla rete in Europa rispetto agli Usa). Come sempre, alla fine della classifica si affaccia l’Africa, con l’1,5% dei pc al mondo, nemmeno uno per ogni 100 abitanti: praticamente solo la distesa di ghiacci della Groenlandia ha questi valori. Lo sviluppo d’altra parte non nasconde i suoi lati oscuri. Il pericolo concreto per il continente africano è di innescare nel migliore dei casi una crescita diseguale. Trainata (e quindi «controllata») da un Paese, non sempre a vantaggio di tutti. Nella classifica delle capitali mondiali di Internet per il 2000 stilata dall’autorevole rivista Wired al 46˚ posto compare Guteng, località sudafricana (al primo posto l’irraggiungibile Silicon Valley sulla costa pacifica degli Stati Uniti. E non c’è nessuna regione italiana). Un bel primato per la città del continente più povero del mondo, ma che potrebbe trasformarsi in una nuova schiavitù per i Paesi limitrofi senza lo stesso tipo di «carburante» digitale. Massimo Sideri [email protected] cerca» e «aziende presenti», mentre la bocciatura è stata inevitabile in «startup» e «venture capital». La ragione è presto detta. Anche se nel corso degli ultimi cinque anni Campinas si è trasformata in un monumento alle multinazionali e alla globalizzazione, l’obiettivo per cui si scelse di creare questo polo era decisamente diverso. Anni Sessanta, regime militare. Sono gli anni dell’industrializzazione forzata del Brasile, con una ideologia economica che andava sotto il nome di «sostituzione di importazioni», un frullato tra il dirigismo della destra e la teoria marxista della dipendenza dell’America del Sud dagli Stati Uniti. L’idea, rimasta popolarissima fino a pochi anni fa, era che un Paese grande come il Brasile potesse essere autosufficiente. Potesse e dovesse produrre tutto in casa, grazie alle risorse e allo sterminato mercato interno, una illusione che portò rapidamente il Paese alla chiusura commerciale e al ritardo tecnologico. Il lato buono della vicenda fu CORRIERE