Leggi il testo di Alberto Fiz

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L’ansia della parola cancellata
Alberto Fiz
Il mondo del visibile è più libero da quando, nel 1964, Emilio Isgrò ha inventato la cancellatura. Tutto ciò che sembrava
bloccato da regole fisse e inalienabili ritorna in gioco e, come un boomerang, si ribalta sui ciechi-vedenti che diventano
essi stessi parte del processo creativo.
Isgrò impone la propria democrazia sottraendo alle avanguardie il potere autoritario e sacrale che Marcel Duchamp aveva
introdotto con i suoi ready made. Il dogma si dissolve in quanto “la mano che cancella è la sola che può scrivere il vero e
il falso insieme senza che questo comporti necessariamente un giudizio”. (1)
Il quesito amletico viene superato di fronte ad un segno documentato nella sua concretezza che contiene, al tempo
stesso, l’essere e il non essere, la presenza e l’assenza, il transitivo e l’intransitivo, il vuoto e il pieno nel superamento di
ogni forma di antinomia.
La cancellatura, infatti, è fondamentalmente un nuovo spazio creativo, una “terra di nessuno” (2) conquistata da Isgrò in
grado di rimettere in discussione qualsiasi regolamento codificato, qualsiasi forma di burocrazia accademica. E’ il luogo
dell’azione che va a sconvolgere il piano dell’esistente sviluppando la capacità reattiva del reale. In tal modo, le strutture
monolitiche, le facili soluzioni di un’estetica autoreferenziale vanno in frantumi dietro agli scossoni della cancellatura che
apre al linguaggio nuove prospettive sviluppando la concretezza visiva di un atto mentale. Il principio che sta alla base
della cancellatura tende progressivamente ad inglobare la poesia visiva, movimento di cui Isgrò è stato il principale
esponente per poi prenderne progressivamente le distanze: “La poesia visiva è un sacco vuoto che bisogna riempire, ma
questo sacco non sarà mai pieno”, (3) sentenzia Isgrò in un importante, quanto sofferto saggio del 1972 Il muro della
parola pubblicato in quest’occasione dove esprime i suoi dubbi verso quell’esperienza, pur fondamentale per
comprendere le vicende italiane del dopoguerra.
La poesia visiva era caratterizzata dalla dualità tra parola e immagine che la cancellatura aveva ormai scavalcato senza
più dover ricorrere ad alcun escamotage postdadaista o postufuturista. Isgrò aveva in mano la pedina per lo scacco
matto, sia che cancellasse l’immagine sostituendola con la sua definizione sia che decidesse d’intervenire
sull’Enciclopedia Treccani orientando la parola verso un’azione catartica ed eversiva di liberazone. Quello spazio,
insomma, che separava parola e immagine era definitivamente occupato lasciando aperte nuove vie d’uscita senza il
timore di rimanere soffocati: “Dopo le distruzioni critiche delle avanguardie si può forse ricominciare ogni giorno, come
ogni giorno ricomincia il mare: e la pagina bianca può ancora brulicare miracolosamente di segni, residui, virgole,
significati senza significante e significanti senza significato”. (4)
Se per Magritte l’arte occulta la scena del reale che si è prefissata di mostrare e se per i concettuali l’arte coincide con il
principio stesso della realtà, Isgrò crea una dimensione che prima non esisteva, un laboratorio sperimentale dove viene
messo in crisi lo stesso concetto di conoscenza negando il sapere attraverso un’elaborazione razionale che conduce alla
perdita di quella, sin troppo temibile erudizione. “Io conoscevo questo libro ma l’ho dimenticato”. (5)
L’arte, dunque, è un problema che la cancellatura non risolve ma acuisce all’interno di un contesto dialettico escogitato
con l’obiettivo preciso di far esplodere le contraddizioni di carattere sociale, andando oltre l’io narcisistico dell’artista. La
parola non è la vittima ma la beneficiaria della cancellatura e proprio grazie a questo gesto radicalmente poetico risorge
dalle ceneri riabilitando se stessa e la sua presenza generalmente occultata dalla pornografia della comunicazione e
dall’ipertrofia del visuale in una sottaciuta presa di distanza dall’esistente. Al contrario di altri segni delle avanguardie del
dopoguerra che vanno posti in stretta relazione con il momento storico del loro apparire e, a distanza di decenni, perdono
la loro forza propulsiva rimanendo documenti che sanciscono l’evoluzione linguistica, la cancellatura non ha fatto altro
che crescere e svilupparsi nell’immaginario da quel lontano 1964 quando, con inchiostro nero, Isgrò la applicò ad un
articolo di giornale lasciando scoperta solo qualche parola pronta ad aggregarsi con effetti linguistici dirompenti. E’ stata,
dunque, una straordinaria intuizione le cui conseguenze non erano previste nemmeno dal suo autore e, cosa rara nel
campo dell’arte, la cancellatura, nel tempo, è uscita dai ristretti confini della militanza trovando un’adesione ampia.
“Eseguite le mie prime cancellature, io stesso ebbi paura di ciò che avevo fatto e mi sognai quel gesto per anni, prima di
portarlo in pubblico un po’ dappertutto per le gallerie d’arte e musei”, ricorda Isgrò nella sua Introduzione alla cecità. (6)
La società contemporanea dimostra come linguaggio ed immagine non solo facciano a gara per non significare, ma
sviluppino un sofisticato sistema di negazione dove, in talune circostanze, la funzione fondamentale dell’apparire è quella
di occultare.
Ecco che il delirante bodybuilding comunicazionale con la conseguente discarica di slogan e di nude apparenze, viene
interrotto da un gesto artistico che s’insinua all’interno del contesto sociale evitando ogni forma di simbologia o di
metafora.
L’ambiguità non sta nel segno ma nella sua applicazione e negli effetti che ne possono scaturire di fronte ad un
cancellare capace di lasciare “le perle e le scorie” (7) dove una virgola, un papa, un re o una consonante possono
assumere il medesimo valore all’interno di un sistema democratico della comunicazione che scuote dall’indifferenza
programmatica. Isgrò cancella, non azzera, non nega e non censura e il suo fare non ha nulla da spartire con l’azione
della tecnologia (sebbene si sia scoperto che anche i computer mantengono una memoria persino dopo l’eliminazione dei
file). La sua è un’espressione linguistica caratterizzata da una specifica potenza di trasformazione dove l’artista opera sul
sistema nervoso centrale: la scrittura esiste per essere cancellata e persino il figlio di Dio diventa Il Cristo cancellatore (8)
compiendo la più umana e pietosa delle azioni. Del resto, è solo il principio razionale che può disfare la stabilità
apparente delle cose attraverso la creazione di una nuova dimensione che sfida il caos e presuppone lo scavalcamento
dei limiti.
Mentre per Mallarmé il silenzio del mondo si fa parola nella sua impotenza, Isgrò dispone del linguaggio e lo trasforma a
suo piacimento gettando via la bussola dei significati. E’ lui il burattinaio, il regista occulto che attraverso quel risoluto
gesto d’interferenza sbarra le vie ordinarie di comunicazione attivando nuovi canali dove la cancellatura gioca a dadi con
la parola e con gli accidenti che l’accompagnano.
“Questa è la Cancellatura. Una macchia che copre una parola, la separa dal mondo, la libera” (9).
E’ l’affermazione di limpida, apparente semplicità con cui Isgrò introduce la Teoria della Cancellatura, uno dei suoi testi
fondamentali riportati in questo volume dove, come spesso accade, l’artista tende al lettore una trappola, dal momento
che l’interrogativo non è posto sulla cancellatura, ovvero sulla struttura portante dell’indagine estetica, bensì sulla parola
attuando un classico ribaltamento.
“Qual è questa parola? Qual è il sinonimo? Quale la lingua?
Nessuno può dirlo. Nessuno può saperlo.
Io conoscevo questa parola, ma l’ho dimenticata.” (10)
Evidentemente, tutto ciò è consustanziale ad un gesto interventista che scuote l’indifferenza della parola. Un’azione,
dunque, che presuppone una reazione, uno sconvolgimento della logica ordinaria e un atteggiamento attivo da parte del
fruitore che non si trova di fronte ad un’opera chiusa, bensì a segni che cambiano di significato, che esistono in base alla
libertà di essere cancellati e alla (il)logicità dei loro accostamenti in una costruzione del pensiero dove l’intelletto ripensa a
se stesso e legittima il non senso in una perdita progressiva di controllo. Isgrò applica “la sfasatura tra un testo primo e
un testo secondo” (11) anche ai suoi scritti che sono parte integrante del suo procedimento artistico in uno
scavalcamento creativo del ruolo affidato alla critica. Lui, del resto, è l’amministratore unico di un movimento monade,
unicellulare come quello della cancellatura (gli altri dovrebbero pagare il copyright) e intorno a questo costruisce la sua
teoria che non prevede un’organicità programmatica. Talvolta, poi, la teoria è, dichiaratamente, una non teoria e Teoria
del seme si rivela un testo sociopolitico sul rapporto tra arte, denaro e committenza pubblica che non rimanda, se non per
rapidi cenni, alla grande scultura Seme d’arancia realizzata per la sua città natale, Barcellona di Sicilia.
Sin dall’inizio del testo, infatti, Isgrò ingarbuglia le carte negando, o meglio cancellando, l’assunto totalmente fuorviante
da cui parte:
“Forse è impossibile imbastire una qualche teoria che accompagni la crescita di un seme. Ed è impossibile per la sola
ragione che questo seme da me impiantato in Sicilia - il seme dell’arte, il seme della vita, il seme di quel che vuoi contiene già di per sé la teoria di ciò che è o potrà diventare”. (12)
Persino in quello che si può considerare il più rigoroso tra i testi teorici, la celebre Dichiarazione 1 del 1966 (chissà se
aveva pensato al movimento Forma Uno) dedicata alla poesia visiva, Isgrò tradisce le attese metodologiche e rimarrà
deluso chi aveva pensato che fosse la prima di una serie. La Dichiarazione 1 rimane sola e la Dichiarazione 2 , 3, 10 o
1000 non è mai stata realizzata.
L’approccio di Dichiarazione 1 è di tipo pedagogico e maieutico con una terminologia che ricorda la sottile ironia di Bruno
Munari. L’incipit è emblematico:
“Non parlerò di questioni metafisiche e di “totalità”. Poiché sono un poeta – e per giunta un poeta visivo – preferisco dirvi
come si fa una poesia visiva, svelarvi i segreti del mio mestiere. Così anche voi, nei ritagli di tempo, potrete comporre
poesie visive; e svelare a me, tra un mese o due, i vostri segreti”(13).
Non vi è dubbio alcuno che Isgrò applichi un principio teorico deviato e deviante dove la sua arte è sottoposta ad
estenuanti verifiche ed è lui, ai limiti dell’autolesionismo e dell’autoironia, il più severo critico di se stesso. A questo
proposito mi viene in mente la celebre battuta di Groucho Marx: “Non farei mai parte di un club che mi accettasse tra i
suoi soci”.
Come dalle cancellature, anche dai suoi scritti sono interdetti dogmi e verità assolute ed è proprio Isgrò a sottoporsi alle
domande più insidiose. Nel suo Autoritratto 1970-1975 l’autointervistatore gli chiede:
“Non hai paura di essere ambiguo?”.
E l’artista, sdoppiandosi, in un classico intermezzo teatrale, risponde piccato:
“Io rappresento l’ambiguità del mondo in cui vivo, e solo per questo il mio linguaggio è traverso, obliquo come le sentenze
di Apollo. Perché non voglio perdermi niente della vita. Ma per il resto sono pulito, limpido come un angelo, e non mi
sporco le ali”. (14)
Certo, questo è un punto centrale del discorso dal momento che la cancellatura non è di per sé ambigua. Anzi è uno dei
segni più incisivi e riconoscibili delle avanguardie degli anni sessanta. Nello stesso tempo, tuttavia, scatena intorno a sé
un clima di assoluta incertezza che si espande a macchia d’olio all’intero universo visivo. Isgrò lo sa bene e, non a caso,
lui stesso appare, talvolta, la vittima cancellata della cancellatura, come se il perfetto ingranaggio si mettesse in moto
all’insaputa dello stesso autore. I suoi turbamenti appaiono evidenti nella Teoria della Cancellatura:
“Sono ventitré anni che io cancello le parole con la dedizione di un monaco - fisicamente, con un tratto di china - e da
ventitré anni mi domando se non era possibile affrontare il problema con un tocco più signorile, meno sgarbato. Me lo
domando. Me lo domandano, anzi. E sono ancora anime belle, morbide, delicate. E io non so che rispondere perché la
Cancellatura è un gesto completamente immeritato e gratuito, una vela lacerata dal vento nel grande mare della
scrittura.” (15)
Isgrò è scrittore originale e i suoi saggi non vanno letti come teorizzazioni di carattere formale. Ciò che gli preme
maggiormente è smentire la logica delle apparenze ponendo il lettore, così come il fruitore delle sue opere artistiche, in
un costante stato di ansia nella consapevolezza di un’instabilità permanente, di un disequilibrio costante e formativo dove
l’arte, al di là della semiotica, al di là della langue e della parole di saussuriana memoria, impone il proprio spazio di
perlustrazione, la propria distanza:
“Una parola cancellata sarà sempre una macchia. Ma resta pur sempre una parola (…). Non è nella negazione o nella
interdizione il potere reale della Cancellatura; quanto, piuttosto, nella sua capacità di aprire le porte del linguaggio
fingendo di chiuderle.” (16).
Romanziere, drammaturgo, polemista, giornalista, talvolta persino critico d’arte, qualunque cappello si metta in testa, per
Isgrò, la scrittura è, prima di tutto, l’affermazione del suo essere artista socialmente responsabile. Non solo ha dedicato
all’arte e alla cultura una preghiera ecumenica ma si oppone, con forza, alla generale indifferenza di un “mondo che parla
con la bocca storta che dice e non dice”. Se la prende con i tanti figliolini illegittimi di Duchamp che non hanno ancora
messo da parte l’Ostranenie, lo straniamento, teorizzato ai primi del Novecento dai formalisti russi e non risparmia
nemmeno gli ex giovani artistti inglesi riuniti sotto la sigla industriale YBA sponsorizzata da Charles Saatchi ricordando
che il loro terribilismo fashion non è altro che la riedizione dell’antico teatro elisabettiano (17). Ma il severo moralista e
fustigatore dei costumi è capace di scoppiare in una sonora risata azzardando un parallelo che farebbe felice Franz
Kafka: “Chiedere a un artista quale sia oggi il suo posto nella società, è come chiedere a un bruco quale sia il suo posto
nella natura. Né l’uno né l’altro può dirlo.” (18) Artisti o bruchi, questo è il dilemma.