contratto di manutenzione dell`impianto elettrico: attenzione

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contratto di manutenzione dell`impianto elettrico: attenzione
STUDIO LEGALE ODDO
L’IMPATTO DELLA NORMATIVA COMUNITARIA SULLA
LEGISLAZIONE ITALIANA PER LA SICUREZZA DI
APPARECCHIATURE E IMPIANTI A GAS
(ALL’INTERNO DEGLI EDIFICI) ∗
I principi del Trattato istitutivo dell’Unione Europea e le direttive comunitarie
hanno profondamente innovato il quadro normativo in ogni settore dell’attività
economica, ivi compreso, in particolare, il settore tecnico che riguarda gli
impianti a gas, le relative apparecchiature, nonché i materiali ed i componenti
degli impianti stessi. A partire dalla nozione stessa di “norma” e di “regola” deve
essere pertanto compiuta una profonda revisione del sistema normativo nazionale
alla luce dei principi del Trattato U.E. e delle direttive comunitarie applicabili.
Dall’esperienza maturata e dagli orientamenti ricavabili dalla giurisprudenza
della Corte di Giustizia della U.E., della Corte Costituzionale e del Consiglio di
Stato, nonché dei Tribunali Amministrativi e dei giudici ordinari italiani,
derivano punti di riferimento chiari ed inequivocabili per le applicazioni
normative che interessano tutti gli “addetti ai lavori”: progettisti, fabbricanti,
venditori, installatori e pubbliche autorità preposte alla vigilanza ed al controllo
sui prodotti industriali e sugli impianti tecnologici.
1)
Le norme tecniche italiane per la sicurezza nell’impiego
del gas combustibile.
Le regole tecniche italiane per la sicurezza dell’impiego del gas combustibile trovano
la loro prima fonte speciale nella legge 6/12/1971 n. 1083, secondo la quale (art.1):
“tutti i materiali, gli apparecchi, le installazioni e gli impianti alimentati con gas
combustibile per uso domestico ed usi similari devono essere realizzati secondo le
regole specifiche delle buona tecnica per la salvaguardia della sicurezza”. L’articolo
3 della stessa legge introduce il principio per il quale: “i materiali, gli apparecchi, le
installazioni e gli impianti alimentati con gas combustibile per uso domestico e
l’odorizzazione del gas, di cui ai precedenti articoli, realizzati secondo le norme
specifiche per la sicurezza pubblicate dall’Ente nazionale di unificazione (UNI) in
tabelle con la denominazione UNI – CIG, si considerano effettuati secondo le regole
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Questa Relazione, predisposta dall’autore per il Convegno “Il trinomio della sicurezza, la statistica
incidenti da gas, le norme tecniche UNI, l’assicurazione clienti finali civili”, contiene una
rielaborazione, una integrazione ed un aggiornamento dello studio di A. Oddo e G. Benedetti
precedentemente apparso sulla Rivista ISL – Igiene e Sicurezza del Lavoro - n. 8/2004 con il titolo
“Regola d’arte e norme tecniche: una sentenza, molte riflessioni, tante conseguenze”.
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della buona tecnica per la sicurezza. Le predette norme sono approvate con decreto
del Ministro per l’industria, il commercio e l’artigianato.”
Ne deriva una disposizione a carattere imperativo con la quale si introduce, a carico di
chiunque “realizzi” i materiali, gli apparecchi, le installazioni e gli impianti considerati
dall’art. 1, un obbligo inderogabile di rispetto delle “regole” specifiche della buona
tecnica che sono finalizzate alla sicurezza. La violazione di tale “obbligo” è
penalmente sanzionata con l’arresto fino a due anni o con l’ammenda da €. 103 ad €.
2065. Dal testo normativo ora in esame deriva altresì una “presunzione” legale di
rispetto delle “regole” di sicurezza quando i materiali, le apparecchiature e gli impianti
risultino essere realizzati in conformità alle “norme” UNI-CIG. Tale “presunzione”
secondo quanto sarà esposto e motivato in seguito, deve ormai considerarsi riferita, nel
settore rientrante nel campo di applicazione della direttiva 90/396/CEE, recepita
nell’ordinamento italiano con il DPR 661/96 (apparecchi e componenti di sicurezza
a gas), alle “norme armonizzate europee” (EN). Inoltre, l’intero contesto della legge
deve essere riconsiderato nella sua applicabilità compatibilmente con i principi e
le regole di diritto comunitario che saranno esposti in seguito.
L’articolo 7, comma primo, della legge 5/3/1990 n. 46 sancisce l’obbligo per le
imprese installatrici di “eseguire gli impianti a regola d’arte utilizzando allo scopo
materiali parimenti costruiti a regola d’arte. I materiali ed i componenti realizzati
secondo le regole di sicurezza dell’Ente italiano di unificazione (UNI) e del Comitato
elettrotecnico italiano (CEI), nonché nel rispetto di quanto prescritto dalla
legislazione tecnica vigente in materia, si considerano costruiti a regola d’arte”.
Inoltre, l’articolo 5, comma primo, del DPR 6/12/1991 n. 447 afferma che “i
materiali e componenti costruiti secondo le norme tecniche, per la salvaguardia della
sicurezza dell’UNI e del CEI, nonché nel rispetto della legislazione tecnica vigente in
materia di sicurezza, si considerano costruiti a regola d’arte”.
A tal proposito occorre subito rilevare come il concetto di “regola dell’arte” non
possa essere ristretto al solo novero delle norme Uni e CEI poiché il secondo comma
del predetto articolo 5 afferma: “si intendono altresì costruiti a regola d’arte i
materiali ed i componenti elettrici dotati di certificati o attestati di conformità alle
norme armonizzate previste dalla legge 18/10/1977 n. 791, o dotati altresì di marchi
di cui all’allegato IV del decreto del Ministero dell’industria, del commercio e
dell’artigianato 13/6/1989, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta
Ufficiale n. 171 del 24/7/1989”. Da quanto premesso consegue che il predetto concetto
di regola dell’arte assume un contenuto che deve essere verificato alla luce della
compatibilità con i principi del diritto comunitario considerando che:
- l’articolo 5, comma terzo, del DPR 447/1991 afferma che gli impianti realizzati in
conformità alle norme tecniche dell’UNI e del CEI, nonché alla legislazione tecnica
vigente si intendono costruiti a regola d’arte;
- tuttavia i successivi commi quarto e quinto del medesimo articolo 5 ampliano il
predetto concetto di “regola dell’arte” in quanto contengono le seguenti
precisazioni:
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- nel caso in cui per i materiali e i componenti gli impianti non siano state seguite le
norme tecniche per la salvaguardia della sicurezza dell’UNI e del CEI, l’installatore
dovrà indicare nella dichiarazione di conformità la norma di buona tecnica adottata;
- in tale ipotesi si considerano a regola d’arte i materiali componenti ed impianti
per il cui uso o la cui realizzazione siano state rispettate le normative emanate
dagli organismi di normalizzazione di cui all’allegato II della direttiva 98/34/CE
(recepita nell’ordinamento italiano con la L. 317/86 e successive integrazioni e
modificazioni), se dette norme garantiscono un livello di sicurezza equivalente. Il
riferimento normativo contenuto nell’art. 5, comma 5 del DPR 447/91 attiene,
seppure in modo improprio, secondo quanto sarà chiarito successivamente, al
diritto comunitario in quanto la direttiva comunitaria da ultimo richiamata prevede
una procedura di informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni
tecniche ed introduce una importante classificazione – con relative definizioni – delle
specifiche norme e regole tecniche. Tuttavia (anche) quest’ultimo riferimento
normativo è da considerarsi inadeguato alla luce di quanto sarà esposto e motivato
successivamente.
- Da quanto premesso appare censurabile, tra l’altro, anche l’articolo 7 della
deliberazione n. 40/2004 emanata il 18/3/2004 dall’Autorità per l’energia elettrica ed
il gas (contenente il regolamento delle attività di accertamento della sicurezza degli
impianti di utenza a gas e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 83 del 8/4/2004) il
quale afferma che per l’applicazione del regolamento si applicano le norme tecniche
dell’UNI, Ente nazionale di unificazione e del CEI, Comitato elettrotecnico italiano,
mentre il Cig, Comitato italiano gas, è incaricato di definire linee guida per la corretta
e completa compilazione delle dichiarazioni previste dalla legislazione vigente in
materia di sicurezza, precisando altresì i casi nei quali è obbligatoria la predisposizione
del progetto. Invero la precisazione dei criteri normativi per stabilire
l’obbligatorietà o meno del progetto in materia impiantisca è già stata fornita dal
legislatore con l’articolo 6 della legge 5/3/1990 n. 46 e con l’articolo 4 del DPR
6/12/1991 n. 447, per cui la medesima precisazione non può essere ulteriormente
demandata da un’autorità amministrativa, mediante un provvedimento
parimenti amministrativo e di rango inferiore alle norme richiamate, ad altri
soggetti non indicati dal legislatore nazionale. Infatti un provvedimento
amministrativo, consistente nella deliberazione predetta, non può derogare alla
norma regolamentare di rango superiore costituita appunto dall’articolo 5 del
DPR 6/12/1991 n. 447: tale confusione non solo è giuridicamente infelice, ma crea
anche incertezze, sempre pericolose, per gli operatori nella delicatissima materia
della sicurezza degli impianti a gas.
- Il D.M. 26/3/2004 (pubblicato su supplemento ordinario della G.U. n. 77 del
28/4/2004) contiene il ventesimo gruppo di norme tecniche sanzionate penalmente
dall’articolo 5 della legge 6/12/1971 n. 1083 e prevede che:
- i materiali, i componenti e gli impianti costruiti secondo le tabelle CEI e UNI –
CIG si presumono soddisfare la regola d’arte per la salvaguardia della sicurezza
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(secondo quanto previsto dall’articolo 5, comma terzo, del DPR 6/12/1991 n.
447);
le tabelle UNI – CIG sono norme volontarie e non costituiscono le regole
tecniche previste dalla direttiva 98/34/CE le quali conferiscono ai materiali,
prodotti e impianti la presunzione di conformità alle regole della buona tecnica
per la salvaguardia per la sicurezza;
sono norme di riferimento per la buona tecnica per la salvaguardia della
sicurezza sia le norme tecniche emanate dagli organismi di normalizzazione
previste dall’allegato II della direttiva 98/34/CE, se dette norme garantiscono
un livello di sicurezza equivalente (secondo quanto previsto dall’articolo 5,
comma quarto, del DPR 6/12/1991 n. 447), sia le norme tecniche mutuamente
riconosciute equivalenti negli Stati contraenti lo spazio economico europeo.
I principi del diritto interno e costituzionale italiani – I
principi del diritto comunitario - Le regole e le norme
europee sulla sicurezza tecnologica
Le definizioni di “regola dell’arte” e di “norma” tecnica sono contenute – come già
anticipato, nella legge n. 317 del 21/6/1986 (e successive integrazioni e
modificazioni), che ha attuato la direttiva n. 83/189/CEE (ora abrogata e sostituita
dalla direttiva 98/34/CEE) relativa alla procedura d’informazione nel settore delle
norme e delle regolamentazioni tecniche, che, a tutti gli effetti della legislazione
comunitaria e di quella nazionale, impone le seguenti definizioni:
- PRODOTTO: i prodotti di fabbricazione industriale e i prodotti agricoli;
- SPECIFICA TECNICA: una specifica normativa contenuta in un documento che
definisce le caratteristiche richieste a un prodotto, quali i livelli di qualità o di
utilizzazione, la sicurezza, le dimensioni, nonché le prescrizioni applicabili al prodotto
per quanto riguarda la denominazione di vendita, la terminologia, i simboli, le prove
ed i metodi di prova, l’imballaggio, la marcatura e l’etichettatura e le procedure di
valutazione della conformità;
- NORMA: una specifica tecnica approvata da un organismo riconosciuto ed abilitato
ad emanare atti di normalizzazione, la cui osservanza non sia obbligatoria ed
appartenente ad una delle categorie: norme internazionali, norme europee, norme
nazionali. Sono norme internazionali europee o nazionali, le norme adottate e messe a
disposizione del pubblico rispettivamente da un’organizzazione internazionale, da un
organismo europeo o da un organismo nazionale di normalizzazione;
- REGOLA TECNICA: una delle specifiche tecniche o uno degli altri requisiti,
comprese le disposizioni amministrative che ad esso si applicano, indicati al comma 2
e comunque ogni specifica tecnica o altro requisito, la cui osservanza è obbligatoria
per la commercializzazione o l’utilizzazione di un prodotto sul territorio nazionale o in
una parte importante di esso, nonché le disposizioni legislative, regolamentari ed
amministrative degli Stati membri intese a vietare la fabbricazione, la
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commercializzazione o l’utilizzazione di un prodotto ad eccezione di quelle indicate
all’articolo 9, comma 6.
Per la legge n. 317/1986 (e successive integrazioni e modificazioni) costituiscono,
in ogni caso, regole tecniche:
* a) le disposizioni legislative, regolamentari o amministrative che fanno riferimento a
specifiche tecniche, ad altri requisiti, a codici professionali o di buona prassi che si
riferiscono, a loro volta, a pacifiche tecniche o ad altri requisiti e la cui osservanza
conferisce una presunzione di conformità alle prescrizioni fissate dalle suddette
disposizioni legislative, regolamentari o amministrative;
* b) gli accordi facoltativi dei quali l’autorità pubblica è parte contraente e che mirano
al rispetto di specifiche tecniche o di altri requisiti, ad eccezione del capitolato degli
appalti pubblici;
* c) le specifiche tecniche e gli altri requisiti connessi con misure di carattere fiscale o
finanziario che influenzano il consumo di prodotti, incoraggiando l’osservanza di tali
specifiche tecniche o di altri requisiti ad eccezione delle specifiche tecniche e degli
altri requisiti volti a finalità di sicurezza sociale.
*
*
*
Occorre notare che il dibattito dottrinario attuale inerente alle fonti normative della
regola dell’arte e delle norme tecnologiche investe la riforma costituzionale del
titolo quinto, introdotta dall’articolo 3 della legge costituzionale n. 3 del 18/10/2001,
laddove l’articolo 117 della Costituzione stabilisce la competenza legislativa
esclusiva statale per la tutela dell’ambiente, mentre prevede la competenza
legislativa regionale concorrente per varie importanti materie tra le quali la tutela e la
sicurezza del lavoro, la ricerca scientifica e tecnologica a sostegno dell’innovazione
per i settori produttivi ed il governo del territorio. Attualmente il dibattito dottrinario è
diviso tra i fautori di un intervento statale anche nelle materie di competenza
regionale, almeno fino a quando la legislazione regionale non si esplichi
compiutamente, in virtù della necessità di tutelare comunque i beni primari
costituzionali (della salute, della buona organizzazione della pubblica amministrazione
e così via), e i sostenitori della tesi affermante il divieto assoluto per lo Stato di
legiferare nelle nuove materie affidate alla concorrente legislazione regionale.
Qualunque sia l’opinione dell’interprete a tal riguardo occorre notare che
entrambe le predette legislazioni (statale e regionale) devono comunque attenersi
ai fondamentali principi 1 del diritto comunitario dell’ambiente previsti ed
interpretabili attraverso la lettura dell’articolo 174(2) del Trattato di Roma del
25/3/1957 2 e, molto più in generale, alle direttive comunitaria alle quali lo Stato
1
Per una compiuta disamina dei principi ambientali comunitari vedasi la pregevole e
completa opera “Unione europea e ambiente”, di Massimiliano Montini, Codice
dell’ambiente, Milano, 2003, pagine 46 – 89.
2
L’articolo 174, comma secondo, del Trattato di Roma afferma: “La politica della Comunità
in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle
situazioni nella varie ragioni della Comunità. Essa è fondata sui principi della precauzione e
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italiano deve uniformarsi non soltanto in base al predetto Trattato, ma anche per il
disposto dell’articolo 10, primo comma, della Costituzione per il quale l’ordinamento
giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente
riconosciute.
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*
Altri importati principi comunitari di sicurezza sono contenuti nella direttiva
89/106/CEE, recepita dal DPR 21/4/1993 n. 246, avente ad oggetto i materiali da
costruzione affinché gli stessi presentino dei requisiti essenziali che saranno qui di
seguito elencati. La finalità di tali norme è che vengano immessi nel mercato solo i
prodotti che siano idonei all’impiego previsto e che posseggano caratteristiche tali
da rendere le opere nelle quali devono essere incorporati o comunque installati, se
adeguatamente progettate, conformi ai seguenti requisiti (indicati nell’allegato A):
• devono presentare una resistenza meccanica e una stabilità nell’opera realizzata
in modo da sopportare i carichi prevedibili senza dare luogo a crolli, deformazioni,
deterioramenti di parti o di infissi, danneggiamenti anche conseguenti ad eventi
accidentali, ma comunque prevedibili;
• deve essere garantita la sicurezza in caso d’incendio sia per l’opera e le sue
strutture, sia per gli occupanti e per le squadre di soccorso;
• devono essere assicurate l’igiene, la salute e la tutela dell’ambiente in modo
che l’opera sia concepita e costruita in modo tale da non costituire una minaccia
per l’igiene o la salute degli occupanti o dei vicini di casa, in particolare, dalla
formazione di gas nocivi, dalla presenza nell’aria di particelle o di gas pericolosi,
dall’emissione di radiazioni pericolose, dall’inquinamento o dalla contaminazione
dall’acqua o del suolo, da difetti di evacuazione delle acque, dai fiumi e dai residui
solidi e liquidi o dalla formazione di umidità in parti o sulle superfici interne
dell’opera;
• deve essere assicurata la sicurezza nell’utilizzazione dell’opera mediante la sua
progettazione e la sua costruzione in modo tale da evitare che il suo impiego non
presenti per gli occupanti o gli utilizzatori rischi inaccettabili di incidenti quali
scivolamenti, cadute, bruciature, scariche elettriche, ferimenti a seguito di
esplosioni;
• deve essere assicurata nella progettazione e nella realizzazione la protezione
dal rumore in modo che lo stesso sia percepito dagli occupanti o dalle persone
abitanti nelle vicinanze ad un livello che non presenti minaccia per la loro salute e
che, comunque, consenta il sonno, il riposo e il lavoro in condizioni soddisfacenti;
• devono essere garantiti il risparmio energetico e l’isolamento termico in modo
tale che il consumo di energia necessario all’utilizzazione resti moderato tenuto
conto delle condizioni climatiche locali, senza nuocere al comfort termico degli
occupanti.
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*
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dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni
causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga”.
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La sicurezza generale dei prodotti, al fine di tutelare il consumatore, è stata
garantita sul piano prevenzionale dalla direttiva 2001/95/CEE (pubblicata su
GUCE L11/4 del 15/1/2002) la quale persegue (art.1) la finalità che i prodotti immessi
nel mercato (secondo la definizione dettata dall’articolo 2, e destinati, anche nel
quadro di una prestazione di servizi ai consumatori o suscettibili, in condizioni
ragionevolmente prevedibili, di essere utilizzati dai consumatori, anche se non loro
destinati, forniti o resi disponibili a titolo oneroso o gratuito nell’ambito di un’attività
commerciale, indipendentemente dal fatto che siano nuovi, usati o rimessi a nuovo)
siano sicuri. Inoltre nel primo considerando della direttiva si afferma: “Poiché occorre
introdurre numerose modificazioni alla direttiva 92/59/CEE al fine di completarne,
rafforzarne o chiarirne numerose disposizioni alla luce dell’esperienza maturata e dei
recenti sviluppi in materia di sicurezza dei prodotti di consumo nonché delle modifiche
introdotte nel trattato, in particolare nell’articolo 152 relativo alla sanità pubblica e
nell’articolo 153 riguardante la protezione dei consumatori e alla luce del principio di
precauzione, è opportuno, ai fini di chiarezza, procedere alla rifusione della direttiva
92/59/CEE.”
Pertanto puntuale applicazione del principio di precauzione può rinvenirsi nelle
disposizioni della predetta direttiva con la quale si stabiliscono i seguenti punti fermi:
* i produttori sono tenuti ad immettere sul mercato soltanto prodotti sicuri (art.3,
comma primo);
* un prodotto è ritenuto sicuro (art. 3, paragrafi secondo e terzo) allorquando:
- per quanto concerne gli aspetti disciplinati dalla pertinente normativa nazionale,
quando in mancanza di disposizioni comunitarie specifiche che ne disciplinano la
sicurezza, è conforme alle norme specifiche dello Stato membro nel cui territorio è
commercializzato che sono stabilite nel rispetto del trattato (con particolare riferimento
agli articoli 28 e 30 del medesimo che fissano i requisiti cui deve rispondere il
prodotto sul piano sanitario e della sicurezza per potere essere commercializzato);
- è conforme alle norme nazionali non cogenti che recepiscono le norme europee, i cui
riferimenti sono stati pubblicati dalla commissione nella Gazzetta ufficiale delle
comunità europee a norma dell’articolo 4, mentre gli Stati membri pubblicano i
riferimenti di tali norme nazionali;
- in circostanze diverse da quelle sopra citate viene valutata la sua conformità
all’obbligo generale di sicurezza tenendo conto in particolare, se esistono, dei seguenti
elementi:
* norme nazionali non cogenti che recepiscono norme europee pertinenti diverse da
quelle sopra citate al secondo paragrafo;
* norme in vigore nello Stato membro in cui il prodotto è commercializzato;
* raccomandazioni della Commissione relative ad orientamenti sulla valutazione della
sicurezza dei prodotti;
* codici di buona condotta in materia di sicurezza dei prodotti vigenti nel settore
interessato;
* ultimi ritrovati della tecnica;
* sicurezza che i consumatori possono ragionevolmente attendere.
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L’articolo 3, paragrafo 4, permette agli Stati nazionali, pur in presenza di una sua
conformità alle disposizioni previste dai paragrafi 2 e 3 dell’articolo 3, di adottare nei
confronti di un prodotto le opportune misure per limitarne l’immissione sul mercato o
chiederne il ritiro dal mercato qualora, nonostante tale conformità, il prodotto si riveli
pericoloso. Tale precisazione costituisce esplicita applicazione dei principi di
precauzione e di cautela e non contrasta ai divieti, previsti dagli articoli 28 e 29 del
Trattato, di imposizione di limiti alle importazioni o alle esportazioni tra gli Stati
membri giacché l’articolo 30 del Trattato consente agli Stati membri di apporre limiti
alla libera circolazione di beni all’interno dell’Unione purché siano giustificati da
motivi “di moralità pubblica, di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di tutela della
salute e della vita di persone e degli animali o di preservazione dei vegetali, di
protezione del patrimonio artistico o archeologico nazionale, o di tutela della
proprietà industriale e commerciale”. Occorre notare che, secondo quanto sarà
precisato in seguito, tali limiti non devono costituire un mezzo di discriminazione
arbitraria, né una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati e perché valgano
nei confronti degli Stati membri devono essere denunciati alle competenti Autorità
Comunitarie in conformità alle norme del Trattato.
D’altro canto i produttori (art. 5) sono destinatari dei seguenti obblighi:
- devono fornire ai consumatori le informazioni che permettano loro di valutare i rischi
inerenti ad un prodotto durante la durata di utilizzazione normale o ragionevolmente
prevedibile dello stesso, allorquando tali informazioni non siano immediatamente
percettibili senza adeguate avvertenze, al fine di consentire al consumatore di
premunirsi contro tali rischi. Tale obbligo è coerente con quanto stabilito dall’articolo
153 del Trattato il quale prevede che, al fine di promuovere gli interessi dei
consumatori, la Comunità contribuisce a tutelare la salute, la sicurezza e gli interessi
economici dei consumatori nonché a promuovere il diritto all’informazione,
all’educazione e all’organizzazione per la salvaguardia dei propri interessi;
- devono fare sì che i consumatori siano informati sui rischi che tali prodotti
potrebbero presentare;
- intraprendere le azioni opportune, compresi, se necessario per evitare tali rischi, il
ritiro dal mercato, l’informazione appropriata ed efficace dei consumatori e il richiamo
del prodotto.
La peculiare disciplina delle “regole tecnica” è stabilita:
- dall’articolo 9, comma primo, della legge n. 317/1986 (così come modificato ed
integrato dalla legislazione successiva) per cui le regole tecniche non possono essere
messe in vigore prima del termine di tre mesi dalla comunicazione del loro progetto
alla Commissione delle Comunità europee. Tale previsione trova il suo fondamento
(esplicato dall’articolo 9, comma secondo, della legge 317/1986) dalla necessità che
entro tale termine la norma sia oggetto di un parere circostanziato della Commissione
ovvero di un’osservazione da parte di uno Stato membro della Comunità in quanto la
regola potrebbe creare ostacoli tecnici alla libera circolazione dei beni e in tali casi la
sua entrata in vigore è differita di sei mesi;
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STUDIO LEGALE ODDO
3)
L’applicazione giurisprudenziale del concetto di regola
d’arte e di norma tecnica in materia di sicurezza degli
impianti, componenti ed apparecchiature a gas.
I principi testè esposti sono stati oggetto di un interessante esame giurisprudenziale e
che è stato trattato dal giudice amministrativo di prima e ultima istanza 3 . Il caso
in questione riguardava la messa in vendita sul mercato italiano di un innovativo
sistema di installazione degli impianti, costituito da raccordi a pressare per la
giunzione di tubi convoglianti gas, sistema certificato in Germania dall’organismo
competente secondo la legge tedesca, il sistema quale era stato sottoposto ad una
richiesta di regolarizzazione alle norme vigenti in Italia per gli impianti di adduzione
di gas GPL. Invero il 2/5/2002 il Comando provinciale dei Vigili del Fuoco di Belluno
ingiungeva con una nota, fatta propria dal Sindaco del Comune competente per
territorio, all’utilizzatore del predetto impianto di metterlo a norma in quanto il
medesimo appariva difforme alle vigenti norme di sicurezza e le giunzioni dei tubi
erano state eseguite “con una tipologia non prevista dalla vigente normativa tecnica
espressa con norma UNI 7129”. La società produttrice impugnava l’ordinanza
denunciandone l’illegittimità per violazione di legge e per eccesso di potere sotto il
profilo del difetto di istruttoria, del difetto di motivazione e della contraddittorietà,
mentre resistevano in giudizio sia il Comune interessato, chiedendo il rigetto del
ricorso per infondatezza, sia il Ministero dell’Interno il quale affermava la propria
sostanziale estraneità alla vicenda. Il Tribunale Amministrativo Regionale del
Veneto accoglieva il ricorso dell’impresa produttrice sulla base di tre argomenti:
- la norma UNI – CIG 7129 non è una norma cogente, ma una norma il cui
rispetto fa sorgere una presunzione di esecuzione dei lavori a regola d’arte;
- la garanzia del livello di sicurezza è data dalla conformità alla regola d’arte
certificata dall’installatore con la dichiarazione rilasciata ai sensi dell’art. 9 della
legge 5/3/1990 n. 46;
- il prodotto in oggetto costituito dalle giunzioni a pressare è stato realizzato
secondo la normativa emanata dal DIN (Deutsches Institut fur Normung),
Organismo di Normalizzazione tedesco competente a certificare la validità di tali
prodotti.
Avverso tale sentenza il Ministero dell’Interno ha proposto ricorso (chiedendone
l’annullamento previa sospensione dell’efficacia) al Consiglio di Stato che ha respinto
la predetta istanza cautelare sulla base dell’insussistenza dei presupposti giuridici del
medesimo in quanto, dalla documentazione prodotta in giudizio e richiamata
nell’impugnata sentenza, “sembra desumersi la presunzione di conformità, valendosi,
l’organo nazionale di normalizzazione straniero (tedesco) dall’organismo che nella
fattispecie ha attestato”.
3
Vedasi sentenza n. 4041/2003 emessa il 9/7/2003 dal Tribunale Amministrativo del
Veneto e l’ordinanza n. 1916/2004 emessa il 27/4/2004 e depositata il 28/4/2004 dalla
Quarta Sezione del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale.
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STUDIO LEGALE ODDO
Dalla predetta vicenda emergono due primi motivi di riflessione: da un lato, il
prodotto contestato, per le sue caratteristiche tecniche e in quanto realizzato e
progettato successivamente al 1992, non sembra contemplato, ma neppure vietato
espressamente dalla norma UNI – CIG 7129/1992, dall’altro lato sono sempre e
soltanto i giudici nazionali e comunitari i soggetti chiamati a fornire l’interpretazione
ed a determinare l’effettiva applicazione in Europa del diritto comunitario vigente, in
difetto di un adeguato aggiornamento culturale e normativo non soltanto delle
categorie degli operatori economici interessati, ma anche dei competenti organi
statali di vigilanza.
Altri i motivi di riflessione meritano di essere sviluppati perché sono tali da
coinvolgere (quasi) tutta la vigente legislazione nel settore dei prodotti e degli
impianti, a livello nazionale e comunitario, secondo logiche giuridiche, tecniche ed
economiche che non sono limitabili agli apparecchi ed agli impianti a gas.
Sono molte ed importanti, infatti, le conseguenze che – per il mondo industriale,
commerciale e professionale in genere – nonché per le autorità e le pubbliche funzioni
di controllo e vigilanza – si collegano ad un corretto o scorretto inquadramento nel
rapporto tra gli obblighi legislativi e le soluzioni tecniche consentite per il rispetto
di tali obblighi.
In un mondo sempre più specificamente regolato da norme legislative e sempre più
dipendente o, almeno, sempre più condizionato dalle tecnologie, non può che
acquistare importanza crescente la capacità di risposta ai tanti problemi sollevati
dal carattere naturalmente dinamico della scienza e della tecnica in
contrapposizione al carattere tendenzialmente statico del dato legislativo.
A questo riguardo una risposta lungimirante è venuta già nel ’68 e nel ’71, dal
legislatore italiano con la L. 186/68 e la L. 1083/71 nei settori rispettivamente,
dell’elettricità e del gas. Tanto la prima che la seconda legge, infatti, sono improntate,
per apparecchiature ed impianti – ad uno schema che si impernia sull’obbligo tassativo
di rispetto della “regola d’arte” o, rispettivamente, delle “regole tecniche” in materia
di sicurezza, nonché sul rinvio alle “norme tecniche” codificate dal CEI o dall’UNI,
quale criterio di presunzione legale di conformità nei casi in cui siano applicate le
suddette norme.
Evidente e condivisibile lo scopo: assicurare, per un verso, sempre e comunque – con
l’imposizione di un obbligo inderogabile – il rispetto dei principi e dei requisiti
essenziali di sicurezza per la tutela degli utilizzatori di apparecchiature ed impianti sia
elettrici che a gas e, per altro verso, lasciare spazio alle soluzioni tecniche praticabili
alla luce dello stato della scienza e della tecnica, purché si tratti di soluzioni sicure.
Risulta altresì evidente, alla lettura (e comprensione) dei pur brevi testi legislativi, lo
strumento utilizzato per raggiungere ciascuno degli scopi indicati. Infatti l’obiettivo
del rispetto inderogabile dei principi di sicurezza è assicurabile per mezzo di una
norma giuridica imperativa, mentre l’apertura verso soluzioni tecniche comunque
rispondenti allo stato della scienza e della tecnica può essere garantito attraverso il
10
STUDIO LEGALE ODDO
ricorso al meccanismo della presunzione legale, se congiuntamente valutato alla
imposizione di un obbligo comunque inderogabile.
Quest’ultimo consente di presumere la conformità ai requisiti essenziali di sicurezza
(con riferimento al testo delle leggi nazionali e fatta salva l’integrazione del diritto
comunitario) allorché siano applicate le specifiche tecniche codificate in “norme” dagli
organismi di normazione tecnica (CEI ed UNI, per l’Italia), senza, peraltro, escludere
soluzioni diverse purché sicure.
“Presunzione legale” vuol dire, infatti, nella sostanza, un’agevolazione probatoria
che si traduce nell’esonero della dimostrazione di aver rispettato i principi di
sicurezza nei casi in cui si sia fatto ricorso a soluzione tecniche costituite da “norme”
che abbiano superato il vaglio ufficiale dell’organismo preposto alla funzione
normativa e che abbiano, altresì, superato la relativa ed eventuale procedura ai fini di
pubblicazione. Tale meccanismo giuridico comporta evidentemente che il ricorso alla
“norma” tecnica costituisce essenzialmente un fatto volontario, potendosi comunque
(salvo sempre il rispetto dei principi di sicurezza) applicare soluzioni tecniche diverse
ed alternative rispetto alle “norme” tecniche codificate dall’ente normatore e già
preventivamente approvate (in modo diretto od indiretto) dall’ “Autorità” pubblica. E’
infatti ben possibile – o, anzi, probabile – che la scienza e la tecnica si sviluppino con
ritmo assai più veloce rispetto al processo di formazione delle norme tecniche. Tale
processo risente inevitabilmente di tutte le variabili collegate a motivi di “consenso”
che richiedono accordi, equilibri, valutazioni e procedure capaci di coinvolgere una
varietà di interessi (non sempre collimanti, per le più svariate ragioni) ed una
molteplicità di soggetti, a livello nazionale, comunitario o internazionale.
Il processo formativo della “norma tecnica” non può dunque tenere il passo con la
evoluzione della scienza e della tecnica nel settore elettrico e del gas, così come in
tutti gli altri settori la cui connotazione tecnica e/o tecnologica può essere più o meno
marcata. Perché dunque impedire l’ingresso a soluzioni tecniche più avanzate nei
casi in cui si prevedano specifiche tecniche (in forma di “norma” o meno) capaci
di rispettare pienamente l’obbiettivo dalla sicurezza? Un tale divieto non
risponderebbe ad alcuna ratio legis che fosse ispirata alla tutela degli utenti di
apparecchiature ed impianti. Infatti:
1) non sarebbe razionalmente giustificabile il divieto di una soluzione tecnica (pur
non codificata in “norme”) il cui impiego dovesse garantire livelli di sicurezza
equivalenti o superiori rispetto a quelli assicurati da una soluzione tecnica già
codificata in “norma” (tecnica) dal CEI o dall’UNI.
2) Risulterebbe addirittura in contrasto con gli interessi di utenti professionali o
semplici consumatori la preclusione – con divieto di legge - di una possibilità di
scelta tra le diverse “offerte” sul mercato.
3) Le soluzioni “innovative”, purché sicure, possono giovare – sul piano tecnico,
prestazionale e/o economico – al “progresso”, alla ricerca ed all’innovazione.
Ma c’è di più: un’eventuale standardizzazione obbligatoria – in quanto imposta per
legge – creerebbe un vincolo anomalo per le imprese che verrebbero costrette ad
attestarsi su livelli normativi uniformi non già sotto l’aspetto legislativo (che
11
STUDIO LEGALE ODDO
impone solo una uniformità di “regola d’arte” sul piano degli obiettivi e non anche
degli strumenti per conseguirli), bensì anche di specifica tecnica, con
l’immancabile risultato di frustrare già in partenza ogni sforzo competitivo verso
la ricerca e l’innovazione che potrebbero scoprire e rendere praticabili soluzioni
tecniche migliorative.
Da qui, pertanto, l’inevitabile mortificazione degli stimoli alla concorrenza, in
radicale contrasto con i principi dell’ordinamento nazionale e comunitario che
sono mirati a promuovere – salvaguardando la sicurezza - il regime concorrenziale
sotto tutti i profili utili ai consumatori ed agli utenti professionali. Tali profili
devono essere considerati in funzione della possibilità di scelta tra le diverse
offerte europee sotto i vari profili di prestazione e/o funzionali e/o economici,
e/o di vantaggio di qualsiasi genere, ivi compreso quello di una sicurezza
potenzialmente equivalente o anche maggiore. Non può essere scartata
quest’ultima ipotesi, se solo si considera come lo sviluppo scientifico e tecnico
possano condurre a soluzioni “più avanzate” anche sul piano della sicurezza.
Non può, infatti, costituire un “tabù” – e non deve assurgere a mito né ad oggetto
di venerazione sacrale – l’idea (erroneamente diffusa) che i livelli di sicurezza
garantiti dalle “norme” codificate siano i migliori in assoluto e risultino
irraggiungibili da parte di soggetti che siano diversi dal “normatore” ufficiale (che,
è opportuno ribadirlo, non è il legislatore il quale, invece, si serve del “normatore”
tecnico entro i limiti fissati dallo stesso legislatore). Infatti, anche la “norma
tecnica” - come tutti gli “atti” umani – è soggetta ad obsolescenza o, anche, a
potenziali “lacune”, come espressamente riconosce il legislatore comunitario in
tutte le direttive basate sul nuovo “approccio”, ove un’apposita “clausola di
salvaguardia” disciplina sempre l’ipotesi di “prodotti” difettosi sul piano della
sicurezza, pur se conformi a norme “codificate” dall’ente normatore (sia esso il
CEN o il CENELEC, e, quindi, anche l’UNI o il CEI).
Dunque, in conclusione su questo punto, la “norma tecnica”, alla luce di quanto
già evidenziato, non è “obbligatoria” ex lege ed è pure soggetta a “revoche”,
“ritiri” o “modifiche”, con la conseguenza anche, eventualmente, del ritiro dal
mercato dei prodotti conformi ad una “norma” della quale– nell’ambito di una
apposita procedura comunitaria – sia stata accertata una “lacuna” sul piano della
sicurezza.
Ne deriva l’ulteriore conclusione che la “presunzione legale” riconosciuta a
favore della “norma” codificata dall’ente normatore non ha carattere assoluto
bensì relativo, potendosi, comunque, mediante idonee procedure (quantomeno
sotto il profilo del diritto comunitario), superare la “presunzione” stessa grazie alla
dimostrazione di una “lacuna” di sicurezza della norma.
Risultano così ampiamente dimostrate le ragioni che hanno indotto il
lungimirante legislatore italiano del ’68 e del ’71 a privilegiare lo schema
legislativo fondato sulla tassativa obbligatorietà della “regola d’arte” (o delle
“regole tecniche” per la sicurezza), sul rinvio alle “norme” tecniche con carattere
di “Presunzione legale” (e non già di “obbligo”), e sulla conseguente “apertura”
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STUDIO LEGALE ODDO
verso soluzioni tecniche diverse da quello codificate come “norme” purché
rispettose dei principi di sicurezza in cui si condensa e si sintetizza il concetto di
“regola d’arte”.
La lungimiranza del legislatore italiano si è rivelata anche nel momento in cui ha
anticipato la legislazione comunitaria ispirata al cosiddetto “nuovo approccio”.
Tale legislazione è infatti basata – per le ragioni già illustrate – su uno schema
legislativo che ricalca fondamentalmente – sul piano degli obblighi, delle
presunzioni legali e delle “facoltà” – l’impianto legislativo della L. 186/68 e della
L. 1083/71 ma, naturalmente, con una differenza di fondo che è dovuta alla stessa
ragione d’essere delle istituzioni e dell’ordinamento comunitario. Il riferimento è,
ovviamente, alla priorità accordata alle norme europee armonizzate rispetto a
quelle nazionali ed alla “equivalenza”, in linea di principio, tra le “norme” e le
“certificazioni” nazionali dei rispettivi paesi membri dell’Unione europea. A
quanto sopra non si può non aggiungere anche la conseguenza dell’applicazione
che la giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee ha
fatto dei principi cardine (art. 28 del Trattato U.E.) dell’ordinamento
comunitario e che si riassumono nei seguenti termini: un prodotto legalmente
fabbricato e commercializzato in un paese membro della U.E. deve, salvo
dimostrazione di effettivo pericolo per la “sicurezza”, essere liberamente
commercializzato ed utilizzato anche negli altri paesi della U.E..
*
*
*
Queste ultime considerazioni spiegano chiaramente, tra l’altro, quella sorta di
“rattoppo” che è stato cucito sulla L. 46/90 per mezzo dell’art. 5, comma 5 del
DPR 447/91 nel punto in cui si riconosce equivalenza giuridica – rispetto alle
norme UNI e CEI – alle soluzioni normative praticate in altri paesi membri
della U.E. (quindi, ad esempio, rispetto alle norme DIN, AFNOR, BSI …) 4 .
Sul piano più generale, può osservarsi che l’equivalenza “di principio” a livello
comunitario non riguarda soltanto le soluzioni tecniche “codificate” in “norme”,
ma anche le altre soluzioni tecniche comunque riconosciute dall’ordinamento
nazionale del paese in cui un prodotto è fabbricato ed utilizzato.
Vale la pena ancora di rilevare, dando a “Cesare quel che è di Cesare”, come
perfino sul piano del lessico adoperato il legislatore italiano sia stato
lungimirante se è vero, come è vero, che ha sempre utilizzato il termine “regola”
(d’ “arte” o “tecnica”, rispettivamente nella L. 186/68 e nella L. 1083/71) per
definire un aspetto obbligatorio della legge, mentre ha adoperato il termine
“norma” (CEI o UNI) per indicare una soluzione tecnica comunque non
“obbligatoria”, seppure, eventualmente, dotata di una presunzione legale (peraltro
4
Residua ancora, tuttavia, un’ombra di illegittimità comunitaria anche su questa norma di “primo rimedio” in
quanto: 1) si condiziona il riconoscimento di “equivalenza" di norme diverse da quelle UNI e CEI ad una
(illegittima) dimostrazione di sicurezza equivalente; 2) si limita il suddetto “riconoscimento” all’ipotesi di
specifiche “norme” anziché all’applicazione del principio generale di “equivalenza” stabilito dall’art. 28 del
Trattato U.E. (secondo quanto sarà meglio illustrato successivamente).
Ma, a questo specifico riguardo, cfr. anche la successiva nota n. 5 in relazione alle prospettive di evoluzione
legislativa (abrogazione e deroghe) che riguardano tanto la L. 46/90 che il DPR 447/91.
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STUDIO LEGALE ODDO
relativa e non assoluta, alla luce di quanto già dimostrato). Il lessico adoperato dal
legislatore italiano intorno agli anni ’70 si è dunque rivelato, nel tempo, come
perfettamente aderente ai concetti ed alle definizioni adottati con la direttiva
98/34/CE.
Pertanto, come si può rilevare da una schematica ricostruzione del quadro
legislativo, la Sentenza del TAR del Veneto qui commentata non è rivoluzionaria
né scandalosa (come pure qualcuno vorrebbe dipingerla). Del tutto al contrario,
si tratta di una pronuncia che ha applicato correttamente norme di legge e
principi di diritto che si impongono a livello sia nazionale che comunitario e
di cui risulterebbe, se non “scandalosa”, almeno grave l’ignoranza e la
disapplicazione.
Tali principi, peraltro, impongono di “rileggere” (ma l’espressione non risulti
troppo concessiva) la L. 1083/71, la L. 46/90 e la L. 186/68, nonché tutta la
legislazione tecnica per i prodotti e per gli impianti, in modo da riconsiderare la
portata del concetto di “regola tecnica”, nonché da riconsiderare, in modo ancora
più radicale, quello di presunzione legale alla luce di un quadro normativo
profondamente rivoluzionato. Qualora non si procedesse in questo modo,
infatti, non sussisterebbe altra strada se non quella di una serie di procedure
di infrazione contro lo Stato italiano per l’applicazione troppo “autarchica”
dei concetti di presunzione legale e di “norma” nel suo apparato legislativo.
Bene farebbero, pertanto, tutti gli ambienti interessai, ad ogni livello - pubblico o
privato, imprenditoriale, o istituzionale, normativo, certificativo o di controllo e
vigilanza – a prendere atto della sentenza qui commentata, così da valorizzarne gli
spunti di riflessione e da trarne le dovute conseguenze.
Anche la Sentenza di un Tribunale, se conosciuta e compresa nella sua reale
portata, può costituire una occasione importante per uscire da un “piccolo mondo
antico” che non ha giustificazioni letterarie e che si pone ormai al di fuori di ogni
realtà giuridica, tecnica ed economica.
A questo riguardo esistono probabilmente “ritardi” che si pongono a monte delle
attività pubbliche e private perché riguardano la scuola, la formazione e
l’informazione – a tutti i livelli, nessuno escluso (neppure quello universitario).
A maggior ragione, dunque, conviene cogliere, quando lo meritano, le occasioni
giudiziarie di aggiornamento professionale su problemi e soluzioni che possono
apparire sorprendenti solo a causa delle gravi e perduranti “lacune” istituzionali
dell’insegnamento in materia di legislazione nazionale e comunitaria per i prodotti
e per gli impianti.
*
*
*
Sul piano dei chiarimenti giurisprudenziali sono infatti intervenute
successivamente alla sentenza del TAR del Veneto cui si è prima accennato, altre
sentenze sia del Giudice amministrativo che del Giudice ordinario (Tribunale di
Mantova n. 253/06), tutte indirizzate nella stessa direzione e tutte volte ad
interpretare correttamente il rapporto tra “regola d’arte” e “norma” tecnica (in questo
14
STUDIO LEGALE ODDO
caso dell’UNI ma analoga conclusione vale per quella del CEI, stante la stessa natura e
la stessa efficacia di “norma”) nell’ambito della L. 46/90.
A questo riguardo è sufficiente citare la parte essenziale della motivazione adottata in
sentenza dal TAR del Trentino Alto Adige (n. 37/2005) che si richiama –
confermandone l’indirizzo – al TAR del Veneto (n. 4041/2003) e che così afferma:
“gli artt. 1 della L. 1084/71 e 7 della l. 46/90 stabiliscono il principio secondo cui gli
impianti del tipo de quo ed i materiali usati nella loro costruzione devono essere
realizzati e definiti a regola d’arte;
- è stato poi affermato che – al di là del fatto che le norme UNI-GIG non hanno
carattere cogente ..... raccordi, componenti e materiali, anche non espressamente
prescritti dalle norme .... potrebbero essere adottati, in alternativa, se garantiscono
lo stesso livello di sicurezza …” (TAR Veneto, Sez. 1, 4041/2003).
Interessante risulta altresì – come più sopra anticipato - il nucleo essenziale della
motivazione adottata dal Tribunale di Mantova (con la sentenza prima citata) che
ha affermato: “Pur prescindendo dalla questione afferente la denuncia dei vizi e dei
difetti in diritto, sono fondate le osservazioni svolte da ……………., la quale
commercializza in Italia prodotti de quibus fabbricati da una società di diritto
tedesco e regolarmente certificati nello stato di appartenenza.
Come giustamente rilevato dalla parte opposta, la non conformità dei materiali alla
normativa UNI-CIG non integra un vizio della res, ma conferisce solo una
presunzione di esecuzione a regola d’arte del prodotto.
Anche nell’ultimo decreto del Ministero delle Attività Produttive del 26.03.2004 n.
14183 dettato in materia di sicurezza degli impianti, è scritto nel preambolo che le
tabelle UNI-CIG mantengono il carattere di norme volontarie e, pur non costituendo
regole tecniche ai sensi della direttiva 98/34/CE che ha abrogato e sostituito la
direttiva 83/189/CEE, conferiscono ai materiali, prodotti ed impianti costruiti
secondo le tabelle, la presunzione di conformità alla regola della buona tecnica per
la salvaguardia della sicurezza.
Sotto tale prospettiva, in difetto di espressa previsione, le tabelle UNI-CIG non sono
dunque inderogabili, ma costituiscono solo una presunzione iuris tantum che il
materiale usato o l’impianto realizzato in conformità è idoneo a garantire la
scurezza dell’impianto a gas.”.
*
*
*
Una sintesi che si può ricavare dalle sentenze fin qui esaminate può offrire le
seguenti conclusioni generali ai fini del rapporto tra “regola d’arte” e “norme
tecniche”:
“la regola d’arte” è sempre obbligatoria nelle attività di progettazione,
realizzazione, installazione e manutenzione di impianti, macchine ed
apparecchiature;
le “norme tecniche” non sono mai obbligatorie per legge;
15
STUDIO LEGALE ODDO
-
le “norme tecniche” possono assumere valenze obbligatorie soltanto come
eventuale obbligazione contrattuale;
le “norme tecniche” (di qualsiasi fonte e provenienza: IEC, ISO, CENELEC,
CEN, CEI, UNI, ecc..) possono, tutt’al più, acquistare una rilevanza giuridica
di “presunzione di conformità” alla “regola d’arte” sul piano della sicurezza
(ma non necessariamente della funzionalità) di impianti, apparecchiature, ecc..
soltanto quando siano state espressamente richiamate dalla legge per un tale
effetto (con l’espressione “si considerano” o “si presumono”);
in mancanza di espresso richiamo legislativo le norme tecniche (siano esse
EN, IEC, UNI, CEI, ecc..) non assumono la rilevanza giuridica di presunzione
(legale) di conformità potendo, tutt’al più, costituire un utile elemento
(unitamente ad altri elementi) di valutazione dello “stato dell’arte” in un
determinato momento storico.
*
*
*
Merita altresì di essere rilevato come, in un caso emblematico per i rapporti tra
norma nazionale italiana e norma comunitaria, sia intervenuta la Corte di
Giustizia delle Comunità europee (v. Sentenza 25 marzo 1999 in causa c-111/97).
La “normativa nazionale” italiana che è stata condotta sul banco degli imputati era
infatti la seguente: “In Italia l’art. 5, comma 10, del decreto del Presidente della
Repubblica 26 agosto 1993, n. 412 <<Regolamento recante norme per la
progettazione, installazione, l’esercizio e la manutenzione degli impianti termici
degli edifici ai fini del contenimento dei consumi di energia, in attuazione dell’art. 4,
della legge 9 gennaio 1991, n. 10>> (Supplemento ordinario alla Gazzetta ufficiale
della Repubblica italiana n. 242, del 14 ottobre 1993; in prosieguo: il DPR n. 412/93),
prescrive, nei casi di nuova installazione o di ristrutturazione dell’impianto termico
che comportino l’installazione di generatori di calore individuali, esclusi i casi di
mera sostituzione di questi ultimi, l’impiego di generatori isolati rispetto all’ambiente
abitato, oppure di apparecchi di qualsiasi tipo se installati all’esterno o in locali
tecnici adeguati.”.
La suddetta norma nazionale ha causato la condanna dello Stato italiano da parte della
Corte di Giustizia che, infatti, ha così stabilito: “1) La Repubblica italiana, avendo
istituito e mantenuto in vigore un regime che, nel caso di nuova installazione o di
ristrutturazione di apparecchi a gas, prescrive l’utilizzazione nei locali abitati di
generatori di calore esclusivamente di tipo “stagno”, con ciò vietando
implicitamente l’istallazione di generatori di calore di tipo diverso conforme alla
direttiva del Consiglio 29 giugno 1990, 90/396/CEE, concernente il riavvicinamento
delle legislazioni degli Stati membri in materia di apparecchi a gas, è venuta meno
agli obblighi impostile da tale direttiva.
2) La Repubblica italiana è condannata alle spese.
*
*
*
Successivamente alla condanna dello Stato italiano è intervenuta ancora la
Commissione europea (Procedura n. 93/2294) – ex art. 228 - del Trattato, per
imporre allo Stato medesimo la soppressione della seguente parte della norma
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STUDIO LEGALE ODDO
dell’art. 3 del DPR 551/99 (“Regolamento recante modifiche al decreto del Presidente
della Repubblica 26 agosto 1993, n. 412, in materia di progettazione, installazione,
esercizio e manutenzione degli impianti termici degli edifici, ai fini del contenimento
dei consumi di energia:
…OMISSIS…
Al fine di garantire una adeguata ventilazione, nel caso di installazione di generatori
di tipo B1 in locali abitati, dovrà essere realizzata, secondo le modalità previste al
punto 3.2.1 della norma tecnica UNI-CIG 7129, apposita apertura di sezione libera
totale non inferiore a 0,4 metri quadrati”.
Questa norma è stata infatti considerata incompatibile con la necessità di adeguare
l’ordinamento nazionale alla direttiva 90/396/CEE (recepita nell’ordinamento
italiano con il DPR 661/96) secondo l’interpretazione e la decisione di condanna già
fornite dalla Corte di Giustizia delle U.E. con la Sentenza prima citata.
L’adeguamento alla suddetta direttiva comunitaria impone peraltro, anche alla
luce della giurisprudenza che sarà qui di seguito esposta, di considerare come
disapplicabili tutte le norme della L. 1083/71 che si pongono in contrasto con la
direttiva stessa. Pertanto, nel settore coperto da quest’ultima, si deve considerare
“regola d’arte” esclusivamente l’insieme dei requisiti essenziali previsti ed elencati
nell’All. 1 alla direttiva medesima. Inoltre, la presunzione legale di conformità non
può più essere riferita alle norme UNI-CIG, dovendosi prendere in considerazione
tutte le “norme” (tecniche) comunitarie (EN) previste e richiamate dalla Direttiva
90/396/CEE e dal decreto italiano di recepimento, il DPR 661/96.
*
*
*
Merita, ancora, di segnalare la giurisprudenza che ha fissato il principio sulla base del
quale si risolve ogni caso di contrasto tra norma comunitaria (contenuta in una
direttiva) e norma nazionale italiana. Tale principio si può così sintetizzare:
Premesso che il diritto nazionale deve essere interpretato, ove possibile, alla luce
della lettera e dello spirito della direttiva, nel caso in cui il risultato prescritto
della direttiva non possa essere conseguito mediante interpretazione non esiste
altra soluzione (legittima) se non l’applicazione della norma comunitaria e la
disapplicazione della norma di diritto interno configgente con la norma
comunitaria.
Il principio così consolidato è stato da ultimo espresso - con efficacia sintetica, con
chiarezza cristallina e con valore di guida generale - dalla sentenza della Corte di
Giustizia CE, sez. riun, 9 settembre 2003, n. 198, che ha così regolato il rapporto
tra diritto comunitario e diritto interno in tutti i casi di contrasto: “il principio del
primato del diritto comunitario esige che sia disapplicata qualsiasi disposizione della
legislazione nazionale in contrasto con una norma comunitaria, indipendentemente
dal fatto che sia anteriore o posteriore a quest’ultima. Tale obbligo di disapplicazione
incombe non solo al giudice nazionale, ma anche a tutti gli organi dello Stato,
comprese le autorità amministrative, il che implica, ove necessario, l’obbligo di
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STUDIO LEGALE ODDO
adottare tutti i provvedimenti necessari per agevolare la piena efficacia del diritto
comunitario”.
*
*
*
Il suddetto “principio” è stato sostanzialmente applicato e conseguentemente ribadito
dalla Corte Costituzionale italiana che si è anch’essa espressa con la massima
chiarezza: “Ribaditi questi principi, si deve concludere, con riferimento al caso di
specie, che tutti i soggetti competenti nel nostro ordinamento a dare esecuzione alle
leggi (e agli altri atti aventi forza o valore di legge) – tanto se dotati di poteri di
dichiarazione del diritto, come gli organi giurisdizionali, quanto se privi di tali poteri,
come gli organi amministrativi – sono giuridicamente tenuti a disapplicare le norme
interne incompatibili con le norme stabilite dagli art. 52 e 59 del trattato Cee
nell’interpretazione datane dalla Corte di giustizia europea. Ciò significa, in pratica,
che quei soggetti devono riconoscere come diritto legittimo e vincolante la norma
comunitaria che, … (Corte Costituzionale, Sentenza 11 luglio 1989, n. 389)”.
Né, a questo riguardo, è stata meno chiara la successiva giurisprudenza della Corte
Costituzionale quando ha richiamato le pronunce precedenti per ribadire che: “La
successiva giurisprudenza di questa corte ha confermato ed ulteriormente sviluppato
questo orientamento arricchendo con nuove tessere il complessivo mosaico della
“diretta applicabilità” della normativa comunitaria. Ed infatti con sentenza n. 113 del
1985 (id., 1985, I, 1600) è stata ritenuta l’immediata applicabilità anche delle
statuizioni delle sentenze interpretative della Corte di giustizia delle Comunità
europee pronunciate in via pregiudiziale ai sensi dell’art. 177 del trattato.
Successivamente, analoga efficacia è stata riconosciuta, con sentenza n. 389 del 1989
(id., 1991, I, 1076) anche alle norme comunitarie come interpretate in pronunce rese
dalla medesima corte in sede contenziosa ai sensi dell’art. 169 del trattato; la
medesima pronuncia ha anche affermato che la normativa comunitaria deve trovare
immediata applicazione non solo da parte del giudice nazionale nell’esercizio della
sua giurisdizione, ma anche della stessa pubblica amministrazione nello svolgimento
della sua attività amministrativa.” (Corte Costituzionale, Sentenza 18 aprile 1991 n.
168).
*
*
*
Si era già espressa in modo importante per incisività e chiarezza anche la
giurisprudenza del Consiglio di Stato, specie laddove aveva precisamente individuato
e chiaramente inquadrato i rapporti tra diritto interno e diritto comunitario, con tutte le
relative conseguenze in tema di applicazione del diritto comunitario in via diretta ed
in luogo di quello interno da disapplicare.
E’ stato, infatti, affermato che: “Costituisce ormai insegnamento assolutamente
consolidato il principio che, nel contrasto tra diritto interno e comunitario, la
prevalenza spetta al diritto comunitario, anche se la norma interna confliggente
venga emanata in epoca successiva (Corte cost. 170/84, Foro it., 1984, I, 2062); che
la Corte di giustizia delle Comunità europee ha la funzione di interpretare dei
principi di diritto comunitario equiparabili alle norme quanto all’obbligo di
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STUDIO LEGALE ODDO
osservanza degli Stati membri e quindi in funzione di fonte suppletiva di diritto
(dec.113/85, id., I, 1600); che la applicazione del diritto comunitario avviene in via
diretta in luogo di quello interno da disapplicare e che tale disapplicazione fa carico
non solo al giudice, ma anche agli organi della pubblica amministrazione nello
svolgimento della loro attività amministrativa e cioè anche d’ufficio
indipendentemente da sollecitazioni o richieste di parte (dec, 389/89, id., 1989, I,
1076; 168/91, id., 1992, I, 660) (Consiglio di Stato, Sez. IV; decisione 18 gennaio
1996, n. 54”).
*
*
*
Merita di essere rilevato e precisato, a questo riguardo, come il primato del
diritto comunitario sul diritto nazionale si imponga non soltanto in presenza di
direttive comunitarie ma anche sulla base degli stessi principi del Trattato che
conviene qui richiamare per la grande influenza che esplicano anche nel settore degli
impianti e dei componenti per impianti a gas.
Il principio fondamentale in questa materia è infatti quello prevista dall’art. 28 del
Trattato U.E. così formulato: “Sono vietate fra gli Stati membri le restrizioni
quantitative all’importazione nonché qualsiasi misura di effetto equivalente”.
E’ pur vero che la suddetta disposizione può incontrare un principio limitatore
nell’art. 30 del Trattato medesimo allorché sussistano “giustificati motivi” che
possono riguardare, tra l’altro, la “tutela della salute e della vita delle persone e degli
animali …”.
Ma questa disposizione è stata sempre interpretata dalla Corte di Giustizia nel
senso che l’ “onere” della prova dei “giustificati motivi” che possono limitare o
comunque, condizionare il “libero scambio” dei prodotti compete sempre allo Stato
membro che invoca i suddetti “motivi”(v. sentenza del 5 febbraio 2004, Commissione
c. Repubblica Italiana, causa C-270/02 § 22). Quasi mezzo secolo di esperienza
nell’applicazione del diritto comunitario dimostra che, il più delle volte, i motivi di
“sicurezza”invocati dallo Stato membro non sono adeguatamente supportabili sul
piano probatorio e si rivelano, piuttosto, un éscamotage o un pretesto per ostacolare la
libera circolazione del prodotto “straniero” per pregiudizi, interessi di lobby o, più
spesso ancora, per mascherare una forma di protezionismo occulto e strisciante con il
quale si tende a proteggere (senza mai dichiararlo) interessi economici locali o,
comunque, nazionali.
Si inseriscono in questo quadro molte procedure di infrazione che sono state
instaurate, ex artt. 226 del Trattato, dalla Commissione Europea contro lo Stato
italiano e che hanno condotto o alle modifiche della legislazione nazionale in
adeguamento ai “Pareri” della Commissione .europea o, in caso di mancato
adeguamento a tali “Pareri”, alle condanne dello Stato italiano da parte della Corte di
Giustizia della U.E.
Anche attualmente sono pendenti procedure comunitarie di infrazione nei confronti
dello Stato italiano a causa di “ostacoli agli scambi “riguardanti proprio il settore dei
componenti e sistemi per impianti a gas che, in attuazione del suddetto art. 28 del
19
STUDIO LEGALE ODDO
Trattato, devono essere riconosciuti ed accettati anche in Italia in quanto legalmente
prodotti e commercializzati in uno o più paesi della U.E.
Merita di essere ribadito, a questo riguardo, come il consolidato principio – ormai
considerato “punto cardinale” della materia in questione - che è stato affermato dalla
giurisprudenza della Corte di Giustizia della U.E. postula che qualsiasi prodotto
legalmente fabbricato o venduto in uno Stato membro dell’Unione europea debba
avere accesso al mercato di un altro Stato membro.
Da qui, pertanto, evidentemente, la conseguenza secondo la quale, tra l’altro, non è
generalmente possibile limitare la libera circolazione (nonché la libera produzione,
commercializzazione ed utilizzazione) ai soli prodotti che risultino conformi alla
normativa tecnica emanata dall’organismo di normazione del paese di origine.
Da qui, ancora, in particolare, la conclusione di prospettiva secondo la quale sono (al
momento) 5 candidate ad entrare nel mirino della Commissione europea per le relative
procedure di infrazione ex art. 226 del Trattato, (tra l’altro) le norme italiane del DPR
447/91, art. 5, comma 5 e l’art. 7 della Delibera 40/2004, pur nell’ultima versione
normativa che risulta da modificazioni parziali, equivoche o, comunque, inadeguate
rispetto agli obblighi imposti dall’adesione dell’Italia (dal ’57, con riferimento, allora,
alla “Comunità economica europea”) all’Unione europea.
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Infine, tre notazioni dovute alla necessità di sgomberare il campo da ricorrenti
quanto gravi equivoci che riguardano, in particolare:
il tentativo sempre risorgente di “annacquare” la portata del principio che è
stato affermato a partire già dal ’79, con la sentenza-pilota della Corte di Giustizia
delle Comunità europee (in causa C-120-78), nel caso assurto a simbolo del “mutuo
riconoscimento” e noto come “Cassis de Dijon”, principio che è stato sempre
confermato, sviluppato e potenziato dalla successiva giurisprudenza della stessa
Corte di Giustizia.
Pertanto, ogni tentativo di ridimensionare la portata del suddetto principio, secondo il
quale qualsiasi prodotto lecitamente fabbricato o venduto in uno Stato membro
dell’Unione europea deve avere accesso al mercato di un altro Stato membro, non ha
alcun fondamento giuridico e deve essere fermamente respinto alla luce delle sonore
bocciature inflitte dalla Commissione europea e dalla Corte di giustizia della U.E.. Può
darsi che un tale principio possa tornare scomodo a taluni. Certamente, però, esso ha
indicato una strada dalla quale non si può tornare indietro, salvo denunciare
unilateralmente i Trattati istitutivi della U.E. (ma nessuno Stato intende farlo, semmai,
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E’ necessario precisare, in conclusione di Relazione, che tutte le conclusioni esposte relativamente alla
legislazione italiana riguardano il diritto attualmente vigente, con la conseguenza che talune modificazioni
potrebbero essere successivamente prese in considerazione se e quando entreranno in vigore le modifiche
legislative e regolamentari che si prospettano ormai da lungo tempo, specie con riferimento alle prospettive di
abrogazione o di deroga in tutto o in parte della L. 46/90 e del DPR 447/91 ad opera della L. 26-2-2007 n. 17 che
richiama l’art. 11 – quaterdecies, comma 13, lett. a) del D.Lgs. 30-9-2005, n. 203, convertito in legge con
modificazioni, dalla L. 2/12/2005, n. 248 e che richiama, inoltre il DPR 6/6/2001, n. 380.
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altri Stati cercano di aderire o di entrare a farne parte) o salvo riuscire a dimostrare la
“inferiorità” dell’ordinamento di un paese europeo-comunitario nella tutela dei valori
fondamentali per la civiltà giuridica.
A riprova di quanto sopra, la Commissione europea richiama sempre e costantemente
questo “principio” nelle procedure di infrazione con le quali si intima agli Stati
membri l’adempimento degli obblighi comunitari in materia di libera circolazione
delle merci, pena il deferimento in Corte di Giustizia della U.E.
Anche il sempre risorgente tentativo di “leggere” la L. 1083/71, (come peraltro
mutatis mutandis, la L. 186/68) con gli occhi del passato - e con lo spirito del “piccolo
mondo antico” - è destinato ad essere sconfessato in ogni occasione di dibattito che si
svolga seriamente sul piano giuridico.
Infatti, la suddetta legge è destinata ad essere superata – ed abrogata tacitamente in
molte parti, non soltanto per effetto della direttiva 90/396/CEE e del D.Lgs. 661/96,
ma anche per effetto della direttiva 89/106/CEE e del DPR 246/93, nonché, in modo
molto più vasto e dirompente – per effetto degli artt. 28 e 30 del Trattato U.E. che
impongono, come già rilevato al punto precedente, l’accettazione “di principio” della
“regola d’arte” riconosciuta ed accettata anche in un solo Stato membro della U.E.. La
circostanza che quest’ultima la direttiva 89/106/CEE – ed il relativo decreto di
recepimento – comportino l’anomalia di “specificazioni tecniche”obbligatorie non è
significativa di alcunché in quanto tutte le direttive comunitarie e tutta la relativa
legislazione nazionale di recepimento comportano condizioni particolari per la
effettiva applicabilità (requisiti essenziali, omologazione CE di tipo e/o dichiarazioni
di conformità, marcatura CE ecc..) delle rispettive norme. Da qui, pertanto, la
conseguenza che, una volta realizzate tali condizioni, la relativa legislazione diviene
applicabile e, trattandosi di legislazione derivata dal diritto comunitario, diviene
comunque prevalente sul diritto nazionale (di cui la L. 1083/71 fa parte) il quale
risulta, pertanto, a seconda dei casi, abrogato, derogato o, comunque, disapplicabile
in tutti i casi di “sovrapposizione” e di contrasto con il medesimo diritto comunitario.
Anche in questo caso, a taluni l’impatto del diritto comunitario non è chiaro o non è
gradito ma, comunque, esso si realizza, indipendentemente da desideri, voglie,
impressioni o interessi particolari.
Certo, sarebbe auspicabile l’intervento di un “Testo unico”, ma non c’è da farsi troppe
illusioni, come dimostrano recenti vicende legislative.
Pure ogni motivo di confusione tra “stato dell’arte” e “norma” tecnica non ha
ragione di esistere se si abbandonano il “sentito dire” e/o le comode
strumentalizzazioni per attingere, invece, da una autorevole fonte comunitaria che qui
si riproduce testualmente nella parte in cui definisce lo “stato dell’arte” e nella parte in
cui tratta la distinzione tra quest’ultimo e le “norme” tecniche.
Afferma infatti tale “fonte” (Commissione delle Comunità europee, normativa
comunitaria sulle macchine, ed 1999 pagg. 84 e 85) che per quanto riguarda lo “stato
dell’arte”, “Il CEN fornisce un interessante definizione: “lo stato perfezionato delle
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STUDIO LEGALE ODDO
soluzioni tecniche esistenti in un preciso momento in materia di prodotti, processi e
servizi, fondato sulle conoscenze scientifiche, sulla tecnologia e sull’esperienza
disponibili”. Poi, nella parte in cui fornisce la “distinzione tra norme e stato dell’arte”
la stessa fonte afferma che “Lo stato dell’arte ha un’esistenza indipendente ed esterna
alla normazione. Innanzitutto, lo stato dell’arte non è scritto; la norma può codificare
lo stato dell’arte in un determinato momento, ma è presto superata: al massimo può
tentare di “fotografare” lo stato dell’arte in un momento preciso. Al contrario la
norma è un documento scritto e dunque fisso (tra una revisione e l’altra), che viene
elaborato secondo procedure formali e ufficiali. Lo stato dell’arte rappresenta una
consuetudine, è imperativo e in questo ha una portata giuridica superiore alle norme.
I professionisti devono sempre privilegiare lo stato dell’arte rispetto alla norma, che è
facoltativa, quando questa è in contraddizione.”.
Da quanto sopra si ricava, peraltro, che la confusione tra “stato dell’arte” e “norma”
non sarebbe, per il normatore, soltanto un atto vanamente presuntuoso: sarebbe anche
un atto imprudente perché farebbe considerare lo stesso “normatore” inadempiente a
fronte di obblighi che non si possono adempiere perché riguardano il costante e
permanente aggancio tra scienza, tecnica e norma. Ma un tale “aggancio”, come
afferma la Commissione europea, non è sempre possibile perché “la norma può
codificare lo stato dell’arte ma è presto superata…”
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