Il corpo delle donne - Oikos-bios
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Il corpo delle donne - Oikos-bios
1 Il corpo delle donne. Un oscuro soggetto del desiderio Buona sera a tutte e a tutti e grazie per avermi invitata a essere qui con voi. So che le donne di Chioggia sono piuttosto combattive e questo mi fa sentire un po’ a casa mia… Il titolo di questo incontro Il corpo delle donne. Un oscuro soggetto del desiderio, mi ha suggerito di trattare l’argomento separando, per comodità, le due parti congiunte di cui il titolo si compone. La prima parte Il corpo delle donne, chiaramente allusiva al corpo femminile come oggetto, mi ha indicato tre direzioni possibili, tre differenti prospettive - che vado immediatamente ad elencare - a partire dalle quali discorrere del corpo delle donne: del corpo delle donne come oggetto desiderato, del corpo delle donne come oggetto seviziato e martoriato, del corpo delle donne come corpo politico e sociale smembrato, un corpo che, a differenza del corpo maschile, non riesce a far corpo. La seconda parte del titolo Un oscuro soggetto di desiderio che rimanda invece chiaramente a un corpo-soggetto, a un corpo femminile desiderante, mi ha ricordato, per associazione, la teoria del corpo pensante enunciata in un libro scritto da una donna, Angela Giuffrida, e intitolato Il corpo pensa sulla cui lettura siamo attualmente impegnate all’interno della Stanza di Eco e Adamo, una Stanza di cui ora proverò a di dirvi qualcosa. La Stanza di Eco e Adamo - anche se gli Adami al momento sono rari e intermittenti - è una delle quattro Stanze di Oikos-bios specificamente dedicata alla ricerca e allo studio delle problematiche di genere che vi si svolgono regolarmente da alcuni anni. Ricordo, per chi non ne fosse informato, che Oikos bios è un Centro Filosofico di Psicanalisi Antiviolenza, nato per aiutare le persone in difficoltà e soprattutto quelle donne la cui sofferenza si manifesta attraverso vari tipi di disturbi che vanno dai disturbi alimentari alle depressioni, dagli attacchi di panico, all’alcoolismo, ma anche alle difficoltà inerenti la relazione di coppia e alle sofferenze legate a esperienze di perdita e di violenza. La caratteristica più importante, quella che fa di Oikos-bios un Luogo per tutti e per nessuno un po’ diverso dai luoghi solitamente preposti al sostegno e alla “cura” delle persone, è la scelta di un modello di 2 accoglienza e di cura a misura di donna, una cura in cui lavoro individuale e lavoro sociale sono inscindibili e strettamente connessi. E questo perché crediamo che nessuna donna, quale che sia il suo tipo di sofferenza - possa “guarire” attraverso percorsi di cura che sono la fedele riproposizione teorica e ideologica di quel medesimo sistema di pensiero patriarcale che ha fondato un ordine simbolico patogeno di cui la sua sofferenza femminile - e maschile - sono soltanto il riflesso speculare, la dolorosa restituzione. Prima di procedere e tralasciando, per ragioni di tempo, questo punto importante che andrebbe sviluppato, vorrei dire, tornando al titolo, che esso ben si armonizza ed è del tutto conforme con la “nuova” avventura di Edipo propostaci da Armando Penzo ne L’Edipo Regina, considerato dall’autore con rara modestia e un pizzico d’ironia “una piccola riflessione, seppur un po’ bislacca”, come simpaticamente dice. Una visione rovesciata del corpo femminile da oggetto desiderato a “oscuro” soggetto desiderante, mi sembra essere, infatti, al centro di questo libro. Tale rovesciamento viene attuato attraverso una rivisitazione della tragedia di Sofocle, L’Edipo re e, in particolare, della figura di Giocasta che, da donna “punita” quale appare nella tragedia, viene rivalutata al pari di Elena di Troia, un’altra figura femminile importante che ha sicuramente scatenato nel nostro immaginario adolescenziale, quando stavamo sui banchi di a scuola, una serie di fantasmi sul femminile. Ma “il parricidio letterario” di Armando Penzo, come dichiarato, non ha nessuna intenzione di fermarsi lì perché anche la figura di Penelope, tradizionalmente e banalmente presentata nella sua devota e passiva attesa di Ulisse, è una donna che “stanca di comprimere i suoi desideri, si assume la responsabilità di decidere sulla sua femminilità”. E questo resta vero anche se Penelope, lo conferma Giulia Sissa nel suo libro Eros tiranno, a differenza di Clitennestra che respinge in un primo tempo Egisto, il suo innamorato, per poi seguirlo nella sua casa, pur invitata a seguire uno dei suoi corteggiatori, vuole e non vuole. E tuttavia questa differenza fra i due personaggi, non fa di Penelope un’anti-Clitennestra anche se: questo consenso, questo desiderio suo è ciò che i ragazzi di Itaca non riescono a ottenere dalla moglie di Ulisse almeno fino al momento in cui 3 vengono sfidati a tendere l’arco fatale: ma lì, a quel punto c’è già Ulisse in lizza con loro..Penelope, abbiamo visto, gioca a prendere tempo e a lasciarsi desiderare in un’ambiguità che non è mai né rifiuto né accordo. (G. Sissa, Eros tiranno, p.136) Ed è qui, in questa doppia negazione: né rifiuto né accordo che Armando Penzo riconosce la dimensione del terribile che appartiene a una “libera volontà” di Penelope “soffocata sul nascere” quando, a proposito di questa complessa figura femminile scrive: Perché è un atto terribile di libertà il liberarsi dalle catene che opprimono la sua sessualità, senza con questo essere costretta dalla volontà di altri a cedere alle lusinghe e ai desideri del sesso che avrebbero violato il giuramento agli dei sulla sacralità del matrimonio. (A. Penzo L’Edipo regina, p. 14) Sempre a proposito del rovesciamento fra oggetto e soggetto del desiderio cui si allude nel titolo, si tratta di un’operazione non da poco benché sul corpo-oggetto femminile - un classico prodotto del sistema di pensiero patriarcale pronto a procedere per gerarchie e per scissioni - sia stato detto e scritto di tutto e di più. Ma c’è qualcos’altro che mi piacerebbe scoprire e non tanto sul contenuto de L’Edipo regina - il cui messaggio mi sembra preclaro ma sulle ragioni profonde che possono aver spinto un uomo a scrivere un libro che esalta la libertà sessuale delle donne, un libro in cui il desiderio sessuale femminile - e, aggiungerei, quel godimento femminile supplementare al di là del fallo di cui ci parla Lacan e che tanto agita i fantasmi maschili - lungi dal rappresentare una minaccia, un pericolo da cui difendersi, rappresenterebbe piuttosto una necessità vitale. Questa consacrazione del desiderio sessuale e sensuale femminile mi interroga se non altro perché nella teoria psicanalitica questo desiderio appare, sul versante materno, talmente insopportabile da essere stato rappresentato da Lacan attraverso l’immagine di una madre-coccodrillo dalle fauci spalancate in linea, bisogna dire, con il pensiero di Esiodo secondo cui “la donna non si accontenta di Povertà e tende avidamente verso Sazietà” e con quello di Platone a sentire il quale il desiderio insaziabile è senz’altro di origine femminile. 4 Di qui la funzione simbolica determinante attribuita da Freud al padre edipico che consisterebbe nel fare da terzo per proteggere il figlio maschio da un desiderio femminile e materno altrimenti devastante. E qui, ad averne il tempo, potremmo approfondire il tema del rapporto fra amore e desiderio e constatare come, sin dall’antichità, l’Eros, sia stato declinato in modo abissalmente differente nell’uomo e nella donna. Ed è su questo punto, sulla differenza, detto per inciso, o, che il mio pensiero differisce da quello di Armando Penzo quando fa dire a Zouero: non esistono differenze fra i due sessi, perché se ci fossero ci sarebbe la lotta per affermare la propria eliminando l’altra. Questo invece non avviene. Eppure è esattamente questo che è avvenuto. A scatenare la lotta fra i sessi non è stata la differenza, ma proprio l’incapacità - da parte del genere maschile che ha pensato bene di diventare l’unico cancellando la donna - di fare i conti con questa differenza universale considerata anziché un valore aggiunto una maledizione. Del resto questa differenza la troviamo all’opera in modo visibile, se solo consideriamo il rapporto fra amore e desiderio cui accennavo. Essa balza agli occhi se, oltre alle figure di Elena e Penelope cui Penzo fa riferimento nel suo libro, consideriamo altre figure femminili tragiche, Medea e Fedra, dalle quali si comprende con chiarezza come le donne contrastino energicamente la versione “afrodisiaca” dell’amore tanto cara agli uomini, a cominciare dai loro rispettivi partner Giasone e Ippolito. Fedra, infatti, si innamora di Ippolito senza bisogno dell’intervento di qualcun altro, dell’intervento esterno di Afrodite, così come Medea, nel pronunciare la frase “Eros sono io stessa”, contrasta con forza la visone dell’amore di Giasone secondo cui Eros viene da Afrodite e dunque dall’esterno. Da una parte abbiamo dunque, sul versante del sentire femminile, la totalità dell’esperienza amorosa che non ha nulla a che fare con il letto - ed è su questo che Medea s’infuria con Giasone quando lui, senza nulla comprendere del suo dolore, riduce tutto a una questione di letto - dall’altra abbiamo, sul versante maschile, un Eros 5 estraneo al soggetto, un Eros che lo colpisce dall’esterno sancendo così la natura eteronoma ed alienante dell’Eros maschile. Se sul versante femminile troviamo dunque un’affettività in cui corpo e anima sono indistinguibili, sul coté maschile abbiamo una totale scissione fra soma e psiche. Di cui l’ Eros tiranno di Platone, ci informa: Eros, infatti, è presenza di una potenza altra ed è rappresentato metaforicamente da un animale, un cavallo focoso, dentro un’anima la cui sola componente importante è la ragione. Siamo alla solita scissione passione-ragione, anima-corpo di cui la cultura dell’Occidente non si è ancora liberata. Questa opposizione fra interno ed esterno questa incapacità di connettere il dentro e il fuori è tipica del pensiero maschile mentre nella donna queste due aspetti sono connessi e inseparabili e questa differenza ha a che fare con la diversa esperienza che uomini e donne hanno rispettivamente del loro corpo. Da questo mi sembra che Armando Penzo non è affatto distante quando riconosce la predisposizione della donna “al vero amore che il tempo cancella nell’uomo” (70) Stimolato dalla mia curiosità, lui stesso potrà forse raccontarci qualcosa di più. Quanto a me, invece, prima di impegnarmi sul corpo delle donne come oscuro soggetto del desiderio - che mi sembra, devo dire, la parte più interessante ma anche più complessa del titolo e che potrò trattare solo per cenni - seguirò l’itinerario indicato cominciando dal corpo delle donne come oggetto odiato e martoriato da guerre da loro non volute, da stupri perpetrati in famiglia e non, ai loro danni, da assassini messi in atto per il solo fatto di essere nate femmine o di essere vedove, da lapidazioni per tradimenti reali o supposti, da pratiche di mutilazioni e infibulazioni selvagge e potrei continuare ancora trapassando dalle stragi fisiche alle eliminazioni simboliche da tutti quei luoghi di potere e di sapere in cui si decide delle sorti dell’umanità intera, donne comprese - mi vedo costretta ad aggiungere: dai luoghi della scienza a quelli della politica, dalle aule di giustizia ai sancta sanctorum dei devoti , dall’economia al sindacato e così via. Che dire? Come non vedere la follia legittimata di un sistema di pensiero che ci governa e che ci sta portando, senza che nemmeno ce ne accorgiamo, dritti dritti alla distruzione? 6 Come pensare che una sottocultura razzista e misogena che investe non solo il nostro paese ma il mondo intero, possa permettere a donne impaurite da questo femminicidio di desiderare, di diventare soggetti del proprio desiderio quando essere soggetto del proprio desiderio significa, per una donna, ben altro e ben di più che essere sessualmente libera, libera di far l’amore. La libertà sessuale non guasta, certo, ma certo non basta. Non è questa o non solo questa la libertà che la donna vuole. E’ libertà ontologica, libertà di essere donna senza essere uno scarto, ed è questa la risposta alla domanda posta da Freud, allorché al termine di un tortuoso percorso teorico di ricerca sulla femminilità, getta la spugna e si chiede esausto: Was wille da Wais ? Che vuole una donna? Questo vuole, questo desidera: essere donna senza essere obbligata a rinnegare il materno per il solo fatto di essere stata costretta a viverlo come schiavizzante e castrante, senza essere costretta, per essere riconosciuta degna di valore, a diventare una caricatura dell’uomo, a pensare come lui, a muoversi e a parlare come lui, perdendo assieme alla sua femminilità, se stessa. Ma a martoriare il corpo femminile non sono solo le guerre e gli stupri, ci sono altri modi che le stesse donne mettono in atto non contro l’altro ma contro se stesse per sfuggire al destino femminile di corpo-oggetto alla mercé del desiderio dell’altro. Ecco la seconda prospettiva da cui considerare il corpo oggetto, una prospettiva per accostarci alla quale possono esserci d’aiuto alcune considerazioni di natura clinica su una sofferenza femminile in cui possiamo riconoscere i segni di un rovesciamento insperato, di un affrancamento impossibile da corpo-oggetto a corpo-soggetto, i segni di una rivolta contro il corpo-oggetto, che dalle parole del titolo di questo incontro, trapassa al reale del corpo anoressico. Si può dire che la guerra più feroce dichiarata dalle donne alla cultura dell’immagine del corpo-oggetto, è quella praticata da giovani donne di nuova generazione la cui protesta contro la riduzione del femminile a corpo-oggetto, non cessa di manifestarsi nella sua forma più tragica e radicale: nella forma di un autolesionismo distruttivo del corpo medesimo. Di corpo-oggetto, insomma, si muore. E si tratta pur sempre di suicidi la cui natura non inganna per il solo fatto di essere 7 differiti. Eppure, detto per inciso, possiamo riconoscere anche qui, in queste forme estreme di esecuzione, la differenza che passa fra violenza maschile e femminile direttamente agita sul proprio corpo: darsi la morte e lasciarsi morire non sono esattamente la stessa cosa. Stiamo parlando del corpo anoressico, della furia distruttiva di cui viene fatto oggetto-bersaglio, della determinazione tanto lucida quanto spesso irriducibile contro qualsiasi tentativo di cura. Tentativi spesso attuati peraltro, dai cosiddetti esperti dell’anima, attraverso approcci grossolani e per lo più inadeguati a cogliere il messaggio lanciato dal corpo anoressico considerato, con troppa leggerezza, un corpo sedotto dalla cattura esercitata da modelli estetici dominanti imposti dai media. Ebbene no, non credo si tratti semplicemente di questo anche se l’influsso mediatico ha certo la sua parte. Credo che letture troppo semplicistiche difficilmente permetteranno di trovare la via per combattere questo genere di sofferenza tipicamente femminile. Ed è proprio su questo tipicamente che occorre puntare l’attenzione, è sulla differenza di genere che occorre costruire una nuova teoria, una clinica e una pratica di cura per le donne. Non intendo affatto, con questo, contribuire a incrementare ulteriormente la patologizzazione del femminile - una specialità su cui padri della psicanalisi, psicologi e terapeuti dell’integrazione delle donne in un sistema costruito per cancellarle, si sono prodigati non senza la complicità delle loro colleghe di sesso femminile formate da Maestri che hanno espulso dal loro insegnamento ogni riferimento alla differenza di genere. E’ tempo di invertire la direzione della ricerca e di volgere il nostro sguardo clinico - oggi, come non mai e più che mai - sul sommerso delle patologie maschili che, in modo ormai inequivocabile, stanno affiorando e che persino in famiglia, anche dei corpi delle donne desiderate, fanno carne da macello. Avere un corpo desiderabile, essere ridotta a un corpo desiderato, è questo che l’anoressia rifiuta e si vede bene quanto poco si tratti di una questione alimentare o dell’influsso esercitato da modelli estetici improbabili e quanto si tratti, invece, del rifiuto di un paradigma socio-culturale abituato a procedere sempre e soltanto per scissioni: il corpo da una parte, la mente dall’altra. 8 Direi, contrariamente a quanto generalmente si afferma, che il rifiuto anoressico del corpo non è un rifiuto del corpo femminile, della femminilità in quanto tale, ma è rigetto di una femminilità identificata e ridotta a un corpo senza testa. La rivolta anoressica, può essere letta, insomma, come un’accusa diretta a un intero sistema di pensiero e a una cultura che misconosce il valore e la forza della mente e del pensiero femminile, riducendo la donna a puro oggetto di desiderio e di godimento dell’uomo. Il No a un corpo femminile solo corpo, appare evidentissimo e si attua attraverso le trasformazioni che gli vengono inflitte e all’accanimento con cui queste trasformazioni vengono sistematicamente messe in atto nelle loro varianti: in direzione di un corpo scarnificato - come nell’anoressia - o della sua totale deformazione - come nel caso della bulimia o dell’obesità. Quel che importa, insomma, è che il corpo femminile perda la sua forma e si deformi a un punto tale da allontanare da sé ogni possibile desiderio trasformandolo in raccapricciante orrore. Ed è inutile dire che ci riesce, perché l’orrore provato da un uomo di fronte a un corpo ridotto all’osso, è, per evidenti ragioni, infinitamente superiore e qualitativamente differente rispetto al sentimento che può provare una donna. Ma veniamo ora alla terza prospettiva da cui guardare al corpo delle donne come corpo politico e sociale smembrato come corpo che non riesce a far corpo. Osservare il corpo della donna da questa angolazione metaforica, ci permetterà di ricollegarci al corpo come oscuro soggetto del desiderio. Che cosa intendo dire quando parlo di un corpo politico e sociale femminile smembrato, quando parlo di un corpo di donne che non fa corpo? Intendo semplicemente dire che le donne, a differenza degli uomini, non fanno un insieme, non fanno massa, non sono omologabili né conformabili l’una all’altra: Una per una si dice trionfalmente in certi ambienti… Ma se questo tratto peculiare può rappresentare, per qualche verso, un valore aggiunto a favore del riconoscimento della singolarità e irrepetibilità di ciascuna - aspetto che i e le seguaci di Lacan esaltano quando scrivono – sbagliando - che le donne, con la loro “contingenza”, “instabilità” e “differenze multiple” minano la società patriarcale - rappresenta, per un altro verso, un punto di 9 estrema debolezza soprattutto quando questa capacità di fare corpo manca di incisività e compattezza in situazioni - come quella attuale in cui sarebbe assolutamente necessario esercitare una forte influenza nella sfera politica e sociale per la difesa della propria vita e di quella delle generazioni a venire. Le benefiche “differenze multiple femminili” - enfatizzate - dagli psicanalisti maschi e dal coro delle psicanaliste eternamente allieve che ripetono il verbo - non solo non minano la società patriarcale ma sono state da essa abilmente programmate. Non mi avventurerò in una ricostruzione storica rigorosa e nemmeno in una sequenza delle tante conquiste operate dal movimento delle donne degli anni ’70, ma posso far notare che a quel movimento sono seguiti più di trent’anni di silenzio - di cui bisognerebbe indagare a fondo le ragioni - e che il neo femminismo attuale ha portato in piazza in questa città, circa un mese fa, in occasione della giornata mondiale contro la violenza non più di una quindicina di donne… Dov’è finita, vien da chiedersi, la forza delle donne? Come possono, senza questa forza, contrastare la violenza e la distruttività in atto proprio in un momento storico a loro quanto mai favorevole, in un momento in cui i segni di vacillamento di un patriarcato destinato a implodere - per aver coltivato nel suo stesso seno i germi della propria dissoluzione - ci giungono da tutte le parti? Della necessità di minare la forza delle donne, di dissoverla sino a trasformarla in rassegnazione, rinuncia, frustrazione, impotenza e depressione, il potere - che ha fatto tutto quanto era in suo potere per minarla - è sempre stato ben consapevole: la disgregazione del potenziale di vita e di forza femminile è stata, da sempre, la parte maledetta essenziale e vincente, del suo programma distruttivo nei riguardi di un genere che ha finito, nonostante tutto, per dar vita una rivoluzione sociale senza sangue troppo pericolosa per abbassare la guardia. Ci si poteva forse aspettare altro? Ci si poteva aspettare che un sistema ultramillenario di pensiero dominato dalla misoginia lasciasse fare alle donne? Averlo pensato è stato un errore di sottovalutazione e un’ingenuità, ed è solo sulla consapevolezza - ancora lontana - di questo errore che occorre oggi lavorare se si vuole davvero ricostituire un movimento femminile energico e più maturo che abbia una qualche reale possibilità di crescita e di incidenza sul politico e nel sociale. 10 A questo, su questo e per questo Oikos-bios sta da tempo lavorando in molti modi: attraverso l’ampliamento e l’approfondimento, da parte delle donne, delle conoscenze necessarie per una corretta lettura della realtà e attraverso la discussione e la trasmissione dei saperi di volta in volta acquisiti e finalizzati alla ricerca degli strumenti più idonei a insidiare la rete socio simbolica con azioni efficaci. Ma è soprattutto con un assiduo lavoro su di sé che le donne potranno diventare corpi-soggetti, soggetti di un desiderio e di una libertà che non si appaga e va ben oltre il desiderio di una libertà sessuale per misurarsi con quel desiderio singolare che sostiene ciascuno nella realizzazione del proprio compito su questa Terra. E’ desiderio di creare spazi per relazioni sociali e politiche vivibili, fuori da tutti quei luoghi mortiferi in cui questo desiderio non ha mai avuto diritto di cittadinanza. E’ desiderio di avere voce, di contare, di impostare la vita e le relazioni con i simili su un paradigma di pensiero diverso da quel modello che ha mortificato il desiderio e la capacità di pensare di cui la condizione depressiva di cui tanto si parla, rappresenta solo una conseguenza. Essere depressi è questo e nient’altro che questo, è cassare di desiderare. Del diverso rapporto che donne e uomini intrattengono rispettivamente con la Vita e con la morte avremo modo di parlare ampiamente al Convegno che stiamo organizzando per il 7 Marzo intitolato Donne e uomini tra la vita e la morte al quale parteciperanno fra gli altri, due uomini che fanno parte di Maschile plurale e che lavorano da tempo con gruppi di donne e di uomini - e anche di soli uomini - impegnati a collaborare con le donne contro la violenza. Non so se, come accade nella conclusione dell’Edipo Regina a governare debba essere solo la regina Giocasta con accanto un Edipo senza la corona di re, ma vorrei mostrarvi quanto la conclusione dell’autore sia vicina al pensiero di Nicole Loreaux quando Ne Il femminile e l’uomo greco dà per certo che: …nella costruzione greca del divino, sono le dee che hanno messo in movimento la storia degli dei ed è un Dio che l’ha fermata. (pag. 49) 11 e con la conclusione cui giunge Giuffrida nel suo libro quando scrive che l’uomo deve fare un passo indietro e lasciarsi guidare da coloro che sono in grado di salvaguardare la specie meglio di quanto lui abbia saputo fare sinora offuscato da una ragione che di razionale ha mostrato di non avere proprio nulla, non essendovi, nella vocazione alla distruttività, nulla di ragionevole. Ma non dobbiamo farci illusioni: il lavoro da fare per restituire alle donne quell’aggressività sana e non reattiva di cui Marina Valcarenghi parla nel suo libro L’aggressività femminile, è immenso e richiede tempi lunghissimi. Il titolo L’aggressività femminile potrebbe trarre in inganno ed essere erroneamente interpretato come una conferma dell’esistenza nelle donne di quell’aggressività di cui vengono costantemente accusate. Nulla di tutto questo. La tesi di Valcarenghi è esattamente opposta ed è proprio questo a renderla interessante - e ribalta questo stereotipo appiccicato alla donne, mostrando che si tratta dell’esatto contrario: al fondo di quell’aggressività superficiale e reattiva di cui si usa ed abusa per screditarle e metterle in cattiva luce, esiste, nelle donne un deficit di aggressività. Non di aggressività dunque si tratta, ma di una forma di ipoaggressività. La tesi è il risultato di un’esperienza clinica di cura con le donne e posso dire che la tesi sostenuta in questo libro è ampiamente confermata anche dalla mia esperienza di lunghi anni di lavoro. Ma poiché è proprio questa ipoaggressività ad essere, fra le altre, una delle cause principali della sofferenza femminile e delle varie forme di sintomatiche - depressioni, attacchi di panico, scarso senso di sé e quant’altro - per la quale le donne domandano una cura, è evidente che la cura non potrà andare nella direzione di annullare o di risolvere una supposta aggressività in realtà inesistente proprio in quanto deficitaria, ma nella direzione diametralmente opposta, ovvero quella di un recupero di questa aggressività sana che consiste per Valcarenghi: nella disposizione istintiva che orienta a conquistare e a difendere un proprio territorio fisico, psichico e sociale nelle sue forme più diverse o, in altri termini, quell’istinto che guida a riconoscere, ad affermare e a proteggere la propria identità. 12 La difesa di questi territori implica, innanzi tutto, la difesa dello spazio del proprio desiderio femminile. E qui a questo punto, una domanda è d’obbligo: si può davvero credere che le donne in un percorso di recupero della loro sana aggressività, possano essere guidate da terapeuti incapaci di dare dell’aggressività femminile una corretta lettura legata alla loro incapacità di considerare e di riconoscere il pensiero femminile? E quale potrebbe essere su una donna, su molte donne, l’esito di una cura impostata e condotta a partire da un misconoscimento di questo pensiero e fondata su un grossolano pregiudizio? Deleterio, direi senz’ombra di dubbio e devo dire che gli esempi non mancano sia perché la psicanalisi ha fondato se stessa sul pensiero maschile sia perché la rimozione del pensiero femminile produce come sintomo l’adesione acritica al pensiero maschile anche da parte delle psicanaliste donne formate da scuole in cui questo pensiero continua ad essere dominante. Di qui la necessità di una riconcettualizzazione di una teoria e di una pratica di cura che tenga nel dovuto conto la differenza di genere e che sappia declinare insieme individuale e sociale. E’ questo il compito oggi delle psicanaliste donne. Infine, e per chiudere sintonicamente con L’Edipo regina, merita ancora ricordare alcune figure femminili tratte dalla cultura sumerica, greca ed ebraica - Inanna, Lilith, Meti, Eva su cui l’autrice del libro si sofferma per mostrare come qualcosa sia accaduto, come in un’epoca “lontana e imprecisabile”, qualcosa abbia radicalmente cambiato la situazione del rapporto uomo-donna per quanto riguarda l’espressione dell’aggressività che in queste figure era ben presente ed è stata sommersa. E’ questa forza sana che dobbiamo riprendere e su cui dobbiamo poter contare.