La Psicoanalisi 38_Sulla trasmissione della psicoanalisi_editoriale

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La Psicoanalisi 38_Sulla trasmissione della psicoanalisi_editoriale
La Psicoanalisi n° 38
Sulla trasmissione della psicoanalisi
nota editoriale
Meraviglioso Lacan! E sconcertante! Tre anni prima di morire, concludendo il Congresso
della sua Scuola sul tema della trasmissione della psicoanalisi - Scuola che avrebbe disciolto due
anni dopo - scuote l’uditorio con frasi che pesano come macigni. Ma forse l’Ecole freudienne de
Paris era già entrata in letargo, forse era già morta e non lo sapeva, forse l’ascoltava con l’aria
annoiata di chi ha fretta di finire l’ennesima replica delle liturgie congressuali e far passare le sue
frasi nel dimenticatoio senza rendersi conto o senza voler rendersi conto che già solo il tema del
Congresso avrebbe dovuto svegliare l’assistenza dei suoi allievi. “Dico assistenza, ma non mi
assiste”, dice ironico, e continua, triste: “In mezzo a tanta assistenza, io mi sento particolarmente
solo”. Nonostante avesse poco prima elogiato, forse irridendola un po’, tutta quella folla presente al
Congresso.
In pochi minuti Lacan dice all’uditorio, senza mezzi termini, la sua posizione.
L’inconscio è un invenzione di Freud, esordisce. E continua: “L’inconscio è forse un delirio
freudiano”. Citando Popper, egli lascia intendere che l’inconscio sarebbe un delirio se fosse inteso
come la spiegazione di tutto. L’inconscio è invece la modalità inventata da Freud per collegare la
parola con il reale, quel reale che è quel godimento che attanaglia l’essere che parla e che si rivela
come qualcosa che lo fa soffrire nel corpo e nel pensiero. Il reale della pulsione si dice tramite il
sintomo che parla, come parla il sintomo isterico, all’insaputa del soggetto in cui esso abita.
Lacan passa poi a un’altra notazione, che prenderà tutto il suo peso alla fine del suo
intervento: nel parlessere non c’è sesso senza soggetto. Lacan polemizza con alcune affermazioni
che aveva ascoltato nel Congresso. Il parlessere è sempre implicato in modo soggettivo nel rapporto
sessuale, “di cui ho detto che non c’è”. Nella frase di Lacan si delinea un chiasmo: per gli esseri
viventi lontani dalla parola c’è rapporto sessuale ma non c’è soggettività, quando invece gli esseri
viventi sono catturati dalla parola - come il caso per l’essere umano, il parlessere, per usare un
lemma di Lacan - allora non c’è rapporto sessuale ma c’è soggettività. È un chiasmo che
esemplifica la posizione di Lacan rispetto alla teoria freudiana: laddove Freud considera che il
trauma che colpisce l’essere umano è la sessualità, Lacan considera che se c’è trauma nell’uomo è
perché l’uomo parla ed è nel campo del linguaggio. A partire da qui dire che la nevrosi è una diretta
conseguenza del fatto che l’uomo è un essere di linguaggio è equivalente a dire che la nevrosi è una
diretta conseguenza del fatto che non c’è rapporto sessuale. Inesistenza che, come Lacan dice
altrove, è all’origine stessa della possibilità dell’esperienza analitica. Cosa che, con Freud, si
direbbe in questi termini: come mai l’isterica che si rivela incapace di amare nella vita di tutti i
giorni è invece tanto capace di sviluppare in modo così intenso l’amore di transfert?
Andiamo ora al punto centrale dell’intervento di Lacan e che è il tema stesso del Convegno: la
trasmissione della psicoanalisi. Egli si domanda: “che cosa fa sì che dopo essere stato analizzante
uno diventa psicoanalista?” Freud stesso si era posto il problema, ma in altri termini, chiedendosi
quale fosse il destino di una rimozione riuscita. Non avrebbe forse dovuto essere quello dell’ublio
totale del trauma e delle sue conseguenze, analisi compresa? Perché diamine da malato del proprio
inconscio, come lo è un analizzante, ci si ritrova come pietra d’angolo della malattia dell’inconscio
altrui e ci si lascia prendere nella funzione di polo negativo, seppur sempre attivo, nel discorso di un
altro soggetto, spesso sofferente, e comunque sempre alla ricerca della propria verità? Qual è il
meccanismo per cui ci si ritrova psicoanalisti dopo essere stati psicoanalizzanti?
Lacan ricorda che aveva istituito la passe nella sua “Proposta” proprio per questo motivo.
Proprio perché fosse chiarita quell’oscurità che ricopre il passaggio da psicoanalizzante a
psicoanalista. È da notare che il problema della trasmissione della psicoanalisi Lacan lo concepisce
tra due posizioni diverse in uno stesso individuo: dalla posizione soggettiva di analizzante alla
posizione soggettiva di analista. Per Lacan, come del resto per Freud e per tutta la tradizione
genuinamente analitica, il problema non si pone al di fuori dell’esperienza analitica stessa. In altri
termini, non si diventa psicoanalisti se non tramite la propria analisi. In poche parole, né il sapere,
per quanto universitario possa essere, né un titolo, per quanto riconosciuto possa essere, mai
potranno trasmettere la psicoanalisi come tale né conferire gli strumenti adeguati per essere
psicoanalista.
La passe è quindi muta sulla trasmissione della psicoanalisi. Ma che vuol dire trasmissione
della psicoanalisi? Vuol dire poter enucleare dall’esperienza analitica un sapere che abbia un valore
universale e universalizzabile, un sapere, potremmo dire, che sia il più vicino possibile al discorso
scientifico. Si tratta di un sapere che è suscettibile di essere trasmesso solo e unicamente quando
passa dall’uno all’altro o da una posizione soggettiva a un’altra ricorrendo a piccole lettere come fa
la scienza, ovvero, per usare la terminologia di Lacan, a dei matemi. Matemi che devono essere
all’altezza di esprimere la trasmissione al di là della soggettività o della singolarità di colui che
trasmette. Solo un sapere universale assicura una vera e propria trasmissione. Ora un sapere
universale è agli antipodi rispetto al sapere analitico. Per questo motivo Lacan arriva ad affermare
che “la psicoanalisi è intrasmissibile”.
Eppure qui, arrivati al capolinea, invece di dichiarare forfait, Lacan tira fuori dal cilindro la
sua soluzione: visto che è intrasmissibile, la psicoanalisi deve essere ogni volta reinventata. In altri
termini ogni psicoanalista, se la propria analisi non gli dà accesso a quel sapere universale che
assicura la trasmissione, si troverà costretto a reinventare “il modo in cui la psicoanalisi possa
durare”. Reinvenzione che non dovrà essere fatta né a caso né a capriccio, poiché per poterla
reinventare, lo psicoanalista si troverà nella stessa posizione di Freud di dover render conto del suo
operato rispetto alla logica dell’inconscio. Se non sarà all’altezza, la sua reinvenzione sarà solo una
comica buffonata se non, a volte, una tragica canagliata.
Ora, affinché lo psicoanalista possa essere all’altezza, Lacan ricorda di aver “inventato un
certo numero di scritture” che non dicono l’universale ma dicono tuttavia l’impasse stessa del
funzionamento dell’Altro, che è l’Altro della parola e del linguaggio, rispetto al reale del
godimento. Questa estrema posizione di Lacan è illustrata da Jacques-Alain Miller nel sesto
paradigma del godimento, laddove non c’è più un’articolazione strutturale tra il godimento e il
significante - significante che Lacan aveva indicato come ciò che rappresenta un soggetto per un
altro significante - poiché, nell’Altro, non si trova “nessun altro significante”. Laddove Lacan aveva
preconizzato un dialogo, un rapporto tra il significante e il godimento, ebbene, nulla di tutto questo:
non c’è dialogo, ma “c’è solo un monologo”. L’intersezione tra il significante e il godimento è
marcata dal non-rapporto.
In queste condizioni, diventa problematica la cura stessa. Come avviene, si domanda, che,
“grazie all’operazione del significante, c’è gente che guarisce?” È un dato di fatto, constata Lacan,
che ci sia gente che grazie all’azione della parola e del significante si trova modificata “e che
guarisce dalla nevrosi e perfino dalla perversione. Com’è possibile?”
Qui abbiamo un’affermazione che ci lascia sconcertati ma che ci riempie anche di
ammirazione per la radicale onestà intellettuale di Lacan “malgrado tutto quello che un tempo ho
detto, io non ne so niente”. Un niente, diciamocelo pure, che è tuttavia ben carico di insegnamenti.
E che ridurrei a questi due punti: in primo luogo, l’analista deve saper usare del registro del
sembiante. E a questo livello che la passe lo aveva deluso poiché se la passe dice se un analizzante è
stato analizzato non dice però la capacità dell’analizzato di saper utilizzare, correttamente e in
logica rispetto all’inconscio, la dimensione del sembiante dalla sua nuova posizione di analista. In
altri termini: in che modo l’analista avrà accesso a quella funzione centrale e perno di una cura che
Lacan chiama il desiderio dell’analista?
Certo - e passo al secondo punto - l’analista userà della parola e di tutto quel che gli metterà a
disposizione il campo del linguaggio. Ma è forse sufficiente per curare il soggetto dal sintomo che
lo fa soffrire? Per Lacan, no. Non è sufficiente. Bisogna che l’analista sappia usare della parola e
del significante in modo da “levare il risultato, vale a dire quello che si chiama il sintomo”.
Leggiamo il termine lever, levare, come la traduzione dell’hegeliano Aufhebung, termine che Lacan
riprende per indicare un’operazione che ha due versanti: da una parte quello di togliere, di
annullare, nel caso specifico, il sintomo, ma contemporaneamente quello di elevarlo e di innalzarlo
a un’altra dimensione. Si tratta della capacità dell’analista di far passare il sintomo, che è quel
godimento che affligge il parlessere che lo vive come una disfunzione, a quell’altra dimensione a
cui Lacan dà l’antica scrittura francese di sinthome, che è quel godimento che invece è ciò che
funziona meglio per un soggetto. E come esempio si rivolge al suo stesso uditorio: “voi tutti, quanti
voi siete, voi avete come sinthomo ciascuno la sua ciascuna”. È quanto rimane del rapporto
sessuale. Non c’è rapporto, ma al suo posto viene il sinthomo a prendervi posto e a permettere un
certo collegamento del soggetto con il godimento, potremmo dire a ristabilire una nuova alleanza
del soggetto con le istanze pulsionali.
E in che modo il significante opera? “Abbiamo il sospetto - ci dice Lacan - della maniera in
cui possa operare: è per l’intermediario del sinthomo” , È il sinthomo dunque l’operatore, ciò
tramite cui si tengono insieme in un soggetto più aspetti, aspetti che Lacan dirà altrove che sono
l’immaginario, il simbolico e il reale. Ora, sta all’analista saper comunicare all’analizzante “il virus
di questo sinthomo sotto forma di significante”. Ecco a che cosa serve la propria analisi a qualcuno
quando questi funziona e opera come analista: non già a trasformare la propria esperienza, che è
un’esperienza di parola ovvero di significante, in un sapere universalizzabile, ma a usare nella cura
il significante come ciò che collega al meglio l’immaginario, il simbolico e il reale dell’analizzante.
Non si tratta quindi, nella cura, di trasmettere un sapere, ma di trasmettere all’analizzante un uso, un
utilizzo nuovo e inedito del significante, tramite cui egli riuscirà a saperci fare meglio con le istanze
pulsionali.
Tuttavia nulla esimerà lo psicoanalista di doversi sottoporre alla prova del suo operato a
partire dagli effetti: è un lavoro di valutazione che non potrà essere consono se non alla logica del
funzionamento inconscio e di cui l’insieme degli analisti deve saper portarsi garante.
Una breve nota personale. Ero presente al Congresso. E anche a me le frasi di Lacan mi erano
scivolate come scivola l’acqua sulle penne di un’anatra, per utilizzare una metafora cara ai Francesi.
E così l’anatra zoppa che ero, anni dopo, rileggendo il breve intervento di Lacan, ne scoprì con
meraviglia un discorso che metteva in questione dei punti che si considerano acquisiti, sempre
com’egli era alla ricerca di una risposta al quesito di fondo della psicoanalisi: che cosa fa sì che in
analisi la parola incida sul reale del sintomo?
Oltre al testo di Lacan, questo numero de La Psicoanalisi riprende l’insieme degli interventi
tenuti in seduta plenaria durante l’ultimo Congresso dell’Associazione Mondiale di Psicoanalisi,
che si è svolto nell’agosto scorso sull’isola di Comandatuba nello Stato brasiliano di Bahia. È in
omaggio a tale evento e ai nostri Colleghi di America latina che nella copertina abbiamo riprodotto
un quadro dell’artista brasiliano Gilvan Lima che rappresenta la piazza del Pelourinho, centro e
cuore di Salvador de Bahia.
Antonio Di Ciaccia