«Verità

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«Verità
intervista
«Verità
per le vittime»
Conoscere i fatti, accertare le responsabilità,
restituire dignità alle vittime. La giustizia penale
internazionale si sta facendo strada, pur tra
difficoltà e condizionamenti, per garantire
giustizia attraverso la verità. La testimonianza
di Carla Del Ponte
A cura di Francesco Pistocchini
bbiamo arrestato un tale
Lukić, che è stato un capo
politico in Bosnia. Siccome siamo nella fase di chiusura del
Tribunale, vorrei consegnarlo alla giustizia nazionale perché sia giudicato in
Bosnia. Una signora ce l’ha con me per
questo, e mi dice: “Ho saputo che vuole mandare Lukić a Sarajevo. Lukić mi
ha violentata davanti ai miei figli, uno
di 7 anni e uno di 12. Mi ha portata
con sé in cucina e mi ha detto di scegliere un coltello ben affilato e con
«A
20 POPOLI APRILE 2007
responsabili di crimini commessi durante le guerre civili degli anni Novanta in Croazia, Bosnia e Kosovo. Il suo
lavoro sul campo è stato fondamentale per rafforzare gli strumenti di una
giurisdizione capace di andare oltre le
divisioni fra Stati e culture e che ha incarnato l’ultima frontiera, quasi utopistica, del diritto internazionale.
quel coltello ha ucciso i miei figli davanti a me. E lei vuole mandarlo a Sarajevo, dove non ci sarà nessuno
disposto a testimoniare perché è trop- Procuratore Del Ponte, come si svolpo pericoloso?”. Queste sono le situa- ge in concreto il vostro lavoro di
zioni reali con cui ci dobbiamo indagine?
confrontare nel nostro lavoro».
Sappiamo di dovere andare a cercare
Carla Del Ponte non si
molto in alto. Gli Stati
nasconde mai dietro for- «Costa di più
presenti nel Consiglio di
mule giuridiche o il lin- agli Usa un
sicurezza dell’Onu, che ha
guaggio diplomatico. Per giorno di guerra istituito il Tribunale per i
otto anni, dal suo ufficio in Iraq che
crimini nella ex Iugosladi procuratore capo del un intero anno
via, ci hanno dato un
Tribunale dell’Aia, ha da- di attività
mandato specifico: si deto la caccia ai principali del Tribunale.
vono giudicare gli alti re-
Quindi non
si dica che
i costi sono
ingenti»
ASSOCIATED PRESS
Una donna bosniaca musulmana piange
sulla tomba del fratello, ucciso
nel massacro di Srebrenica (1995).
te collaborare con noi, o perché ai
vertici dello Stato si ritiene che quei
crimini fossero giustificati, o perché
non si vuole far sapere ai cittadini ciò
che hanno commesso le autorità. Con
gli archivi chiusi è difficile dimostrare
le responsabilità di ministri o generali. Esistono numerosissimi testimoni, i
superstiti, le Ong che erano sul territorio: la loro documentazione è importante, ma le prove determinanti
restano difficili da ottenere.
sponsabili politici e militari.
Il personale dell’ufficio del procuratore è cresciuto negli anni da dieci a seicento persone, tra giuristi, analisti,
poliziotti. Abbiamo mandato investigatori in Bosnia per fare le inchieste
sul territorio con la protezione delle
forze della Nato. Siamo arrivati a stabilire che nel luglio 1995 a Srebrenica
sono stati uccisi 8mila musulmani.
Ma come si possono ottenere le prove
per incriminare i massimi responsabili politici e militari, cioè Radovan Karadžić e Ratko Mladić? L’allora
presidente
dei
serbo-bosniaci,
Karadžić, non era fisicamente presente a Srebrenica. Bisogna accedere agli
archivi dello Stato e dell’esercito, ma
Belgrado e Sarajevo non cooperano
anche se sarebbero obbligati a farlo,
secondo lo statuto del Tribunale. Nella ex Iugoslavia non si vuole realmen-
La comunità internazionale collabora
con il Tribunale?
Un grande aiuto viene dalla comunità
internazionale e dalle pressioni che
essa fa sui Paesi perché cooperino. Ma
come procuratore devo passare metà
del tempo come un «pellegrino» in giro per l’Europa o gli Usa, chiedendo
aiuto ai governi perché non dispongo
di una polizia giudiziaria.
Ora siamo arrivati quasi alla fine dell’attività del Tribunale. Nel 2008 devono terminare i processi di prima
istanza e nel 2010 i processi di appello. Ma dopo tutti questi anni non siamo ancora riusciti ad avere Karadžić,
Mladić e altri quattro latitanti.
L’interferenza della politica nella nostra attività può essere però anche un
grande pericolo per il funzionamento
della giustizia internazionale. Si vede
oggi con la questione del Kosovo, che
sta diventando politicamente indipendente (ufficialmente è ancora provincia della Serbia, ndr). L’anno scorso
l’Unione europea ha sospeso i negoziati con Belgrado per l’ingresso in
Europa perché non collaborava alla
cattura di Mladić. E ora, anche se il
generale resta latitante, la Ue intende
riprendere i negoziati come compenso
da dare alla Serbia per la recente perdita del Montenegro e, prossimamente, del Kosovo. Perciò sto viaggiando
per convincere i governi che non è il
caso di riprendere questi negoziati se
la cooperazione non funziona.
Se viene esercitata fino in fondo, la
giustizia internazionale è assolutamente indipendente. Quando si arriva
a poter svolgere i processi, questi sono
i più equi che si possa immaginare.
Penso che dal profilo della difesa addirittura esageriamo nel garantire agli
accusati la possibilità di elaborare le
strategie di difesa che preferiscono.
È importante il riconoscimento della
legittimazione a giudicare. Slobodan
Milošević (morto in carcere nel 2006,
prima della fine del processo) ha
contestato il Tribunale dell’Aia. Quali
sono state le eccezioni più frequentemente proposte contro la Corte?
Le eccezioni di legittimità ricorrono a
ogni processo, anche se in sede di appello la Corte ha deciso sulla legittimità del Tribunale. Milošević disse subito
in aula: «Voi siete un tribunale falso e
io non vi riconosco». Un altro tipo di
eccezione è quello di ricusazione di un
giudice perché non è ritenuto indipendente a causa della sua nazionalità,
ma finora la Corte di appello ha sempre respinto queste eccezioni.
Poi c’è un lavoro enorme sulle eccezioni procedurali. Abbiamo in corso
sei processi in simultanea, ma abbiamo solo tre corti. I processi si celebrano in tre o quattro lingue: inglese,
francese, serbo-croato e albanese,
con un ingente
lavoro di tradu- «Anche se
zione, anche di i processi all’Aia
tutta la documen- non interessano
tazione. E può più a nessuno,
succedere che, se le vittime
manca una tra- seguono
duzione, un di- con grande
fensore blocchi il attenzione,
perché si
dibattimento.
Vojislav Šešelj, de- riconosce
tenuto all’Aia, è la loro dignità»
anche il presidente
di un partito politico nazionalista che
ha vinto le elezioni in Serbia il 21
gennaio! Ha cercato in vari modi di
impedire lo svolgimento del processo,
fino allo sciopero della fame. La Corte
gli ha concesso i difensori che voleva,
anche se sono anch’essi sospettati di
crimini. Ciò dimostra quanto sia alto il
livello di garantismo.
APRILE 2007 POPOLI 21
intervista
Gli scettici affermano che il Tribunale fa un grande lavoro per produrre piccoli risultati, che i processi
sono lenti, inutili e costosi…
Non si possono criticare i nostri
processi perché sono lunghi, non è
accettabile. Le regole di procedura
vanno applicate. E non sono d’accordo con il discorso che spesso si fa
sui costi ingenti della giustizia internazionale. Abbiamo fatto un calcolo e abbiamo i documenti per
provarlo: costa di più agli Usa un
giorno di guerra in Iraq che un intero anno di attività del Tribunale.
Quindi non si dica che sono ingenti
i costi. Per le guerre si spendono un
sacco di soldi.
Si possono conciliare la giurisdizione
penale internazionale ed esperienze
come quella della Commissione per la
verità e la riconciliazione nel Sudafrica del dopo apartheid?
Nel mandato del Consiglio di sicurezza si parla di «giustizia che porti riconciliazione e pace». Su questo
occorre riflettere. Quando possiamo
cercare di istituire una commissione
di riconciliazione e verità? Nel caso
CARLA DEL PONTE
Il volto più noto della giustizia
internazionale
agistrato ticinese, Carla Del Ponte è stata procuratore generale della Confederazione
svizzera e, dal 1999, procuratore generale del Tribunale penale internazionale per i
crimini nella ex Iugoslavia. Dal 1999 al 2003 è stata anche a capo della Procura del Tribunale internazionale per il Ruanda.
Dopo 8 anni spesi a dare la caccia ai massimi responsabili dei crimini commessi durante
le guerre degli anni Novanta in Croazia, Bosnia e Kosovo, ha annunciato che lascerà tra pochi mesi l’incarico.
Il 17 febbraio 2007, presso la Fondazione culturale San Fedele di Milano, ha partecipato a
un dibattito sul tema «Verso una giustizia possibile», nell’ambito di una serie di incontri dedicati al mistero del male. È stata l’occasione per fare il punto della situazione riguardo alla giustizia internazionale oggi. La testimonianza del lavoro sul campo di Carla Del Ponte riportata in questa intervista nelle sue parti essenziali - è stata accompagnata dalle riflessioni storiche e teoriche di Pier Paolo Portinaro, professore ordinario di Filosofia politica all’Università di Torino. Gherardo Colombo, magistrato che per anni si è occupato di
terrorismo, mafia e dell’inchiesta «Mani pulite», ha animato la riflessione.
M
del Sudafrica, questo si è realizzato
trent’anni dopo i fatti. Se il genocidio
di Srebrenica è del 1995 non si può,
nel 2007, andare a parlare di commissioni di riconciliazione. Saranno le
vittime a dire quando è il momento di
tentare una riconciliazione e di perdonare. Loro ne sono capaci, ma non
si possono imporre soluzioni politiche alle vittime.
Nei processi penali le vittime hanno
un ruolo limitato. Secondo lei, la vittima deve partecipare alla ricostruzione dei fatti?
Non si parla mai di vittime: sono assolutamente dimenticate. Nei nostri
processi lo statuto non prevede nemmeno che siano rappresentate da un
avvocato. Le vittime che hanno voce
sono solo i nostri testimoni, importantissimi. Persone sottoposte a contro-interrogatori, talvolta molto
aggressivi e che provocano in loro
crisi profonde.
Le vittime sono in genere le persone
più ragionevoli che si possano incontrare. Non c’è argomentazione politica dietro le loro riflessioni. Chiedono
giustizia, non contro il vicino di casa
che ha ucciso il vicino, ma contro chi
ha inviato ordini dall’alto. Ricorderò
sempre la mia prima visita come
procuratore a Sarajevo nel novembre
1999, per incontrare le vittime di Srebrenica. L’unica cosa che mi chiesero
era Milošević all’Aia.
Partecipando ai lavori preparatori
della Corte penale internazionale
permanente siamo riusciti a fare in
modo che le vittime fossero rappresentate nei processi, con una revisione del Codice di procedura. La nostra
esperienza al Tribunale per la ex Iugoslavia è stata spesso utile per le
Corti istituite successivamente.
Senza strumenti giudiziari non si può
ricercare la verità. Grazie ai processi
esisteranno prove di crimini che renderanno più difficili le mitizzazioni, il
rischio che in futuro ciascuno racconti la «sua» verità e, in nome di quella
La sede della Corte penale
internazionale permanente,
all’Aia (Paesi Bassi).
verità, si torni a prendere in mano le
armi.
La verità dei fatti è un punto fondamentale. Le vittime chiedono che siano
ristabiliti i fatti come si sono veramente svolti, perché le autorità politiche
dell’epoca li hanno presentati alla televisione o nei discorsi pubblici in maniera distorta. Nella ex Iugoslavia ci
sono stati dieci anni di disinformazione da parte di Milošević. Adesso, a poco a poco, si riesce a fare informazione
veritiera sui fatti. Ma non è facile.
Anche se nel mondo esistono altre
priorità e i processi dell’Aia richiedono tempo e non interessano più a
nessuno, le vittime seguono con
grande attenzione. Per le vittime la
giustizia è lì dove il fatto viene riprodotto, ricercando la verità. Attraverso
il processo si ha un riconoscimento
della dignità delle vittime. L’importanza della sanzione passa in secondo piano: l’importante è che siano
confermati i fatti dell’atto d’accusa.
Riguardo ai presunti crimini commessi dalla Nato nella guerra in Kosovo,
come ufficio del pubblico ministero
avete subito pressioni esterne per archiviare i fatti?
Abbiamo aperto una pre-inchiesta
perché avevamo elementi su episodi
di uccisione di civili da parte della
Nato nei bombardamenti del 1999.
Ricordo il caso di un treno che passava su un ponte. Il pilota chiamò la
base delle operazioni ad Aviano, che Belgrado e Sarajevo non coopechiedendo se dovesse effettuare o no rano, ma nemmeno la Nato. Abbiamo
il bombardamento su civili e ricevette pubblicato un rapporto in cui si illul’ordine di procedere.
stra questa situazione.
Questo rap-presentava un «Un attacco
Ricordo che il Pentagono
fatto su cui svolgere della Nato
a Washington ha forteun’inchiesta, non sul pi- in Kosovo
mente criticato questa
lota, ma sugli alti respon- rappresentava
mia iniziativa, perché
sabili che avevano dato un fatto su cui
avevo osato chiedere di
l’ordine. Ma occorreva la svolgere
fare l’inchiesta! Già quedocumentazione della un’inchiesta, ma sta era «lesa maestà» e
Nato a Bruxelles. Abbia- la Nato ci ha
per tre anni non mi hanmo interpellato l’Alleanza semplicemente
no più ricevuto, solo peratlantica per avere acces- detto che non
ché avevo pensato di
so ai documenti, ma ci è potevamo»
indagare su dirigenti mistato detto semplicemente
litari americani.
che non potevamo fare
Ma se anche abbiamo fall’inchiesta.
lito in questa circostanza,
Noi non abbiamo polizia giudiziaria, non vuol dire che in futuro non andrà
non abbiamo un potere coercitivo. Si meglio. Occorre perseverare perché la
poteva dire al Consiglio di sicurezza strada è quella giusta.
DA NORIMBERGA ALL’AIA
I primi passi della giustizia planetaria
Norimberga, alla fine della seconda guerra mondiale, furono
processati per la prima volta leader politici e militari che si
erano macchiati di crimini contro la pace, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Il termine «genocidio» fu coniato in seguito dal giurista polacco Raphael Lemkin, animatore della
Convenzione Onu contro il genocidio (1948).
Nei decenni successivi si sviluppò la riflessione teorica, ma l’attività della giustizia penale internazionale rimase congelata. La
svolta è avvenuta negli anni Novanta, quando il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha istituito due corti ad hoc: nel 1993 il Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nella ex
Iugoslavia (Tpiy, www.un.org/icty) con sede all’Aia (Paesi Bassi);
nel 1994 il Tribunale per i crimini in Ruanda (Tpir,
www.un.org/ictr) con sede ad Arusha (Tanzania).
Nel 1998 è stato stipulato lo Statuto di Roma, entrato in vigore
A
nel 2002 e oggi ratificato da 104 Paesi (ma non da Usa, Russia,
India e Cina), che istituisce la Corte penale internazionale permanente (Cpi, www.icc-cpi.int), anch’essa con sede all’Aia (nella foto). Dopo cinque anni la Cpi ha istruito il suo primo processo
contro il leader di un gruppo armato del Congo, Thomas Lubanga, accusato di reclutare bambini soldato. Inoltre il procuratore
capo della Cpi, l’argentino Luis Moreno-Ocampo, ha indicato in
Ahmad Muhammad Harun, ex ministro degli Interni del Sudan, e
Ali Kushayb, comandante delle milizie di predoni arabi janjaweed, due responsabili delle stragi in Darfur.
La Corte internazionale di giustizia, che ha sede all’Aia dal 1945 e
ha il compito di dirimere le dispute tra Stati membri dell’Onu, in una
sentenza del 26 febbraio ha definito genocidio il massacro di Srebrenica, ma non ha condannato la Serbia come diretta responsabile dei fatti, respingendo la denuncia presentata dalla Bosnia.