john connolly - 10 righe dai libri

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john connolly - 10 righe dai libri
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John Connolly
I tre demoni
romanzo
Traduzione dall’inglese
di Stefano Bortolussi
Prima edizione: aprile 2013
Titolo originale: The Whisperers
© 2010 by John Connolly
© 2013 by Sergio Fanucci Communications S.r.l.
Il marchio Timecrime è di proprietà
di Sergio Fanucci
via delle Fornaci, 66 – 00165 Roma
tel. 06.39366384
Indirizzo internet: www.timecrime.it
Proprietà letteraria e artistica riservata
Stampato in Italia – Printed in Italy
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: Grafica Effe
John Connolly
I tre demoni
romanzo
Traduzione dall’inglese
di Stefano Bortolussi
Per Mark Dunne, Paul O’Reilly, Noel Maher e Emmet Hegarty:
tutti principi.
Prologo
La guerra è un avvenimento mitico... In quale altra esperienza umana, se non negli spasimi della passione... veniamo trasportati in una condizione mitica e gli dèi si fanno più reali?
james hillman, Un terribile amore per la guerra
Baghdad, 16 aprile 2003
Fu il dottor al-Daini a trovare la ragazza, sola e abbandonata nel lungo corridoio centrale. Era quasi completamente
sepolta sotto schegge di vetro e ceramica, indumenti smessi,
mobilia e vecchi giornali usati come imballaggio. La polvere
e il buio avrebbero dovuto renderla quasi invisibile, ma il
dottor al-Daini aveva passato decenni alla ricerca di ragazze come lei, e la trovò laddove altri l’avrebbero oltrepassata
senza accorgersene.
Ne vedeva soltanto la testa, gli occhi azzurri aperti, le labbra macchiate di un rosso ormai sbiadito. Le si inginocchiò
accanto e scostò alcuni detriti dal suo corpo. Fuori si udivano grida e il rombo dei carri cingolati che cambiavano posizione. All’improvviso il corridoio venne invaso da una luce
accecante e degli uomini armati accorsero sbraitando i loro
ordini, ma era troppo tardi. Altri come loro erano rimasti a
guardare mentre accadeva, obbedendo a ben altre priorità.
Non si erano curati della ragazza, ma il dottor al-Daini sì.
L’aveva riconosciuta immediatamente, poiché lei era sempre
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stata una delle sue favorite. Fin dal primo istante in cui l’aveva vista era rimasto incantato dalla sua bellezza, e negli anni
a seguire aveva sempre fatto in modo di trascorrere qualche
momento di pace insieme a lei, per scambiarsi un saluto o
semplicemente restarle accanto e rispondere al suo sorriso.
Forse si poteva ancora salvarla, pensò, ma proseguendo a
sgombrare con cautela le macerie di legno e pietra, dovette
riconoscere che ormai c’era ben poco da fare. Il corpo della
ragazza era distrutto, fatto a pezzi da un atto di profanazione
che per lui non aveva alcun senso. Non era stato accidentale,
ma deliberato: sul pavimento si potevano vedere i segni degli scarponi che erano calati con violenza su braccia e gambe, riducendole a frammenti poco più grandi dei granelli di
sabbia su cui ora giaceva. Malgrado ciò, chissà come, la sua
testa si era sottratta al peggio, e il dottor al-Daini non avrebbe saputo dire se ciò rendesse quello che le era stato inflitto
meno orrendo o ancora più terribile.
«Oh, piccola» sussurrò carezzandole dolcemente la guancia, la prima volta che la toccava in quindici anni. «Cosa ti
hanno fatto? Cos’hanno fatto a tutti noi?»
Sarebbe dovuto restare. Non avrebbe dovuto lasciarla,
non avrebbe dovuto lasciare nessuno di loro, ma i Fedayyin
stavano combattendo gli americani nei pressi del ministero
dell’Informazione e gli spari e le esplosioni li avevano raggiunti mentre erano intenti a proteggere i fregi con sacchi di
sabbia e avvolgere le statue nella gommapiuma, sollevati per
essere riusciti quantomeno a mettere al sicuro alcuni tesori
prima dell’invasione. I combattimenti si erano poi spinti fino
alla stazione televisiva, a meno di un chilometro di distanza,
e alla stazione centrale dei pullman sul lato opposto del complesso, sempre più vicini a loro. Lui si era detto favorevole a
restare, ma molti altri pensavano che fosse troppo rischioso.
Tutte le guardie tranne una erano fuggite, abbandonando
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armi e uniformi, e nel giardino del museo si vedeva già qualche fuciliere nerovestito. E così avevano chiuso a chiave le
porte principali ed erano fuggiti dall’uscita di servizio, attraversando il fiume e rifugiandosi nell’abitazione di un collega
sul versante orientale, in attesa che gli scontri cessassero.
Ma non erano cessati. Quando avevano provato ad attraversare il ponte della Città della Medicina erano stati respinti, e così si erano trattenuti dal loro collega, sorseggiando
caffè e aspettando. Forse vi erano rimasti troppo a lungo,
perdendosi in discussioni su quanto fosse saggio abbandonare quello che al momento era un luogo sicuro, ma cos’altro
avrebbero potuto fare? Malgrado ciò il dottor al-Daini non
riusciva a perdonarselo, a lenire il proprio senso di colpa.
L’aveva abbandonata, e loro le avevano fatto quello che volevano.
E adesso gli lacrimavano gli occhi, non per la polvere e
il lerciume ma per la rabbia, il dolore e il cordoglio. Non si
fermò nemmeno quando gli si avvicinarono due anfibi e un
soldato gli puntò addosso il raggio di una torcia. Alle sue
spalle ce n’erano altri, con le armi spianate.
«Signore, lei chi è?» chiese il soldato.
Il dottor al-Daini non rispose. Non ne era in grado. Tutta
la sua attenzione era concentrata sugli occhi azzurri della ragazza spezzata.
«Signore, parla inglese? Glielo chiedo un’altra volta: lei chi
è?»
Il dottor al-Daini avvertì la tensione nella voce del soldato,
ma anche la sfumatura di arroganza, la naturale superiorità
del conquistatore sul conquistato. Sospirò e alzò gli occhi su
di lui.
«Sono il dottor Mufid al-Daini,» rispose asciugandosi gli
occhi «e sono il vicesovrintendente alle Antichità romane
del museo.» Ci ripensò. «No, ero il vicesovrintendente delle
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Antichità romane, visto che non è rimasto alcun museo. Ci
sono solo dei frammenti. E voi avete permesso che accadesse. Siete rimasti fermi e l’avete permesso...»
Ma si stava rivolgendo più a sé stesso che a loro, e nella sua
bocca le parole si trasformarono in cenere. Il personale aveva
abbandonato il palazzo martedì. Sabato aveva appreso che il
museo era stato saccheggiato, e aveva cominciato a rientrarvi per valutare i danni e prevenire altri furti. Qualcuno aveva
detto che i saccheggi erano cominciati giovedì, quando centinaia di persone si erano assembrate davanti all’inferriata
che circondava l’edificio. Per due giorni avevano fatto i loro
comodi, e girava già voce che fossero stati aiutati dall’interno
e che certi guardiani del museo avessero mirato agli oggetti
più preziosi. I ladri avevano preso tutto quello che erano riusciti a trasportare, e gran parte di ciò che non erano riusciti
ad accaparrarsi l’avevano distrutto.
Il dottor al-Daini e altri si erano recati al quartier generale
dei marines e avevano chiesto aiuto per proteggere l’edificio, poiché il personale temeva che i saccheggiatori sarebbero tornati e i carri armati dell’esercito statunitense schierati
all’incrocio a cinquanta metri di distanza avevano rifiutato
di aiutarli sostenendo di avere altri ordini. Alla fine, gli americani avevano promesso l’invio di guardie, che erano
arrivate soltanto ora, il mercoledì dopo. Il dottor al-Daini era
giunto sul luogo poco prima di loro, gli era stato assegnato
il ruolo di intermediario con i soldati e con i media, e aveva
trascorso gli ultimi giorni a rimbalzare da un ufficio militare
all’altro e fornire contatti ai giornalisti.
Sollevò con delicatezza la testa della ragazza distrutta,
giovane eppure antica, la pittura ancora visibile sui capelli,
sulla bocca e sugli occhi dopo quasi quattromila anni.
«Guardate» disse ancora in lacrime. «Guardate cosa le
hanno fatto.»
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I tre demoni
I soldati fissarono per un istante quel vecchio ricoperto di
calce bianca con una testa cava fra le mani, ma poi tornarono
alla loro missione, sorvegliare le sale saccheggiate del Museo
dell’Iraq. Erano giovani, e quell’operazione riguardava il futuro, non il passato. Non c’erano state perdite umane, non lì.
Erano cose che succedevano.
Dopotutto, c’era una guerra in corso.
Il dottor al-Daini osservò i soldati allontanarsi. Si guardò
intorno e vide un pezzo di stoffa chiazzata di vernice accanto a una bacheca crollata. Lo esaminò, vide che era relativamente pulito e vi posò sopra la testa della ragazza; poi ve
l’avvolse con cura e annodò gli angoli per trasportarla con
più facilità. Si rialzò e rimase così, con l’aria esausta, nella
sinistra la testa penzolante come un boia in procinto di mostrare al proprio signore il frutto del proprio lavoro: l’espressione della ragazza era così vivida, e il dottor al-Daini così
sconvolto, che non si sarebbe stupito se il collo mozzato avesse preso a sanguinare da sotto il tessuto, spargendo sul
pavimento gocce rosse come petali. Tutt’attorno a lui c’erano
i ricordi di ciò che era stato, assenze che erano come ferite
aperte. I gioielli erano stati presi dagli scheletri, le ossa sparse ovunque. Le statue erano state decapitate per facilitare il
trasporto delle loro parti più appariscenti. Curioso, si disse
il dottor al-Daini, che la testa della ragazza, per quanto squisita, fosse stata tralasciata; o forse chi l’aveva distrutta si era
semplicemente accontentato di rovinarne il corpo, di sottrarre un po’ di bellezza al mondo.
L’entità della distruzione era annichilente. Il vaso di Warka, un capolavoro dell’arte sumerica risalente all’incirca al
3500 a.C., il recipiente rituale di pietra intagliata più antico
del mondo, era scomparso, staccato dalla sua base. Una bellissima lira taurocefala era stata fatta a pezzi per asportarne
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le decorazioni in oro. La base della statua di Bassetki: sparita. La statua di Entema: rubata. La dama di Warka, la prima
scultura naturalistica di un volto umano: svanita. Il dottor
al-Daini percorse una sala dopo l’altra, sostituendo le opere
perdute con i loro fantasmi (qui un sigillo d’avorio, lì una
corona ingioiellata), così da sovrimporre ciò che era stato alle rovine del presente. Sebbene ancora stordito dall’ammontare dei danni, mentalmente stava già stilando un catalogo
della collezione, cercando di ricordare l’età e la provenienza
di ciascuna preziosa reliquia nell’eventualità che i registri
stessi del museo non fossero stati più disponibili quando si
fossero imbarcati nell’impresa apparentemente impossibile
di recuperare le opere rubate.
Reliquie.
Si arrestò sui suoi passi. Barcollò leggermente e chiuse gli
occhi. Un soldato di passaggio gli chiese se stava bene e gli
offrì un sorso d’acqua, una piccola gentilezza di cui il dottor
al-Daini, in preda a una profonda inquietudine, non poté
ringraziarlo. Ciò che fece, invece, fu ruotare di scatto verso di
lui e afferrarlo per le braccia, gesto che avrebbe potuto mettere istantaneamente fine ai suoi problemi se solo il soldato
avesse avuto il dito sul grilletto del fucile.
«Sono il dottor Mufid al-Daini» disse. «Sono un vicesovrintendente del museo. La prego, ho bisogno del suo aiuto.
Devo scendere nel seminterrato. Devo controllare una cosa.
È molto, molto importante. Deve farmi passare.»
Indicò le sagome degli uomini armati davanti a loro, figure chiare negli atri scuri. Il ragazzo lo guardò con aria dubbiosa, poi scrollò le spalle.
«Prima dovrà lasciarmi andare, signore» disse. Non doveva avere più di venti, ventun anni, pur rivelando la sicurezza, la tranquillità di un uomo più maturo.
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I tre demoni
Il dottor al-Daini si ritrasse chiedendo scusa. La targhetta
sull’uniforme del soldato riportava il nome patchett.
«Ha un documento?» chiese Patchett.
Il dottor al-Daini gli mostrò il tesserino del museo, ma le
scritte erano in arabo. Frugò nel portafoglio e trovò un biglietto da visita bilingue, arabo su un lato e inglese sull’altro.
Lo porse a Patchett, che lo esaminò strizzando gli occhi nella
penombra e poi glielo restituì.
«Okay, vediamo cosa si può fare» disse.
Il dottor al-Daini aveva due cariche all’interno del museo.
Oltre a essere il vicesovrintendente delle Antichità romane,
definizione che rendeva scarsa giustizia alla vastità e alla profondità delle sue conoscenze nonché alle responsabilità ulteriori che si era accollato in via ufficiosa e non remunerata, era
anche il responsabile dei Reperti non catalogati, altra descrizione che arrivava a malapena a suggerire le erculee fatiche
che tale carica comportava. Il sistema inventariale del museo
era tanto vecchio quanto complicato, e vi erano decine di
migliaia di reperti che non erano ancora stati registrati. Una
parte del seminterrato era un labirinto di scaffali traboccanti
di manufatti, molti dei quali – o meglio molti della minuscola
frazione che era stata catalogata dal dottor al-Daini e dai suoi
predecessori – erano di scarso valore economico; ciascuno
di essi tuttavia era una traccia, il resto di una civiltà ormai
mutata fino a divenire irriconoscibile oppure scomparsa del
tutto. Sotto molti punti di vista, quel seminterrato era la parte del museo che il dottor al-Daini prediligeva: chi poteva
sapere cosa vi si sarebbe potuto scoprire, quali insospettati
tesori sarebbero potuti venire a galla? In verità finora ne aveva trovati ben pochi, e la messe di articoli non catalogati era
abbondante come e più di sempre, poiché per ogni frammen-
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John Connolly
to di ceramica o di statua che veniva ufficialmente registrato
sembravano arrivarne altri dieci, e se la quantità di ciò che era
noto aumentava altrettanto faceva la massa dell’ignoto. Un
uomo meno nobile l’avrebbe considerata un’impresa inane,
ma il dottor al-Daini aveva un atteggiamento romantico nei
riguardi del sapere, e il pensiero che ciò che restava da scoprire aumentasse di continuo lo riempiva di gioia.
Ora, armato di torcia elettrica e seguito da quella del soldato Patchett alle sue spalle, percorreva i canyon degli archivi, la chiave in suo possesso resa superflua dal fatto che la
porta era stata sfondata. Nel seminterrato regnava un caldo
soffocante, e nell’aria aleggiava il tanfo acre della gommapiuma a cui i razziatori avevano dato fuoco per farsi luce,
visto che la corrente elettrica aveva smesso di funzionare
prima dell’invasione; ma il dottor al-Daini quasi non se ne
curava. La sua attenzione era concentrata su un unico punto.
I ladri avevano lasciato il segno anche laggiù, rovesciando
gli scaffali, spargendo i contenuti delle scatole e delle casse
e addirittura bruciando i documenti, ma dovevano essersi
resi presto conto che lì c’era poco di interessante e per questo
i danni erano più limitati che altrove. Malgrado ciò alcuni
pezzi erano stati chiaramente trafugati, e, man mano che avanzava nella sala, il dottor al-Daini sentiva crescere l’ansia
finché, giunto finalmente a destinazione, si ritrovò a fissare
lo spazio vuoto sullo scaffale. In quel momento per poco non
si arrese, ma c’era ancora qualche speranza.
«Manca un oggetto» disse a Patchett. «La prego, mi aiuti
a trovarlo.»
«Cosa stiamo cercando?»
«Una scatola di piombo. Non troppo grossa.» Sollevò le
mani a una sessantina di centimetri una dall’altra. «Semplice, con un solo fermaglio e una piccola serratura.»
E così fecero del loro meglio per perlustrare le zone non
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chiuse a chiave del seminterrato, e quando Patchett venne
richiamato dal suo comandante, il dottor al-Daini proseguì
la ricerca da solo per il resto della giornata e fino a sera; ma
della scatola di piombo non c’era traccia.
Se si volesse nascondere un oggetto prezioso, un buon
sistema sarebbe circondarlo di cose di nessun valore. Meglio ancora sarebbe avvolgerlo nel più comune dei panni,
camuffandolo così bene da poterlo lasciare in bella vista senza attirare la minima attenzione. Lo si potrebbe addirittura
catalogare per quello che non è: in quel caso, uno scrigno
di piombo, del XVI secolo, persiano, contenente una scatola
più piccola, sigillata e appena degna di nota, apparentemente fatta di ferro verniciato di rosso. Periodo: ignoto. Provenienza: ignota. Valore: minimo.
Contenuto: nessuno.
Tutte menzogne, specialmente l’ultima; perché se qualcuno si fosse avvicinato a quella scatola nella scatola avrebbe
avuto quasi l’impressione che qualcosa al suo interno stesse
parlando.
No, non parlando.
Sussurrando.
Cape Elizabeth, Maine, maggio 2009
La cagna si sentì chiamare, e si portò con cautela all’imbocco delle scale. Stava dormendo su uno dei letti, ben sapendo che non avrebbe dovuto farlo. Si mise all’ascolto, ma
nella voce non distinse alcuna sfumatura di minaccia. Quando la udì di nuovo, seguita dal tintinnio del guinzaglio, scese
le scale due gradini alla volta, rischiando di inciampare su sé
stessa una volta arrivata al pianterreno.
Damien Patchett la calmò sollevando un dito e fissò il
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John Connolly
guinzaglio al collare. Malgrado fuori facesse caldo, indossava un giaccone verde militare. La cagna ne annusò una delle
tasche, riconoscendo un odore familiare, ma Damien la scostò. Suo padre era alla tavola calda, e la casa era silenziosa. Il
sole stava per tramontare, e mentre Damien attraversava il
bosco verso il mare, la luce cominciò a mutare e il cielo alle
sue spalle si tinse di rosso e oro.
La cagna mordeva il guinzaglio, non abituata a quella costrizione. Di solito era libera di andare dove voleva, e per esprimere il proprio disappunto prese a tirare con forza. Non
poteva nemmeno fermarsi a fiutare, e quando cercò di far
pipì venne strattonata e liberò un guaito contrariato. Su una
betulla nei paraggi c’era un nido di vespe, una costruzione
grigia, al momento silenziosa, che durante il giorno era una
massa ronzante di aggressività. La cagna era stata punta
all’inizio di quella stessa settimana, quando era andata a leccare la linfa dell’albero lì dove un picchio dal ventre giallo
aveva rimosso la corteccia per cibarsi, lasciando una comoda
fonte di dolcezza per insetti, uccelli e scoiattoli. Man mano
che si avvicinavano all’albero cominciò quindi a uggiolare,
memore del dolore e desiderosa di tenersene alla larga, ma
Damien la tranquillizzò carezzandole la testa, cambiando
direzione e facendola allontanare dal luogo dell’incidente.
Da ragazzo Damien era affascinato da api, vespe e calabroni. Quella colonia si era formata in primavera, quando
la regina, dopo i mesi di sonno seguiti all’accoppiamento
dell’autunno precedente, aveva cominciato a mischiare fibre
di legno e saliva fino a creare una sorta di fusto di polpa di
carta a cui aveva gradualmente aggiunto le celle esagonali
per la sua prole: prima le femmine, dalle uova fertilizzate,
poi i maschi, dalle sue uova vergini. Damien aveva seguito
ogni fase della creazione come faceva da ragazzo. Era l’aspetto della dominazione femminile che aveva sempre trovato
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I tre demoni
più interessante, lui che proveniva da una famiglia vecchio
stile in cui erano gli uomini a decidere; o almeno così aveva
sempre creduto finché crescendo non aveva riconosciuto gli
infiniti, raffinati sistemi con cui sua madre, e prima di lei le
sue nonne, e insieme a lei le varie zie e cugine, avevano sempre manipolato i maschi a loro piacimento. Ma lì, nel suo
nido grigio, la regina poteva essere più esplicita nel dominio,
generando, creando i difensori dell’alveare, nutrendo e facendosi nutrire, perfino scaldando la prole con le vibrazioni
del suo stesso corpo e intrappolando il tepore così prodotto
in una camera a forma di campana da lei stessa creata.
Damien si voltò a guardare la sagoma del nido quasi invisibile fra le foglie, quasi fosse restio a lasciarlo. Il suo sguardo allenato scorgeva le ragnatele, i formicai, un bruco verde
intento a scalare una sanguinaria, indugiando ammirato al
cospetto di ogni creatura e registrandone la visione.
Quando Damien si fermò, si poteva sentire l’odore del
mare. Se qualcuno avesse potuto vederlo, si sarebbe chiaramente accorto che piangeva. Il viso contorto in una smorfia,
le spalle scosse dai singhiozzi. Si guardò intorno, prima a destra e poi a sinistra, quasi si aspettasse di intravedere qualcuno fra gli alberi, ma c’erano soltanto il cinguettio degli uccelli
e lo scroscio delle onde.
La cagna si chiamava Sandy. Era una meticcia, più vicina
a un retriever che a qualsiasi altra razza. Aveva dieci anni, e
malgrado le lunghe assenze di Damien, apparteneva a lui
quanto a suo padre, e li amava allo stesso modo così come
loro amavano lei. Non riusciva a capire il comportamento
del suo giovane padrone, che di solito era perfino più tollerante dell’altro. Scodinzolò esitante mentre lui le si accovacciava accanto e legava il guinzaglio al tronco di un alberello.
Poi Damien si rialzò ed estrasse la rivoltella dalla tasca. Era
una .38 Special, una Smith & Wesson Model 10. Gliel’aveva
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John Connolly
venduta un negoziante sostenendo che fosse appartenuta a
un veterano del Vietnam finito sul lastrico, ma poi Damien
aveva scoperto che lo stesso negoziante l’aveva venduta per
pagarsi la cocaina che aveva finito per ucciderlo.
Damien si portò le mani alle orecchie, la canna della pistola nella destra rivolta al cielo. Scosse la testa e chiuse gli
occhi con forza. «Vi prego, vi prego, smettetela» disse. «Vi
imploro. Smettetela.»
La bocca gli s’incurvò verso il basso e il muco gli colò dal
naso mentre staccava le mani dalle orecchie e, tremando,
puntava la pistola contro la cagna, a pochi centimetri dal
muso. Sandy si sporse in avanti e l’annusò. Era abituata agli
odori di lubrificante e polvere da sparo, perché Damien e
suo padre l’avevano spesso portata a caccia con loro, facendole recuperare gli uccelli abbattuti. Agitò la coda eccitata,
anticipando il gioco.
«No» disse Damien. «No, non fatemelo fare. Vi prego, no.»
Il suo dito si contrasse sul grilletto. L’intero braccio gli tremava. Con un enorme sforzo di volontà spostò la pistola dal
muso della cagna e gridò rivolto al mare, all’aria, al sole in
procinto di tramontare. Serrò i denti e staccò il guinzaglio.
«Via!» le gridò. «Torna a casa! A casa, Sandy!»
La cagna abbassò la coda fra le zampe, ma non cessò del
tutto di muoverla. Non voleva lasciarlo. Avvertiva che c’era qualcosa che non andava. Ma Damien le si lanciò contro,
preparandosi a sferrarle un calcio nel didietro ma fermandosi prima di colpirla. La cagna fuggì, battendo in ritirata verso
casa. Si fermò un istante a guardare Damien, ma lui tornò
alla carica e Sandy riprese a correre, fermandosi soltanto al
rimbombo dello sparo.
Inclinò la testa, poi tornò lentamente sui suoi passi, ansiosa di vedere cosa avesse abbattuto il suo padrone.
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I
Combattei da solo, ma contro uomini simili nessuno [...]
potrebbe misurarsi.
omero, Iliade, Libro I
1
Era arrivata l’estate, la stagione dei risvegli.
Questo Stato, questa terra del Nord, non era come i suoi
parenti più a sud. Qui la primavera era un’illusione, una promessa fatta mai mantenuta, la finzione di una nuova vita delimitata dalla neve annerita e dal lento sciogliersi del ghiaccio.
La natura aveva imparato ad attendere accanto alle spiagge e
agli acquitrini, nelle grandi foreste settentrionali della contea
e nelle paludi costiere di Scarborough. Che l’inverno dominasse pure febbraio e marzo, battendo lentamente in ritirata
fino al quarantanovesimo parallelo, rifiutandosi di concedere
un solo centimetro di terreno senza dare battaglia. Con l’avvicinarsi di aprile, salici e pioppi, noccioli e olmi erano fioriti fra
i cinguettii degli uccelli. Aspettavano dall’autunno, i loro fiori
nascosti ma pronti, e presto gli acquitrini si erano ricoperti
del viola-bruno degli ontani. Gli scoiattoli e i castori erano
usciti dalle tane, e i cieli si erano riempiti di beccacce, oche
selvatiche e gracole sparse come semenze su campi azzurri.
E adesso maggio aveva finalmente portato l’estate, e ogni
cosa si era destata.
Ogni cosa.
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John Connolly
***
La luce del sole si riversava sulla finestra, scaldandomi la
schiena, mentre la mia tazza veniva riempita di caffè appena
fatto.
«Brutta storia» disse Kyle Quinn. Kyle, un uomo lindo e
compatto in divisa bianca, era il proprietario del Palace Diner di Biddeford. Ne era anche lo chef, e si dava il caso che
fosse il cuoco di tavola calda più pulito che avessi mai visto.
Mi era capitato di mangiare in bettole in cui la vista del cuoco
mi aveva fatto balenare l’idea di assumere un ciclo di antibiotici, ma Kyle si presentava così bene, e la sua cucina era
così impeccabile, che c’erano ambulatori dove l’igiene era
meno curata che al Palace e chirurghi con mani più sporche
di quelle del suo titolare.
Il Palace era il più vecchio ‘vagone ristorante’ del Maine,
costruito su ordinazione dalla Pollard Company di Lowell,
Massachusetts; la vernice rossa e bianca era ancora fresca e
perfetta, e la scritta dorata sul finestrino, che confermava che
le signore erano le benvenute, scintillava come fosse stata
marchiata con il fuoco. Era aperto dal 1927, e da allora aveva
avuto cinque proprietari, l’ultimo dei quali era Kyle. Serviva soltanto la colazione, chiudeva prima di mezzogiorno, ed
era uno di quei piccoli tesori che rendono la vita quotidiana
un po’ più tollerabile.
«Sì» confermai. «Che più brutta non si può.»
Il Portland Press Herald era spiegato davanti a me sul bancone. Nella parte inferiore della prima pagina, sotto la piega,
campeggiava il titolo:
nessun indizio nell’omicidio
dell’agente della polizia di stato.
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I tre demoni
L’agente in questione, Foster Jandreau, era stato freddato
con due colpi d’arma da fuoco a bordo del suo camioncino
dietro all’ex bar Blue Moon, appena entro i confini urbani di
Saco. Al momento della morte non era in servizio, e indossava indumenti civili. Cosa facesse al Blue Moon nessuno lo
sapeva, visto soprattutto che l’autopsia aveva rivelato che era
stato ucciso dopo la mezzanotte ma prima delle due del mattino, orario in cui nessuno si sarebbe trattenuto nei paraggi
dei resti carbonizzati di un bar malfamato. Il corpo di Jandreau era stato trovato da una squadra di operai stradali che
si erano fermati nel parcheggio del Moon per bere un caffè
e fumare una sigaretta prima di mettersi al lavoro. Era stato
ucciso da due colpi di .22 sparati a bruciapelo, uno al cuore
e uno alla testa. I segni distintivi di una classica esecuzione.
«Quel posto è sempre stato una calamita di guai» disse Kyle.
«Dopo che è bruciato avrebbero dovuto raderlo al suolo.»
«Sì, ma cos’avrebbero messo al suo posto?»
«Una lapide» disse. «Una lapide in memoria di Sally Cleaver.»
Andò a versare il caffè al resto dei tiratardi, quasi tutti intenti a leggere o parlottare fra loro, seduti in fila come i personaggi di un dipinto di Norman Rockwell. Al Palace non
c’erano séparé, e nemmeno tavoli: soltanto quindici sgabelli.
Io occupavo l’ultimo, il più lontano dalla porta. Erano le undici passate, e tecnicamente la tavola calda era già chiusa, ma
per il momento Kyle non avrebbe fatto sloggiare nessuno.
Era quel genere di posto.
Sally Cleaver: il suo nome era comparso negli articoli che
parlavano del delitto Jandreau, un frammento di storia locale
che molti avrebbero preferito dimenticare, nonché, per così
dire, il chiodo finale sulla bara del Blue Moon. Dopo quella morte al bar erano stati apposti i sigilli, e un paio di mesi
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John Connolly
dopo qualcuno gli aveva dato fuoco. Il proprietario era stato
interrogato riguardo a un possibile incendio doloso con relativa frode assicurativa, ma era stata pura routine. Gli uccellini sapevano che erano stati i Cleaver ad appiccare il fuoco al
Blue Moon, e nessuno li biasimava.
Il bar era chiuso ormai da quasi un decennio, cosa che non
dispiaceva proprio a nessuno, nemmeno alle spugne che
lo frequentavano ai tempi d’oro. La gente del luogo l’aveva
sempre chiamato Blue Mood, ‘tristezza’, perché nessuno ne
era mai uscito sentendosi meglio di quando vi era entrato,
anche se aveva evitato di assaggiarne il cibo o di bere qualsiasi cosa non fosse stata stappata davanti ai suoi occhi. Era
un luogo cupo, una fortezza di mattoni sovrastata da un’insegna verniciata e illuminata da quattro lampadine, mai più
di tre funzionanti per volta. All’interno le luci erano tenute basse per celare il lerciume, e tutti gli sgabelli davanti al
bancone erano fissati al pavimento per fornire un minimo di
stabilità agli ubriachi. Aveva un menu che era uscito dritto
dritto dalla scuola di cucina dell’obesità cronica, ma la maggior parte della clientela preferiva rimpinzarsi di noccioline
offerte dalla casa, salate a rischio ischemia per incoraggiare
il consumo d’alcol. A fine serata le noccioline rimaste e smanacciate un po’ da tutti venivano riversate nel grosso sacco
che Earle Hanley, il barista, teneva accanto al lavello. Earle
era l’unico barista del locale. Se lui era malato, o aveva qualcosa di meglio da fare che spennare ubriaconi, il Blue Moon non apriva nemmeno. A volte, osservando gli avventori
che vi si presentavano per il pieno quotidiano e trovavano
la porta chiusa, era difficile capire se mostrassero sollievo o
disappunto.
Ma poi Sally Cleaver era morta, e il Moon era spirato insieme a lei.
28
I tre demoni
La sua fine non era un mistero. Sally aveva ventitré anni e viveva con una sanguisuga di nome Clifton Andreas,
Cliffie per gli amici. A quanto si era capito, ogni settimana
Sally metteva via una parte dei propri guadagni di cameriera, forse proprio nella speranza di raggranellare una cifra
sufficiente a pagare un sicario per far fuori Cliffie, o magari
convincere Earle Hanley a versargli un po’ di veleno per topi
nelle noccioline. Conoscevo Cliffie Andreas di vista, e sapevo che era meglio evitarlo. Cliffie non aveva mai adocchiato
un cucciolo che non avrebbe voluto affogare, o un insetto che
non avrebbe voluto schiacciare. Svolgeva soltanto lavoretti
stagionali, e di sicuro non si sarebbe mai qualificato per il
concorso di dipendente del mese. Il lavoro era qualcosa che
faceva quando restava senza soldi, l’ultima spiaggia quando
i prestiti, i furti o il semplice sfruttamento di qualcuno di più
debole e bisognoso di lui non erano soluzioni praticabili. Esercitava una sorta di superficiale fascino da ribelle sul genere di donna che faceva mostra di vedere i bravi ragazzi come
dei deboli, anche se in segreto sognava un tipo normale che
non fosse immerso nelle sabbie mobili e determinato a trascinarvi dentro il prossimo.
Non conoscevo Sally Cleaver. Apparentemente aveva
scarsa stima di sé stessa, e aspettative ancora più infime, ma
in qualche modo Cliffie Andreas era riuscito a ridurre ancora di più la prima e non rispondere alle seconde. Comunque
sia, una sera Cliffie aveva trovato il mucchietto di soldi che
Sally aveva tanto faticato per risparmiare e aveva deciso di
pagarsi una serata con gli amici al Blue Moon. Sally, rientrando a casa dal lavoro, aveva visto che i soldi erano scomparsi ed era andata a cercare Cliffie nel suo locale preferito.
Lo aveva trovato che teneva banco, scolandosi con i soldi di
lei l’unica bottiglia di cognac del Moon, e per la prima e ul-
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John Connolly
tima volta nella sua vita aveva deciso di fare la voce grossa.
L’aveva insultato, l’aveva graffiato, gli aveva tirato i capelli
finché Earle Hanley non aveva intimato a Cliffie di prendere
la sua donna e le sue rogne domestiche, portarle fuori di lì e
non tornare più finché non le avesse risolte.
E così Cliffie Andreas aveva afferrato Sally Cleaver per il
colletto e l’aveva trascinata fuori dalla porta di servizio, e gli
uomini al bar erano rimasti all’ascolto mentre la massacrava di botte. Quando era rientrato nel locale aveva le nocche
escoriate, le mani chiazzate di rosso e la faccia cosparsa di
puntini rossi. Earle Hanley gli aveva versato da bere ed era
uscito a controllare le condizioni di Sally. A quel punto, lei
stava già soffocando nel suo stesso sangue, ed era morta sul
retro del locale prima dell’arrivo dell’ambulanza.
E quella era stata la fine del Blue Moon, e Cliffie Andreas.
Si era beccato da dieci a quindici anni a Thomaston, ne aveva
scontati otto, e meno di due mesi dopo il rilascio era stato ucciso da uno ‘sconosciuto’ che non gli aveva nemmeno toccato
il portafoglio e gli aveva preso l’orologio soltanto per gettarlo
in un fossato vicino. Si bisbigliava che i Cleaver avessero la
memoria lunga.
Adesso Foster Jandreau era stato ucciso a pochi metri dal
punto in cui Sally Cleaver era morta soffocata, e le ceneri della storia del Moon venivano rivoltate un’altra volta. Da parte
sua, la polizia di Stato non gradiva perdere i propri uomini; non l’aveva gradito nel 1924, quando Emery Gooch era
morto in un incidente motociclistico a Mattawamkeag, e non
l’aveva gradito nel 1964, quando Charlie Black era diventato
il primo agente ucciso in una sparatoria durante una rapina
in banca a South Berwick. Ma sulla scomparsa di Jandreau
si allungavano alcune ombre. Il giornale poteva anche aver
scritto che non vi erano indizi, ma le voci di corridoio diceva-
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I tre demoni
no altrimenti. Sul terreno accanto al camioncino di Jandreau
erano state trovate alcune fialette di crack, e frammenti dello
stesso vetro erano stati rilevati sul tappetino del veicolo, ai
suoi piedi. L’agente non mostrava tracce di droga nel sangue,
ma fra le forze dell’ordine si era diffuso il timore che Foster
Jandreau rimpinguasse lo stipendio spacciando, e una notizia simile sarebbe stata un guaio per tutti.
La tavola calda aveva lentamente cominciato a svuotarsi,
ma io mi trattenni al banco, fino a restare solo. Kyle mi lasciò
fare, riempiendomi di nuovo la tazza di caffè prima di dedicarsi alle pulizie. Gli ultimi clienti abituali, uomini di una
certa età per cui la settimana non era la stessa senza un paio
di visite al Palace, avevano pagato il conto e se n’erano andati.
Non avevo mai avuto un ufficio. Non mi serviva, e anche
se mi fosse servito non sarebbe stato sufficiente a giustificarne la spesa, anche se avessi trovato un affitto conveniente a
Portland o a Scarborough. Erano pochi i clienti che ne avevano rimarcato l’assenza, e nelle occasioni in cui si era presentata una particolare esigenza di riservatezza e discrezione
ero sempre stato in grado di riscuotere un favore, e qualcuno
mi aveva procurato il luogo adatto. Ogni tanto usavo gli uffici del mio avvocato a Freeport, ma c’era gente che detestava
l’idea di recarsi in uno studio legale tanto quanto odiava gli
avvocati in generale, e col tempo avevo imparato che molti
di coloro che si rivolgevano a me preferivano un approccio
più informale. Di solito ero io a recarmi da loro, nelle loro
case; ma a volte una tavola calda come il Palace, vuota e riservata, andava altrettanto bene. In quel caso la sede dell’incontro era stata scelta da un possibile cliente, e io non avevo
avuto nulla in contrario.
Poco dopo mezzogiorno la porta del locale si aprì a rivelare un uomo sulla sessantina. Sembrava il classico stereotipo
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John Connolly
del vecchio yankee: berretto da baseball in testa, giaccone
L.L. Bean, camicia a quadri, blue jeans puliti e scarponcini
da lavoro ai piedi. Tirato come un cavo dell’alta tensione, il
volto segnato e rugoso e gli occhi castano chiaro che brillavano dietro una montatura di acciaio sorprendentemente
alla moda. Salutò Kyle chiamandolo per nome, poi si tolse il
berretto e rivolse un piccolo, cerimonioso inchino a Tara, la
figlia di Kyle, che stava facendo le pulizie dietro il bancone.
Lei rispose con un sorriso. «Lieta di vederla, Mr Patchett»
disse. «Ne è passato, di tempo.» C’era una tenerezza nella
sua voce, e una luce nel suo sguardo, che dicevano tutto
quello che c’era da dire sulle recenti pene del nuovo arrivato.
Kyle si sporse dalla finestrella di servizio fra la cucina e il
bancone. «Sei venuto a vedere come funziona una vera tavola calda, Bennett?» chiese. «Hai l’aria di chi ha bisogno di un
po’ di nutrimento.»
Bennett Patchett ridacchiò e agitò la mano destra come se
le parole di Kyle fossero insetti che gli ronzavano intorno alla
testa, poi si sedette accanto a me. Da più di quarant’anni era
il proprietario del Downs Diner, nei paraggi dell’ippodromo
di Scarborough Downs sulla Route 1. Il padre l’aveva aperto poco dopo il suo ritorno dal servizio militare in Europa.
Sulle pareti del locale c’era ancora qualche foto di Patchett
Sr, alcune risalivano a quando era soldato e lo ritraevano circondato da uomini più giovani che gli mostravano il rispetto
dovuto a un sergente. Era morto che non aveva ancora cinquant’anni, e il figlio aveva ereditato il locale. Bennett aveva
già vissuto più a lungo di suo padre, allo stesso modo in cui
pareva che io fossi destinato a superare il mio.
Accettò il caffè offerto da Tara mentre si toglieva il giaccone e lo appendeva vicino alla vecchia stufa a gas. Tara, discreta, andò in cucina ad aiutare il padre e ci lasciò soli.
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I tre demoni
«Charlie» disse lui stringendomi la mano.
«Come sta, Mr Patchett?» domandai. Era strano chiamarlo per cognome. Mi faceva sentire come se avessi dieci anni,
ma con certi uomini aspetti che siano loro a darti il permesso
di trattarli in modo più confidenziale. Sapevo che tutti nel
suo locale lo chiamavano Mr Patchett. Per alcuni di loro poteva anche essere una sorta di figura paterna, ma era il principale, e tutti gli mostravano il rispetto che meritava.
«Puoi chiamarmi Bennett, figliolo. Meno saremo formali
e meglio sarà. Non penso di aver mai parlato con un investigatore privato prima d’ora, se non con te e soltanto quando
pranzavi nel mio locale. Li ho sempre solo visti alla tv o al
cinema. E se devo essere sincero, la tua reputazione mi impensierisce un po’.»
Mi guardò con attenzione, e lo vidi indugiare brevemente
sulla cicatrice che mi sfregiava il collo. L’anno prima ero stato
colpito di striscio da un proiettile che aveva finito per lasciarmi un segno permanente. Negli ultimi tempi sembravo aver
accumulato una quantità di tacche e graffi. Alla mia morte
avrebbero potuto espormi in bacheca come ammonimento
a non seguire un simile sentiero di pestaggi, ferite d’arma da
fuoco ed elettrocuzioni. Ma forse ero stato semplicemente
sfortunato. O fortunato. Dipendeva da come consideravi il
bicchiere.
«Non creda a tutto quello che sente» dissi.
«Non lo faccio, eppure mi preoccupi lo stesso.»
Mi strinsi nelle spalle. Il suo volto tradiva un sorrisetto
malizioso.
«Ma bando alle ciance» riprese. «Voglio ringraziarti per
aver accettato di incontrarmi. Probabilmente sarai molto occupato.»
Non lo ero, ma era gentile da parte sua suggerire che lo
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John Connolly
fossi. Da quando, all’inizio dell’anno, mi era stata restituita
la licenza in seguito a una serie di malintesi con la polizia
di Stato del Maine, le cose andavano un po’ a rilento. Avevo
svolto qualche lavoretto per le assicurazioni, perlopiù roba
noiosa che comportava starsene seduto in macchina a sfogliare un libro nell’attesa che un idiota teoricamente ferito
sul lavoro si mettesse a sollevare pietre in giardino. Ma nelle
condizioni in cui era l’economia, anche le marchette per le
assicurazioni scarseggiavano. La maggior parte delle agenzie investigative dello Stato tiravano avanti a fatica, ed ero
stato costretto ad accettare tutto quello che mi veniva offerto,
compreso il genere di lavoro che a cose fatte mi faceva venir
voglia di fare un bagno nella candeggina. Avevo pedinato
un uomo di nome Harry Milner in vari motel e appartamenti della zona, osservandolo mentre se la faceva con tre donne
diverse nel giro di una settimana riuscendo contemporaneamente a conservare il posto di lavoro e accompagnare i figli
agli allenamenti di baseball. La moglie sospettava che avesse una relazione, ma era rimasta comprensibilmente un po’
scossa nell’udire che suo marito era coinvolto nel genere di
elaborati intrecci sessuali di solito associati alle farse francesi.
Le doti di gestione del tempo dell’uomo erano d’altra parte
quasi ammirevoli, così come le sue riserve di energia. Milner aveva soltanto un paio d’anni più di me, ma se io avessi
soltanto provato a soddisfare quattro donne alla settimana
mi sarei fatto venire una trombosi coronarica, probabilmente mentre mi immergevo in una vasca d’acqua gelata per
ridurre il gonfiore. Malgrado ciò quello era stato il lavoro
più remunerativo in cui fossi incappato da un bel pezzo, e
di recente, più che altro per passare il tempo, avevo ripreso
a fare il barista un paio di volte al mese al Great Lost Bear di
Forest Avenue.
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I tre demoni
«Sono meno occupato di quanto si potrebbe pensare» dissi.
«Allora immagino che avrai il tempo di ascoltarmi.»
Annuii, poi soggiunsi: «Prima di tutto voglio dirle quanto
mi è dispiaciuto per Damien.»
Non avevo avuto modo di conoscere Damien Patchett più
a fondo di quanto conoscessi suo padre, e non ero andato al
suo funerale. I giornali erano stati discreti, ma tutti sapevano
com’era morto. Era stata la guerra, bisbigliavano alcuni. Si
era sparato soltanto sulla carta. In realtà a ucciderlo era stato
l’Iraq.
Il volto di Bennett si aggrinzì in una smorfia di dolore.
«Grazie. In un certo senso, come forse avrai intuito, è il motivo per cui sono qui. Mi sento quasi a disagio, a interpellarti
per questo. Con quello che fai, e in confronto agli assassini a
cui dai la caccia, quello che ho da offrirti potrebbe sembrare
molto banale.»
Ero tentato di parlargli delle attese davanti alle stanze dei
motel mentre i loro occupanti si davano al sesso clandestino, o delle ore trascorse in auto con una macchina fotografica
appoggiata sul cruscotto nella speranza che qualcuno si chinasse.
«A volte, le cose banali sono una piacevole novità.»
«Già» disse Patchett. «Ci credo.»
Spostò gli occhi sul giornale davanti a me e tradì un’altra
espressione sofferta. Sally Cleaver, pensai. Maledizione, avrei dovuto riporre il giornale prima del suo arrivo. Quando
era morta, Sally Cleaver lavorava al Downs Diner.
Patchett bevve un sorso di caffè e per almeno tre minuti non aprì più bocca. Uomini come lui non arrivavano alla
vecchiaia in (quasi) perfetta salute agendo di fretta. Avevano
i tempi del Maine, e quelli che avevano a che fare con loro
facevano meglio a regolare gli orologi di conseguenza.
35
John Connolly
«C’è una ragazza che serve nel mio locale» disse finalmente. «Una brava ragazza. Forse ricordi sua madre, una certa
Katie Emory?»
Katie Emory aveva frequentato il liceo di Scarborough nei
miei stessi anni, anche se appartenevamo a cerchie diverse. Lei era il genere di ragazza a cui piacevano gli atleti, e a
me gli atleti e le ragazze che li frequentavano non dicevano
granché. Quando ero tornato a Scarborough da adolescente, dopo la morte di mio padre, in realtà non mi andava di
frequentare nessuno, e stavo sempre sulle mie. I ragazzi del
luogo facevano tutti parte di compagnie ormai formate da
tempo, e, anche se avessi voluto, era difficile penetrarvi. Alla fine mi ero fatto qualche amico, e in generale non troppi
nemici. Avevo presente Katie, ma dubitavo che lei si sarebbe
ricordata di me, in circostanze normali. Tuttavia nel corso
degli anni il mio nome era finito sui giornali, e forse lei, e altri
come lei, li avevano letti e avevano rammentato il tipo che
era arrivato a Scarborough per gli ultimi due anni di liceo,
portandosi dietro un codazzo di storie su un padre poliziotto che aveva ucciso due giovani prima di togliersi la vita.
«Come sta?»
«Abita da qualche parte sull’Airline.» L’Airline era il soprannome locale della Route 9 che collegava Brewer a Calais. «Terzo matrimonio. Un musicista.»
«Davvero? Non la conoscevo molto bene.»
«Buon per te. Potevi finirci tu, in quella casa.»
«È un’idea. Era una bella figliola.»
«Non è male neanche adesso, suppongo» disse Bennett.
«Un po’ più in carne di quanto potresti ricordare, ma non si
fatica a riconoscerla. Anche in sua figlia.»
«Come si chiama la ragazza?»
«Karen. Karen Emory. Figlia unica del primo matrimonio,
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I tre demoni
nata dopo che il padre se l’era data a gambe, per questo porta il cognome della madre. Ora che ci penso, figlia unica in
assoluto. Lavora per me da più di un anno. Come ho detto,
una brava ragazza. Ha i suoi problemi, ma penso che li supererà, a patto che le si dia l’aiuto di cui ha bisogno, e che lei
ha il buonsenso di chiedere.»
Bennett Patchett era un uomo insolito. Lui e sua moglie
Hazel, morta un paio d’anni prima, avevano sempre visto
quelli che lavoravano per loro più come membri di una
famiglia allargata che come semplici dipendenti. Si affezionavano in particolar modo alle donne che transitavano
dal Downs, alcune restandovi per anni, altre soltanto pochi
mesi. Bennett e Hazel avevano una sorta di sesto senso per
le ragazze che si erano messe nei pasticci o che avevano bisogno di stabilità nelle loro esistenze. Non erano indiscreti
e non facevano prediche, ma ascoltavano quando venivano
interpellati e davano una mano quando potevano. Possedevano un paio di palazzine a Saco e Scarborough che avevano
convertito in alloggi a buon mercato per il loro personale e
per i dipendenti di un ristretto numero di altri esercizi commerciali i cui proprietari avevano vedute simili alle loro.
Gli appartamenti non erano misti, ragion per cui maschi e
femmine dovevano alloggiare con coinquilini dello stesso
sesso. Di tanto in tanto, inevitabilmente, si verificava qualche intreccio, ma meno spesso di quanto si sarebbe potuto
pensare. Nella maggior parte dei casi, coloro che accoglievano le offerte di alloggio dei Patchett erano grati dello spazio,
non soltanto fisico ma anche psicologico ed emozionale, che
la sistemazione garantiva. Per molti di loro era soltanto una
tappa; alcuni riuscivano a raddrizzare le proprie esistenze e
altri meno, ma tutti coloro che lavoravano al Downs erano
protetti, tanto dagli stessi Patchett quanto dai membri più
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John Connolly
anziani del personale. La morte di Sally Cleaver era stata un
brutto colpo, ma non aveva fatto altro che rendere Bennett
e Hazel ancora più premurosi. E se Bennett aveva sofferto
molto per la scomparsa della moglie, ciò non aveva cambiato di una virgola il suo atteggiamento nei riguardi dei dipendenti. Loro erano tutto quello che gli restava, in ciascuna
di quelle ragazze rivedeva Sally Cleaver, e forse nei ragazzi
aveva cominciato a scorgere il suo Damien.
«Karen ha conosciuto un uomo, un tipo che non mi piace»
disse Bennett. «Lei abitava in una delle case per il personale,
quella di Gorham Road. Con Damien andava molto d’accordo. Pensavo che lui se ne fosse innamorato, ma lei aveva
occhi soltanto per un suo amico, un commilitone in Iraq, un
certo Joel Tobias. Era il comandante della squadra. Dopo la
morte di Damien, o potrebbe anche essere successo mentre
era ancora vivo, Karen e Tobias si sono messi insieme. Si dice
che lui sia tormentato da ciò che ha visto in Iraq. Amici che
gli sono letteralmente morti addosso. Morti dissanguati fra
le sue braccia. Si sveglia urlando in piena notte, madido di
sudore. E Karen pensa di poterlo aiutare.»
«Gliel’ha detto lei?»
«No. L’ho saputo da una delle altre cameriere. Karen non
me lo direbbe mai. Suppongo preferisca parlare di queste cose con le altre donne, sa che ero contrario al fatto che andasse
a vivere con Tobias pur conoscendolo da poco. Sarò un uomo all’antica, ma pensavo che avrebbe dovuto aspettare. E
gliel’ho anche detto. A quel punto stavano insieme da non
più di un paio di settimane, e... be’, le ho chiesto se non le
sembrasse di accelerare un po’ i tempi, ma lei è giovane, e
crede di sapere cosa vuole, e io non volevo interferire. Karen
desiderava continuare a lavorare per me, e a me andava bene
così. Negli ultimi tempi le cose non stanno andando benissimo, come un po’ tutti d’altra parte, ma non ho bisogno che il
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I tre demoni
locale mi faccia guadagnare più di quanto mi serva a pagare i
conti, e sono ancora abbondantemente in grado di farlo. Non
mi serve altro personale e immagino si possa dire che non mi
serve nemmeno quello che ho, ma loro devono lavorare, e a
un vecchio fa bene essere circondato dai giovani.»
Prosciugò la sua tazza e rivolse un’occhiata bramosa alla caffettiera sull’altro lato del bancone. Come per telepatia,
Kyle alzò gli occhi e disse: «Prendilo pure, se ne vuoi un altro
sorso. Altrimenti andrà sprecato.»
Bennett aggirò il bancone e versò a entrambi il caffè. Quando ebbe finito restò in piedi, lo sguardo fisso sul vecchio tribunale fuori dalla finestra, riflettendo su come proseguire.
«Tobias è più grande di Karen, avrà fra i trenta e i quaranta.
Troppo vecchio e troppo incasinato per una ragazza come lei.
In Iraq è rimasto ferito, ha perso alcune dita e ha la gamba sinistra compromessa. Adesso guida un camion. È un imprenditore, o almeno così si definisce, ma il suo lavoro sembra
occasionale. Aveva sempre tempo da perdere con Damien ed
è costantemente con Karen, più di quanto dovrebbe esserlo
uno che si guadagna da vivere sulla strada, come se non avesse problemi di soldi.»
Aprì una vaschetta di panna e l’aggiunse al suo caffè. Di
nuovo il silenzio. Di sicuro aveva passato molto tempo a riflettere su ciò che stava per dire, ma si vedeva che intendeva
comunque essere prudente.
«Sai, ho il massimo rispetto per i militari. Non potrebbe
essere diversamente, con il padre che ho avuto. Se non avessi avuto problemi di vista probabilmente sarei andato in
Vietnam, e forse non avremmo avuto questa conversazione.
Forse non sarei stato qui, ma sepolto sotto una lapide bianca
chissà dove. In ogni caso sarei stato un uomo diverso, magari
addirittura migliore.
«Non so cosa ci sia di giusto o sbagliato nella guerra in Iraq.
39
John Connolly
Mi sembra un gran viaggio senza un buon motivo apparente, con un sacco di vite sacrificate, ma menti più sagge della
mia potrebbero sapere cose che io ignoro. La cosa peggiore
comunque è che non si sono presi cura degli uomini e delle
donne che sono rientrati, non come avrebbero dovuto. Mio
padre era tornato ferito dalla Seconda guerra mondiale, anche se non lo sapeva. Era stato danneggiato nel profondo da
alcune cose che aveva visto e fatto, ma a quei tempi il danno
non aveva lo stesso nome clinico di adesso, oppure la gente
semplicemente non ne capiva la gravità. Quando Joel Tobias
è entrato per la prima volta al Downs ho capito subito che anche lui se lo portava dentro, e non soltanto sulla mano e alla
gamba. Soffriva intimamente, era dilaniato dalla rabbia. Gliene sentivo addosso l’odore, gliela leggevo negli occhi. Non
c’era bisogno che me lo dicessero.
«Non mi fraintendere: Tobias ha il diritto di essere felice
come chiunque altro, forse anche di più, per i sacrifici che ha
fatto. Le sofferenze che sta patendo, fisiche o mentali che siano, non gli negano quel diritto, e magari in circostanze normali una ragazza come Karen potrebbe aiutarlo. Anche lei
è stata ferita. Non so come, ma lo vedo, ed è ciò che la rende
così sensibile nei riguardi di quelli come lei. Un brav’uomo
potrebbe essere salvato da un aiuto simile, a patto che non se
ne approfitti. Ma non credo che Joel Tobias sia un brav’uomo,
tutto qui. È la persona sbagliata per lei, e ha qualcosa di sbagliato anche in sé.»
«Come fa a saperlo?» domandai.
«Non lo so» rispose Bennett con una palese nota di frustrazione nella voce. «Non di sicuro. Me lo sento nelle viscere, ma
non è soltanto questo. Tobias ha un camion tutto suo. Possiede un grosso Silverado, nuovo di zecca anche quello. Abita in
una bella casa a Portland, e ha soldi. E li spende, più di quanto
dovrebbe. Non mi piace.»
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I tre demoni
Attesi. Avrei dovuto fare attenzione a cosa dire. Non volevo dare l’impressione di dubitare della sua parola, ma allo
stesso tempo sapevo che poteva essere fin troppo protettivo
nei confronti dei giovani sotto la sua responsabilità. Stava ancora cercando di rimediare al fatto di non aver protetto Sally
Cleaver, anche se non avrebbe mai potuto evitare ciò che le
era accaduto, e di certo non ne aveva colpa.
«Potrebbe aver preso tutto a credito» dissi. «Fino a poco tempo fa, pur di farti uscire dalla concessionaria con un camion
nuovo accettavano anche un solo nichelino di anticipo. Tobias
potrebbe aver ricevuto un’indennità di guerra. Non si può...»
«Lei è cambiata» disse Bennett. Lo sussurrò così piano che
per poco non mi sfuggì, ma l’intensità del suo tono era impossibile da ignorare. «E anche lui. Lo vedo quando viene a
prenderla. Ha un’aria malata, come se non dormisse bene, ancora peggio di prima. Lei un paio di giorni fa si è bruciata: ha
cercato di prendere al volo una caffettiera che stava cadendo
e ha finito per ustionarsi le mani con il caffè bollente. È stato
un incidente, ma del genere provocato dalla stanchezza. È dimagrita, e già di suo non era molto in carne sulle ossa. Temo
che lui le abbia alzato le mani. Le ho visto i lividi sul volto. Mi
ha detto di avere sbattuto contro una porta, come se qualcuno
credesse ancora a quella storia.»
«Ha tentato di parlargliene?»
«Ci ho provato, ma si è messa subito sulla difensiva. Te
l’ho detto, penso che non le piaccia parlare di faccende personali con un uomo. Non ho voluto insistere, non a quel
punto, per timore di allontanarla ancora di più. Ma sono in
pensiero per lei.»
«Cosa vuole che faccia?»
«Sei ancora in contatto con i Fulci? Magari potresti incaricarli di dargli qualche legnata, di convincerlo a trovarsi
un’altra con cui dividere il letto.»
41
John Connolly
Lo disse con un sorriso triste, ma capii che una parte di lui
avrebbe davvero voluto sguinzagliare i Fulci, due macchine
da guerra dotate di appetito, contro un individuo capace di
picchiare una donna.
«Non funziona mai» risposi. «La donna comincia a provare pietà per l’uomo, oppure lui capisce che è stata lei a spifferare qualcosa e la situazione degenera.»
«Be’, è stato bello finché è durato» disse Bennett. «Se non si
può fare, vorrei che tu indagassi su Tobias e cercassi di scoprire qualcosa su di lui. Ho solo bisogno di un’argomentazione
che possa convincere Karen a mettere una certa distanza fra
loro.»
«Questo posso farlo, ma c’è la possibilità che lei non gliene
sarà affatto grata.»
«Me ne assumo il rischio.»
«Vuole sapere i miei costi?»
«Hai intenzione di fregarmi?»
«No.»
«In tal caso, immagino che tu valga quello che chiedi.»
Posò una busta sul bancone. «Qui ci sono duemila dollari.
Quanto riusciranno a coprire?»
«Quanto basta. Se avrò bisogno di altri fondi, mi farò sentire. Se spenderò di meno, glieli restituirò.»
«E mi dirai cos’avrai scoperto?»
«Certo. Ma se venisse fuori che è pulito?»
«Non lo è» disse con fermezza. «Un uomo che picchia la
propria donna non può definirsi pulito.»
Toccai la busta con la punta delle dita. Provai l’impulso di
restituirgliela, ma alla fine mi limitai a indicare l’articolo di
giornale su Jandreau.
«Vecchi fantasmi» dissi.
«Vecchi fantasmi» convenne. «A volte ci vado, sai? Non
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I tre demoni
saprei dirti cosa mi spinga a farlo, a meno che non sia la speranza di tornare indietro nel tempo per poterla salvare. Ma
più che altro dico una preghiera passandoci davanti. Dovrebbero cancellare quel posto dalla faccia della terra.»
«Conosceva Foster Jandreau?»
«Lo vedevo ogni tanto nel mio locale. Ci passano un po’ tutti: agenti della polizia di Stato e di quella locale. Ci prendiamo
cura di loro. Oh, pagano il conto come chiunque altro, ma facciamo in modo che non se ne vadano affamati. Foster però lo
conoscevo abbastanza bene. Suo cugino Bobby era in Iraq con
Damien. Brutta faccenda: ci ha perso entrambe le gambe.»
Attesi un istante prima di riprendere a parlare. Nel quadro
c’era un elemento mancante. «Prima ha detto che in un certo
senso questo incontro riguardava anche la morte di Damien.
Si riferiva soltanto al collegamento con Karen Emory?»
Bennett sembrava improvvisamente inquieto. Sentir nominare suo figlio doveva essere una sofferenza, ma c’era
dell’altro.
«Tobias è tornato pieno di problemi da quella guerra, ma
mio figlio no. Certo, aveva visto brutte cose, e c’erano giorni in
cui si capiva che ne stava ricordando alcune, ma era rimasto
il ragazzo che conoscevo. Continuava a ripetermi che aveva
vissuto una buona guerra, se mai una cosa del genere fosse
possibile. Non aveva ucciso nessuno che non stesse cercando
di uccidere lui, e non provava alcun odio per il popolo iracheno. Era soltanto dispiaciuto per quello che stava passando, e
aveva cercato di fare del suo meglio per aiutarlo. Aveva perduto qualche amico, ma non era tormentato da ciò che aveva
vissuto; non sulle prime. È cominciato tutto più avanti.»
«Non so molto del disturbo postraumatico da stress,» dissi
«ma stando a quello che ho letto può passare del tempo prima che si faccia sentire.»
43
John Connolly
«È vero,» confermò Bennett «l’ho letto anch’io. Mi stavo
documentando prima che Damien morisse, pensando che se
avessi capito meglio cosa stava passando forse avrei potuto
aiutarlo. Ma vedi, a Damien l’esercito piaceva. Non penso che
volesse abbandonarlo. In passato aveva prestato servizio più
volte, e ci sarebbe tornato. Al suo ritorno non faceva che parlare di riarruolarsi.»
«E perché non l’ha fatto?»
«Perché Joel Tobias lo voleva qui.»
«Come fa a saperlo?»
«Da quello che diceva Damien. Aveva fatto un paio di
viaggi in Canada insieme a Tobias, e avevo la sensazione che
avessero in ballo qualcosa, una sorta di affare che in prospettiva prometteva loro bei guadagni. Damien cominciò a parlare di mettersi in proprio, magari nel settore della sicurezza,
se non si fosse arruolato di nuovo. Fu allora che cominciarono i problemi. Fu allora che Damien cominciò a cambiare.»
«Cambiare come?»
«Non mangiava più. Non riusciva a dormire, e quando si
addormentava lo sentivo gridare.»
«Si capiva cosa diceva?»
«A volte. Implorava qualcuno di lasciarlo in pace, di smetterla di parlare. No, di smetterla di sussurrare. Era diventato ansioso e aggressivo. Mi rispondeva male senza motivo.
Quando non era occupato con Tobias se ne stava da solo, a fumare e guardare nel vuoto. Gli suggerii di parlarne con qualcuno, ma non so se l’abbia mai fatto. Quando cominciarono i
guai era rientrato da tre mesi, e due settimane dopo si era già
ucciso.» Bennett mi diede un colpetto sulla spalla. «Da’ una
controllata a quel Tobias e ne riparleremo.»
A quel punto si alzò, salutò Kyle e Tara e uscì dal locale.
Lo seguii con lo sguardo mentre camminava a passo lento
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I tre demoni
verso la sua auto, una Subaru malconcia con il paraurti posteriore costellato di adesivi dei Sea Dogs. Aprendo la portiera
mi sorprese a guardarlo. Fece un cenno del capo e sollevò la
mano in un saluto, e io lo imitai.
Kyle riemerse dalla cucina.
«Sto per chiudere» disse. «Hai finito?»
«Ti ringrazio» dissi. Pagai il conto e lasciai una bella mancia, sia per il cibo che per la discrezione di Kyle. Non erano
molte le tavole calde in cui due uomini potessero incontrarsi
e parlare di ciò di cui avevamo discusso Bennett e io senza
temere di essere ascoltati.
«È un brav’uomo» disse Kyle mentre l’auto di Bennett usciva dal parcheggio.
«Sì, lo è.»
Tornando verso Scarborough feci una deviazione per passare davanti al Blue Moon. Il nastro giallo della polizia sbatteva nella brezza penzolando da un pluviale, stagliandosi sullo
sfondo dei resti anneriti. Le finestre del bar erano ancora sigillate dalle tavole, la porta di acciaio chiusa da un pesante
catenaccio, ma le fiamme avevano aperto una voragine nel
tetto, avvicinandoti potevi avvertire un tanfo umido e, malgrado fossero passati anni, di legno bruciato. Kyle e Bennett
avevano ragione: avrebbero dovuto demolirlo, e invece resisteva come una scura cellula cancerosa sulla distesa di trifoglio rosso alle sue spalle.
Ripartii, e le rovine del Blue Moon rimpicciolirono nel mio
specchietto retrovisore, fino a scomparire. Eppure sembrava
che qualcosa di esse fosse rimasto sul vetro, come un segno
lasciato da un dito annerito, un messaggio dei morti per rammentare ai vivi i loro debiti.
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