Giorgio Mariani: "Femminismo pistolero: Bad Girls di

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Giorgio Mariani: "Femminismo pistolero: Bad Girls di
Giorgio Mariani
Femminismo pistolero: Bad Girls di Jonathan Kaplan*
Torniamo per un attimo alle pagine conclusive di The Adventures of Hukleberry Finn, per ricordare
che la fuga del giovane Huck verso il West è connotata come un tentativo di sottrarsi alle mire
“civilizzatrici” della zia Sally. Qui Twain riprende un motivo presente in molta della letteratura
americana considerata, almeno sino a una trentina di anni fa, “canonica”; un motivo che vede i
protagonisti maschili di questi testi come vittime di un conformismo e un sentimentalismo di marca
femminile, al quale cercano di sottrarsi per esplorare mondi e stili di vita alternativi. Esempi classici
di questo schema narrativo sono i viaggi verso l’ignoto narrati da Poe e da Melville, l’isolamento di
Thoreau sulle sponde di Walden Pond, la “rinuncia” delle tentazioni del sesso e del denaro da parte
di Ike Mc Caslin, in “The Bear” di William Faulkner. Come ha messo in luce la più recente critica
femminista, dietro questo topos letterario americano – o quantomeno, dietro alla ricostruzione
critica che ne è stata tradizionalmente fatta – c’è una prospettiva retorico-ideologica che viene
prendendo corpo sin dai primi viaggi di esplorazione del nuovo continente, e che può riassumersi
nel mito dell'America come “terra vergine”. Nelle parole di Annette Kolodny, “Quando le donne
europee iniziarono ad arrivare sulle sponde atlantiche degli odierni Stati Uniti, il Nuovo Mondo era
già stato occupato dalle fantasie degli uomini […]. Dall’inizio dell’esplorazione […] I resoconti dei
marinai sul “delicato giardino con abbondanza di fiori odorosi di ogni genere’ divennero
inestricabilmente associati alla visione degli investitori di ‘una terra ancora in possesso della sua
verginità’”.i Sin dai primordi la frontiera americana è dunque concepita, in base a una “dinamica
psico-sessuale”, come la controparte femminile – e dunque inevitabilmente votata alla
sottomissione – di un soggetto e un immaginario aggressivamente maschili e patriarcali. Di qui il
ruolo secondario, vicario e subalterno che la mitologia della frontiera ha tradizionalmente assegnato
*
Queste pagine costituiscono una sezione del saggio “Reimmaginare il passato” apparso in Stefano Rosso, a cura di, Un
fascino osceno, Verona: ombre corte, 2006, pp. 108-150 che non avevano potuto comparire in quella sede per mancanza
di spazio. Il discorso verrà ripreso in un prossimo volume di Mariani sulle raffigurazioni della pace e della guerra nella
cultura statunitense.
alle donne: nell’Eden del West – da Daniel Boone a Davy Crockett, da Kit Carson a Buffalo Bill –
domina un Adamo americano il cui alter ego femminile è soprattutto la terra stessa, la natura
splendida e selvaggia da domare, fertilizzare e “ripulire” dalla presenza indiana. Al progetto
d’ininterrotta espansione di questo archetipico homo americanus le donne in carne e ossa sono
essenzialmente d’ingombro: a loro spetta la cura della casa e delle faccende domestiche, attività
antitetiche alla caccia, allo “Indian fighting”, alla ricerca di nuove piste verso il West.
“Essendo stato negato loro un posto a fianco dell’incrollabile mito dell’Adamo americano,
dunque, le donne americane – scrive ancora Kolodny – sono state comprensibilmente riluttanti a
proclamarsi le legittime Eve del Nuovo Mondo”; non è pertanto sorprendente che in nessuno dei
testi della letteratura “classica” americana sia possibile ritrovare un’eroina della frontiera capace di
sparare e combattere come Natty Bumppo, andare a caccia di balene come Ishmael, partecipare a
viaggi pieni di pericoli e terrori come Arthur Gordon Pym.ii A partire però dalla seconda metà
dell’Ottocento – ecco dunque un altro ottimo motivo per studiare la cultura di massa – in alcune
dime novels si affacciano personaggi come Hurricane Nell e Calamity Jane, eroine dalla mira
infallibile, provette cavallerizze, esperte lanciatrici di “lazo”. Con loro entrano finalmente in scena
le cowgirl. Se queste figure – al pari dei modelli maschili cui si ispirano – si presentano
immediatamente con tratti esagerati e fiabeschi, si deve comunque sottolineare che la loro comparsa
avviene sull’onda di un quadro storico-culturale profondamente mutato rispetto a quello degli inizi
della colonizzazione americana cui fanno riferimento le parole di Kolodny appena citate: un quadro
nel quale non mancano numerosi esempi di donne che per stile di vita, coraggio e determinazione
non sono poi così distanti dalle cowgirl della letteratura popolare.
Con l’avvento della cattle frontier – e cioè della frontiera dei grandi allevamenti di bestiame –
molte donne si trovarono a condividere con mariti, padri, fratelli e compagni compiti ritenuti un
tempo adatti esclusivamente agli uomini. Saper cavalcare, anche per distanze enormi, riuscire a
tenere assieme le mandrie, ricorrere alle armi da fuoco per difendersi dai ladri di bestiame
divennero necessità pratiche cui molte donne seppero fare fronte con grande abilità e presenza di
spirito. Come ha scritto Shelley Armitage, “in una certa misura queste cowgirl condivisero la
violenza, le varie attività e i valori della prateria e, in proporzione all’indipendenza che questa vita
permetteva, furono capaci di dar forma alle proprie vite”. La comparsa di figure di “Amazzoni”
nella letteratura di consumo va dunque vista come una risposta alla “disponibilità di modelli reali –
donne […] che si sentivano a proprio agio tra i cavalli, le pistole e persino la violenza”.iii Il fatto che
tanto nel circo di Buffalo Bill (il celebre Wild West Show) quanto nei film western degli inizi, già a
partire dal cinema muto, non mancassero intrepide cowgirl conferma che vi fu una fase in cui –
nella realtà come nella finzione dello spettacolo – la cultura della frontiera assegnò alle donne un
ruolo magari secondario, ma non necessariamente e totalmente subalterno. Secondo Armitage è solo
a partire dagli anni Quaranta e Cinquanta che, con l’avvento di maestri del genere western come
John Ford, le donne vennero ricacciate nei ruoli stereotipati di brava fanciulla da sposare o
tentatrice sensuale da respingere.
Il film del quale ci occupiamo in questa sede, Bad Girls di Jonathan Kaplan (1994), vuole
riprendere le fila di questo discorso interrotto sulle gesta delle cowgirl partendo, analogamente a
quanto fa Van Peebles in Posse, da un dato storico reale ma troppo spesso trascurato e stravolto. Sin
dalla scelta dell’ambientazione – che è più o meno quella della “cattle frontier” che dal Texas si
estendeva, a Ovest, sino al New Mexico e all'Arizona e, a Nord, sino al Montana e al Wyoming – il
film si sforza di dare una dimensione realistica alle vicende delle quattro “bad girls” del titolo, pur
senza nascondere minimamente né l'assunzione di una prospettiva femminista ispirata al presente,
né il desiderio di volersi misurare anche con lo spessore più propriamente fantastico del mito del
West.iv Le prime scene ci introducono così all’immancabile cittadina di frontiera, nel cui saloonbordello lavorano le quattro eroine. Anche se quella di prostituirsi pare una loro scelta autonoma e
le ragazze sono, per così dire, manager di se stesse e al riparo da interferenze maschili, queste prime
battute hanno un sapore caricaturale e il “rovesciamento” della prospettiva di genere (ancora una
volta nel doppio senso del termine) sembra un fatto puramente meccanico, senza lampi innovativi.
In un secondo momento, però, ci si può accorgere che l’effetto della primissima parte del film è, in
buona parte, probabilmente voluto: la cittadina si chiama non a caso “Echo City”. Entro i suoi
confini le ragazze non paiono in possesso di alcuna risposta originale alle sfide della società
patriarcale e devono dunque limitarsi a una falsa autonomia: a un ruolo “indipendente” che
riecheggia una secolare subordinazione. Il film ci avverte in tal modo del suo desiderio di voler
resistere alla tentazione di riprodurre la mitologia western e, avvalendosi anche di una serie di
ammiccamenti simbolici, cerca di marcare la transizione verso uno spazio immaginario davvero
nuovo.
Costrette a fuggire da Echo City per aver ucciso un cliente che non sta alle regole, le quattro
cavalcano via in una scena in cui la macchina da presa indugia su una bibbia calpestata dalle zampe
dei cavalli. Proseguendo nella loro corsa le donne guadano un fiume e, giunte sull’altra sponda, per
prima cosa uccidono e poi mangiano un (il?) serpente. A sottolineare il riferimento al paradigma
edenico segue un bagno naturista che serve non solo a mettere in luce il filo di complicità emotiva e
sensuale che lega le protagoniste, ma funge soprattutto da battesimo purificatore preparando in
modo adeguato il loro ingresso in una cittadina dall’emblematico nome di Agua Dulce.v Ma il
paradiso terrestre, nonostante lo sforzo di lasciarsi alle spalle una società dove morale religiosa e
oppressione sessuale sono le facce opposte ma complementari della stessa medaglia patriarcale, è
ancora lontano per queste novelle Eve della frontiera. Inseguite dai Pinkerton assoldati dalla moglie
dell’uomo che hanno ucciso; minacciate da una banda di fuorilegge della quale aveva fatto parte in
gioventù la più “cattiva” delle quattro “bad girls”; private infine da una legge sfacciatamente
maschilista di una concessione terriera assegnata al defunto marito di una di loro, le quattro eroine
vengono in pratica costrette a divenire outlaws per ottenere giustizia. Qui il film propone in modo
abbastanza esplicito una rivisitazione al femminile del mito del “social bandit” – del fuorilegge stile
Jessie James che si ribella all’ingiustizia e all’ipocrisia della Legge ufficiale per difendere i propri
diritti. Al tempo stesso il cognome ispanico della leader delle quattro – Zamora – evoca una figura
classica del cinema western, quella del rivoluzionario messicano dei tempi di Pancho Villa ed
Emiliano Zapata. In tal modo la battaglia intrapresa dalle quattro assume contorni esplicitamente
socio-politici e si viene a collocare su uno sfondo culturale dove s’intersecano categorie di genere,
di classe e di etnia.vi
Come si vede il film non manca di spunti interessanti ma se abbia senso parlare di Bad Girls
come di un western femminista (o se si debba optare per la meno ambiziosa etichetta di “western al
femminile”) dipende in buona misura da che cosa s’intende per femminismo. La mia impressione è
che il film sia leggibile come esemplificazione di un certo mainstream feminism statunitense: in tale
prospettiva non è forse casuale che esso mostri alcune affinità con due pellicole del regista Ridley
Scott – una precedente a Bad Girls, l’altra successiva – il cui contenuto “femminista” è stato
oggetto di vivaci discussioni. Sto parlando di Thelma e Louise (1990), da un lato, e
dell’incomparabilmente inferiore G. I. Jane (1996), dall’altro. Dal primo Bad Girls riprende l’idea
di rovesciare uno dei più vetusti luoghi comuni cultural-letterari americani per presentarci delle
donne in fuga da una società oppressivamente patriarcale. Del secondo il film di Kaplan anticipa
l’insistenza sull’idea che una donna è perfettamente in grado di eguagliare l’uomo in tutti campi,
compreso quello delle armi e della violenza. In Thelma e Louise la pistola è un ambiguo strumento
di liberazione perché, se da un lato rende possibile evitare la violenza maschile sul corpo della
donna, dall’altro trasforma immediatamente le due donne in fuorilegge e mette in moto il processo
che porta alla catastrofe finale. In Bad Girls, viceversa, è in ultima analisi solo grazie alla
dimestichezza con colt e winchester che le donne riescono a trionfare, anticipando in tal modo le
gesta eroiche della donna-marine impersonata da Demi Moore in Soldato Jane.
Bad Girls si chiude per l’appunto con una canonica sparatoria finale perché è solo con il
ricorso alla violenza che la crisi messa in scena dalla narrazione filmica può giungere a una
risoluzione. Penetrate nel covo dei banditi per riprendersi ciò che loro spetta e liberare un ostaggio
maschio – ecco qui un altro rovesciamento dello schema classico, che vuole la donna prigioniera
degli indiani o dei banditi – le quattro eroine mettono il rifugio a ferro e fuoco, spazzando via i
cattivi. Il tutto avviene nel pieno rispetto del codice d’onore del western più classico, come dimostra
la scena clou in cui Cody Zamora, invece di approfittare del fatto che il leader della banda nemica
ha esaurito le munizioni, gli lancia un proiettile e solo dopo avergli dato il tempo di ricaricare la
pistola e aver pronunciato le fatidiche parole “Muori da uomo!”, lo fa secco.vii Come si vede qui
emergono in modo lampante le principali contraddizioni ideologiche del film: nella macchina
narrativa messa a punto da Kaplan le donne possono finalmente vincere, ma per farlo devono
necessariamente essere battezzate nel sangue e nella violenza. Si potrebbe ovviamente discettare a
lungo sull’annosa questione se la violenza abbia un genere (ovviamente maschile) oppure no: ma
non ci possono essere dubbi sul fatto che nel genere western la violenza è una prerogativa degli
uomini e abbracciarla vuol dire occupare inevitabilmente una posizione designata come maschile.
In tal senso è davvero emblematica la battuta di Zamora, “Muori da uomo!” Con tali parole la
donna non solo si fa veicolo di una retorica dell’onore maschile che ripristina quella gerarchia di
valori che altrove il film pare voler mettere in discussione, ma riconosce implicitamente la necessità
di divenire, per così dire, essa stessa uomo per poter sconfiggere un altro uomo.viii Perché il suo
antagonista possa morire da uomo occorre, in altre parole, che a ucciderlo sia una donna-uomo; se a
ucciderlo fosse una donna-donna la mascolinità del bandito, che proprio Zamora gli intima di
rivendicare, svanirebbe. Il gesto di clemenza di Zamora è, a conti fatti, un atto di sottomissione alle
regole più ferree del genere western: solo a patto di passare attraverso le forche caudine della
violenza le donne possono essere vincenti ma, come il film ci ricorda in questa scena, se da tale
rituale esse emergano in quanto donne, o meno, resta tutto da chiarire. Il sospetto è che, per
parafrasare quanto argomentato dalle studiose di polizieschi femminili Joan Roberts e Kathleen
Klein circa il ruolo della donna come investigatrice e/o poliziotta, se un pistolero sia uomo o donna
poco conta: sin tanto che il cowboy o la cowgirl si eleggono a paladini dell'ordine costituito ogni
questione di genere diviene secondaria.ix Anzi, si potrebbe arrivare a sostenere che proprio perché
Bad Girls seduce il pubblico femminile, invitandolo a credere che nell’universo ideologico
tradizionale del western vi siano degli spazi di libertà per le donne, il film finisce col rendere le
spettatrici complici attive e consenzienti di un ordine socio-culturale nel quale la loro sottomissione
è scontata. Questa lettura è forse troppo ingenerosa nei confronti di un film che ha comunque spunti
interessanti, ma è indubitabile che il femminismo pistolero di Bad Girls sia quantomeno assai
contraddittorio.
i
Annete Kolodny, The Land Before Her. Fantasy and Eperience of the American Frontier: 16301860, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1984, p. 3.
ii
Ivi, p. 5
iii
Shelley Armitage, Rawhide Heroines: The Evolution of the Cowgirl and the Myth of America, in
Sam B. Girgus (a cura di), The American Self. Myth, Ideology, and Popular Culture, Albuquerque,
University of New Mexico Press, 1981, pp. 166-81. Le citazioni sono dalle pp. 170-71.
iv
È interessante notare che una delle primissime inquadrature del film ci mostra una delle quattro
eroine intenta a leggere un giornale con un titolo a piena pagina sull'impresa leggendaria di Nellie
Bly (pseudonimo di Elizabeth C. Seaman), una giornalista divenuta famosa per aver compiuto il
giro del mondo in 72 giorni. Questo dettaglio, oltre a situare le vicende narrate in un momento
storico preciso (il 1889, l’anno del viaggio di Seaman), mette anche in risalto il punto di vista che il
regista ha deciso di assumere. Gran parte del lavoro giornalistico di Seaman fu infatti dedicato a
denunciare scottanti temi sociali come lo sfruttamento delle donne tra le mura domestiche, le
terribili condizioni di vita nelle prigioni americane, il problema del divorzio, ecc. Inoltre, come
Posse, anche il titolo di Kaplan attualizza il film: l’espressione “cattiva ragazza” connota infatti nel
linguaggio contemporaneo una figura femminile trasgressiva sul piano sociale e/o sessuale.
v
É quasi superfluo ricordare che l’acqua è tradizionalmente associata alla sfera femminile ed è una
componente fondamentale dei riti di battesimo e rinascita spirituale. Una scena analoga, e con una
valenza omoerotica forse ancor più insistita, è peraltro presente anche in Posse. In ambedue i casi,
al di là dei richiami simbolici, è evidente che le scene sono anche motivate da motivi squisitamente
commerciali visto che rappresentano l’occasione per mettere in mostra i corpi seminudi di attori e
attrici noti.
vi
Vale la pena ricordare inoltre che il nome di Zamora – Cody – la collega invece ambiguamente al
celeberrimo Buffalo Bill (William Cody). L’ambiguità del rinvio sta a mio avviso nel suo volere, da
un lato, rendere omaggio al coraggio e alla destrezza di questa donna e, dall’altro, nel confermare
che le qualità di una donna della frontiera vanno comunque misurate a partire da un modello
maschile. Sempre sul versante delle modalità di rappresentazione delle figure “etniche” bisogna
quantomeno ricordare che alla connotazione ispanica in positivo di Cody Zamora si oppone, con un
peso assai maggiore, quella in negativo dei banditi messicani sterminati dalle quattro donne nelle
scene finali del film. Oltre a non riuscire a fare a meno di un Altro da sé come capro espiatorio
etnicamente connotato, il film tace del tutto sul problema dell’espropriazione delle terre indiane.
Eppure, se le quattro fossero riuscite a entrare in possesso della concessione terriera che il marito di
una di loro si era assicurato nell’Oregon, esse si sarebbero ritrovate nella posizione oggettiva di
espropriatrici. La legge patriarcale in questo caso evita al regista di affrontare la questione e non a
caso la narrazione si chiude con tre delle quattro donne che cavalcano verso il Klondyke, quasi a
scavalcare – letteralmente e figurativamente – il problema politico della conquista del Far West.
vii
Poiché qualcuno potrebbe accusare Kaplan di aver esagerato in modo palesemente irrealistico la
destrezza delle ragazze, si deve ricordare che se le donne pistolere non erano certo la norma nel
West, gli storici hanno registrato casi come quello della signora Cassie Redwine la quale, rimasta
vedova, per difendere dai ladri la propria mandria di bestiame catturò assieme ai suoi cowboy
un’intera banda di fuorilegge, uccidendo lei stessa il loro capo; oppure, su un versante opposto, si
potrebbero citare le gesta della diciassettenne Annie McDoulet e la sedicenne Jennie Stevens,
criminali in erba affiliate alla famigerata banda dei Doolin. (Su questi episodi e molto altro si veda
Joyce Gibson Roach, The Cowgirls, Denton, TX, North Texas UP, 1990). Tenendo a mente quanto
la ricerca storica ha effettivamente messo in luce, e fermi restando i parametri sempre un po’
mitologici che dominano tutto il cinema western, non si deve dunque faticare molto per accettare
come credibile la sparatoria finale di Bad Girls.
viii
Si può ritrovare una scena in qualche modo analoga un altro recente western al femminile: The
Quick and the Dead (Duri a Morire, 1996) di Sam Raimi, con Gene Hackman nella parte di Herod,
il maschio cattivo, e Sharon Stone in quella di Ellen, la pistolera buona. Invitata a cena da Herod,
quest’ultima porta con sé una piccola rivoltella che sistema nella giarrettiera e con la quale, una
volta a tavola, potrebbe facilmente freddare il rivale. Naturalmente Ellen rinuncia a questo
stratagemma così pesantemente connotato in senso “femminile” per uccidere Herod in un regolare
duello sulla strada principale del paese.
ix
Su questo punto si veda il recente intervento di Catherine Nickerson, Murder as Social Criticism,
“American Literary History”, 9 (Winter 1997), pp. 744-57.