John Berger Questioni di sguardi. Sette inviti al vedere

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John Berger Questioni di sguardi. Sette inviti al vedere
John Berger
Questioni di sguardi. Sette inviti al vedere fra storia dell’arte e quotidianità
Il Saggiatore Milano 2002
Recensione n. 2 di luglio di Elena Ciresola –2006
Abstract
John Berger is a storyteller, essayist, novelist, screenwriter, dramatist and critic, whose body of
work embodies his concern for, in Geoff Dyer's words, "the enduring mystery of great art and the
lived experience of the oppressed." He is one of the most internationally influential writers of the
last fifty years, who has explored the relationships between the individual and society, culture and
politics and experience and expression in a series of novels, bookworks, essays, plays, films,
photographic collaborations and performances, unmatched in their diversity, ambition and reach.
His television series and book Ways of Seeing revolutionised the way that Fine Art is read and
understood, while his engagement with European peasantry and migration in the fiction trilogy Into
Their Labours and A Seventh Man stand as models of empathy and insight.
Recensione
Questione di sguardi con la sua tutt’oggi peculiare struttura sempre in bilico tra immagini e parole,
ben esemplifica alcuni tratti fondamentali sia della biografia che della poetica del suo autore John
Berger. Questi, infatti, nato a Londra nel 1926, si forma inizialmente come pittore per poi
diventare non solo critico d’arte ma anche romanziere, saggista, sceneggiatore e giornalista.
L’interesse per il rapporto che lega l’attività visiva a quella verbale diviene e rimane quindi uno dei
tratti distintivi della produzione di questo poliedrico uomo di cultura. Attualmente vive a Quincy,
un piccolo villaggio alpino, da dove continua riservatamente a dedicarsi alla scrittura e alle
questioni sollevate dal problema della “visione” accompagnato dalla passione per la sua
motocicletta e per l’attenta osservazione delle vicende quotidiane che arricchiscono la sua attività
di scrittore di racconti.
Si concede ormai di rado alle occasioni ufficiali ed ecco perché la sua presenza a Torino nel 2004 in
relazione all’iniziativa di Atrium, ha rappresentato un momento privilegiato per entrare in contatto
con questo autore. Di lui ci parla Luciano Minerva che ha potuto intervistare Berger proprio a
Torino. Emerge da tale resoconto il ritratto di uno scrittore che possiede la rara capacità di
prestare un’attenta e costante attenzione a tutto e a tutti secondo una reale democratica visione
del valore umano che prescinde gli sterili titoli accademici. Questo accompagnato ad una continua
cura e ricerca, spesso faticosa, delle giuste parole per costruire un testo o un discorso. Berger
infatti dichiara senza timore “Ci sono scrittori, come me, che devono combattere con le parole […]
e la lotta è per trovare parole che generino il minimo di interferenza: se è così le parole saranno
accolte con la massima ospitalità dal lettore”. Tale indagine linguistica rimane imprescindibile da
quella visiva ed infatti uno dei temi costanti della poetica bergeriana è quello relativo allo
“sguardo”, al “guardare”. Tale campo semantico e concettuale rappresenta il sottile filo rosso che
più o meno esplicitamente è sotteso a tutta la bibliografia di questo autore che annovera tra i suoi
lavori più famosi, oltre a Questione di sguardi, anche Festa di nozze, Splendori e miserie di Pablo
Ricasso, G, Sacche di resistenza, Sul guardare, Una volta in Europa, Fotocopie, Modi di vedere, Qui
dove ci incontriamo e Isabelle. Una storia di quadri. Si tratta di testi editi soprattutto dal
Saggiatore e da Bollati Boringhieri e che spesso, come nel caso di Questione di sguardi sono arrivati
alla traduzione italiana con uno scarto temporale che tuttavia non ne ha inficiato il fascino.
Con l’età, oggi Berger ha ottant’anni, una maggiore responsabilità individuale nelle vicende sociopolitiche della quotidianità che spingano il singolo ad una presa di coscienza attiva, ha preso il
posto dell’attiva militanza legata alle teorie marxiste alla luce delle quali sono nate e si sono
sviluppate molte delle proposte interpretative di Questione di sguardi.
Ways of Seeing, titolo originale del testo in questione, esce nel 1972 e in relazione ad esso prende
vita anche un progetto della rete BBC che lo ha trasformato in una serie televisiva.
L’impianto del testo è estremamente innovativo in quanto consta di sette saggi nei quali parole ed
immagini interagiscono spingendo il lettore, che deve farsi obbligatoriamente anche “osservatore”,
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ad un nuovo approccio fruitivo con il testo. I saggi non sono titolati ma solamente numerati. Tre di
essi inoltre sono costituiti solamente da figure prelevate dal mondo dell’arte e della pubblicità in
rapporti e successioni strettamente legati allo spirito del libro.
Il ricco apparato iconografico è descritto nel dettaglio solo in un indice posto alla fine del testo
poiché, nell’intenzione dell’autore, lo “sguardo” del lettore non deve essere pregiudicato da
nozioni precostituite.
Nella nota per il lettori posta come introduzione, è indicata la facoltà di poter scegliere l’ordine
con cui affrontare i vari capitoli che possono essere letti anche in sequenza casuale in quanto
ognuno di essi è portatore di molteplici significati e opzioni di lettura. Questa particolarità è resa
possibile dal fatto che il libro possiede una grande molteplicità di livelli fruitivi affrontando
tematiche che aprono a considerazioni estetiche, artistiche ma anche antropologiche, politiche e
sociologiche.
Già il titolo Ways of Seeing, reso in una azzeccatissima traduzione italiana con Questione di
sguardi, introduce ad una duplicità contenutistica e formale. Infatti, se si privilegia il livello
estetico-artistico dei saggi, ossia si cercano i messaggi e le osservazioni che possono scaturire dalle
parole ma soprattutto dall’accostamento delle immagini, è la capacità di osservare del lettore ad
essere messa alla prova. Berger suggerisce che occorre saper osservare le opere e le immagini
attentamente per quel che ci mostrano prima e non dopo aver affinato le erudizioni culturali fini a
se stesse e spesso troppo staccate dall’opera in sé. Ecco quindi che centrale è la “questione dello
sguardo” del lettore cioè il suo modo di vedere.
Tuttavia il titolo Questione di sguardi, può essere anche letto e parafrasato come la “problematica
degli sguardi” ossia il ruolo che la visione e le immagini possiedono nella nostra cultura, nella
nostra società, nella nostra contemporaneità. Le immagini che Berger ci propone, divengono perciò
prove di una teoria artistico-sociale-politica che l’autore inglese porta avanti con una convinzione
ed una determinazione che rende taluni passi di questo libro una sorta di pamphlet.
Anche se i capitoli non hanno un titolo e possono essere indipendenti, in realtà vi sono alcuni nuclei
tematici presenti all’interno del testo che costituiscono i più originali elementi di riflessione offerti
da Berger e che minano profondamente alcune delle più radicate convenzioni e teorie della storia
dell’arte tradizionale occidentale. Centrale e rivoluzionaria è la rilettura del rapporto tra la pittura
ad olio tra ‘600 e primi del ‘900 e la pubblicità del mondo contemporaneo. Alla luce di questo
nucleo emergono le occasione per discutere quindi di pittura ad olio e pubblicità ma anche di
visione della donna, tradizione, contemporaneità, capitalismo, possesso, desiderio, nature morte,
opere mediocri, grandi artisti che invece sono eccezioni, glamour, politica.
Molto peso riveste il pensiero marxista del materialismo storico sia a livello contenutistico che
terminologico. Berger infatti sostiene con veemenza che gli sviluppi artistici siano stati, in
Occidente, strettamente collegati alle emergenze socio-politiche. Nel lessico poi, ricorrenti sono
termini come “classe”, “capitale”, “capitalismo”, “massa”, “proprietario”.
Nel primo capitolo vengono affrontate varie questioni problematiche legate ad aspetti socioantropologici relativi alla ricezione dell’opera d’arte. Dopo aver sottolineato l’importanza della
visione che viene anteposta alla capacità del linguaggio e della parola, Berger espone il tema della
mistificazione del passato e dell’arte. Dal momento che: “la mistificazione è un processo che
liquida attraverso un atto di spiegazione ciò che altrimenti potrebbe essere evidente”, l’autore
denuncia il fatto che in campo estetico “quando un’immagine ci viene presentata come opera
d’arte, il mostro modo di guardarla è influenzato dall’insieme di idee precostituite che circolano
sull’arte” e che quindi mistificano la nostra visione. Ad esemplificare questo processo ci vengono
proposti i ritratti seicenteschi e le recensioni relative, dei Reggenti e delle Reggenti di Alms House,
dipinti da Frans Hals il quale, secondo Berger, “fu il primo ritrattista che dipinse i nuovi
personaggi e le nuove espressioni del capitalismo”. Passando attraverso l’avvento della prospettiva
e il suo superamento ad opera della fotografia, l’autore ci invita ad un’accurata analisi sulla
questione benjaminiana della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte. Siamo dinnanzi ad uno dei
punti del libro in cui occorre far più attenzione per non cadere nella tentazione di considerare
Berger eccessivamente critico o, al contrario benevolo, rispetto al nuovo status che il l’opera
originale assume in virtù della sua duplicabilità tecnica. Il testo viene in soccorso del lettore poiché
esplicitamente ci viene detto che cosa Berger non vuole dire: “Non stiamo dicendo che nulla ci
resta da esperire […],non stiamo dicendo che le opere d’arte originali sono diventate inutili […]né
stiamo dicendo che tutta l’arte possa essere capita spontaneamente”. Berger infatti prende atto
del fatto che l’arte del passato non esiste più nelle forme autoritarie, prestigiose, rare ed escluse
alla conoscenza dei più, come nei secoli scorsi. E’ avvenuto il passaggio ad una società capitalistica
delle immagini, in cui il capolavoro, attraverso riproduzioni meccaniche e manipolazioni di vario
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tipo è divenuto accessibile a livello di massa e addirittura svalutato della sua aura. Tuttavia tale
passaggio non è stato accompagnato da una presa di coscienza altrettanto vasta e Berger constata
come “se lo si utilizzasse in modo diverso, il nuovo linguaggio delle immagini conferirebbe un
potere di tipo nuovo”; ma questo no è avvenuto e quindi ci si ritrova ora in una società dominata
dalle immagini ma priva di capacità di guardare realmente tale ricchezza per quello che è. E
questa, per Berger, diventa una questione politica.
Dopo questa conclusione, il secondo capitolo, squisitamente ed esclusivamente iconografico, tratta
il tema della donna accostando riproduzioni di opere d’arte a foto pubblicitarie contemporanee.
Questa carrellata fa emergere come l’immagine femminile sia vincolata alla capacità di attrattiva
sensuale e sessuale e venga palesemente sfruttata, in ambito pubblicitario, spesso nelle modalità e
nelle posture con cui era dipinta nei quadri, alla stregua di una merce per valorizzare e
promuovere altra merce. Emblematico è l’accostamento delle ultime due immagini dove ci viene
proposta, attraverso una quadro ed una foto patinata, un’analoga, quanto discutibile nella
veridicità, glorificazione della donna. Il commento e le conclusioni spettano allo sguardo.
Il terzo capitolo, strettamente legato al secondo, sembra quasi un manifesto di denuncia
femminista che parte dalla presa di coscienza della diversa presenza sociale della donna rispetto
all’uomo, esemplificata nella lapidaria affermazione in base alla quale: “gli uomini agiscono e le
donne appaiono[…] la donna si trasforma in oggetto, e più precisamente in oggetto di visione: in
veduta”. Sarebbe stata quindi l’arte moderna europea a confermare e consolidare tali ruoli
attraverso la convenzionalizzazione del nudo femminile che attraverso temi iconografici
stereotipati e ricorrenti (il nudo di Eva, Susanna e i Secchioni, il Giudizio di Paride, Venere e
Cupido) hanno permesso che lo spettatore acquisisse che la donna fosse spogliata per lui. Berger
discute quindi sulle rappresentazioni sessuali, sul problema in arte del dipingere l’essere spogliati e
sulla funzione del denudamento nella realtà. Lo scrittore tuttavia non demolisce tutte le opere che
ruotano attorno al nudo femminile ma, come in altre parti del libro, lascia spazio anche a delle
eccezioni alla tradizione che, in questo caso sono costituite da “rappresentazioni estremamente
personali della nudità” come ad esempio Rubens con l’opera Helene Fourment con pelliccia. Ciò
nonostante, Berger conclude il capitolo polemicamente affermando che “oggi gli atteggiamenti e i
valori che informavano quella tradizione, si esprimono attraverso mezzi di comunicazione diversi e
a diffusione assai più ampia:pubblicità, giornalismo, televisione […]. Nella sostanza però il modo
di vedere le donne, l’uso che si fa della loro immagine, non è cambiato”.
Il quarto capitolo è di nuovo puramente visivo. Questa volta non compaiono immagini pubblicitarie
ma solamente opere d’arte, in una sequenza che illustra l’evoluzione moderna, in pittura, di vari
temi: la maternità (dalle Maestà tardo medievali al sentimentalismo patetico di certe visioni
ottocentesche), la Morte (colta sotto vari aspetti: religioso, realistico, allegorico, crudo-realistico),
la Natura Morta, le coppie mitologiche, i ritratti (ufficiali e celebrativi, realistici e miserabili). Tale
carrellata sulle poliedriche tematiche della tradizione pittorica europea, porta direttamente al
quinto capitolo il quale contiene la tesi più rivoluzionaria e polemica sul piano della storia
dell’arte. E’ qui infatti, che Berger istituisce la diretta corrispondenza tra lo sviluppo e la fortuna
della pittura a olio ed il parallelo consolidarsi del capitalismo. Più precisamente, per le sue
caratteristiche formali, la pittura a olio, con la propensione a fornire allo spettatore un senso di
pastosa, lucida (e si potrebbe aggiungere freudiana fallica) lucentezza degli oggetti, si presta
perfettamente ad essere portatrice dei valori delle cose, della ricchezza economica, del
proprietario. Si trovano a questo punto alcune delle frasi e dei passi più emblematici di questo
libro: “In ogni epoca l’arte tende a servire gli interessi della classe dominante. Stiamo dicendo che
un modo di vedere il mondo, determinato in definitiva da nuovi atteggiamenti nei confronti della
proprietà e dello scambio, trovò la sua espressione visiva nella pittura a olio e non avrebbe potuto
trovarla che lì […]. La pittura a olio fece alle immagini ciò che il capitale aveva fatto alle relazioni
sociali. La ridusse all’equivalenza di oggetti”.
Berger argomenta ed illustra queste sue tesi attraverso l’analisi di varie opere, più o meno
conosciute, ma l’intero discorso è mirabilmente esemplificato sull’incitazione ad un’attenta
osservazione de Gli Ambasciatori di Holbein, quadro posto a inizio della tradizione. Vengono in
seguito passati in rassegna vari generi della pittura a olio ma degna di particolare nota è la parte
riguardante la pittura di paesaggio che, in parte, attraverso grandi artisti di eccezione come
Ruysdael, Rembrandt, Constable, Turner e Monet, ha spesso veicolato delle modifiche significative
alla tradizione stessa. M a è proprio in seno al genere paesaggistico, in particolare a quello dipinto
da Gainsborough nel quadro Mr and Mrs Andrews, che Berger scaglia una delle frasi più dure del
libro. In aperta polemica con le teorie romantiche di Lawrence Gowing (contemporaneo di Berger)
in relazione a quest’opera, Berger tuona: “La posizione del professore (Gowing appunto) merita di
essere ricordata perché illustra in modo formidabile la disonestà che impesta la materia della
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storia dell’arte”. Infatti mentre Berger vede nel quadro di Gainsborough la volontà dei proprietaricommittenti di esaltare, attraverso il paesaggio, la vastità dei loro possedimenti, Gowing li vede
invece come ritratti nel mentre di un’amena contemplazione del sentimento panico.
Berger tuttavia non si limita a condannare la pittura di genere e di nuovo apre una possibilità
affermando che esistono due categorie: l’opera media e l’opera eccezionale. E’ nel raggiungere
quest’ultima che si situa la lotta del vero grande artista e viene specificata la nozione di eccezione
intesa da Berger: “Per essere un’eccezione il pittore, la cui visione si era formata alla luce della
tradizione […], doveva riconoscere la propria visione per quello che era e poi separarla dall’uso
per cui si era sviluppata. Da solo doveva contestare le regole dell’arte sulle quali si era formato”.
Tale lotta è incarnata e vinta, secondo lo scrittore inglese, da Rembrandt che ci mostra questa
evoluzione attraverso due magnifici autoritratti.
Una carrellata di opere suddivise di nuovo per temi (il quadro grafico, gli schiavi neri, il ritratto di
fanciullo, gli animali, il paesaggio, scene erotiche, la figura femminile), tra le quali il lettoreosservatore può tentare ormai di riconoscere quelle che Berger può intendere come eccezioni e
quali invece come opere medie, costituisce il sesto capitolo che apre le porte alla settima ed
ultima parte del libro dedicata al rapporto tra pittura ad olio e pubblicità. Berger dà prova di
nuovo della propria originalissima, individuale capacità di lettura e di analisi dell’universo delle
immagini che tessono una ricca quanto problematica, rete diacronica e sincronica.
Lo scrittore sostiene che tra il linguaggio della pubblicità e quello della pittura a olio vi è una
continuità diretta di linguaggio che si fonda sulla capacità di presa tattile del colore, degli
stereotipi e dei rimandi sessuali maschilisti. Tuttavia vi è anche una diversità di funzioni poiché la
pubblicità si rivolge allo spettatore-compratore là dove invece la pittura a olio si reggeva sullo
spettatore- proprietario. Berger compie un’analisi davvero illuminante su molti meccanismi di
presa utilizzati dalla pubblicità che possono valere indubbiamente tutt’oggi. Attraverso immagini
che pongono a confronto pubblicità di vario genere e quadri a olio della tradizione europea, il
lettore è posto dinnanzi all’evidente sfruttamento che il marketing fa di stereotipi formali e
linguistici desunti dall’arte. Nei gesti dei modelli si ritrovano infatti spesso quelli delle figure
mitologiche; l’uso romantico della natura alimenta il sogno di creare-comprare un luogo dove sia
possibile ritrovare l’innocenza; la speciale enfasi sessuale data alle gambe femminili sponsorizza
più di un prodotto; l’equazione tra bere e ricchezza è spesso sottolineata, etc. Un ruolo centrale è
oggi oramai monopolizzato dal denaro, dalla capacità di acquisto oramai intesa come capacità di
vita, dal soddisfacimento di desideri materiali che sono divenuti gli unici sogni. Ecco che la
pubblicità, facendo leva sul concetto di glamour, ossia sull’invidia sociale, assume essa stessa una
funzione sociale in quanto arriva a “trasformare il consumo in un surrogato di democrazia”.
La questione delle immagini e degli sguardi, diventa perciò una vera e propria questione politica.
Fa riflettere il quadro di Magritte, Sulla soglia della libertà, posto come ultima immagine del testo.
Già dalle foto pubblicitarie scelte e dall’enfasi sessantottina delle tesi proposte, si riconosce che
Questione di sguardi è un testo dei primi anni Settanta tuttavia, al di là che siano più o meno
condivisibili le teorie estetiche e politiche di Berger, in un solo punto del libro vi è un netto errore
di valutazione da parte dell’autore. Paradossalmente sta proprio qui la prova che questo libro può
essere considerato tutt’oggi un’analisi della nostra stessa società contemporanea del XXI secolo.
Berger nell’ultimo capitolo, in relazione alla tipologia di arte scelta dalla pubblicità per amplificare
il suo effetto persuasivo, indica la pittura ad olio moderna negando invece gli sviluppi artistici più
recenti: “Se la pubblicità si servisse di un linguaggio rigorosamente contemporaneo mancherebbe
sia di decisione che di credibilità”. In verità oggi tale assunto non vale. Infatti se, come aveva fatto
Berger nel 1972, si aprono le riviste o si osservano gli spot televisivi o delle pagine web di internet,
è facile rendersi conto di come il marketing si sia appropriato, senza perdere le sue prerogative, di
immagini, stereotipi e clichés dell’arte contemporanea: velocità (Futurismo), scomposizione visiva
(cubismo) androginia e confusione dei generi sessuali (Dadaismo, Surrealismo e Body Art) sono alla
base di molte pubblicità.
Pur scritto nel 1972 quindi, Questione di sguardi, enuncia meccanismi tutt’ora più che mai attivi.
A riprova di questa constatazione si veda, nell’ultimo capitolo lo shock descritto da Berger, in
relazione all’accostamento in una stessa pagina del “SundayTimes Magazine” del 1971, di una foto
della guerra in Pakistan e di una pubblicità per bagnoschiuma. Accendiamo la televisione oggi, nel
2006, e guardiamo un telegiornale: prima notizia, la guerra tra Libano e Israele. Seconda notizia, la
bella vita dell’ennesima soubrette fidanzata ad un calciatore. Entrambe le notizie e le immagini sul
TG nazionale, a sequenza ravvicinata. Basta provare a guardare per trarre le conclusioni.
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Del resto Questione di sguardi, dopo l’indice dell’apparato iconografico, congeda definitivamente il
lettore con una frase: “LA CONTINUAZIONE A CHI LEGGE”. Si potrebbe solo aggiungere “…E A CHI
IMPARA A GUARDARE”.
In verità tutta l’arte in tutte le sue manifestazioni può essere vista e letta a metà, si potrebbe
dire, tra spirito e materia. E’ innegabile che non sia esaustiva né la ragione di chi la relega nelle
torri d’avorio di un mondo staccato dalla realtà contingente, né, d’altro canto, chi propugna una
visione dell’arte come mera conseguenza degli eventi politici.
Rimane innegabile che questo libro di Berger abbia e mantenga un pregio davvero indiscutibile:
quello di costringere il lettore non solo a leggere e scorrere velocemente un’immagine, sia essa
opera d’arte o pubblicità, ma a guardare attentamente e riflettere sulla base dei dati visivi.
E’ risaputo che la nostra è oramai non solo la società ma la dittatura dell’immagine. E’ proprio per
questo che libri come quello di Berger sono essenziali per indurci ad assumere un ruolo di
osservatori attivi e non passivi e succubi, al fine di ritornare capaci di pensare, riflettere,
interpretare utilizzando occhio, mente e parola affinché la ricchezza dell’arte non diventi mera
apparenza asservita a scopi di lucro.
Indice
Autore
John Berger, 80 anni, nato a Londra, formatosi come pittore, poi divenuto critico d'arte nel
dopoguerra per la rivista diretta da George Orwell, è autore di saggi (tra cui Ways of Seeing, che la
rete televisiva BBC ha trasformato in una serie TV, romanziere (vince il Booker Price con G nel
1972), sceneggiatore (scrisse, tra l'altro, in collaborazione con il regista svizzero Alain Tanner,
Jonas che avra' venti anni nel 2000 e quattro piece teatrali), giornalista (su El Pais, The Guardian,
The Independent, Frankfurter Rundschau).
Torino ha ospitato una rassegna dedicata a lui, dal 27 al 30 maggio 2004, con una mostra
fotografica, una rassegna di film sceneggiati da lui o ispirati a sue opere, un laboratorio e due
incontri aperti alla Scuola Holden; un libro su di lui, Modi di vedere edito da Bollati Boringhieri,
uno spettacolo, Isabelle, allo Stabile.
Bibliografia recente dell’autore
Festa di nozze. Il Saggiatore, 1995
Splendori e miserie di Pablo Picasso. Il Saggiatore, 1996
Pagine della ferita. Greco e Greco, 1999
E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto. L'Ancora del Mediterraneo,
2002.
Questione di sguardi. Il Saggiatore, 2002
Sacche di resistenza. Giano, 2003
Sul guardare. Mondadori Bruno, 2003
Una volta in Europa. Bollati Boringhieri, 2003
Fotocopie. Bollati Boringhieri, 2004
Modi di vedere, Bollati Boringhieri, 2004
Qui dove ci incontriamo, Bollati Boringhieri, 2005
Isabelle. Una storia per quadri, Epoche, 2006
Siti di riferimento
http://www.rainews24.it/ran24/rubriche/incontri/autori/berger.asp
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