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IL GHETTO NEL PERIODO DELLA SHOAH a cura di YIFTACH MEIRI Desk Head for European Department International School for Holocaust Studies Yad Vashem Jerusalem Ghetto è il nome attribuito al quartiere o alla strada in cui abitano gli Ebrei, chiusi e relegati rispetto al resto della popolazione cittadina; l’origine del termine va cercata a Venezia, dove nel 1516 fu costituito un quartiere separato per gli Ebrei in una zona chiamata Ghetto Nuovo. Anche gli Ebrei di altre città italiane, ad eccezione di Livorno, furono rinchiusi nei ghetti, come pure nei centri della Francia meridionale, in alcune città della Germania e della Polonia, in Boemia, in Moravia. Agli Ebrei era proibito risiedere in luoghi diversi dal ghetto, i cui cancelli venivano chiusi di notte e durante le feste cristiane. I ghetti avevano lo scopo di limitare i contatti tra Ebrei e non-Ebrei alle sole finalità economiche e al contempo gli Ebrei potevano gestire la vita interna della loro comunità secondo i loro usi e costumi. L’abolizione dei ghetti fu decretata alla fine del Settecento. Il ghetto europeo che sopravvisse più a lungo fu quello di Roma, abolito solamente nel 1870. Quartieri separati, per forza o per scelta, esistevano in gran parte dei paesi Islamici, sia per gli Ebrei che per i Cristiani, e tali quartieri vennero aboliti nel corso del XX sec. Nella maggior parte dei casi si trattava di quartieri nei quali gli Ebrei prendevano residenza di loro volontà, senza che venisse loro impedito di abitare in altre zone della città. Durante gli anni ’60 del XX sec. la parola ghetto passò a designare i quartieri abitati dai neri nei centri degli Stati Uniti, nelle città del Sud Africa, ed in generale quei quartieri fatiscenti delle grandi città nei quali andavano a vivere gli appartenenti a minoranze oppresse e/o economicamente svantaggiate. Tra queste forme di ghetto e quelle che sorsero nei paesi occupati dai nazisti non c’è somiglianza. I ghetti istituiti dai governi nazisti nel corso della Seconda Guerra mondiale non dovevano essere un luogo separato dove far vivere gli Ebrei, ma costituivano una fermata intermedia verso il processo di “soluzione totale del problema ebraico”. Erano come dei campi di concentramento e venivano gestiti con i mezzi violenti imposti dal governo nazista. Tali ghetti vennero creati nelle città dell’Europa Orientale dopo lo scoppio della guerra, in Polonia, nei Paesi Baltici e nelle aree occupate dell’Unione Sovietica. Il ghetto di Amsterdam, le case degli Ebrei di Budapest ed il ghetto-campo di concentramento di Theresienstadt vicino a Praga, durante l’ultima fase della guerra, non avevano le stesse caratteristiche dei ghetti dell’Europa Orientale, e non verranno pertanto trattati in questa sede.7 Non siamo a conoscenza di una direttiva generale concernente l’istituzione di questi ghetti, e supponiamo che si tratti di iniziative prese dai governi locali, anche se una disposizione di Reinhard Heydrich del 21 settembre 1939 riguardo i territori conquistati diceva che “la concentrazione degli Ebrei nelle città ci obbliga, a quanto pare, a prendere dei provvedimenti di sicurezza, che prevedano il divieto assoluto di accesso agli Ebrei in determinati quartieri, pertanto, e questo in considerazione delle necessità di ordine economico, non sarà loro permesso, ad esempio, di lasciare il ghetto e di uscirne dopo una certa ora della sera ecc.”. In queste disposizioni non compare un ordine esplicito alla costituzione di ghetti e la parola “ghetto”, usata da Heydrich, si riferisce, a quanto pare, ai quartieri Ebraici già esistenti nelle città della Polonia. In ogni caso, dopo che Hans Frank fu nominato governatore militare, non dette direttive generali per la creazione di ghetti, (come aveva invece fatto per la creazione dello Judenrat, per il contrassegno a tutti gli Ebrei e per il metodo dei lavori forzati). Tutto ciò mostra come i ghetti non siano sorti nello stesso periodo nelle diverse città della Polonia occupata e, di conseguenza, non possiamo sostenere che ci fosse un criterio unico per istituirli e governarli all’interno. Il primo ghetto della Polonia occupata dai Tedeschi, a Piotrkow Trybunalski, iniziò ad esistere nel 1939, mentre il ghetto della seconda città polacca per grandezza, Lodz, nella regione di Warthegau, annessa al Reich Tedesco, venne chiuso il 1° maggio 1940, quando al suo interno vivevano ben 164.000 persone. Nel novembre del 1940 venne chiuso il ghetto più grande dei territori sotto occupazione tedesca, quello di Varsavia, dove risiedeva la maggiore comunità Ebraica d’Europa. Nel periodo in cui era più popolato, nel marzo 1941, il ghetto di Varsavia arrivò a contenere 450.000 persone. Nel marzo 1941 sorgono anche i due ghetti di Lublino e di Cracovia, nell’aprile 1941 quelli di Radom, Kielce e Czenstochowa, le grandi città sotto aministrazione militare. Nella Silesia, regione annessa al Reich, gli Ebrei furono chiusi nei ghetti fra la fine del 1942 e l’inizio del 1943, alla vigilia dell’eliminazione delle comunità Ebraiche; il ghetto di Sosnowiec è stato istituito nell’ottobre 1942. In piena “Operazione Barbarossa”, durante la seconda metà del 1941, furono istituiti i ghetti nelle parti occupate dell’Unione Sovietica, a Vilna, a Kowno, nei paesi del Baltico e in Bielorussia; alla fine di agosto 1941, il governo militare in Ucraina dette ordine di creare dei ghetti “nei luoghi relativamente più popolati, soprattutto nelle città”. Nelle città grandi e piccole delle regioni orientali, dove gli Ebrei costituivano la maggioranza della popolazione locale, creare dei ghetti presentava maggiori difficoltà, e richiese relativamente più tempo. Nelle zone sovietiche occupate dai nazisti, prima di costituire i ghetti, i membri delle Einsatzgruppen commisero grandi stragi ed in alcune località, come Vilna ad esempio, la deportazione nei ghetti faceva parte del piano di trasferimento nei luoghi di stermino. La maggior parte degli studiosi concorda nell’affermare che, se anche i ghetti segnano un peggioramento della politica nazista nei confronti degli Ebrei, non possono venire considerati, almeno nel primo periodo, una parte della soluzione finale. Al contrario dei ghetti sorti dopo l’inizio della pianificazione dello sterminio, i primi ghetti costituivano una soluzione temporanea, proposta spesso da autorità intermedie, fino al momento in cui le autorità naziste avessero deciso quale fosse la soluzione generale da adottare. Ghetto (panoramica generale) La chiusura dei ghetti e il regime che li governava furono diversi a seconda dei luoghi: erano circondati da mura, da recinzioni di legno e da recinzioni di filo spinato. In alcuni ghetti l’isolamento era quasi totale, non era permessa l’uscita degli Ebrei e l’entrata dei Polacchi; in altri era permesso uscire per periodi definiti, ed era permesso ai Polacchi di entrarvi. Il regime peggiore era quello imposto al ghetto di Lodz, che era chiuso in modo totale. I governi nazisti ricorrevano a scuse e motivazioni diverse per spiegare la costruzione dei ghetti: in alcuni casi veniva detto che il ghetto era necessario per evitare speculazioni e mettere fine alla diffusione di idee politiche sovversive da parte degli Ebrei ; in altri per impedire la diffusione di epidemie contagiose, originate dagli Ebrei, e mantenere una normale situazione sanitaria; in altri ancora per difendere gli Ebrei dalla popolazione polacca ostile. Va ribadito che tutte queste affermazioni erano prive di fondamento ed è invece lecito supporre che la vera intenzione fosse quella di isolare gli Ebrei, di separarli fisicamente dal resto della popolazione, come piano della politica antisemita del governo nazista. Inizio dell’istituzione del ghetto di Varsavia Il primo tentativo di istituire un ghetto a Varsavia ebbe luogo nel novembre del 1939. Un ufficiale di alto grado delle S.S., Rudolf Batz, comunicò al consiglio della Comunità Ebraica che nel giro di tre giorni ogni Ebreo nella città era tenuto a trasferirsi in determinate abitazioni, site in determinate strade, vale a dire in un ghetto. Tale ordine non mancò di causare grande spavento e di diffondere un generale senso di scoraggiamento e di impotenza. Soltanto un’indifferenza totale, se non addirittura ostilità e crudeltà smisurate, poterono indurre a pensare che 150.000 persone fossero in grado, in soli tre giorni, di lasciare le proprie abitazioni nei diversi quartieri della città per concentrarsi in poche vie già largamente sovrappopolate. Molto probabilmente fu proprio questa mancanza di umanità, insieme all’impossibilità di assolvere un simile comando in un tempo tanto limitato, a spingere gli uomini dello Judenrat a compiere un passo coraggioso. Fu composta una rappresentanza, capeggiata da Adam Czerniakow, col compito di incontrarsi col governatore militare della città. La rappresentanza fu ricevuta dal generale e nel corso della conversazione emerse che lui non era a conoscenza di tale ordine, impartito presumibilmente a suo nome. È lecito assumere che il fatto che Batz avesse fatto uso del nome e dell’autorità del generale per attuare i propri piani infastidì il generale, il quale affermò che avrebbe indagato sulla faccenda, e che nel frattempo gli Ebrei non avrebbero dovuto ottemperare all’ordine dell’S.S. La minacciosa disposizione fu annullata (tale successo fece sorgere non poche illusioni che portarono a successivi fallimenti: anche se in particolari situazioni, come in questo specifico frangente, fu possibile sfruttare le tensioni presenti tra i diversi settori del regime nazista a vantaggio della Comunità Ebraica, in altri casi la strategia si rivelò svantaggiosa e ad alto rischio). All’inizio dell’estate del 1940, i tedeschi iniziarono ad alzare mura in alcuni incroci delle vie di Varsavia. Dalla loro localizzazione risultava chiara l’intenzione di creare delle barriere di separazione in pieno centro, ma gli Ebrei non capirono immediatamente che le barriere avevano la funzione di dividere ed isolare il quartiere Ebraico dal restante agglomerato urbano. Il dott. Mordechai Lenski, medico Ebreo di Varsavia, scrisse nelle sue memorie che: “gli Ebrei si sforzavano di capire per quale scopo i nazisti costruissero delle mura. Alcuni erano del parere che volessero assicurare all’esercito un libero passaggio attraverso la città... altri pensavano che le mura avrebbero reso più facile il compito dell’esercito Tedesco nella sua azione contro la resistenza Ebraico-Polacca, dato che avrebbe reso più difficile il passaggio dei rivoltosi. Solamente pochi non erano d’accordo con tali spiegazioni, dicendo che i tedeschi costruivano un muro per chiudere gli Ebrei in un ghetto.” (Mordechai Lenski) Nel marzo 1940, all’imbocco delle strade che portavano al quartiere Ebraico, furono affissi dei segnali scritti a caratteri cubitali, in tedesco ed in polacco, che ammonivano sulla pericolosità dell’ingresso nella zona, descritta come “Infetta da epidemia”. In agosto venne data comunicazione ufficiale che la città sarebbe stata divisa in tre settori: Tedesco, Polacco ed Ebraico, ma inizialmente questa disposizione non era accompagnata da un ordine secondo il quale gli Ebrei avrebbero dovuto trasferirsi in un determinato quartiere. Il significato delle mura fu del tutto chiaro quando fu ordinato di pagarne la costruzione al consiglio della Comunità Ebraica, mentre gli Ebrei venivano allontanati dalle cittadine limitrofe e deportati a Varsavia. Il 2 ottobre, il responsabile della regione di Varsavia, Ludwig Fischer, emanò l’ordine ufficiale di istituire il ghetto, ordine accompagnato dalla lista delle vie e dei settori di vie che sarebbero stati inclusi. Il 12 ottobre, l’annuncio dell’allestimento del ghetto venne diffuso dagli altoparlanti installati per le strade. La popolazione Polacca ricevette l’ordine di sgomberare le abitazioni che si trovavano nelle vie destinate al ghetto entro la fine del mese. Gli Ebrei ricevettero l’ordine di trasferirsi nel ghetto alla vigilia di Kippur: “La Comunità d’Israele a Varsavia, comunità che conta circa mezzo milione di persone, non trascurò nulla nelle proprie preghiere, aprendo il proprio cuore davanti al Padre Celeste secondo quanto il rito prescriveva. Ma con nostro grande dolore, quando arrivò il giorno […], venimmo a sapere che la nostra preghiera non era stata accettata, e che nel frattempo pendeva sul nostro capo una nuova crudele sentenza, di peso e conseguenze tali da superare le altre sentenze che avevamo subito fino a quel momento ed alle quali ci eravamo abituati. Veniva messa in atto la creazione del ghetto.” (Chaim Kaplan) Vita quotidiana nel ghetto di Varsavia Unità didattica per studenti della scuola secondaria di primo e secondo grado Entrata nel Ghetto 17-19 Novembre 1940 “Quello che temevamo è accaduto. Noi avevamo una premonizione che una vita nel ghetto ci sarebbe toccata, una vita di sofferenza e povertà, di vergogna e degradazione, ma nessuno si aspettava che il destino si compisse così presto.(…) Se ci avessero detto che il sole si sarebbe oscurato a mezzogiorno non sarebbe stata soltanto una metafora. Ammuffiremo e marciremo nelle stradicciole e negli storti passaggi nei quali decine di migliaia di persone si aggirano indolenti e piene di disperazione. Chaim A. Kaplan, Scroll of Agony – The Warsaw Diary of Chaim A. Kaplan, N.Y. Macmillan, 1965, pp. 225, 205. 22 Novembre 1940 “Il ghetto è stato isolato per un’intera settimana. Il muro di mattoni rossi alla fine delle strade del ghetto è cresciuto considerevolmente. Il nostro miserabile accampamento ronza come un alveare. Nelle case e nei cortili, dovunque le orecchie della Gestapo non arrivano, la gente discute attorno a quali siano le vere intenzioni dei nazisti nell’isolare il quartiere ebraico. E come potremo fare previsioni? E chi manterrà l’ordine? Forse sarà per il meglio? Forse staremo più in pace? (…) Warsaw Ghetto – a diary of Mary Berg, S.L. Schneiderman (Ed.), N.Y. 1945 Affollamento 17 Novembre 1940 “L’area del ghetto è assolutamente troppo piccola per mezzo milione di persone, solo poche strade sono state destinate al quartiere ebraico. Se ti affacci al balcone e guardi giù nelle strade del ghetto che si allungano davanti a te non vedi altro che un mare di teste (…..) Quasi tutti sono vestiti allo stesso modo, nulla di elegante, ed ogni faccia ha la stessa espressione di sofferenza Ebraica, che non è quasi mai cambiata da quando siamo stati trasformati in polvere. Congestione e sovraffollamento sui marciapiedi sono impressionanti. Spingere e spintonare non provoca né una reazione negativa né viene seguito da un semplice “scusi”(..) nessuno ha diritto di dire al compagno “fammi un po’ di spazio”. Kaplan, Hebrew version, p. 392 Cappelli “Più avanti, quella faccenda del cappello; un Ebreo si deve togliere il appello davanti ad ogni Tedesco! Per me, io non mi sono mai tolto il cappello dato che sono sempre andato in giro a testa scoperta, estate e inverno, pioggia o sole, e certamente non ero il solo.” Yitzchak (Antek) Zuckerman, Those Seven Years, (Heb.), p. 109. Vita Religiosa Al Responsabile dello Judenrat, Chaim Rumkowsky, Lodz, 23 Febbraio, 1941. Il Rabbinato ha stabilito chi può mangiare carne ( non kosher): 1) Le donne in gravidanza 2) Le persone deboli che si sentono esauste 3) Vi chiediamo, onorevole responsabile, di informare i medici che la nostra decisione riguarda solo i casi di vita o di morte (..) Domande che sono state rivolte ai Rabbini: E’ giusto mettere al mondo bambini in tempo di guerra? E’ consentito mettere a rischio se stessi pregando in pubblico? Può un uomo tagliarsi la barba in tempi pericolosi? E’ accettabile lavorare durante lo Shabbat? Come comportarsi con un neonato il cui pianto mette a rischio la vita di persone nascoste? E’ accettabile distribuire “certificati salva vita” solo ad una parte di popolazione? Fame Varsavia, 2 Giugno 1942. “Io non sono un ladro, sono un ladruncolo”. Questo affermava singhiozzando, pochi giorni fa, un ragazzino del pensionato che era stato preso a rubare una fetta di pane dalla tasca di un altro ragazzo. Dopo tutto “ladruncolo” è più rispettabile del normale “ladro”. Rachel Auerbach, In the Streets of Warsaw, 1939-1943 (Heb.), Tel-Aviv, 1954, p. 34. Le mense comunitarie dovevano subire una immensa pressione, sia interna, da parte dei lavoratori denutriti e delle loro famiglie, sia esterna, da parte di rifugiati e dei disoccupati locali per i quali una tazza di minestra è l’unico pasto. Con nostro dispiacere siamo arrivati molto presto alla conclusione che avremmo dato assistenza solo a chi avesse altri mezzi di sussistenza. I più bisognosi, i veri indigenti non potevano essere salvati da una tazza di zuppa – con i corpi gonfi dalla fame continuavano a scomparire senza lasciare una traccia… Intere famiglie, intere comunità che erano state deportate nel ghetto, passarono nelle mense popolari e scomparvero davanti ai nostri occhi..” Auerbach, Warsaw Testaments, (Heb.), Tel-Aviv, Yadvashem, Moreshet, p.66 Libri Gennaio 1942 I negozi di libri Ebraici sono spariti: sono stati chiusi ed i libri sequestrati. I libri che si sono potuti salvare si vedono indisturbati per la strada; provengono dai negozi di via Switoshisky, dove per generazioni si erano concentrati i negozi di libri Ebraici. libri superstiti vengono concentrati in via Leshno: lì i libri moderni vengono venduti a pacchi... riscuotono un grande successo i libri in lingua straniera, in particolare quelli in inglese, lingua studiata dai molti che si preparano all’emigrazione dopo la guerra... Emmanuel Ringelblum, Notes from the Warsaw Ghetto, New York, 1987, p. 198 Vita Culturale La Rivista “Ordine della Polizia”. Mercoledì 9 Giugno 1943 La Rivista che è stata realizzata oggi al Centro Culturale può essere considerata l’evento del giorno. Per prima cosa poche parole sulle riviste nel ghetto. I lettori futuri di queste righe forse scuoteranno il capo per le frequenti notizie su vari tipi di spettacoli ed eventi sociali. Si diranno forse che la situazione degli abitanti del ghetto non doveva essere così tragica se la vita culturale era così effervescente. E’ dovere di chi scrive prestare attenzione a questo strano fenomeno (..) (..) Nel ghetto c’erano certamente molti che scuotevano il capo e si rifiutavano di partecipare a questo inganno , perché secondo loro la vita degli Ebrei nel ghetto non permette la superficialità della vita sociale. Questo però significa nelle persone tormentate reprimere l’espressione fondamentale della voglia di vivere e zittire l’unico modo per affermare l’importanza di quella vita. Sedersi di nuovo in un teatro, lontano dalla tetra atmosfera da prigione, chiacchierare nell’atrio del Centro Culturale durante l’intervallo, flirtare, mostrare un nuovo vestito o una bella pettinatura è un bisogno umano che non può essere represso. Così era la vita per chi viveva in un importante Centro Culturale come Litzmannstad era stato negli anni prima della guerra. E a coloro i quali leggeranno queste righe in futuro l’autore vuol dire che dal suo punto di vista la sofferenza del ghetto non fu di certo alleviata dagli spettacoli, anche se questi fornirono qualche ora di piacere. Ben-Menachem, Rav, The Lodz Ghetto Chronicles, (Heb.), Vol. 3, p. 305. Morte Varsavia, 30 Settembre 1941 “Venerdì scorso I lavoratori della nostra cucina ci hanno detto che Abraham Braksmayer, uno dei nostri più vecchi clienti era morto improvvisamente. Nato a Carlsbad, aveva il fisico da atleta, nel passato era stato uno sportivo ed un ufficiale della Federazione (…) Braksmayer aveva seguito il percorso di molti nostri clienti (..) Dargli una tomba ed organizzare un funerale è stato per me un penoso tentativo di fare qualcosa per l’uomo che non ero riuscita a salvare. (…) Abbiamo cercato a lungo Braksmayer. (…) Non l’abbiamo trovato. Auerbach, Warsaw Testaments, (Heb.), Tel-Aviv, Yadvashem, Moreshet, p. 25-28