Aristotele In Aristotele, l`esistenza di Dio è dimostrata a partire dall

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Aristotele In Aristotele, l`esistenza di Dio è dimostrata a partire dall
Aristotele
In Aristotele, l’esistenza di Dio è dimostrata a partire dall’esistenza di sostanze eterne, in
particolare il tempo. Se esso non fosse eterno, infatti, ci sarebbe un «prima» del tempo e un
«dopo» il tempo, ma queste sono ancora una volta determinazioni temporali e quindi
presuppongono l’esistenza del tempo. Al tempo (inteso come scansione del divenire) è
connesso il movimento, dato che il tempo «o è la stessa cosa che il movimento o una
caratteristica del medesimo». Ma il movimento presuppone un motore in atto che, se fosse
anche in potenza, rimanderebbe ancora a un altro motore, e così via. Per evitare il regresso
all’infinito, è necessario ammettere l’esistenza di un atto puro, come motore primo.
Non essendo in potenza, il primo motore non può essere materiale e quindi deve essere
considerato come atto puro. L’assenza di potenza e di materia implica la mancanza di
divenire, di conseguenza deve essere anche immutabile ed eterno. Ma in quanto non soggetto
al divenire, tale motore deve essere immobile. Ora, come può una sostanza immobile essere
causa del movimento? Non, evidentemente, come causa efficiente (come l’artigiano che
costruisce un oggetto), ma solo come causa finale, cioè, esemplifica Aristotele, «muove
come ciò che è amato», che attrae cioè a sé l’amante.
Il pensiero plurale, vol. I, p. 323
Dio sostanza immobile
Poiché si è sopra detto che le sostanze sono tre, due fisiche ed una immobile: ebbene,
dobbiamo parlare di questa e dobbiamo dimostrare che necessariamente esiste una
sostanza eterna ed immobile. Le sostanze, infatti, hanno priorità rispetto a tutti gli altri
modi di essere, e, se fossero tutte corruttibili allora sarebbe corruttibile tutto quanto
esiste. Ma è impossibile che il movimento si generi o si corrompa perché esso è sempre
stato; né è possibile che si generi o si corrompa il tempo, perché non potrebbero esserci
il prima e il poi se non esistesse il tempo. Dunque, anche il movimento è continuo come il
tempo: infatti, il tempo o è la stessa cosa che il movimento o una caratteristica del
medesimo. E non c'è altro movimento continuo se non quello locale, anzi, di questo, continuo
è solo quello circolare.
Metafisica, tr. di G. Reale, Milano, Rusconi, 1993, Λ, 6, pp. 557-9.
Dio motore immobile
C’è poi qualcosa che sempre si muove di moto continuo, e questo è il moto circolare (e ciò è
evidente non solo col ragionamento ma anche come dato di fatto); cosicché, il primo cielo deve
essere eterno. Pertanto, c'è anche qualcosa che muove. E poiché ciò che è mosso e muove è
un termine intermedio, deve esserci, per conseguenza, qualcosa che muova senza essere
mosso e che sia sostanza eterna ed atto. E in questo modo muovono l'oggetto del desiderio e
dell'intelligenza: muovono senza essere mossi. Ora, l'oggetto primo del desiderio e l'oggetto
primo dell'intelligenza coincidono: infatti oggetto del desiderio è ciò che appare a noi bello e
oggetto primo della volontà razionale è ciò che è oggettivamente bello: e noi desideriamo
qualcosa perché lo crediamo bello, e non, viceversa, lo crediamo bello perché lo desideriamo;
infatti, è il pensiero il principio della volontà razionale. E l'intelletto è mosso dall'intelligibile, e
la serie positiva degli opposti è per se stessa intelligibile; e in questa serie la sostanza ha il
primo posto, e, ulteriormente, nell'ambito della sostanza, ha il primo posto la sostanza che è
semplice ed è in atto (l'uno e il semplice non sono la stessa cosa: l'unità significa una misura,
invece la semplicità significa il modo di essere della cosa); ora, anche il bello e ciò che è per sé
desiderabile sono nella medesima serie, e ciò che vien primo nella serie è sempre l'ottimo o ciò
che equivale all'ottimo. […] Dunque [il primo motore] muove come ciò che è amato, mentre
tutte le altre cose muovono essendo mosse.
Metafisica, tr. di G. Reale, Milano, Rusconi, 1993, Λ, 7, p. 573.
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Dionigi Aeropagita
Nel Medioevo i libri (manoscritti su pergamena) erano preziosi, e non era raro che re e
imperatori se li scambiassero come doni. Così, grazie a un omaggio che l’imperatore bizantino
Michele Balbo fa a Ludovico il Pio nell’827, arrivano in Europa le opere dello Pseudo-Dionigi:
dieci lettere e quattro testi di ampio respiro, Gerarchia celeste, Gerarchia ecclesiastica, I nomi
divini e Teologia mistica. Tradotte poco dopo in latino da Giovanni Scoto Eriugena (810 - dopo
l’877), divengono nei secoli seguenti ciò che oggi chiameremmo un best seller, seconde in
ordine di importanza solo alle opere di Agostino. Un successo straordinario, dovuto sia al
contenuto speculativo sia alla presunta eccezionalità dell’autore, il quale si presenta come
Dionigi Areopagita, ossia l’uomo che, secondo gli Atti degli apostoli (XIV, 34) si era
convertito dopo avere ascoltato il discorso tenuto da Paolo di Tarso all’Areopago (cioè il
tribunale) di Atene, ed era poi divenuto il primo vescovo di quella città nel I secolo d. C. Ma
l’analisi del contenuto e della lingua dei testi in questione ha permesso di stabilire che in realtà
il loro autore è vissuto fra il V e il VI secolo in una regione del Medio Oriente, probabilmente la
Siria. È plausibile che fosse un pagano convertito, un neoplatonico, ed è quasi certo che
abbia ascoltato ad Atene le lezioni di Proclo, cui si ricollega echeggiandone specifiche
espressioni. Convertitosi al cristianesimo, l’ignoto autore si ritira probabilmente a vita
monastica e si prefigge come obiettivo la fusione fra le due concezioni che hanno segnato la
sua vita: il neoplatonismo e il cristianesimo. L’equivoco sulla sua identità sarà chiarito solo con
l’opera di due grandi filologi del Rinascimento, Lorenzo Valla ed Erasmo da Rotterdam. [...]
La teologia negativa
Ogni tentativo di attribuire alla divinità qualità umane ponendole in grado superlativo - Dio
come infinito amore, infinita giustizia, onnipotenza ecc. - si conclude inevitabilmente con una
forma di antropomorfismo, cioè, letteralmente, con un rendere simile all’uomo, con una
riduzione di Dio a categorie umane. L’unica cosa che si può postulare con certezza logica è solo
la sua diversità. Di Dio si può dire solo ciò che egli non è, negandogli progressivamente
ogni attributo umano. La luce è il simbolo più adeguato, o almeno più diffuso, per esprimere la
nozione di divinità, ma forse il buio esprime meglio la sua essenza, e meglio ancora sarebbe
dire che Dio non è né luce né tenebra, oppure che è tenebra e luce nello stesso tempo, un
buio luminoso o una luce tenebrosa. Sono formulazioni equivalenti, tutte fondate sul
paradosso. Mentre la teologia positiva (o catafatica) parte dal presupposto che sia possibile
arrivare a Dio a partire dai nomi delle cose create, la teologia negativa (o apofatica) procede
per negazioni e negazioni delle negazioni. Dionigi non rifiuta la prima, ma considera superiore
la seconda.
Il pensiero plurale, vol. I, pp. 520-1
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Spinoza
La struttura dell’Etica
Dio è l’oggetto della parte I dell’Etica. Da Dio, poi, si passa alla mente umana, alle
passioni, alla schiavitù umana e, infine (parte quinta) alla libertà umana. Siamo in
presenza di un grande itinerario che parte da Dio e arriva a Dio: è solo elevandosi al punto di
vista di Dio, infatti, che l’uomo conquista la sua autentica libertà. Si tratta, quindi, di un
percorso conoscitivo e, nello stesso tempo, morale: la genuina libertà e la conseguente felicità
presuppongono la liberazione dall’ignoranza. L’opera – come detto – segue il modello della
geometria euclidea. Ognuna delle cinque parti inizia con alcune «definizioni» e alcuni
«assiomi» (proposizioni in cui la connessione tra soggetto e predicato risulta evidente) da cui
poi vengono rigorosamente dedotte le «proposizioni». Spesso, inoltre, seguono alcuni scolii
(annotazioni) e corollari (proposizioni che vengono ricavate semplicemente da altre che sono
già state dimostrate). Avendo ora presente la struttura dell’opera, possiamo inoltrarci nella
parte I che ha come oggetto Dio. Tra le otto definizioni ve n’è una che presenta un’importanza
fondamentale: quella di «sostanza». Che cosa si intende per sostanza?
Che cos’è la sostanza
Secondo la tradizione che risale ad Aristotele, sostanza è ciò che è o esiste in sé, cioè non ha
bisogno di altro per esistere, o ha bisogno di appartenere a qualcosa d’altro per esistere:
Socrate (un «sinolo» di forma e materia, secondo il linguaggio aristotelico), ad esempio, non
ha bisogno, per esistere, di appartenere a qualcosa d’altro, mentre l’essere «buono», «alto»,
«in piedi», hanno bisogno, per esistere, di appartenere a qualcuno. «Sostanza» è chiamato ciò
che esiste in sé e «accidente» ciò che esiste in altro. La sostanza, quindi, si caratterizza –
rispetto all’accidente – per la sua autosufficienza.
Le contraddizioni di Cartesio
Questa autosufficienza della sostanza conduce Cartesio a definire la sostanza «ciò che è in
sé e si definisce di per sé» e a identificarla con Dio stesso; solo Dio, se si vuole essere
rigorosi, è l’essere assolutamente autosufficiente proprio perché in Lui l’essenza coincide con
l’esistenza. Cartesio, tuttavia, non senza ambiguità, considera sostanze anche la res
cogitans e la res extensa, anche se si tratta di realtà che non sono totalmente
autosufficienti, in quanto hanno bisogno di Dio per esistere.
La definizione di Spinoza
Spinoza, percorrendo la strada aperta da Cartesio, arriva a definire la sostanza «ciò che è in
sé ed è concepito per sé; cioè ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa,
dal quale debba essere formato».
Questa definizione lo condurrà a consumare la rottura con Cartesio: proprio perché la sostanza
non ha bisogno di altro per esistere, allora lo stesso concetto di sostanza non ha bisogno
di nessun altro concetto per essere pensato.
Dio è la natura
Dalla definizione di sostanza Spinoza deduce conclusioni che demoliscono la concezione
ebraico-cristiana di Dio.
La sostanza è:
1) increata: se fosse creata, infatti, sarebbe creata da altro, quindi non esisterebbe di per sé
e il suo concetto (concetto di essere “creata”) avrebbe bisogno di un altro concetto (quello di
“creatore”) per essere pensato;
2) eterna: come potrebbe morire ciò che è increato e, di conseguenza, ha l’esistenza per
natura?
3) infinita: se fosse finita, infatti, sarebbe delimitata da altro e, quindi, il suo concetto
avrebbe bisogno del concetto di altro per essere concepito;
proprio perché la sostanza è increata, allora è eterna: come potrebbe morire ciò che ha
l’esistenza per natura?
4) una: come potrebbero coesistere due sostanze infinite?
5) causa sui: considerato che la causa sui è definita come «ciò la cui essenza implica
l’esistenza, ossia ciò la cui natura non può essere pensata che come esistente», allora la
sostanza, proprio perché eterna, non può che identificarsi con la causa sui;
6) Dio: dato che il concetto di «causa sui» si identifica col concetto di Dio (solo nella
definizione di Dio, infatti, l’essenza implica l’esistenza), allora la sostanza è, in ultima analisi,
Dio;
7) l’Intero: poiché la sostanza-Dio è infinita, allora non vi è niente al di fuori di Dio e perciò
tutto ciò che esiste non può che essere in Dio. Da qui l’equazione Dio = natura (Deus sive
natura), e il panteismo, a concezione secondo la quale tutto – anche il mondo materiale – è
manifestazione di Dio.
Con quest'ultimo punto in particolare, la trascendenza divina della tradizione ebraico-cristiana
viene radicalmente demolita: l'universo fisico, anche se non coincide con Dio [...], ne è tuttavia
parte integrante. Dio, di conseguenza, non può essere considerato puro spirito.
Il pensiero plurale, vol. II, pp. 219-220
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Pascal
Accanto all’itinerario che indica nella fede la risposta alle contraddizioni dell’uomo, Pascal
propone un altro argomento, la scommessa o il pari. […]
Pascal immagina un dialogo con uno scettico, rinunciando ad argomenti derivati dalla fede o
dalle Scritture ma discutendo l’esistenza di Dio alla luce della ragione. Dio, se c’è, non può
essere spiegato dall’uomo. Occorre allora valutare le due ipotesi, la sua esistenza e la sua
non esistenza, scommettendo su una di queste possibilità. Il rapporto tra il rischio e la
posta in gioco deve necessariamente far propendere, anche per un semplice calcolo
matematico, per la scommessa sulla sua esistenza: infatti, se Dio non c’è e viviamo come se ci
fosse, rischiamo al massimo qualche rinuncia inutile, ma se Dio c’è e viviamo come se non ci
fosse, ci giochiamo la felicità eterna e rischiamo la dannazione.
Il pensiero plurale, vol. II, p. 423
La fede come scelta e come rischio
164 [...] Esaminiamo allora questo punto, e diciamo: “Dio esiste o no?” Ma da qual parte
inclineremo? La ragione qui non può determinare nulla: c’è di mezzo un caos infinito.
All’estremità di quella distanza infinita si gioca un giuoco in cui uscirà testa o croce. Su quale
delle due punterete? Secondo ragione, non potete puntare né sull’una né sull’altra; e
nemmeno escludere nessuna delle due. Non accusate, dunque, di errore chi abbia scelto,
perché non ne sapete un bel nulla.
“No, ma io li biasimo non già di aver compiuto quella scelta, ma di avere scelto; perché,
sebbene chi sceglie croce e chi sceglie testa incorrano nello stesso errore, sono tutti e due in
errore: l’unico partito giusto è di non scommettere punto”.
Sì, ma scommettere bisogna: non è una cosa che dipenda dal vostro volere, ci siete
impegnato. Che cosa sceglierete, dunque? Poiché scegliere bisogna, esaminiamo quel che
v’interessa meno. Avete due cose da perdere, il vero e il bene, e due cose da impegnare nel
giuoco: la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza e la vostra beatitudine; e la
vostra natura ha da fuggire due cose: l’errore e l’infelicità. La vostra ragione non patisce
maggiore offesa da una scelta piuttosto che dall’altra, dacché bisogna necessariamente
scegliere. Ecco un punto liquidato. Ma la vostra beatitudine? Pesiamo il guadagno e la perdita,
nel caso che scommettiate in favore dell’esistenza di Dio. Valutiamo questi due casi: se
vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete, dunque, senza
esitare, che egli esiste.
“Ammirevole! Sì, bisogna scommettere, ma forse rischio troppo”. Vediamo. Siccome c’è eguale
probabilità di vincita e di perdita, se aveste da guadagnare solamente due vite contro una, vi
converrebbe già scommettere. Ma, se ce ne fossero da guadagnare tre, dovreste giocare
(poiché vi trovate nella necessità di farlo); e, dacché siete obbligato a giocare, sareste
imprudente a non rischiare la vostra vita per guadagnarne tre in un giuoco nel quale c’è eguale
probabilità di vincere e di perdere. Ma qui c’è un’eternità di vita e di beatitudine. Stando così le
cose, quand’anche ci fosse un’infinità di casi, di cui uno solo in vostro favore, avreste pur
sempre ragione di scommettere uno per avere due; e agireste senza criterio, se, essendo
obbligato a giocare, rifiutaste di arrischiare una vita contro tre in un giuoco in cui, su un’infinità
di probabilità, ce ne fosse per voi una sola, quando ci fosse da guadagnare un’infinità di vita
infinitamente beata. Ma qui c’è effettivamente un’infinità di vita infinitamente beata da
guadagnare, una probabilità di vincita contro un numero finito di probabilità di perdita, e quel
che rischiate è qualcosa di finito. Questo tronca ogni incertezza: dovunque ci sia l’infinito, e
non ci sia un’infinità di probabilità di perdere contro quella di vincere, non c’è da esitare:
bisogna dar tutto. E così, quando si è obbligati a giocare, bisogna rinunziare alla ragione per
salvare la propria vita piuttosto che rischiarla per il guadagno infinito, che è altrettanto pronto
a venire quanto la perdita del nulla. [...]
Pensieri [233], , a cura di P. Serini, Torino, Einaudi, 1984, pp. 68-69.