La medicina palliativa

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La medicina palliativa
COMITATO ETICO ASL2 SAVONESE
Parere sulla medicina palliativa
Parere n. 35 del 29/1/2002
La medicina palliativa
INDICE
p. 3
Sintesi e conclusioni
Il corpo del parere
Parte I. La medicina palliativa
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a) La medicina e la morte nella
contemporanea
b) La medicina palliativa
c) Il malato in fase terminale di malattia
d) Quando la morte tocca il bambino
società
occidentale
p. 7
p. 9
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p.
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Parte II. La realizzazione dell’Unità di Cure Palliative
La normativa vigente
Parte III. L’Unita’ operativa di Cure Palliative
a) La realizzazione delle Cure Palliative: la rete
b) Le risorse strutturali
L’ospedale
Le strutture ospedaliere ed extraospedaliere
riabilitazione
Residenza Sanitaria Assistenziale
Residenza Protetta
Assistenza Domiciliare Integrata
L’Hospice
c) Le risorse umane
Il personale medico
Il personale infermieristico
Il medico di famiglia
Il volontario
Lo psicologo
L’assistente spirituale
L’assistente religioso
L’assistente sociale e la famiglia del morente
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di
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COMITATO ETICO ASL2 SAVONESE
Parere sulla medicina palliativa
Glossario
p. 26
Bibliografia
p. 28
I componenti del C.E. ASL2 savonese (1999-2002)
p. 30
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Parere sulla medicina palliativa
Guarire una persona non
sempre curare una malattia
Cicely Saunders
significa
Sintesi conclusiva.
Questo studio, condotto al fine di informare e richiamare l’attenzione, sia del
personale che opera nel campo sanitario sia della pubblica opinione, in tema di cure
palliative, prende in considerazione, nella parte introduttiva, il vissuto della fine della vita
nella società di oggi, evidenziando il contrasto esistente tra l’aspettativa di guarigione e
di buona salute, alimentata dai messaggi degli organi di informazione sulla base del
progresso tecnologico e scientifico, a fronte di una realtà della morte che rimane
immutata nel tempo.
Quando la fine della vita si avvicina ineluttabile e la speranza di vita ulteriore non
trova più spazio, ma prevalgono soltanto le sofferenze fisiche, psicologiche, sociali e
familiari, la medicina diagnostica e terapeutica tradizionale, cui ci si è affidati fino a
quello stadio della malattia, lascia spazio alla medicina palliativa, che prende in cura la
persona malata nell’interezza dei suoi problemi.
Questa medicina assiste e accompagna fino alla morte il malato, avvalendosi di
diversi operatori sanitari, assistenti spirituali e sociali, volontari, persone tutte
appositamente preparate, e organizzate in una rete di collegamento, che interessa la
famiglia, il medico di medicina generale, le strutture ospedaliere, le Residenze Sanitarie
Assistenziali (RSA), e l’hospice, destinato ad accogliere il malato in fase avanzata di
malattia, non assistibile in altra sede.
In base alle normative vigenti e all’esperienza di altre strutture di accoglienza, si
è ritenuto opportuno tratteggiare i requisiti fondamentali dell’hospice, sia per quanto
riguarda gli ambienti e le attrezzature, sia per le caratteristiche organizzative e
operative, sia per le risorse umane di cui deve disporre.
Un particolare richiamo è rivolto alla necessità della preparazione e formazione
del personale che opera nella rete delle cure palliative e della sua indipendenza
dall’organizzazione ospedaliera, avendo ciascuna forma di assistenza una sua
specificità. È proprio questa specificità che costituisce un ulteriore arricchimento per
una cura personalizzata al paziente in fase molto avanzata di malattia degenerativa.
Il Comitato Etico dell’ASL 2 Savonese, sensibile alle difficile e angosciosa
situazione vissuta dalla persona affetta da una patologia inguaribile, ha organizzato un
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incontro formativo con il dr. Carlo Peruselli, esperto palliativista. Ha successivamente
delegato un gruppo di lavoro, costituito da membri di competenze che coprono ambiti
vari (clinica S. Gandolfo, bioetica M. Lombardi Ricci, volontariato A. Pastore, assistenza
infermieristica G. Voersio), di presentare una bozza di studio sulle cure palliative, per
valutarla e discutere in seno al Comitato Etico riunito al completo. Il gruppo si è riunito
in fase di lavoro preliminare nei giorni 30 ottobre, 20 novembre, 7 e 11 dicembre; e il
Parere è stato discusso in seduta plenaria nei giorni 18 dicembre 2001, 17 gennaio
2002 e approvato definitivamente nella forma qui riportata nella seduta del 29 gennaio
2002.
Il Parere vorrebbe essere non tanto, o non soltanto, un suggerimento per l’ASL
n.2 Savonese che sta progettando la realizzazione di un hospice, ma anche lo stimolo
per un dibattito pubblico su un tema e una condizione generalmente emarginata
nell’occidente contemporaneo: l’esperienza del vivere la morte, propria e del prossimo.
L’intento, con il quale si è lavorato, è stato di valutare quale possa essere la
forma della migliore assistenza sanitaria alla persona che vive in fase avanzata di
malattia, quando essa non sia più guaribile.
Fermo restando che la migliore assistenza è quella che tiene conto di tutte le
risorse, reali e simboliche, sanitarie sociali e individuali, di cui una comunità dispone,
ma anche degli elementi che possono costituire un ostacolo a tale realizzazione, si è
ritenuto opportuno evidenziare la condizione attuale della medicina nella società
occidentale contemporanea (Parte I), nonché la normativa vigente (Parte II). Solo
successivamente (Parte III) si è cercato di proporre una tipologia di assistenza centrata
sulla persona malata e la sua famiglia, sui suoi bisogni e sulle risposte che è possibile,
cioè realistico, aspettarsi.
Parte I. La medicina palliativa
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a) La medicina e la morte nella società occidentale contemporanea
Parlare di cure palliative (cf. Glossario) non vuole affatto dire, come spesso si
crede, parlare di cure inefficaci o inutili. Indica, invece, il ricorso alle sole cure
veramente utili per il malato che vive l’esperienza di una malattia non soltanto
inguaribile ma che lo conduce inesorabilmente alla morte. Ma proprio la morte
costituisce, oggi, qualcosa che non ci è più familiare e che troviamo particolarmente
faticoso vivere.
Per l’uomo delle culture passate, essa aveva la forma di un’esperienza di breve
durata, nel senso che, sia che fosse procurata da un trauma grave sia da un esito di
malattia, copriva più o meno quello che si diceva il tempo dell’agonia. Era inserita tra gli
eventi della vita quotidiana; non era, infatti, inusuale subire la perdita di molti membri
della famiglia, in particolare bambini. Di essa si parlava e la si celebrava in rituali che
costituivano uno tra i momenti della vita sociale.
Oggi molte cose sono cambiate. Se la morte nella società premoderna non
alterava significativamente gli equilibri del nucleo familiare e il numero alto dei
componenti creava una situazione favorevole alla cura domiciliare dei malati,
attualmente, in famiglie numericamente ridottissime, la perdita di uno dei componenti
genera profondi squilibri. La morte raccontata non ha più voce, di essa si tace, la parola
è sparita persino dagli annunci funebri; gli stessi riti che l’accompagnano, per consentire
all’uomo di adattarsi al lutto, sono minimizzati. Anche per la morte vissuta non c’è più
spazio, è emarginata dalla comunicazione pubblica (al massimo se ne parla in termini
statistici) e marginizzata dalla vita quotidiana, perché la si può affrontare soltanto se è
preceduta e accompagnata dalla sua accettazione come evento della vita, per quanto
esperienza estrema e drammatica. Metafore, simboli, miti sono le forme allusive con cui
l’uomo ha cercato di dire, di raccontare la morte vissuta, nel tentativo di rispondere a
quegli interrogativi che la morte lancia all’uomo e a cui nessuno può sfuggire: perché la
malattia e la sofferenza? Costituiscono gli strumenti, sociali ed individuali, che
consentono all’uomo di dare un senso alla morte. Sprovvisto di questi, per l’uomo
diventa quasi impossibile affrontare l’esperienza del morire, soprattutto se si verifica in
un contesto di malattia.
C’è un'altra difficoltà, oggi, che ostacola la percezione della naturalità della morte
ed è di tipo non più culturale ma tecnico-scientifico.
Può suonare strano, ma proprio lo sviluppo scientifico e tecnico costituisce un
ostacolo psicologico ad affrontare la malattia e ad accettare la medicina palliativa.
Infatti, con lo svilupparsi della conoscenza scientifica, che porta la scienza medica a
specializzarsi prima, ad iperspecializzarsi poi; con l’affinarsi della tecnologia medica e
dell’informatica finalizzata alla biologia e alla medicina (bioinformatica), l’arte medica
finisce per scivolare poco a poco verso una tecnica medica, volta soprattutto a
ripristinare funzioni e parametri nell’organismo affetto da patologia e meno attenta alla
condizione dell’uomo malato. Il primo passo è la reificazione del corpo, che porta a
considerare gli organi nella loro oggettività organica e impersonale. Lo stretto legame
tra osservazione oggettiva e misurazione quantitativa è la condizione che ha reso
possibile lo sviluppo tecno-scientifico della medicina. Con il passaggio dalla medicina
anatomo-clinica alla medicina fondata sulla biologia molecolare (biomedicina), gli aspetti
psico-sociali risultano sempre più trascurati. Si tratta di uno scivolamento quasi
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strutturale, in quanto il progresso medico-scientifico ha portato due grandi novità. Da un
lato, ha dato alla medicina strumenti diagnostici e terapeutici sempre più potenti contro
le malattie; la capacità di controllare le patologie è migliorata al punto che si può vivere
nella malattia anche per anni, come mostra bene la figura del malato cronico, che fino a
qualche lustro fa costituiva un’eccezione. Dall’altro, proprio in conseguenza di questo
traguardo, il tempo del morire si è dilatato fino a coprire giorni, settimane e mesi, effetto
secondario e non voluto del progresso medico. Questo tempo, che oggi si vive
diffusamente in ospedale, si caratterizza come tempo nel quale la medicina tecnologica
torna, inaspettatamente, sprovvista di strumenti miracolosi e si trova costretta ad
ammettere la naturalità della morte.
Ma questo evento risulta in disarmonia con l’immagine che la medicina dà di sé
attraverso l’informazione mediatica, per la quale diviene una sorta di bacchetta magica,
che guarisce sempre e sempre più: se ancora per qualche patologia la guarigione
appare lontana, è questione di tempo, la ricerca scientifica troverà la soluzione.
L’illusione è che anche per la morte ci sia guarigione. Lo stesso medico, pur sapendo
che non può rendere immortale l’uomo, vive con grande fatica e disagio la morte del
suo paziente. E questo, nonostante per secoli il medico abbia inserito, senza difficoltà,
la morte, come fatto naturale, nella tensione salute/malattia; in fondo la sua attività si
realizza molto spesso nel confronto diretto con la morte. Forse emerge in questo fatto la
debolezza strutturale della formazione universitaria, che tende a preparare, e
giustamente, il medico a guarire, ma porta scarsa attenzione al rapporto del medico con
chi non è più tecnicamente trattabile. Gli studi universitari preparano il futuro medico e
specialista a tenere in vita il proprio paziente, lottando contro la morte per un tempo
sempre più lungo, ma poco insegnano circa il morire come esperienza concreta e
singolare, circa i bisogni esistenziali del malato, circa i modi della comunicazione. Così, la
tensione di chi vive il proprio morire e di chi assiste e vorrebbe soccorrere il morente
incontra difficoltà ulteriori rispetto al dolore che da sempre accompagna la morte e di cui
tutti noi, purtroppo, abbiamo fatto esperienza. Si tratta dell’incapacità/impossibilità di
dire la sofferenza della morte in una società che si vuole vittoriosa su di essa; della
difficoltà di accogliere questa esperienza nel vissuto quotidiano per ragioni culturali
come di struttura sociale e sanitaria; del bisogno assai accresciuto nel morente di
condividere la tragedia di vivere la propria morte sentendosi ancora trattato da persona
viva.
A questo disagio contribuisce anche l’informazione mediatica, che non solo
disegna una medicina onnipotente – come si è accennato, ma traduce le conquiste
scientifiche in imminenti conseguenze terapeutiche. Questo tipo di informazione induce
nel cittadino un’attesa spesso esagerata nei confronti del medico e della équipe di
assistenza. Attese impossibili rendono difficile il dialogo medico/paziente, come pure
paziente/familiari; il problema se dire la verità al morente ha in questo quadro la sua
origine e giustificazione. Si viene a creare una situazione paradossale: si vive una
vicenda, la morte imminente, di cui si deve tacere e che va mascherata. La malattia
inguaribile diventa per tutti i soggetti coinvolti – persona in fase terminale di malattia,
équipe sanitaria, familiari, amici, volontari – un’esperienza sconvolgente, perché
perdura nel tempo ed è vissuta in un dialogo espropriato di parole, in un silenzio che
grida la sua assurdità. Sono in particolare il medico e il personale infermieristico che si
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trovano a vivere, giorno dopo giorno, insieme all’uomo malato e morente il tempo del
morire.
Si tratta di un’esperienza e di un fatto della vita professionale e questa
considerazione ci obbliga ad uscire dall’astrattezza per ricordare che non esiste il
medico, l’infermiere, il paziente, ma questo medico e quest’infermiere, con reazioni
personali al succedersi delle morti dei loro assistiti, questo paziente con l’urgenza dei
suoi bisogni individuali, per i quali attende risposta, e che generano sofferenza. Si tratta,
per esempio, di:
- bisogni fisici, indotti dall’esigenza di un controllo del dolore dovuto alla patologia, sia
da essa provocato in modo indiretto, sia indotto dalle terapie di controllo;
- bisogni psichici: connessi con il prodotto delle reazioni della mente al vissuto di
frustrazione e alla disgregazione delle prospettive future: ansia, paura, depressione,
aggressività; alla difficoltà a riconoscere la continuità della propria identità al di là del
contrasto tra l’io malato e debole con l’io sano e indipendente che era prima della
malattia;
- bisogni psicologici, primo fra tutti la necessità di ripercorrere la propria vita per
correggere errori, modificare relazioni o comportamenti, dare o ricevere perdono, ma
in questa ricostruzione della propria biografia scatta l’esigenza di sentire vicino a sé
qualcuno che sia disposto ad ascoltare la narrazione;
- bisogno di riconoscimento sociale, legato alla perdita dei ruoli nella famiglia, nel
lavoro, nella società, alla mancata comunicazione ed isolamento in cui si trova;
- bisogni spirituali, il trovarsi incalzati dalla morte non può che suscitare domande
profonde. Perché proprio a me? Perché questa sofferenza? Perché devo morire?
Domande sul dopo la vita terrena, domande della metafisica, ma estrapolate da
dibattuti astratti e rivolte all’équipe curante. Domande cui è difficile dare risposta, ma
che non possono essere soffocate e che esigono ascolto.
È questa una delle ragioni dello spiazzamento che le persone sane sperimentano
sotto gli interrogativi, molto spesso silenziosi, espressi soltanto dallo sguardo del
morente.
Vivere insieme l’estremo dilatarsi del morire, novità culturale e professionale
connessa col progresso medico-scientifico, richiede un’adeguata preparazione, che non
può esaurirsi nei confronti dei curanti, ma deve coinvolgere anche la società civile, per
giungere ad un reale cambiamento nei confronti della morte vissuta e raccontata. La
morte è e resta un evento della vita, la consapevolezza della morte un’esperienza
tipicamente umana.
Per questa ragione, in anni recenti, accanto alla medicina tradizionalmente volta
alla ricerca delle cause che generano la patologia e al ripristino della funzionalità
organica, o come spesso si dice alla guarigione, si è costituita una forma di assistenza
che consiste in un insieme di attività rivolte al malato e alla sua famiglia, per rispondere
ai suoi bisogni reali e concreti. Là dove l’approccio tradizionale dichiara che la tecnica
medica è senza strumenti efficaci, una nuova forma di medicina scopre altri strumenti
d’intervento, la cui dimensione peculiare è la dimensione non scientifica ma
essenzialmente antropologica, il dialogo e il contatto fisico. Si tratta della medicina
palliativa.
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b) La medicina palliativa
Con questo termine si allude ad una nuova forma di cura, volta a dare una
migliore qualità di vita al morente. Già nota nei secoli passati, nella forma moderna
sorge dall'iniziativa di alcuni operatori, che hanno accolto la sfida della contraddizione
tra la condizione concreta del morente e la censura pubblica di tale condizione
esistenziale. Siamo nel 1967 quando Cecily Saunders, medico, con un infermiere e
un’assistente sociale propongono una nuova forma di accoglienza per il malato dalla
patologia inguaribile e non più controllabile con le terapie note o sperimentali. Quando
si parla di malattia inguaribile, subito la mente va all’oncologia, ma non è questa l’unica
patologia a cui si rivolge la medicina palliativa; essa accoglie ogni persona affetta da
malattie ribelli a qualsiasi terapia.
Il primo passo, che ha portato alla filosofia delle cure palliative, è stato quello di
prendere atto che, nel caso del morente, la malattia ha vinto la medicina; tale
consapevolezza ha consentito il passo successivo: il centro dell’attenzione si sposta dal
paziente alla persona sofferente. Per questo, tutte le malattie croniche o che
riducono la qualità di vita e la sopravvivenza delle persone che ne sono affette
meritano di essere trattate con l’approccio tipico delle cure palliative, anche in
compresenza con terapie tradizionali.
La medicina palliativa ha consapevolezza che il ripristino della salute o il controllo
a lungo termine della malattia sono impossibili, per questo pone attenzione alla qualità
di vita più che alla sopravvivenza quantitativa del malato, cercando di alleviare i sintomi
con trattamenti il cui scopo principale è confortare il paziente. Di qui lo sforzo di
affrontare tutti gli aspetti che animano la sofferenza - quello fisico (dolore, spossatezza,
perdita dell’appetito, inabilità invalidanti), quello psicologico (paura della morte, ansia,
perdita dell’autonomia), quello sociale (difficoltà oggettive, preoccupazioni per la
famiglia, perdita del proprio ruolo), quello spirituale – e insieme di rispettare due diritti
fondamentali del malato: a) ricevere tutte le cure adatte a togliere il dolore e ad alleviare
le varie sofferenze, b) non essere sottoposto a terapie i cui effetti negativi sulla qualità
della vita superano i benefici attendibili (o ottenibili).
Per realizzare questo obiettivo è indispensabile delineare una strategia di cura
personalizzata sul singolo paziente. Infatti, la malattia si manifesta nel corpo, ma in
realtà costituisce un evento nella vita di ciascuno e quindi ha un prima, un tempo che
precede l’esperienza in atto, fatto anche di dialogo con altri medici, a volte di ricoveri,
che, a seconda di come sono stati vissuti, renderanno più o meno difficile vivere la fase
finale della vita come i rapporti con i curanti. Di questi elementi il medico palliativista
non può non tenere conto perché contribuiscono all’esattezza del quadro clinico del
paziente e fanno della disfunzione dell’organo la malattia concretamente vissuta da ogni
persona.
Se questo è l’obiettivo, il compito che si prefigge è di assicurare al paziente
un’assistenza globale, che tenga conto di tutte le dimensioni della vita umana; per
questo si fa carico anche dei componenti la famiglia del malato, in quanto anch’essi
fanno parte della sua storia passata. Spesso sono proprio le relazioni intrafamiliari,
preesistenti all’insorgere del dramma della malattia dall’esito infausto, che concorrono a
rendere più doloroso l’avvicinarsi della morte, come attestano coloro che dedicano le
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loro cure ai morenti (vedi bibliografia). I problemi sono tanti, a cominciare dall’ambiente
ospedaliero, spesso poco adatto al clima di una buona comunicazione; per questo
l’intervento della medicina palliativa ha carattere pluridisciplinare e vede il concorso di
differenti professionalità che, insieme, progettano l’assistenza più adeguata alla
specifica persona soggetto di cura. Il vero quesito a cui si tenta di dar risposta non è
tanto nell’orizzonte del binomio trattamento/non trattamento, quanto piuttosto nella
ricerca dell’intervento più opportuno e appropriato per controllare la patologia nella sua
specifica sintomatologia al fine di rendere migliore la qualità di vita del soggetto.
Infatti, esistono situazioni di maggiore gravità e penosità, quando la fase di
malattia inguaribile è ormai molto avanzata, la sofferenza accresciuta, la prognosi di vita
di breve tempo, circa due mesi. Verso questo malato e la sua famiglia l’assistenza
palliativa si fa più acuta; l’assistenza si protrae 24 ore su 24, 7 giorni su 7 e concerne
tutti i problemi del malato, compresi quelli non strettamente clinici.
L’impegno della medicina palliativa non è quello filantropico del tenere la mano,
ma scoprire e sfruttare la struttura giusta per la persona malata nella sua concreta fase
di malattia, ospedale, domicilio, residenza opportunamente attrezzata, che si presenti
come la forma meno estraniante dalla vita quotidiana. Fino a pochi decenni fa, una
struttura con tali caratteristiche non esisteva. Infatti, l’ospedale è via via diventato un
luogo deputato ad interventi per patologie acute e suscettibili di controllo grazie alla
tecnologia medica diagnostica e terapeutica. Non è un luogo pensato per lungo-degenti,
perché i macchinari sofisticati, l’alta specializzazione tecnologica del personale è giusto
siano finalizzati al ripristino, totale o parziale, della salute. Il perdurare di uno stato
patologico ormai non controllabile nella sua inesorabile evoluzione, se non nella
riduzione dei sintomi, richiede un ricovero con caratteristiche diverse, ma non per
questo meno specialistiche. A questa esigenza la medicina palliativa ha risposto con la
struttura dell’hospice (cf. Glossario).
L’assistenza alla persona affetta da malattia inguaribile deve comprendere una
buona capacità nel controllo dei sintomi specifici delle singole patologie (terapia del
dolore, cf. glossario), una grande capacità di ascolto ed accoglienza, che si manifesta in
un dialogo di vera comunicazione, aperta sia ad avviarsi verso il campo inquietante dei
“perché?” suscitati dalla sofferenza umana e dalla morte, sia al riconoscimento
dell’incapacità/impossibilità di rispondere a domande che vogliono indagare il senso
della vita e del destino dell’uomo, che ne mettono sfacciatamente a nudo l’estrema
fragilità, contraria alla figura di uomo vincitore di ogni male.
Alta umanità e umiltà, grande competenza nelle scienze della comunicazione
umana, poca tecnologia sono il fondamento e il motore della nuova struttura sanitaria
dell’hospice, che si pone come la più recente forma di assistenza sanitaria in
connessione con le altre già presenti nel territorio.
c) Il malato in fase terminale di malattia
Con questa espressione si intende, come si diceva sopra, quel soggetto la cui
diagnosi, qualsiasi sia, prevede una prognosi di circa due mesi di vita.
La malattia è una vicenda che colpisce tutti i viventi, ma l’esperienza della malattia
è una condizione squisitamente umana; è lo stato di percezione che la propria vita è
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minacciata, che qualcosa di estraneo alla volontà del soggetto guida la vita quotidiana e
si manifesta attraverso il corpo. I sintomi sono ciò che più conta nel quotidiano del
morente, perché il loro apparire o sparire può annunciare una ricaduta o inaugurare la via
della guarigione. Essi non rappresentano soltanto la conferma della patologia
diagnosticata, ma sono la metafora della vita minacciata, della morte incombente: non si
tratta di questo o di quell’organo, ma della possibilità di vita! Per questo essi sono la via
maestra del dialogo; mediante l’ascolto del racconto che la persona malata fa della sua
malattia, chi circonda il malato è in grado di avviarsi a comprendere la sua singolarità.
Perché, se certe necessità sono comuni a tutti i pazienti, altre sono assolutamente
individuali.
Saranno comuni i sintomi fisici come il dolore, spesso cronico e grave, che va
contrastato con un adeguato controllo. Per raggiungere questo traguardo non è
sufficiente, anche se necessario, limitarsi al trattamento antalgico di tipo farmacologico,
occorre anche capire la complessità dei meccanismi che creano il dolore, la sua
correlazione con l’ansia e la depressione. Infatti, il dolore è modificato nella sua
percezione da fattori soggettivi, familiari, ambientali, culturali e, non certo ultimi come
importanza, da fattori connessi con l’ambiente clinico e l’attitudine dell’équipe nei
confronti della persona sofferente. Per indicare tale complessità si usa l’espressione di
dolore totale.
Per una corretta valutazione del dolore totale, quindi, occorre conoscere il mondo
del soggetto che si cura, credere in ciò che dice quando narra la sua malattia, credere
nel malato, raccogliere la storia del tipo particolare di dolore, valutare la qualità della
vita quotidiana.
Ma bisogna anche tener sempre presente che la vita sana è ben altro dalla vita
malata, i parametri sono assolutamente diversi; questo è il punto di partenza per
prendere sul serio il paziente, per credere in lui. Ci sono, infatti, aspetti nella vita del
malato che troppo spesso vengono da noi sani sottovalutati. Basta pensare ad alcuni
tra i più significativi per accorgersene:
- All’umiliazione del corpo sofferente, del corpo spogliato nel letto, spesso pervaso da
tubicini e cannule, abbruttito nell'aspetto esteriore, incapace di svolgere le più
elementari e vitali funzioni organiche. Il corpo malato, che si sfascia, si piaga, emette
odori sgradevoli, diviene l'immagine concreta, visiva, della perdita di identità del
soggetto.
- Al senso di vulnerabilità, sconosciuto nella vita sana, che spesso ritorna nelle
invocazioni rivolte a chi l’assiste, alla ricerca di conforto: “Così debole proprio io che
sapevo affrontare qualsiasi imprevisto e superare ostacoli!"
- Alla fatica dei piccoli gesti quotidiani. Banali finché si è sani, ma quando si è
gravemente ammalati ogni gesto, anche il più semplice - star seduti sul letto, muovere
un passo, nutrirsi - si trasforma in un atto eroico. La volontà non conta più; per quanto
ci si sforzi, il corpo è senza forze, non risponde ai desideri e ai comandi che gli si
danno, non resta che la constatazione: "Io che non ero mai stanco!"
- All’incertezza legata al proprio futuro, aggravata dal contrasto tra il bisogno di sapere e
la paura di conoscere cosa ne sarà della propria vita.
- All’alterata percezione della realtà: la vita quotidiana che finchè si è sani va da sé, è
un’ovvietà, mostra all’improvviso un volto nuovo. Nulla può essere lasciato ad un
domani vago e atemporale.
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Per questo l’assistenza di tipo ospedaliera non rappresenta più la migliore opzione
per questi pazienti, i quali, non sono più soltanto affetti da malattia cronico-degenerativa,
ma sono in fase molto avanzata di malattia non più trattabile con terapie curative. Per
questi soggetti l’intervento migliore è finalizzato a far trascorrere il tempo finale della vita
nel modo più confortevole sotto varie prospettive, clinica, fisica, psicologica, psichica,
familiare, sociale. Per questo il soggetto dell’assistenza medica non è più il paziente, ma la
persona malata e la sua famiglia. È verso questo gruppo sofferente che si dirige
l’assistenza da parte di professionisti di varia competenza, ciascuno deputato a conoscere
meglio i bisogni soggettivi e generali del malato e a condividere con i colleghi questa
conoscenza per trovare insieme la migliore soluzione per quel particolare individuo e la sua
famiglia. Qui il concetto di rete (vedi parte III, par. a) è la via privilegiata per dare alla
persona il luogo migliore dove risiedere a seconda della sua percezione della sofferenza e
della sua situazione clinica.
d) Quando la morte tocca il bambino
Se, come si è detto in precedenza, il morire è qualcosa che, oggi più che in
passato, è difficile vivere, quando la morte si avvicina al bambino diventa devastante.
L’assenza di un luogo, reale e simbolico, in cui poter parlare del mistero della
morte dell’innocente, l’oblio delle parole che dicono la fragilità delle creature umane,
sono alla base della difficoltà che incontriamo a parlare con il morente della sua
condizione. E il morente, se è un adulto, sa bene quali sono le cose di cui si può parlare
e quelle di cui si deve tacere per essere in sintonia con i valori della società occidentale
contemporanea e, così facendo, facilita il gioco dell’occultamento della morte. Cose che
il bambino tanto più ignora quanto più è piccolo, in quanto libero da infrastrutture
culturali e da rimozioni sociali. Ed ecco che il minore pone i suoi “perché?”, che hanno
come effetto di catapultare l’adulto fuori del campo della rimozione verso il mondo del
mistero. La morte non può più essere contenuta nel fatto biologico, ridotta a fine della
malattia, a ragionamento razionale; non si tratta di dare una prognosi, ma di prendere
parte all’evidenza che la vita dell’uomo non è eterna ma ha limiti contro cui si può ben
poco, in altre parole essa ritorna cifra del mistero.
Normalmente l’esistenza della morte è nascosta al bambino, ma può esserlo
soltanto fino a quando egli non vi si trova direttamente coinvolto. La prima esperienza
della morte che il bambino vive è la morte di un animaletto domestico; essa è spesso
accompagnata da senso di colpa, prodotta dal timore che sia conseguenza di giochi o
gesti bruschi verso la bestiola.
Anche il bambino, a modo suo, si pone il perché della morte e la tentazione del
mondo adulto di proteggerlo con il silenzio non fa che aumentare la sua sofferenza.
Certo non è facile parlare della morte con il bambino, eppure è necessario trovare una
forma per comunicare con lui, perché è ritenuto dannoso per il suo equilibrio giocare
con lui il dramma del tacere la verità. Infatti, egli capisce il senso della morte attraverso
le reazioni della famiglia, da come i genitori vivono la sofferenza, dalla sincerità del
dialogo, soprattutto dal linguaggio non verbale. I bambini hanno una straordinaria
capacità di afferrare il non detto (non dimentichiamo che il primo modo di
comunicazione che impara il bambino è proprio non verbale), nel percepire che sono
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attorniati dal segreto e interpretano questo silenzio come esclusione dal cerchio
familiare.
Il bambino morente crea problemi maggiori rispetto ad un paziente adulto anche
perché egli non ha in serbo parole stereotipate, ma partecipa alla cura con emotività e
sincerità. Per questo spesso diventa la spinta che aiuta l’adulto a uscire dalla chiusura
del suo dolore. Prendersi cura di lui obbliga ad un dialogo vero, cioè all’ascolto di tutto
ciò che l’interlocutore prova dentro di sé e vuole esprimere, e questo richiede tempo.
Ma il tempo esistenziale non è una realtà cronologica, strutturata secondo le esigenze
dei ritmi ospedalieri, bensì risponde ai bisogni interiori della persona. E il bambino ha un
tempo suo, fatto di voli pindarici, di collegamenti in apparenza insensati, di analogie
simboliche con il suo mondo infantile. È molto importante saper seguire e non
precedere i bisogni e i desideri del bambino; fare in modo che egli senta che può fidarsi
degli adulti, dei medici che lo fanno soffrire come dei genitori che non possono aiutarlo,
che può fare sempre e a chiunque la domanda che lo angoscia.
Il ruolo e il comportamento dell’équipe palliativista è fondamentale per aiutare i
genitori del piccolo a sopportare l’immensa sofferenza; diventa indispensabile che ogni
membro dell’équipe superi le sue reazioni individuali, condizionate dal vissuto
personale, dallo stato fisico e psichico di quel momento. Diventa imprescindibile il
dialogo tra i diversi professionisti coinvolti nell’assistenza, perché se manca questo
confronto il lavoro procede con minore disponibilità e serenità.
È indispensabile che nella preparazione professionale del personale palliativista
sanitario ed extrasanitario trovino posto discipline psicologiche di supporto, per esempio
per capire le domande che paiono estranee alla situazione, perché rivelano lo stato
emotivo del paziente, le paure, il bisogno di essere consolati e rassicurati. I bambini
malati hanno bisogno di allegria, che, meglio di parenti ed amici, proprio il personale
curante può essere in grado di dar loro.
Occorre preparare il bambino a cosa sta succedendo, ai mezzi per mitigare il
dolore; questa procedura è utile per accrescere la sua sicurezza e fiducia nell’operato
dell’équipe. Non dare false speranze, ma condividere con lui quel che prova in quel
momento è il primo passo per costruire una alleanza terapeutica. Il gioco, il disegno, la
musica sono conforti ma anche modi simbolici in cui egli cerca di esprimere i suoi
sentimenti e attraverso di essi chi l’assiste può arrivare a capire le sue paure. E il
compito primo del personale curante è di aiutarlo a dire la sua paura di morire.
Esprimersi ha sempre valenza sanatrice. La paura della morte si presenta nel
bambino soprattutto come paura della separazione, dell’abbandono.
Non bisogna dimenticare fratelli e sorelle del piccolo malato; anche per costoro è
indispensabile poter esprimere il loro dolore, essere tristi; nascondere la realtà renderà
loro più difficile elaborare il lutto. Anche di fronte all’esperienza della morte di un
congiunto o di un fratello, la tendenza sociale è di tacere; si porgono le condoglianze e
si consolano i “grandi”, ma nessuno osa piangere con il bambino, condividere con lui la
sofferenza, nonostante la condivisione sia l’unico modo per sopportare un dolore
infinito.
Parte II. Normativa vigente sulle cure palliative per malati terminali
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Parere sulla medicina palliativa
1. D.P.R. 21 luglio 1998: Piano Sanitario Nazionale ( pubblicato sulla G.U. n° 201 del
30 dicembre 1998).
Si propone di realizzare i seguenti obiettivi generali:
• potenziamento dell’assistenza medica ed infermieristica a domicilio;
• erogazione dell’assistenza farmaceutica a domicilio, tramite la farmacia
ospedaliera;
• potenziamento degli interventi di terapia palliativa ed antalgica;
• sostegno psico-sociale al malato ed ai suoi famigliari;
• promozione e coordinamento del volontariato, destinato all’assistenza ai malati
terminali;
• realizzazione di strutture residenziale (hospice) autorizzate ed accreditate.
1. D. L. 28 dicembre 1998, n° 450, convertito con modificazioni dalla Legge 26 febbraio
1999 n° 39.
L’art. 1 prevede che il Ministro della Sanità, d’intesa con la Conferenza permanente
per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le provincie Autonome di Trento e di Bolzano,
adotti un programma, su base nazionale, per la realizzazione, in ciascuna regione e
provincia autonoma, in coerenza con gli obiettivi del Piano Sanitario Nazionale, di una o
più strutture ubicate sul territorio in modo da consentire un’agevole accessibilità da
parte dei pazienti e delle loro famiglie, dedicate all’assistenza palliativa e di supporto,
prioritariamente per i pazienti affetti da patologia neoplastica terminale, che necessitano
di cure finalizzate ad assicurare una migliore qualità della loro vita e di quella dei loro
famigliari.
2. Conferenza Stato-Regioni data 5 agosto 1999.
Viene formalizzata l’intesa raggiunta tra Stato e Regioni sull’intera materia; viene
avviato il programma per le strutture palliative con l’assegnazione di 256 miliardi
alle Regioni.
4. Decreto del Ministro della Sanità 28 settembre 1999 (pubblicato sulla G.U. n° 55 del
7 marzo 2000), avente per titolo: “Programma nazionale per la realizzazione di
strutture per le cure palliative”.
Di particolare interesse l’allegato 1 di detto Decreto, nel quale vengono definite le
modalità di integrazione delle attività delle rete di cure palliative, e l’allegato 2, dove
vengono precisate le linee attuative per la realizzazione della rete di cure palliative.
5. Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 20 gennaio 2000, avente per titolo:
“Atto di indirizzo e coordinamento recante i requisiti strutturali, tecnologici ed
organizzativi minimi per i centri residenziali di cure palliative”, pubblicato sulla G.U.
n° 67 del 21 marzo 2000.
Di particolare interesse l’allegato al Decreto.
6. Deliberazione del Consiglio Regionale n° 8 del 25 febbraio 2000, avente per titolo: “
Piano Sanitario Regionale per il triennio 1999/2001”; pubblicato sul supplemento
ordinario n° 14 del B.U.R. in data 5 aprile 2000, il quale individua la seguenti azioni:
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Parere sulla medicina palliativa
•
•
•
•
•
•
•
adeguamento del personale per l’assistenza palliativa medica ed infermieristica
a domicilio;
potenziamento delle risorse tecnologiche;
definizione di linee-guida per interventi di terapia palliativa ed antalgica e per il
sostegno psicologico e sociale del malato e dei suoi famigliari;
emanazione di direttive per l’assistenza domiciliare, per cure di controllo del
dolore, secondo le indicazione della Legge 449/98 (Legge Finanziaria 1999);
emanazione di direttive rivolte al coordinamento con il volontariato, per
l’assistenza ai malati terminali;
attivazione di posti letto dedicati, in strutture residenziali (hospice) , ove sia
possibile garantire un alto grado di umanizzazione dell’assistenza come ad
esempio un’adeguata accoglienza, anche
ai famigliari (tenendo conto delle
convinzioni religiose dei soggetti), per offrire assistenza e cura ai pazienti in fase
critica, che per diverse motivazioni non possono essere seguiti in regime
domiciliare, e per i quali il ricovero ospedaliero risulta non necessario ed
inadeguato alle loro esigenze;
assegnazione, da parte della Regione, delle risorse previste dalla Legge 39/99
(in funzione della mortalità per tumori) alle singole A.S.L., che individuano la
sede degli hospice, d’intesa con le Conferenze dei Sindaci.
4. Deliberazione della Giunta Regionale della Liguria del 21 luglio 2000, attraverso la
quale viene approvato il progetto relativo alla realtà territoriale ligure, con la
realizzazione di 67 posti letto in strutture residenziali (hospice) suddivise tra: 5
ambiti sanitari e con un investimento di L. 10.350.000.000=.
5. Legge n° 12 del 8 febbraio 2001 (pubblicata sulla G.U. n° 41 del 19 febbraio 2001)
avente per titolo: “Norme per agevolare l’impiego dei farmaci analgesici efficaci sulla
terapia del dolore”.
6. Decreto del Ministro della Sanità con allegato (pubblicato sulla G.U. del 14 maggio
2001) avente per titolo: “Linee guida sulla realizzazione delle attività assistenziali,
concernenti le cure palliative” ,la Conferenza Stato-Regioni (ex art. 38 D.L. 1997 n°
281) ha sancito l’accordo nella seduta del 24 maggio 2001.
Per usufruire del finanziamento stanziato, il Decreto dispone che le Regione e
Provincie Autonome debbano inviare al Ministero della Sanità, nei tempi stabiliti, il
programma per la realizzazione delle strutture per cure palliative ed i progetti
preliminari per la realizzazione o l’adeguamento delle strutture rispondenti ai
requisiti previsti dal D.P.C.M. 20 gennaio 2000, nonché i piani di comunicazione. La
Legge 39/99 stanzia, inoltre, per l’annualità 2000 L. 53.532.000.000=, ai quali la
Legge 29 dicembre 1999 n° 488 aggiunge L. 30.000.000.000. per ognuno degli anni
2000, 2001, 2002. Pertanto sono state rese disponibili L. 143.532.000.000=. La
ripartizione tra le Regioni e le Province Autonome è stata effettuata in base ai
parametri adottati precedentemente e, cioè, calcolati in base al tasso di mortalità
regionale per neoplasia ed al tasso di mortalità generale. Il termine fissato per la
presentazione dei progetti preliminari per la realizzazione o l’adeguamento delle
strutture e la loro integrazione nella rete esistente è di 350 giorni dalla data di
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pubblicazione in G.U. del Decreto Ministeriale. Inoltre, è stato stabilito il diritto alle
Regioni ha stipulare convenzioni con istituzioni ed organismi senza scopo di lucro
che dispongano di strutture dedicate all’assistenza palliative e di supporto,
prioritariamente per i pazienti affetti da patologia neoplastica terminale. Sono
ammessi anche i progetti presentati da istituzioni ed organismi a scopo non
lucrativo, che svolgano attività nel settore dell’assistenza socio sanitaria. In entrambi
i casi, i finanziamento assegnati alle Regioni possono essere finalizzati alla
realizzazione, alla ristrutturazione ed all’adeguamento di strutture con vincolo di
destinazione trentennale.
7. Decreto del Ministro della Sanità 26 aprile 2001 (pubblicato sul G. U. 14 maggio
2001), avente per titolo: “Corso pilota di alta qualificazione in cure
palliative”,“Curriculum essenziale italiano per le cure palliative”.
Parte III. L’unita’ operativa di cure palliative
a) La realizzazione delle cure palliative: la rete
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É evidente che un’assistenza di questo tipo deve muovere da una visione diversa
dell’organizzazione dei servizi. Per questo, la concezione sottesa alla medicina
palliativa è la rete.
Solo una buona coordinazione tra i vari servizi esistenti nel territorio consente di
trovare l’accoglienza migliore per ciascun paziente. Rete significa creare un progetto di
cure palliative che coordini in modo efficace e rapido ospedale e territorio: medici di
famiglia, Assistenza Domiciliare Integrata (ADI), RSA, hospice, Unità di Cure Palliative
(UCP). L’UCP è intesa come assistenza, caratterizzata da tutti i comfort necessari ad
una persona in fase avanzata-avanzatissima di malattia, che risponde a condizioni
cliniche, psichiche, psicologiche e sociali necessarie al paziente e alla sua famiglia per
un rientro al domicilio o, per i malati in fase terminale, con l’obiettivo di accompagnare il
morente e la sua famiglia ad una morte e ad un lutto il più sereni possibile.
Spesso questi soggetti dimessi dalle unità di terapia ospedaliera, avendo superato
la fase acuta mediante i trattamenti tradizionali ma che necessitano maggiormente di
cure sintomatiche, di terapia del dolore, non sempre possono trovare assistenza
adeguata al proprio domicilio. Per costoro è stata “inventata” una forma atipica di
accoglienza sanitaria in particolari strutture definite hospice.
Se una fra le condizioni per essere ammessi nell’hospice è la prognosi di circa due
mesi di vita, diventa impossibile perder tempo in pastoie burocratiche, che vanno
preventivamente sveltite e organizzate nell’interesse del malato. Una volta intravista la
necessità di cura ritenuta più appropriata, non avrebbe senso ritardare la risposta al
bisogno.
Analogamente, occorre ridurre al minimo gli aspetti burocratici tra i soggetti
interessati all’assistenza del malato, individuando spazi e compiti specifici. Da dati
raccolti, si può affermare che una buona organizzazione risulta uno dei punti qualificanti
dell’hospice e dell’UCP.
Per una buona organizzazione di rete e una razionale utilizzazione dei servizi
esistenti, diventa indispensabile individuare un responsabile del progetto, il quale deve
avere una motivazione molto forte a demedicalizzare il morire per esaltare gli aspetti
relazionali non solo verso il paziente/famiglia, ma anche verso gli altri operatori per
lavorare bene in gruppo. Per questa ragione, generalmente la conduzione di questa
U.O. è affidata ad un medico che abbia acquisito una specifica preparazione in
medicina palliativa, distinta dall’U.O. di oncologia o dal polo oncologico.
La relazione tra medici e altri operatori deve superare la figura di tipo gerarchico
per farsi collaborativa.
Quale l’obiettivo terapeutico verso i malati che si trovano in fase terminale della
malattia? Se esiste un concetto dinamico di salute, cioè salute come ricerca di un
equilibrio tra corpo, psiche e spirito, tra persona e altri soggetti, tra persona e ambiente,
può esistere un concetto altrettanto dinamico di guarigione. Non soltanto recupero
fisico, ma sforzo per raggiungere una pacificazione interna, psicologica, il coraggio e la
forza interiore di vivere anche contro la malattia che logora e abbatte. Evento che si può
realizzare soltanto se il malato non è lasciato solo ma accompagnato in questo
cammino da un progetto di assistenza totale, cioè olistico.
b) Le risorse strutturali
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L’ospedale
È per sua natura un luogo di accoglienza per diagnostica e terapia tradizionale di
malati in fase acuta o evolutiva, ma che necessita ancora di un approccio medico e di
risorse tecnologiche, in vista di una prevedibile guarigione o stabilizzazione della
malattia.
Risulta inadeguato nel caso della persona affetta da una patologia non più
suscettibile di controllo e inguaribile, ma curabile dal punto di vista sintomatologico e
umano. Si evidenzia una contraddizione tra il modello biologico della medicina che
vuole e deve sempre guarire rispetto all’atteggiamento curativo della medicina palliativa
che ha come postulato la centralità del paziente e i suoi bisogni, e quindi evita di
mettere in atto interventi terapeutici che sono sproporzionati, ma è animata da una
visione olistica per rispondere ai bisogni esistenziali della persona alla fine della vita
Le strutture ospedaliere ed extraospedaliere di riabilitazione
Esse si prefiggono essenzialmente un recupero delle attività motorie, finalizzato
all’autonomia della persona e alla restituzione della stessa nel suo contesto sociologico.
Le Residenze Sanitarie Assistenziali
Le RSA sono strutture extraospedaliere finalizzate a fornire accoglimento,
prestazioni sanitarie assistenziali e di recupero a persone anziane, prevalentemente
non autosufficienti non assistibili a domicilio o nei servizi semi- residenziali.
Differisce dalle strutture riabilitative per la minore intensità delle cure sanitarie e
per i tempi più prolungati di permanenza degli assistiti, che in relazione al loro stato
psico-fisico possono trovare nella stessa anche ospitalità permanente.
La Residenza Protetta
La RP ospita soggetti autosufficienti e non, garantendo i soddisfacimenti dei
bisogni primari, supportandoli nelle difficoltà personali, di autonomia e nelle disabilità.
In particolare la RP garantisce all’ospite i seguenti interventi:
- assistenza diretta alla persona (aiuto per l’igiene personale, per i pasti per le
funzioni della vita quotidiana), comprensiva delle funzioni di assistenza tutelare;
- attività di animazione per favorire le capacità di rapporto e di socializzazione e per
sollecitare le potenzialità individuali culturali e creative, per offrire occasioni di
ricreazione, svago e incontro;
- prestazioni di medicina generale e assistenza infermieristico-riabilitativa (controlli
medici, cura delle malattie, qualora non richiedenti ricovero ospedaliero, medicazioni
e terapie, prestazioni riabilitative non complesse);
- offre inoltre i normali servizi di tipo alberghiero.
Non è, però, idonea ad accogliere persone in fase avanzata/avanzatissima e
terminale di malattia.
L’assistenza domiciliare integrata
L’ADI è rivolta essenzialmente alla persona anziana, non autosuffiente, e fa
fronte alle necessità di base svolte soprattutto dall’infermiere, fisioterapista, assistente
sociale, con una supervisione del medico geriatra.
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L’Hospice
L’hospice è una struttura residenziale finalizzata ad accogliere malati di qualsiasi
età, affetti da patologie inguaribili, aventi una prognosi di sopravvivenza
presumibilmente non superiore a 2 mesi, che abbiano superato le possibilità di cura
specifica sia chirurgica sia chemioterapica e radioterapica, che necessitano di cure
palliative. Si intende non soltanto persone affette da patologia tumorale, ma anche da
AIDS, malattia di Hunntington, sclerosi multipla, sclerosi laterale amniotrofica, diabete
mellito avanzato, malattie cardiovascolari, ematologiche…
Il paziente può essere ricoverato in hospice in modo definitivo o temporaneo su
richiesta della stessa persona malata o dei famigliari, dopo opportuna valutazione
dell’équipe assistenziale, quando:
- sono richieste cure che non possono essere effettuate a domicilio;
- l’assistenza domiciliare diventa insostenibile per la famiglia;
- il paziente vive in condizioni abitative inadeguate e con scarsa assistenza famigliare.
L’attività di assistenza si basa su alcuni punti fermi che sono:
- assunzione in cura del malato e della sua famiglia;
- creazione di un ambiente il più possibile domestico;
- controllo attento e puntuale dei sintomi, primo fra tutti il dolore;
- attenzione particolare all’alimentazione ed ai problemi ad essa correlati;
- instaurazione e mantenimento di una reale comunicazione tra operatori, malato e
famiglia;
- disponibilità dei familiari a collaborare per soddisfare i bisogni elementari del malato;
- attuazione concreta del lavoro di équipe;
- elevato rapporto operatori-pazienti.
Il ricovero in hospice garantisce anche la disponibilità di assistenza specialistica
in ambiente il più possibile simile a quello domestico. Attenzione deve essere posta
all’organizzazione degli spazi prevedendo l’accoglienza dei famigliari e la loro
collaborazione alle cure del malato. Essi devono poter pernottare con lui, soggiornare e
cucinare. Occorre permettere di personalizzare la stanza con oggetti provenienti dal
proprio domicilio, utilizzando contemporaneamente servizi e presidi propri dell’ambito
ospedaliero, quali letto articolato, materasso antidecubito, bagno per disabili, sedie
comode, possibilità di idroterapia, ecc.
L’hospice può essere ubicato al di fuori di una struttura ospedaliera, oppure
collocato presso l’ospedale, ma sempre autonomo nella sua funzionalità.
L’équipe multidisciplinare dell’hospice mantiene contatti con quella delle cure
palliative domiciliari, integrandone l’attività e assicurando la continuità dell’assistenza ai
degenti e ai famigliari, anche dopo l’eventuale dimissione.
Per quanto riguarda l’organizzazione dell’hospice è bene rispettare alcuni
parametri, che indichiamo di seguito:
1. Requisiti minimi organizzativi
Gli obiettivi che ci si prefigge raggiungere nell’hospice sono: il definire e il
realizzare un programma personalizzato di cure palliative, orientato a migliorare la
qualità della vita attraverso una risposta globale ed efficace ai bisogni della persona
malata, considerando la sfera fisica, psico-emozionale, sociale e spirituale del soggetto
e della famiglia; la realizzazione di una valida alternativa alla casa; l’assistenza del
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Parere sulla medicina palliativa
malato fino alla morte, preparando al lutto i famigliari e aiutandoli anche nel tempo post
morte. Inoltre compito del medico dirigente e dell’infermiere dirigente dell’hospice è
anche l’aggiornamento specifico e l’istruzione del personale sanitario e non,
l’educazione e il rinnovamento nella pratica medica degli operatori sanitari e dei
volontari in termini umanistici. L’atteggiamento dell’équipe palliativista è un’acquisizione
graduale e continua nel tempo, che si costruisce tramite l’esperienza diretta e la
formazione.
La specificità dell’hospice, rispetto ai servizi esistenti, si distingue per le seguenti
caratteristiche:
- nei confronti dell’unità ospedaliera per acuti, l’hospice si basa su una ideologia
differente, che privilegia, alla cura della malattia, la cura della persona malata; la
relazione tra le due strutture è generalmente unidirezionale, dall’ospedale all’hospice,
salvo particolari necessità, perché la cura è sempre correlata ai bisogni della persona.
L’hospice è una struttura di assistenza intensiva a basso contenuto tecnologico e alto
contenuto umano;
- rispetto alle strutture di riabilitazione l’intervento in hospice, pur rientrando, in parte, in
una logica di recupero funzionale, si prefigge, al di la del tentativo di ripristinare funzioni
motorie deficitarie, altri obiettivi, rappresentati dal ripristino di una miglior qualità di vita,
di autostima, di autocontrollo, e di equilibrio psichico e spirituale. Se il malato riesce a
vivere in armonia con sé il tempo che gli rimane da vivere, nella libertà di esprimere i
propri sentimenti di rabbia e di angoscia come di progetti e di speranze, pur non
essendo oggettivamente “sano”, soggettivamente sente di star bene (guarigione in
senso olistico);
- nei confronti delle residenze socio-assistenziali (RSA) e delle residenze protette (RP),
che, non di rado, ospitano persone malate le cui condizioni cliniche necessiterebbero
più di cure palliative che di interventi di diagnosi e terapia tradizionali, anche al di fuori
della patologia oncologica, l’hospice presenta un livello di assistenza più intensiva e più
attento al sollievo della sofferenza nelle ultime fasi della vita;
- con il territorio l’hospice costituisce una vera e propria interfaccia e non può
prescindere dalla rete dell’unità di cure palliative domiciliari (UCPD) e dal servizio
dell’assistenza domiciliare integrata (ADI), nella logica del completamento del
programma assistenziale, ponendosi come struttura di riferimento per le necessità di
ricovero del malato terminale;
- il rapporto con il medico di base, infine, si configura come una forma di assistenza
integrativa che offre consulenza e supporto qualificato per affrontare la complessità
dei problemi sanitari e assistenziali che si presentano nella fase avanzata della
malattia.
2. Requisiti minimi strutturali
Per realizzare al meglio la filosofia dell’hospice la collocazione della struttura è, di
regola, in un’area residenziale sanitaria, a condizione che sia prevista la sua autonomia
strutturale e funzionale.
La superficie minima dell’unità è considerata di 400 mq, con una capienza
minima 8 letti, distribuiti in camere singole (60%) o a 2 letti, con annesso bagno per
disabili in ciascuna. Nelle stanze di degenza e nei servizi sono presenti prese per
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ossigeno e per aspirazione, letti di degenza che non si presentino come letti ospedalieri
pur avendone le caratteristiche (reclinabilità a 2 snodi), poltrona letto o letto per
famigliare, televisore o presa per antenna, comodini da letto con ripiano girevole, tende
alle finestre, tavolino, rialzi per WC, sedile doccia. Altre attrezzature consistono in
comode, carrozzine, materassi antidecubito, archetti e trapezi, sollevatore, accessori
per letti ignifughi, pompe infusionali per nutrizione enterale e parenterale.
L’area residenziale comprende camere di degenza, soggiorno-sala da pranzo,
locale per interventi di terapia diversionale, quali tecniche di rilassamento e
musicoterapica, cucine, tisanerie accessibili alle carrozzine, in numero di una ogni 8
posti letto, locale di sosta della salma. Le tisanerie sono dotate di lavello, frigorifero,
punto cottura, forno a microonde, armadietti, l’area operativa di arredi, attrezzature e
elettrodomestici per la funzione dei locali, in base alla destinazione; possono costituire
un luogo di soggiorno e degustazione. Nell’area residenziale deve essere funzionante
un adeguato sistema di ricambio d’aria, e prese telefoniche sono installate in tutti i
locali.
E’ auspicabile anche la presenza di un’area verde adiacente alla struttura, senza
barriere architettoniche e in grado di accogliere ospiti di tutte le età.
L’area operativa è costituita dalla reception, dall’infermeria, dallo studio del
medico e della caposala, dai servizi per il personale, dalla cucina, dal deposito pulito,
dal deposito sporco, dal bagno centrale attrezzato per disabili, dallo spogliatoio del
personale, dall’area dedicata alla fisioterapia. Se l’hospice è interno all’area
ospedaliera, è bene che tale area sia autonoma, opportunamente attrezzata in linea con
una riabilitazione specifica per la tipologia dei malati ospitati e con operatori anch’essi
formati alla filosofia palliativa. È previsto l’utilizzo del personal computer con software
applicativo gestionale.
Nella dotazione delle attrezzature e degli arredi la ricerca del comfort per i
morenti rappresenta una prevenzione ed una terapia per le sofferenze che possono
intensificarsi in condizioni di disagio ambientale. Le caratteristiche degli arredi devono
tenere in considerazione la frequente disabilità dei pazienti.
3. Caratteristiche organizzative
Nell’hospice, come in tutta l’unità delle cure palliative, l’erogazione
dell’assistenza è effettuata in équipe; le varie personalità condividono la valutazione del
paziente, il processo decisionale è concordato tra i vari operatori e il programma
personalizzato di intervento coinvolge sia il paziente sia la sua famiglia, considerando le
problematiche sanitarie, socio-assistenziali, psicologiche, relazionali, affettive, culturali,
economiche e spirituali, al fine di fornire adeguate risposte che tengano conto
dell’interezza dell’individuo (approccio olistico).
Da questa premessa derivano i requisiti minimi organizzativi del lavoro in
hospice:
- équipe multiprofessionale, composta dalle figure sottoindicate (par. c);
- organizzazione del lavoro, con riunioni periodiche di tutti i membri dell’équipe per la
formulazione del piano di intervento, verifica della sua fattibilità, successiva
rivalutazione;
- assistenza medica, con organizzazione del lavoro orientata ai bisogni concreti del
paziente e al trattamento della sintomatologia in relazione alla malattia;
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Parere sulla medicina palliativa
-
assistenza infermieristica, con infermieri professionali e organizzazione del lavoro
orientata alle necessità del paziente;
- volontari, organizzati e appositamente formati;
- controllo di qualità, effettuato dall’organismo competente.
L’accesso ai servizi di diagnosi e cura per le indagini diagnostiche è, in hospice,
molto limitato e si rivolge, in genere, soltanto alla diagnostica laboratoristica di base.
Queste prestazioni devono essere fornite in modo agevole e rapido, indipendentemente
dalla collocazione delle strutture.
Anche l’accesso al servizio di farmacia deve essere garantito in modo
continuativo; il consumo di farmaci è modesto, concentrandosi su alcune specialità
(analgesici,
antiinfiammatori,
oppiodi,
psicofarmaci,
antibiotici,
antispastici,
gastroenterici).
L’hospice deve avere a disposizione un sevizio di lavanderia e di cucina, con
possibilità di pasti personalizzati.
c) Le risorse umane
É comprensibile come l’atteggiamento e la formazione del
personale
rappresentino una priorità per assicurare un’assistenza di altissima qualità a persone
affette da malattie così importanti. A tal fine gli operatori devono essere selezionati in
funzione della loro specifica sensibilità, motivazione e formazione palliativista a
completamento della indispensabile professionalità.
Il personale medico
Pur esistendo corsi di formazione in cure al malato in fase terminale di malattia e
in tecnica della comunicazione in sanità, la medicina palliativa non rientra ancora nel
corso di formazione di base dello studente di medicina. E’ comunque evidente che il
sanitario che opera in questo settore dell’assistenza debba essere equiparato, come
profilo professionale, a quello dei medici delle altre unità ospedaliere.
Il medico palliativista deve saper esprimere una valutazione clinica completa
sulla persona che dovrà assistere. Deve aver pratica di counselling per saper ascoltare
attentamente l’ammalato e condurre con lui un colloquio che comprenda tutti gli aspetti
della sua vita; deve avere una buona pratica di medicina generale per effettuare una
visita globale che prenda in considerazione i problemi fisici e psichici dell’ammalato; ma
deve anche considerare quelli sociali, relazionali e psicologici. Inoltre deve avere una
buona conoscenza delle terapie analgesiche, dei farmaci per il controllo dei sintomi e
deve saper lavorare in équipe, in rapporto paritario con gli altri operatori dell’unità
assistenziale, di cui terrà in considerazione osservazioni e consigli, riesaminando
insieme, periodicamente, la situazione delle persone in cura. Deve saper coordinare il
personale in rapporto collaborativo e interdipendente.
Deve saper coinvolgere il medico di famiglia e ricorrere eventualmente allo
specialista di competenza se l’evoluzione della patologia lo richiedesse; inoltre è suo
compito facilitare la prescrizione e il reperimento dei farmaci necessari.
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Parere sulla medicina palliativa
Il personale infermieristico
Il principale tramite di informazione sulle condizioni del paziente è l’infermiere, al
quale si riconosce un cambiamento di ruolo in quanto, vivendo più tempo a contatto
diretto con il malato, è in grado di coglierne confidenze, richieste necessità; questa
consapevolezza lo pone in condizioni paritarie al medico con cui contribuisce ad
elaborare il progetto di assistenza al malato.
L’infermiere palliativista deve avere una preparazione tecnica e antropologica
che supera quella richiesta per assolvere le competenze attribuitegli dal D. M. del sett.
94, in base al quale “partecipa all’identificazione dei bisogni di salute e dei bisogni di
assistenza infermieristica della persona e della collettività e formula i relativi obbiettivi;
pianifica, gestisce e valuta l’intervento assistenziale infermieristico; garantisce la
corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche; agisce sia
individualmente sia in collaborazione con gli altri operatori sanitari e sociali, svolge la
sua attività professionale in strutture sanitarie pubbliche o private, nel territorio e
nell’assistenza domiciliare, in regime di dipendenza o libero-professionale”. Egli, infatti,
deve saper cogliere i reali bisogni della persona malata in base al suo particolare modo
di vivere la malattia non soffermandosi soltanto su quelle necessità che gli si vorrebbero
attribuire a seconda della patologia.
L’infermiere palliativista, in particolare se opera in hospice, deve tener presente
che l’assistenza che è chiamato ad assolvere, a differenza di quella ospedaliera
regolata da tempi oggettivi e da ritmi oggi imposti anche da valori economici, è regolata
dai tempi soggettivi del malato, le cui necessità richiedono, di solito, attenzione ai
particolari, anche semplici, quali la somministrazione del cibo e delle bevande, il
posizionamento nel letto, la parola e il gesto di conforto anche con malato che non è più
in grado di parlare ma che chiede semplicemente una persona vicino che testimoni
ancora una contatto con la vita.
Medico di famiglia
Un aspetto fondamentale da tenere presente è che il medico di famiglia è gestore
delle cure palliative insieme all’équipe; infatti, egli non può operare da solo, perché il
modulo assistenziale è ad alta intensità. L’unità di cure palliative utilizza personale
proprio, risorse del territorio, associazioni no profit. Per questo il concetto di rete è molto
importante. Ma una buona organizzazione della rete e sfruttamento dei servizi esistenti
deve partire da un’analisi dei bisogni locali.
Il volontario
Il volontario è sicuramente l’elemento più atipico dell’equipe, il successo del suo
intervento è dovuto ad una profonda motivazione personale , alla comunicazione e alla
disponibilità. I volontari sono selezionati dagli psicologi in base a criteri di personalità e
motivazione ben precisi e partecipano a corsi di formazione per l’educazione al lavoro di
gruppo e l’elaborazione dei problemi che tale lavoro comporta, vengono inoltre
addestrati all’uso delle tecniche diversionali ed occupazionali importanti nell’offrire un
ulteriore occasione di facilitazione delle relazioni interpersonali. Il loro ruolo non è solo
quello di tenere compagnia al malato ma anche di aiutare i famigliari nel disbrigo di
commissioni e pratiche burocratiche.
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Parere sulla medicina palliativa
Possiamo dire che essi costituiscono uno degli elementi basilari nell’assistenza
domiciliare; proprio per la loro assenza di professionalità specifica, sanitaria o
parasanitaria, svolgono funzioni molteplici che vanno dall’assistenza nelle mansioni più
semplici, alla compagnia, all’ascolto confidenziale, allo sbrigare commissioni, dare aiuto
nell’alimentazione…
Lo psicologo
La malattia vissuta costituisce una realtà assai complessa, molto diversa dalla
malattia dei manuali di medicina. Essa comprende non solo gli aspetti organici ma tutti
quei “trucchi” che la psiche di ciascuno mette in atto per difendersi dalla dura scoperta
della propria vulnerabilità.
Per questo, l’attività dello psicologo nell’ambito della medicina palliativa costituisce
uno strumento terapeutico di supporto essenziale per i famigliari e per gli operatori
coinvolti nell’assistenza i quali, a loro volta, potranno maturare anche un approccio
psicologico nei confronti del malato.
L’intervento dello psicologo si sviluppa in quattro situazioni:
- controllo delle dinamiche dell’équipe: il contatto quotidiano con malati che evocano
costantemente l’immagine della morte personale, l’inevitabile loro morire, la
sofferenza e la disperazione loro e dei famigliari che viene scaricata sui membri
dell’équipe, provocano in tempi più o meno brevi, usura, attenuazione dell’impegno,
crisi depressive, aggressività (burnout);
- supervisione dei volontari: il volontario può essere oggetto e causa di stress: Egli
necessita di particolare protezione: infatti, solitamente non è preparato da
un’abitudine di lavoro a confrontarsi con la morte;
- colloqui con i famigliari: spesso i famigliari vivono dei sensi di colpa perché si
sentono inadeguati o impotenti di fronte alla malattia inguaribile e hanno delle
difficoltà di comunicazione. Un incontro con lo psicologo è solitamente efficace ad
ottenere comprensione e a dare fiducia in se stessi;
- colloqui con il malato: talvolta un colloquio tra psicologo e malato è in grado di
rivelare aspetti e problemi sfuggiti ad altri componenti dell’équipe, permettendo una
migliore comprensione e facilitando, in ultima analisi, tutti i rapporti di cura.
L’assistente spirituale
Indipendentemente dalle esigenze personali di ciascuna persona, è compito della
medicina palliativa ascoltare tutti i bisogni soggettivi e cercare di dare ad essi una
risposta. Per questa ragione, è contemplata nell’assistenza al malato in fase terminale
di malattia anche una figura professionale in grado di rispondere ai bisogni spirituali del
malato. La dimensione spirituale è più ampia di quella religiosa ed è la forza che anima
la ricerca di significato della vita e degli eventi quotidiani, di cui spesso il morente sente
il bisogno di parlare, proprio perché è un mondo che viene turbato dalla malattia in
modo molto forte. La domanda fondamentale del morente e della sua famiglia “perché
proprio a me?” scaturisce dal profondo del mondo spirituale, dal bisogno di esprimere
paura angoscia inquietudine disperazione speranza, il bisogno di essere considerata
una persona viva almeno fino al momento della morte.
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Parere sulla medicina palliativa
L’assistente delle varie religioni.
Coloro che hanno dedicato tempo e attenzione all’assistenza dei morenti hanno
riscontrato un bisogno di rivedere la propria vita, di dar senso alla vita trascorsa, di
conciliazione, di conversione intesa come cammino verso l’accettazione anche di ciò
che si presenta come definitivo. L’assistenza religiosa diventa l’offerta di un cammino di
accompagnamento. Spesso il morente necessita più di un compagno nel cammino che
di parole e risposte, necessita di aiuto a trovare la propria personale risposta alle
proprie radicali domande.
A questo scopo è auspicabile che l’ASL 2 savonese si apra alla prospettiva di
pluralismo religioso, per rispondere alle varie esigenze presenti in una società
multietnica.
Il periodo di lutto
A partire dalla considerazione che nell’hospice l’assistenza è rivolta alla persona
malata e alla sua famiglia, il programma di cura prevede anche ad assistere i familiari
nel periodo successivo alla morte del parente, per aiutarli ad elaborare il lutto.
Sono momenti di conflitti emotivi molto forti; specialmente quando la morte
succede a lunghi periodi di sofferenza, il primo sentimento che la famiglia prova è un
senso di sollievo e proprio questa sensazione provoca un senso di colpa che rende
difficile vivere il lutto in modo positivo. L’assistenza specialistica può trovare il percorso
giusto per le singole persone per risolvere questo momento di crisi e contrasti, aiutando
a riconoscere che la morte era un evento inevitabile.
L’assistente sociale e la famiglia
Il ruolo dell’assistente sociale è quello di aiutare la persona malata e la sua
famiglia ad affrontare situazioni di vita quotidiana, che improvvisamente sembrano
diventare irrisolvibili.
La malattia mette a dura prova la resistenza sia fisica sia psichica e l’intervento
dell’operatore sociale ha come scopo di contenere la sofferenza generata anche da
problemi operativi dovuti all’aggravarsi della malattia. La malattia grave e in fase ormai
terminale, infatti, è fonte di disagio anche per le conseguenze di tipo economico e
pratico, di status sociale che il malato e la sua famiglia incontrano e che contribuiscono
ad aumentare il grado di sofferenza.
Può capitare che con l’ammalarsi del capofamiglia, sia esso uomo o donna, il
peso dei problemi quotidiani si rovesci sull’altro coniuge, il quale si trova così a dover
far fronte all’aspetto emotivo della vicenda e insieme a dover risolvere questioni
pratiche. In questo frangente l’aiuto esterno è un mezzo per affrontare la nuova
situazione, per ricostruire le relazioni familiari alla luce dell’evento-malattia inguaribile.
Ecco perché l’ospedale tradizionale non può risultare il luogo più idoneo per dare valore
alla vita del morente e della sua famiglia. Alcuni problemi concreti possono essere risolti
usufruendo delle risorse locali, per questo il concetto iniziale di rete è fondamentale.
L’équipe palliativista non può dimenticare la solitudine nella quale viene a trovarsi
il morente e la sua famiglia, sia per l’affievolirsi della rete relazione sia per la necessità
di una cura specifica, che proprio nella medicina palliativa trova una risposta concreta.
È consuetudine dell’assistente sociale, come dell’équipe palliativista, mantenere
vivi i rapporti con la famiglia anche dopo il decesso del parente, per appianare le
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difficoltà che accompagnano la fase del lutto. Per tutto ciò è indispensabile che le
informazioni sulla persona malata siano raccolte da ogni componente l’équipe e in essa
circolino per consentire un buon coordinamento delle cure.
GLOSSARIO
Cure palliative: indica la cura totale prestata alla persona affetta da una malattia che
non risponde più alle terapie, note o sperimentali, utilizzate per raggiungere la
guarigione. Non vogliono prolungare né abbreviare l’esistenza dell’ammalato, ma
provvedere al sollievo dei sintomi e del dolore, fisico e spirituale. Scopo è garantire la
migliore qualità di vita sino alla fine. Esse, infatti, considerano la morte come un evento
naturale e in questo rafforzano il valore della vita umana. Non escludono terapie
mediche tradizionali qualora le condizioni cliniche della persona malata facciano
ritenere opportuno farvi ricorso.
Fase (o malattia) terminale: condizione patologica che apre ad una aspettativa di
morte a breve scadenza come conseguenza diretta della malattia. Per una cattiva
traslazione linguistica, si è finito per definire malato terminale quel paziente che si trova
nella condizione suddetta. Il termine “terminale” è sinonimo di morente, e questa
sostituzione conferma la difficoltà che abbiamo oggi a inserire la morte vissuta nella
comunicazione sociale. C’è accordo unanime nel riconoscere che la persona che vive
in stato vegetativo persistente non è un malato terminale, in quanto non è possibile per
lui avanzare una prognosi di morte imminente, tanto che alcuni vivono anche per anni in
tale condizione.
Hospice: indica un atteggiamento più che un luogo preciso, anche se ha dato il nome
ad una struttura, in genere di piccole dimensioni, in grado di ricoverare una dozzina di
persone. Si tratta di un atteggiamento che privilegia le cure palliative rispetto a quelle
terapeutiche e la qualità di vita rispetto alla quantità; che dà grande valore alla fase
terminale della vita della persona malata. Per questa ragione integra le cure mediche
con supporti di tipo sociale, psicologico, spirituale.
Malato in fase terminale: paziente per il quale si prevede una sopravvivenza
inferiore ai sei mesi e per i quali non esistano più terapie curative efficaci.
Terapia del dolore
Con questo termine si esprime il tormento, l’angoscia, l’essenza della patologia umana;
dalla banale rinite alla complessa e talora ancora sconosciuta patologia neoplastica.
Lotta esaltante per il medico, David contro Golia ed il medico, il medico algologo,
l’anestesista che si dedica a questa battaglia, è il nuovo David.
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Lo scopo della terapia antalgica è quello di eliminare il “sintomo”, combattendo la causa
che provoca il dolore. Purtroppo, anche se tale concetto è del tutto razionale, i medici
spesso tendono ancora a curare il dolore esclusivamente come fenomeno
sintomatologico.
Le linee direttive generali che devono invece ispirare la terapia del dolore sono
riconducibili a questi pochi capisaldi :
· Impostare un giusto rapporto psicologico con il paziente
· Effettuare un accurato studio del sintomo dolore, avvalendosi di collaborazione e
consulenze multidisciplinari
· Fare una diagnosi esatta
· Acquisire tutte le tecnologie oggi a disposizione, sia farmacologiche che semi-invasive
che invasive
· Scegliere la tecnica terapeutica meno dannosa per il paziente.
Se chi si appresta a “curare” il paziente affetto da DOLORE saprà sintetizzare questi
concetti generali, il dolore acuto, quello cronico e quello neoplastico troveranno un
professionista serio e pronto “alla battaglia”.
Indicazione bibliografica
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Federazione Italiana di Cure Palliative: http://www.fedcp.org
Scuola Italiana di Medicina e Cure Palliative http://www.istitutotumori.mi.it
Società Italiana di Cure Palliative http://www.sicp.it
http://www.osservatoriocurepalliative.org
CNB http://www.palazzochigi.it/bioetica/index.html
Componenti del Comitato Etico
Parere n. 35 del 29/1/2002
Prof.ssa Mariella Lombardi Ricci
Dott. Franco Becchino
Dott. Stefano Bonassi
Sig. Maria Chighine Massida
Dott. Sebastiano Gandolfo
Dott. Aldo Pastore
Dott. Paola Piscozzi
Dott. Lorenza Repetto
Dott. Luigi Robbiano
Sig.ra Nadia Sguerso
Dott. Franco Vairo
Dr. Paolo Viglierchio
I.I.D. Gabriella Voersio
Presidente
Vice Presidente
Servizio Epidemiologia Ambientale
Biostatistico Istituto Nazionale per la
Ricerca sul Cancro
Presidente Centro Conferenza Ligure Per
la tutela dei diritti del malato, Genova
Clinico
Rappresentante delle Associazioni di
Volontariato
Medico Legale, Dpt Medicina Legale e
delle Assicurazioni, Università di Torino
Responsabile U.O. farmacia dell’Ospedale
S. Paolo, Savona
Farmacologo, Dpt. Medicina Interna
Sezione di Farmacologia e Tossicologia
Clinica, Univ. Genova
Dirigenza medica ospedale S.Paolo,
Savona
Segretaria del CE
Direttore Sanitario ASL 2 savonese
Clinico
Rappresentante del Settore
Infermieristico, Ospedale S.Paolo, Savona
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