La costituzione economica europea e il progetto di Trattato
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La costituzione economica europea e il progetto di Trattato
La costituzione economica europea e il progetto di Trattato costituzionale Giampiero di Plinio* * Professore straordinario di Diritto pubblico comparato nella Facoltà di Economia dell’Università G. D’Annunzio (Chieti-Pescara, Italia); 42, Viale Pindaro – 65100 Pescara, Italia tel. +39 (0)85 4537614; fax +39 (0)85 692480; e-mail [email protected] Sommario: – 1. Nucleo materiale e forza giuridica della costituzione economica europea. – 2. La costituzione economica nel progetto di Trattato costituzionale: revisione o maquillage? – 3. La costituzione del mercato e della concorrenza. – 4. La costituzione monetaria. – 5. La costituzione finanziaria. Il coordinamento delle finanze pubbliche e delle politiche economiche degli Stati membri. – 6. Il bilancio dell’Unione. – 7. L’ombra di Keynes e il futuro della costituzione economica europea. – 8. Riferimenti bibliografici. 1. – Nucleo materiale e forza giuridica della costituzione economica europea. Il «progetto di trattato che istituisce una Costituzione per l'Europa» (da qui in avanti, il progetto) non introduce una nuova costituzione economica europea, ma recepisce quella esistente. L’Unione europea, infatti, ha già una costituzione economica, che incide sui processi di formalizzazione della costituzione europea (Pernice e Mayer, 2003) e sulla costruzione di una reale «cultura costituzionale» dell’Europa (Snyder, 1998). Ciò non conferma affatto i luoghi comuni secondo cui l’Unione è diventata, o diventerà uno Stato: non è necessario che l’Europa si faccia Stato perché moneta unica e patto di stabilità trasformino in modo irreversibile le costituzioni nazionali. D’altra parte, lo Stato è figura regressiva (Giannini, 1988, p. 19; contra, Ferrara, 2002, p. 169); la stessa «dottrina dello Stato» è incapace di spiegare le attuali transizioni (Häberle, 1999) essendo nata sulla spinta di altri contesti, in altri tempi (Della Cananea, 2003). Comunque, non occorre che ci sia uno Stato-Europa perché vi sia già una costituzione europea (Oppermann, 2003, p. 354): «the European Union is already a full-blown polity with a constitution» (MacCormick, 1999), e Ingolf Pernice individua un «“post-national” concept of constitution» (Pernice, 2001, 18 ss.). La costituzione economica europea può essere scomposta in tre contesti analitici: una costituzione del mercato unico, una costituzione monetaria, una costituzione finanziaria. La prima raccoglie le norme fondamentali della disciplina del mercato nelle sue varie tonalità e implicazioni (concorrenza, mercato unico, organizzazione dei mercati, libertà economiche e poteri conformativi delle medesime, regolazioni incidenti sul mercato e sulla concorrenza, incentivazioni considerate sotto il profilo dell’incidenza sugli assetti del mercato, comprese quelle comunitarie e i contratti delle pubbliche amministrazioni, iniziativa economica pubblica in quanto concorrente sul mercato). La seconda comprende la politica monetaria, compreso il controllo sui fenomeni in grado di influenzare la moneta (nonché le relative discipline, come ad esempio la politica valutaria, la vigilanza sulle banche, l’organizzazione dei mercati finanziari, la disciplina dei sistemi di pagamento, ecc.). La terza racchiude le politiche di bilancio in senso ampio (nei suoi sottoinsiemi e pertinenze, quali finanza comunitaria, politiche fiscali, politiche macroeconomiche e di spesa, procedure, finanze nazionali, diritto contabile pubblico), e infine incentivazioni, regolazioni, iniziativa pubblica, amministrazioni nazionali e subnazionali, servizi e politiche di welfare considerati sotto i profili del condizionamento finanziario e del rapporto risorse/risultati nel quadro delle politiche di stabilità e crescita. Ciascuna di esse ha un distinto nucleo fondante profondamente caratterizzato: la prima è fondata sul principio dell’unità del mercato e dell’eguaglianza senza discriminazione di nazionalità (Cassese, 2001; Cosculluela Montaner, 2003), sulla transnazionalità della regolazione (Joerges, 1997) e sul corollario della protezione dell’acquis (Mestmaecker, 1995, p. 111); la seconda sulla stabilità monetaria (Ortino, 1992); la terza sulla stabilità finanziaria (Della Cananea, 2001) e sulla crescita economica. Ciascuna di esse, inoltre, corrisponde ad aree o frazioni della sovranità degli Stati e dell’Unione: sovranità economica in senso stretto, sovranità monetaria, sovranità finanziaria (o di bilancio); mentre nel primo caso e nel terzo esiste un grado di condivisione in forma sussidiaria con gli Stati membri, nel secondo caso è espiantata, cioè interamente traslata sul livello europeo, in un contesto non raggiungibile dagli Stati membri, né manipolabile da Consiglio o Commissione e tanto meno dalle istituzioni parlamentari. Su questo punto esistono due diverse impostazioni, una “politica” e una “tecnica” (Randzio-Plath, Padoa-Schioppa, 2000). La seconda ha più forza materiale, essendo ormai da tempo le Banche centrali nazionali organismi “funzionalmente europei”, innestati nel Sistema europeo delle Banche centrali (SEBC), e la Banca centrale europea (BCE) istituzione «pienamente» indipendente dalle Istituzioni europee (Cassese, 2001, p. 918 s.). A stretto rigore, alla sovranità monetaria non si può applicare il modello della multilevel governance; per l’Eurozona ciò vale anche sul piano formale, mentre per gli Stati opt-out si possono ipotizzare effetti equivalenti sul piano materiale (Di Plinio, 2003). La costituzione economica europea influisce, in forme e livelli di intensità differenti, sulle costituzioni economiche degli Stati membri, collegando i due livelli di governance e creando continuità fra essi secondo una linea progressiva di sviluppo storico. Al processo di comunitarizzazione del controllo sul mercato unico si è sommato, in pochi anni, l’effetto esplosivo della nuova costituzione monetaria europea, che ha accentuato e accelerato le trasformazioni, ha elevato l’equilibrio monetario e il pareggio tendenziale di bilancio a livello di valori costituzionali primari, ha sottratto agli Stati la sovranità monetaria e quella di bilancio, ha escluso la finanziabilità della politica economica con la manovra monetaria (Ortino, 1995), ha agganciato la spesa pubblica e le grandezze macroeconomiche ad un elemento quantitativo, il prodotto interno lordo, ha riconfigurato gli ordinamenti economici nazionali in funzione di coerenza con la moneta unica e ha costituzionalizzato l’obbligo di rientro e di produttività della spesa pubblica, a livello sia nazionale che europeo, nel senso che solo se la spesa avrà effetti di allargamento del prodotto interno lordo sarà giuridicamente possibile, nel bilancio degli Stati come in quello dell’Unione, finanziare incrementi di spesa in valore assoluto. Anche se saranno necessarie ulteriori riforme, specie in materia di mercati finanziari e sistemi di pagamento (Gjersem, 2003; Merusi, 2001; Avgerinos, 2003), la stabilità monetaria e finanziaria è comunque divenuta il fondamento della costituzione economica; la sovranità economica degli Stati è stata conseguentemente accerchiata da un contesto di rigidi vincoli macroeconomici e di bilancio riconducibili ai principi funzionalisti dei primi articoli del Trattato, vincolanti non solo per gli Stati ma anche per la Comunità (Padoa Schioppa, 1997, p. 43; Cassese, 2001, p. 217), e funzionali alla protezione e al rafforzamento dell’equilibrio economico complessivo. Tutto questo ha una serie di effetti di ritorno sulle costituzioni economiche nazionali e sugli altri segmenti della costituzione economica europea. In primo luogo, risulta costituzionalizzato il principio del condizionamento finanziario della spesa pubblica, compresa quella per welfare e diritti (e dei corrispondenti livelli di burocrazia e di servizio pubblico erogato dalle pubbliche amministrazioni). Un ulteriore effetto è quello del trasferimento sulle amministrazioni e sui procedimenti amministrativi e, a ritroso, sulla produzione normativa, del vincolo di produttività della spesa pubblica. L’Europa ha da tempo sviluppato interesse in questa direzione, perché consente una migliore attuazione delle regole del mercato unico, in particolare in relazione ai contratti delle pubbliche amministrazioni; tutti gli Stati hanno introdotto riforme fondate su programmazione di bilancio, piani esecutivi e controlli di gestione, le quali, a catena, hanno coinvolto anche i regimi organizzativi delle amministrazioni, mediante la riunificazione in capo a centri di spesa di budget, obiettivi, competenze e responsabilità direttamente collegate alla performance della gestione. In secondo luogo, si sviluppa una pressione che mira a una riduzione netta in termini assoluti della dimensione delle pubbliche amministrazioni; la tendenza, per effetto della traslazione del vincolo di stabilità ai vari livelli territoriali di governo, si trasferisce anche a questi, accentuando competizione territoriale e federalismo fiscale (Atripaldi e Bifulco, 2001). Ciò colpisce direttamente gli apparati amministrativi, compresi gli apparati di regolamentazione, e la proprietà pubblica, ed è direttamente causa di privatizzazioni (anche nel diritto del lavoro pubblico), di liberalizzazioni, e di deregolamentazione (Di Plinio, 2000). L’approccio formalista nella spiegazione di questi processi porta a risultati deludenti, perché rende invisibile l’azione di fenomeni oggettivi di dimensione ultrastatale. L’accelerazione delle trasformazioni nel governo dell’economia, in particolare in materia di mercato, finanza pubblica e moneta, non deriva infatti da azioni coscienti e premeditate di poteri mondiali occulti o palesi finalizzate a usurpare la sovranità degli Stati nazionali, ma da cascate di eventi in larga misura oggettivi e incontrollabili (in senso critico: Silverstein, 2003). In questa ottica le dislocazioni transnazionali della sovranità monetaria e finanziaria possono essere viste come risposte obbligate alle crisi economiche, monetarie, finanziarie e fiscali degli Stati interventisti, innestate dai processi di globalizzazione dell’economia (Stiglitz, 2002). Se si accetta questo punto di vista, la traslazione di sovranità verso l’Europa o altri poteri ultrastatali non è un aspetto della globalizzazione, ma è la risposta ad essa (Habermas, 1999; Cassese, 2002), così come il dominio della costituzione economica europea sulle costituzioni nazionali non è un effetto oggettivo e ineluttabile ma la migliore difesa degli Stati membri contro i rischi della globalizzazione. Ciò consente di fondare una teoria della costituzione economica europea indipendentemente dalla formalizzazione di una costituzione europea. Le regole che la Comunità europea e l’Unione economica e monetaria stabiliscono per i governi nazionali dell’economia esistevano, sotto forma di imperativi economici, prima che i Trattati le formalizzassero: allargamento e liberalizzazione del mercato, denazionalizzazione, privatizzazioni, deregulation, stabilità finanziaria, equilibrio monetario, criteri di convergenza hanno il fondamento comune in un processo che riduce i margini di manovra degli Stati (Baldassarre, 2003) e dell’intervento dei pubblici poteri nazionali nell’economia provocando la crisi delle «costituzioni keynesiane» (Buchanan e Wagner, 1991), condizionandole a regole materiali e esigenze oggettive, quali il principio del un mercato uniforme e senza discriminazioni (Cassese, 2001), o il rispetto di equazioni parametriche, espresse in funzione della ricchezza effettivamente prodotta. L’alternativa è la crisi fiscale, con la conseguente perdita di identità, ricchezza, sovranità. Secondo Giuseppe Guarino (1992) il percorso obbligato per fronteggiare questo tipo di crisi passa per Unione economica e moneta unica. Il nucleo fondante di tali regole non è determinato da nessuno, il loro contenuto non è influenzabile dai pubblici poteri; la teoria giuridica dell’indirizzo politico statuale ne risulta stravolta. Il processo ridimensiona e rialloca le funzioni pubbliche, separa il controllo della moneta dalla politica economica, riconfigura le regole della finanza, obbliga i pubblici poteri a metamorfosi radicali, soggettive e oggettive, depotenzia le dottrine giuridiche e le obbliga a riconvertirsi, modernizza le amministrazioni, ne impone la produttività e ne razionalizza la spesa, decentra la fiscalità e innesta la competizione dei territori e delle istituzioni, è incompatibile con inefficienza e corruzione dei funzionari, smantella e ristruttura i processi di regolazione, sposta e riduce i confini economici dello Stato, espande le libertà del mercato e la concorrenza. In tale ottica, l’affermazione che nel dominio transnazionale la sovranità appartiene al mercato (Guarino,1999) ha il senso più di processo di oggettivizzazione della decisione economica pubblica che di traslazione della sovranità dallo Stato ad altri “soggetti”. Attraverso questa chiave di lettura, la globalizzazione si traduce in una forza materiale di trasformazione delle costituzioni economiche e di convergenza dei modelli costituzionali; questa forza viaggia da sola, e nessun atto di volontà è in grado di invertirne la direzione. 2. – La costituzione economica nel progetto di Trattato costituzionale: revisione o maquillage? Le suddette considerazioni spiegano le ragioni per le quali anche se un Trattato costituzionale non sarà approvato l’Europa continuerà comunque a fondarsi su una solida costituzione economica; per le stesse ragioni, il progetto non introduce una “nuova” costituzione economica, né una revisione della precedente. Il preesistente ordinamento di moneta, finanza e mercato, compresi i relativi effetti sulle strutture costituzionali degli Stati membri, e il relativo modello di governance, transitano senza modificazioni di sostanza nel nuovo contesto giuridico. Di conseguenza, il progetto si presenta, quanto al governo dell’economia, come una sorta di testo unico delle disposizioni dei precedenti Trattati, rispetto ai quali apporta semplificazioni e razionalizzazioni, ma non cambiamenti di rilievo. Alcune delle innovazioni introdotte nel progetto riflettono le Propositions conjointes franco-allemandes sur la gouvernance économique, (CONV 470/02, CONTRIB 180), presentate alla Convenzione il 22 dicembre 2002. Rinviando ai successivi paragrafi un esame più dettagliato delle varie articolazioni della costituzione economica, conviene in questa sede procedere a un rapido esame del contesto generale, al fine di verificare se il progetto introduce rotture, blocchi o inversioni negli ingredienti principali che hanno consentito nel corso del tempo il processo di solidificazione della costituzione economica europea: alludo alla studiatissima serie di meccanismi, strutture e contesti che ruotano intorno alla configurazione transnazionale di Commissione e Corte di giustizia (Pernice, 2003), vale a dire i “colli di bottiglia” attraverso cui è passato il processo di integrazione comunitaria. Fin dalla prima occhiata, emerge che tali ingredienti sono tutt’altro che devitalizzati; essi sono infatti rafforzati (quelli già formalizzati nei Trattati), o traslati e quindi protetti in regole formali (quelli generati dal law in action). Ciò vale, in primo luogo, per le Istituzioni a derivazione transnazionale. La posizione costituzionale della Corte di giustizia è assolutamente conservata, incastonata ora nel contesto del «giudiziario europeo» con qualche asimmetria istituzionale, com’è conservata e rafforzata la natura di “signora” del diritto europeo (art. I-28, par. 1) nel suo collegamento con le giurisdizioni nazionali, che ora viene implicitamente istituzionalizzato attraverso la conferma della qualità dei giudici nazionali come giudici comuni europei (Chiti, 2003, p. 140 s.; Curti Gialdino, 2003, p. 60). Il ruolo della Commissione è stato potenziato, sia come istituzione indipendente che come potere propulsivo (Curti Gialdino, p. 57 s., 82; Carbone, Gianniti e Pinelli, 2003). Nell’ambito del tradizionale compito di watchdog dei Trattati, sono conservati alla Commissione i poteri di sorveglianza sull’applicazione del diritto europeo e di esecuzione del bilancio, le funzioni di coordinamento e gestione, la rappresentanza esterna dell’Unione (art. I-25, par. 1); ad essi si aggiungono la formalizzazione di un potere generale di esecuzione degli atti obbligatori dell’Unione, se questi prevedono l’esecuzione da parte dell’Unione (art. I-36, par. 2), il conferimento dei poteri di iniziativa dei programmi finalizzati alla conclusione di accordi interistituzionali (art. I-25, par. 1), l’allargamento del potere esclusivo di proposta dagli atti del Consiglio (art. 250 CE) agli “atti legislativi” (art. I-25, par. 2), il conferimento dell’autonomo potere di trasmettere un proprio parere allo Stato membro per il quale essa ravvisi un rischio di disavanzo eccessivo e del potere di proposta nella decisione del Consiglio che constata l’esistenza di un disavanzo eccessivo, ovviamente non esteso alla decisione di applicazione delle sanzioni (art. III-76, par. 5 e 6). In secondo luogo, il progetto di costituzione acquisisce e valorizza tutti gli elementi attraverso cui il metodo transnazionale comunitario ha acquistato nel tempo il suo dinamismo, in particolare mediante la costituzionalizzazione formale del principio di prevalenza del diritto comunitario sui diritti nazionali (art. I-10), e la riproduzione della clausola dei poteri impliciti, sotto il nome di clausola di flessibilità, spostata ora tra i principi fondamentali (art. I-17). Non mi pare che la formulazione della norma, sebbene introduca passaggi aggiuntivi ed elementi di bilanciamento, sia tale da escludere (come sostiene Curti Gialdino, 2003, p. 45 s.) che con essa si possa realizzare un’ampia integrazione. Come nell’attuale art. 308 CE è necessaria l’unanimità del Consiglio, su proposta della Commissione. La novità è nella incomprensibile “previa approvazione” del Parlamento europeo, che tuttavia non dovrebbe essere difficile da ottenere, e nella più giustificata attivazione dell’allarme preventivo ai Parlamenti nazionali per il controllo sulla sussidiarietà, ma i conflitti relativi saranno comunque decisi dalla Corte di giustizia. D’altra parte, almeno per ora, nel governo dell’economia al livello europeo esiste già un esteso e compatto quadro di competenze. In particolare, è riaffermato l’approccio funzionalista, come si può argomentare dalla formulazione a cascata degli obiettivi dell’Unione (art. I-3). Infatti, dal punto di vista della costituzione economica europea, appare conservata e valorizzata l’esigenza che i processi decisionali siano orientati e misurati non sulle sommatorie degli indirizzi politici nazionali, ma sulla prevalenza dell’obiettivo transnazionale dell’Unione, che non è più soltanto la costruzione del mercato unico, ma la sua conservazione (art. I-3, par. 2), attraverso la funzionalizzazione degli strumenti e delle competenze ad un nucleo di obiettivi, fondato sulla stabilità delle determinanti monetarie e macroeconomiche (sviluppo equilibrato e sostenibile), e su una economia sociale di mercato «fortemente competitiva», come si afferma in apertura del par. 3 dell’art. I-3. È ovvio che solo attraverso la solidità di tali contesti potranno essere garantiti gli altri obiettivi di piena occupazione e alla crescita sociale welfare, espressamente richiamati nei capoversi successivi dello stesso paragrafo, e la stessa struttura del sistema dei diritti della Carta di Nizza (Corcuera Atienza, 2002; Freixes Sanjuán y Remotti Carbonell, 2002), transitato nella seconda parte del progetto, al quale va data un’interpretazione funzionalista, non solo in relazione alla sua effettività (Chiti, 2002), ma quale icona standardizzata dei diritti, compatibile con mercato unico e concorrenza, che funziona da interfaccia del funzionalismo nel processo di allargamento dell'Unione (Di Plinio, 2001). Una differente interpretazione (Pinelli, 2003, p. 33-34) legge nella formulazione dell’art. I-1, par. 1, la fine del dinamismo funzionalista. A chi scrive sembra che la riconduzione a unità dei «pilastri», nel quadro di una attribuzione armonica di «competenze» da condurre con il «modello comunitario» (art. I-1, par. 1) non intenda affatto cancellare la metodologia funzionalista di Commissione e Corte di giustizia: supremazia del diritto comunitario, allargamento del metodo comunitario e conservazione della clausola dei poteri impliciti ne sono diretta conferma. Sarebbe, ad esempio, davvero arduo immaginare che la Corte possa giudicare sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità senza utilizzare un core transnazionale di finalità nella valutazione dei contesti specifici. Che poi il modello comunitario riguardi «l’esercizio» e non «l’attribuzione» delle competenze è del tutto ovvio, ed è precisamente la situazione rilevabile dai Trattati attualmente vigenti, ma, come è avvenuto nell’applicazione di questi ultimi, non impedirà alla meccanica funzionalista di svilupparsi ancora. D’altra parte la sovranità è «una risultante storica, destinata a mutare con il variare della forza dei diversi fattori che, di volta in volta, entrano in gioco», per cui occorre «spostare l’attenzione dell’interprete dal tema astratto della titolarità a quello concreto dell’esercizio dei poteri sovrani» (Cheli, 1997, p. 11). È in questa ottica che l’art. III-1 del progetto attribuisce all’Unione il compito di assicurare la coerenza dell’intera funzione di governo descritta nelle sue componenti nella parte III, «tenendo conto dell’insieme degli obiettivi dell’Unione e in conformità del principio di attribuzione delle competenze»; l’implicito rinvio all’art. I-1 evidenzia ancora la necessità del «modello comunitario» nell’esercizio delle suddette funzioni. In aggiunta, l’art. III-6 specifica che le condizioni di funzionamento dei servizi di interesse economico generale sono «segnatamente economiche e finanziarie», come definite da apposita legge europea, fatte salve, ovviamente, le regole in materia di aiuti concessi dagli Stati membri (art. III.55, III.56, III-136). Ciò significa che, al di fuori del campo di applicazione di queste regole, Stati e Unione hanno il compito di incentivare il più possibile l’allargamento dei servizi di interesse economico generale, rimanendo tuttavia sempre all’interno sia della sostenibilità economico-finanziaria degli interventi in rapporto ai principi di stabilità finanziaria e monetaria dell’Unione e degli Stati membri, sia del rispetto delle condizioni di concorrenza nel mercato interno. Non a caso l’art. III-17 prevede una procedura di cautela per il controllo sugli effetti delle disposizioni adottate dagli Stati in applicazione dell’art. III.6 e il ricorso diretto (in deroga agli art. III.265 e III.266) alla Corte di giustizia (che giudica a porte chiuse), da parte della Commissione o degli altri Stati membri contro «l’uso abusivo» dei poteri contemplati dall’art. III-6. 3. – La costituzione del mercato e della concorrenza. All’interno del quadro descritto, la formulazione dei principi della concorrenza per il mercato interno, così come la politica commerciale comune e l’unione doganale, restano legate, nell’architettura del progetto, all’acquis comunitario, che viene interamente costituzionalizzato, e affidate alla competenza esclusiva dell’Unione (art. I-4, I-12, par. 1), mentre le funzioni materiali in ordine al mercato interno sono comprese nella competenza concorrente (art. I-13, par. 2); quanto al governo e ai controlli, le suddette competenze restano nelle mani della Commissione, che risulta addirittura rafforzata. Il progetto considera il mercato interno una struttura centrale della costituzione europea, come può argomentarsi dal richiamo alla giurisprudenza della Corte di giustizia quale «fonte di interpretazione» del diritto, nel quadro dei principi della continuità giuridica della futura Unione europea rispetto agli ordinamenti attuali (art. IV-1). Curti Gialdino (2003, p. 80), evidenzia la scelta del progetto di accorpare le varie norme in materia e collocarle in apertura del titolo III, ma anche altre innovazioni proposte dalla Convenzione rafforzano la compattezza della disciplina del mercato interno, riconducendo ad esempio all’interno della procedura legislativa ordinaria le regole in tema di sicurezza sociale /art. III-22), le deroghe alla libertà di stabilimento delle imprese (art. III-24), l’accesso alle attività di lavoro autonomo e il riconoscimento dei diplomi (III-26), la libertà di circolazione dei servizi (art. III-29). Il gruppo Governance economica, nella sua relazione finale alla Convenzione, aveva suggerito l’adozione del metodo comunitario (voto a maggioranza qualificata nel Consiglio) per le misure concernenti il mercato interno o la tutela ambientale, da individuare in un apposito elenco (cfr. Relazione finale del Gruppo VI “Governance economica”, CONV 357/02, WG VI 17, del 21 ottobre 2002); tuttavia il progetto conserva il metodo intergovernativo (voto all’unanimità del Consiglio dei ministri, previa consultazione del Parlamento europeo e del Comitato economico e sociale), per gli atti normativi di ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri (art. III-64). Rinviando ai paragrafi successivi la trattazione di alcuni aspetti della costituzione monetaria e finanziaria rilevanti anche per l’ordinamento del mercato, possiamo qui rapidamente osservare che l’impianto della Carta dei diritti nel progetto non dovrebbe avere effetti di rilievo sui principi chiave e sui fondamenti della vigente costituzione economica europea, in particolare su mercato, concorrenza e libertà comunitarie, per tre ordini di ragioni. In primo luogo la Carta è complessivamente arretrata rispetto ai principi comuni delle costituzioni nazionali (De Siervo, 2001, p. 157) e ai modelli di protezione elaborati dalle Corti costituzionali e dalla stessa Corte di giustizia (Pagano, 2001, p. 180 s.); di conseguenza, essa non avrà un impatto economico sensibile. In secondo luogo, la Carta è già orientata al mercato: la struttura e i contenuti delle sue disposizioni ne rispecchiano i valori e ne presuppongono il pieno vigore (Di Plinio, 2001), e, a differenza di alcune costituzioni nazionali, le libertà economiche classiche sono elencate insieme agli altri diritti fondamentali (art. II-16 e II-17); lo stesso Preambolo della Carta ricorda puntualmente che l’Unione «si sforza di promuovere uno sviluppo equilibrato e sostenibile e assicura la libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali nonché la libertà di stabilimento», e l’art. II-52, par. 1, nel sottoporre le limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà al rispetto del principio di proporzionalità, afferma che esse sono ammesse solo se sono effettivamente necessarie per proteggere i diritti altrui o «finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione». In terzo luogo, la Carta è e sarà interpretata dalla Corte di giustizia, che è stata il motore della difesa e dello sviluppo della missione funzionalista dell’Unione, e il completamento della costituzione materiale europea sul versante dei diritti passerà senza problemi per la via giurisdizionale (Toniatti, 2001). 4. – La costituzione monetaria. La struttura del governo della moneta resta fondata sul modello precedente (Zsolt De Sousa, 2003): la competenza esclusiva dell’Unione per la politica monetaria (art. I-12, par.1, I-29, III-88 ss.) è affidata al Sistema europeo delle Banche centrali (SEBC) degli Stati membri che hanno adottato l’Euro e alla BCE (cui è attribuito il potere esclusivo di emissione), mentre le funzioni europee relative anche agli Stati opting out sono circoscritte al coordinamento generale delle politiche (art. I-14, par. 1), compresi i contesti e gli strumenti della politica monetaria, fatte salve le deroghe previste nell’art. III-91. Una significativa innovazione rispetto alla costituzione monetaria vigente è l’aggiunta di una apposita sezione sugli Stati appartenenti a Eurolandia, che formalizza il Consiglio dei ministri finanziari della zona euro (sezione 3 bis: «Disposizioni specifiche agli Stati membri appartenenti alla zona euro»; per altri dettagli v. infra, § 5). Una questione riguarda l’inquadramento formale delle Istituzioni monetarie nel contesto organizzativo costituzionale. L’esclusione della BCE dal «quadro istituzionale unico» (art. I-16) e la sua collocazione nel capo II della parte I, rubricato «Altre istituzioni e organi» (art. I-29) ha sollevato giustificati rilievi critici (Carbone, Gianniti e Pinelliì, 2003, p. 97), difficilmente superabili con la considerazione che le ragioni dell’esclusione (che comprende anche la Corte dei conti) vanno ricercate nella natura prevalentemente tecnica, piuttosto che politica o di garanzia, del ruolo di tali Istituzioni (Curti Gialdino, 2003, p. 63). E un’altra piccola “dimenticanza” terminologica del progetto attribuisce «piena» indipendenza alla Commissione e ai membri della Corte dei conti, ma qualifica la BCE istituzione «indipendente» e non «pienamente indipendente». In realtà non si tratta di una mera questione terminologica. Non a caso la Banca centrale europea, nel parere ufficialmente reso al Consiglio sul Trattato Costituzionale, sottolinea con molta cura che «La BCE nota di essere stata definita nell'articolo I-29, par. 3, come indipendente mentre l'espressione pienamente indipendente viene utilizzata in relazione sia alla Commissione (articolo I-25, par. 4) sia alla Corte dei Conti (articolo I-30, paragrafo 3). La BCE intende che la differenza nella terminologia sia di natura meramente linguistica, senza che ciò rifletta alcuna divergenza qualitativa tra l'indipendenza di tali istituzioni e quella riconosciuta alla BCE; tuttavia, per ragioni di coerenza, essa suggerisce che tali espressioni vengano utilizzate in maniera uniforme» (Parere BCE, del 19 settembre 2003, su richiesta del Consiglio dell'Unione europea, relativo al progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l'Europa, CON/2003/20, in G.U.C.E., C 229, del 25-9-2003, p. 9). Quanto sopra spiega perché la BCE afferma, con estrema attenzione alle parole, che la sua valutazione del progetto «si basa su due premesse cruciali e correlate fra loro. In primo luogo, la sostanza dello statuto e degli altri protocolli di interesse per la UEM non verrà modificata e tali documenti saranno allegati alla costituzione, della quale costituiranno parte integrante, come previsto nell'art. IV-6. In secondo luogo è tutte le parti del progetto di costituzione, compreso lo statuto e gli altri protocolli di interesse per la UEM, manterranno il proprio valore di normativa primaria, ad esempio un livello gerarchico pari a quello delle altre parti del trattato» (parere BCE, del 19-9-2003, cit., p. 7.) È evidente che, nella costituzione economica europea, dimensione, potenza e incidenza economica di queste due figure sono profondamente differenziati: la Corte dei conti, per quanto neutrale e indipendente, è organismo strumentale, mentre la BCE costituisce il vertice della sovranità monetaria unica dell’Unione europea. Sotto questo profilo si può notare che l’articolo I-29 costituzionalizza tutte le caratteristiche sostanziali della BCE, in particolare l’indipendenza, l’autonomia finanziaria, la personalità giuridica e la capacità regolamentare, compreso il potere di emanare atti giuridicamente vincolanti; conseguentemente deve ritenersi che la costituzione monetaria precedente sia stata interamente recepita, nella sostanza, dal progetto (Carbone, Gianniti e Pinelli, 2003, p. 131). Il dibattito su cosa vada o non vada scritto sul progetto è pertanto una questione di parole. Tuttavia, le parole a volte uccidono, e si può allora comprendere la ragione per cui la BCE propone che la rubrica del titolo IV della parte I del progetto venga modificata in «Assetto istituzionale dell'Unione», abbracciando quindi l'insieme degli organismi istituzionali, cioè le istituzioni dell'Unione, nel capo I, e BCE, Corte dei Conti e organi consultivi nel capo II. La rubrica del capo I dovrebbe essere modificata in «Istituzioni dell'Unione», coerentemente con il titolo dell'art. I-18. Con tali modifiche, la BCE farebbe parte dell'«assetto istituzionale dell'Unione» senza essere compresa tra le «istituzioni dell'Unione», ma anche queste farebbero naturalmente parte dell'«assetto istituzionale dell'Unione». La BCE suggerisce inoltre che il SEBC, inteso come e «Eurosistema», sia formalmente esplicitato e incluso nel contesto dell’art. I-29; infine, anche il principio di indipendenza delle Banche centrali nazionali dovrebbe trovare collocazione nella parte I del progetto (parere BCE, del 19-9-2003, cit, p. 8). Le modifiche proposte sono le seguenti: a) nell'art. I-29, par. 1, la seconda frase dovrebbe essere così sostituita: «La Banca centrale europea e le banche centrali nazionali degli Stati membri che hanno adottato la valuta dell'Unione, denominata euro, costituiscono l'Eurosistema. L'Eurosistema conduce la politica monetaria dell'Unione» (ovviamente sarà anche necessaria una disposizione generale che indichi che il SEBC deve essere letto come «Eurosistema» ogni qualvolta vi siano riferimenti alle funzioni relative all'euro o agli Stati membri che hanno adottato l'euro); b) nell’art. I-29, par. 3, andrebbero sostituite la prima frase (dalla seguente: «La Banca centrale europea è un'istituzione dotata di capacità giuridica e indipendente nelle sue finanze») e la terza frase (dalla seguente: «Nell'esercizio dei propri poteri e nell'assolvimento dei propri compiti e doveri, la BCE, le banche centrali nazionali nonché ciascun membro dei rispettivi organi decisionali godono di piena indipendenza»). Sovente sono espresse, anche in sedi tecniche, preoccupazioni a causa dell’autonomia dei santuari della moneta; varie teorie della “cospirazione mondiale” sono state elaborate al riguardo (v. ad es. Griffin, 1995); l’onda di attrazione dell’orbita “globale” della BCE potrebbe concludersi con l’espianto definitivo delle Banche centrali dagli Stati, e anche dalla stessa Unione europea (Ortino, 2003, p. 161). Il vero problema, tuttavia, non è se e come combattere tali processi, ma come applicare ad essi i dogmi del costituzionalismo, in particolare la dottrina del potere limitato. La conclusione del caso OLAF mostra che la BCE non è “intoccabile” (cfr. Corte giust., sent. del 10-7-2003, causa C-11/00, Commissione c. BCE, in http:// curia. eu. int / jurisp / cgi-bin / form. pl?lang=it), ma non prova il bisogno di «legittimazione di carattere democratico» della Banca (Malatesta, 2003, p. 84; una discussione sul punto e altre questioni in Leino, 2000), né la supremazia del diritto comunitario derivato sulla BCE (Dutzler, 2001), ma solo l’esigenza di limitazione del potere, cioè di controlli che assicurino la correttezza procedurale delle azioni della BCE e la sua responsabilità per la violazione della costituzione, senza violare la sua indipendenza quanto alla determinazione dei contenuti delle sue decisioni e delle sue competenze materiali, che essa deve scegliere sulla base della propria qualità tecnica, e non su suggerimento o su pressione di altri; in questo senso, il controllo difende l’indipendenza della Banca. Si tratta di un aspetto cruciale nella stessa teoria delle autorità indipendenti, che ovviamente non è possibile approfondire in questa sede. 5. – La costituzione finanziaria. Il coordinamento delle finanze pubbliche e delle politiche economiche degli Stati membri. Nonostante una specifica proposta di adozione di «procedure decisionali che consentano, in particolare, di ravvicinare le aliquote e definire norme minime nei settori dell'imposizione indiretta e della tassazione delle imprese», fatta dal gruppo Governance economica (CONV 357/02, WG VI 17, cit.), l’avvento del modello comunitario in materia di coordinamento delle politiche fiscali nazionali è ancora rinviato, a causa della ferma opposizione dei rappresentanti del Regno Unito; l’art. III-62 ribadisce infatti il voto all’unanimità del Consiglio dei ministri, previa consultazione del Parlamento europeo, per gli atti normativi di armonizzazione e ravvicinamento delle legislazioni fiscali degli Stati membri; in materia di imposte dirette e di imposta sul reddito delle società, tuttavia, il Consiglio, all’unanimità può decidere di passare alla maggioranza qualificata, ma solo per l’approvazione di misure su cooperazione amministrativa e repressione dell’evasione e delle frodi fiscali. I vincoli di Maastricht sono interamente trasferiti nel progetto: a) il principio dello sviluppo equilibrato e della crescita sostenibile, conformemente ai principi di una economia di mercato aperta e in libera concorrenza (art. I-3, par. 3; art. III-69) ; b) il principio del coordinamento europeo delle politiche economiche nazionali (art. III-69, par. 1, art. III-70 e ss.); c) il principio dell’unicità della politica monetaria e valutaria (art. III-69, par. 2, art. III-77 e ss.); d) il principio della finanza sana e sostenibile, attuato mediante il divieto di disavanzo pubblico relativamente eccessivo e il tendenziale pareggio o avanzo di bilancio (art. III-76 e Protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi, che sarà sostituito da una legge europea); e) il divieto di indebitamento eccessivo, in proporzione del prodotto interno lordo (art. III-76; Protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi, cit.); f) il principio della incomunicabilità tra politica monetaria e politica economico-finanziaria, che vieta alle banche centrali sia di concedere scoperti di conto o altre facilitazioni ai governi e/o di acquistare titoli di debito pubblico al di fuori del mercato ufficiale, sia di accettare istruzioni dai governi (art. III-73 e III-80; Protocollo sullo Statuto del Sistema europeo delle banche centrali); g) il principio antinflazionistico (art. I-29, III-69, par. 2 e 3, III77); h) il rispetto del Patto di stabilità e crescita (Consiglio europeo di Madrid del 15-16 dicembre 1995; Consiglio europeo di Amsterdam del 17 giugno 1997), in applicazione dell'art. 104 CE (nel progetto, art. III-76). La BCE ha lamentato, nel suo parere del 19 settembre 2003, (cit., p. 9), il mancato inserimento del principio di stabilità nell’art. I-3 del progetto. Ha pertanto suggerito di introdurre, nell'articolo I-3, paragrafo 3, del progetto un riferimento alla «crescita non inflazionistica » come segue: «L'Unione si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa basato su una crescita economica equilibrata e non inflazionistica … ». La preoccupazione appare eccessiva e dettata più da esigenze di visibilità (Curti Gialdino, 2003, p. 83) che di sostanza; in fondo il concetto di «crescita economica equilibrata» contiene un implicito principio di controllo della stabilità dei prezzi. Le recenti tensioni su Patto di stabilità e condizioni parametriche di convergenza, tornate alla ribalta specie dopo le”deviazioni” franco-tedesche del 2002/2003, non hanno avuto riflessi sul progetto. La temperatura sta tuttavia salendo e roventi polemiche investono la rigidità dei vincoli fiscali (una difesa in Strauch e von Hagen, 2001; v. anche Perotti, 2003). Ovviamente il problema si trasferisce al braccio di ferro tra la visione «politica» e la visione «tecnica» del governo dell’economia, ma fino a quando la politica monetaria resta nella sfera di BCE E SEBC è come se il divieto di inflazione fosse scritto in grassetto in tutti gli articoli della costituzione europea. I governi, ovviamente, possono rompere il giocattolo, sfondando i parametri del disavanzo e trincerandosi dietro le necessità sociali e nazionali; una battaglia di questa portata sarebbe, alla lunga, insostenibile per la BCE e le Banche centrali. I governi e le Istituzioni europee, tuttavia, potrebbero pentirsene amaramente. Alcune modifiche delle regole sembrano tuttavia indispensabili, ad esempio applicando il modello britannico (da un lato con il ricorso a maggiori automatismi e ad un organo di verifica costituito da valutatori indipendenti, in modo da eliminare la sfumatura “politica” del controllo della Commissione, e dall’altro mediante l’applicazione della golden rule). Inoltre, si dovrebbe mettere mano al problema delle finanze dei nuovi Stati membri, i cui parametri macroeconomici sono talvolta drammaticamente lontani dalle regole del Patto (Coricelli e Ercolani, 2003) Inoltre, come fermamente chiesto da francesi e tedeschi (cfr. CONV 470/02, CONTRIB 180, cit.), viene formalizzato il Consiglio dei ministri delle finanze dell’eurozona (il c.d. euro-gruppo), con la competenza in materia di misure «per rafforzare il coordinamento» della disciplina di bilancio nei Paesi dell’area e di elaborazione, «per quanto li riguarda» degli orientamenti di specifici di politica economica, purché compatibili con «quelli adottati per l’insieme dell’Unione» (art. III-88). Un protocollo apposito disciplinerà il funzionamento della nuova struttura (art. III-89). Non è invece stata accolta la proposta di istituzionalizzare, sul modello del Monetary Policy Committee introdotto dall’art. 13 del Bank of England Act (Di Plinio, 2003), le riunioni tra l’euro-gruppo e la BCE, e a maggior ragione è stato respinto il tentativo di introdurre forme di reserve powers sulla BCE. L’euro-gruppo potrà anche decidere posizioni comuni per «garantire la posizione dell’euro nel sistema monetario internazionale … e le misure opportune per garantire una rappresentanza unificata nell’ambito delle istituzioni e delle conferenze finanziarie internazionali» (art. III-90), e avrà la rappresentanza dell’Eurozona nelle sedi finanziarie internazionali e nelle relative sedi ufficiali. Gli Stati opt-out avranno pertanto un ulteriore, pressante, motivo per accelerare l’adesione, che si va ad aggiungere alle esclusioni precedenti, elencate nell’art. III-91. L’innovazione, che potrebbe consentire una ulteriore accelerazione nel processo di integrazione, presenta delle inefficienze, legate soprattutto al principio di rotazione della presidenza: in sostanza, non si è arrivati al Ministro del tesoro europeo, a differenza di quanto è avvenuto per gli affari esteri. Tuttavia, la possibilità di affidare presidenza e rappresentanza esterna al membro competente della Commissione europea non è esclusa dal progetto e neppure dal protocollo sul gruppo euro, per cui almeno fino a quando l’opt-out degli Stati in deroga non sarà sciolto, e la struttura si identificherà interamente nel Consiglio dei ministri finanziari (Curti Gialdino, 2003, p. 87). La competenza sulle politiche macroeconomiche nazionali è spalmata sul multilivello, nell’ambito della ripartizione in via concorrente (modello tedesco) e all’interno del sistema di vincoli derivanti dal diritto comunitario, ma viene rafforzato il principio dell’interesse comunitario e del coordinamento nell’ambito del Consiglio (art. I-14). Accogliendo la richiesta del gruppo di lavoro su Europa sociale, gli obiettivi economici e gli obiettivi sociali dell’Unione sono considerati congiuntamente dal progetto (art. I-3, par. 3, I-11, par. 3); anche in relazione a quanto si dirà in seguito (infra, § 7), non si può che condividere l’opinione che in questi delicati argomenti occorra evitare atteggiamenti eccessivamente ideologici (Curti Gialdino, 2003, p. 83): l’idea della indissolubilità delle politiche economiche e sociali è affascinante, ma comporta rischi elevati se non si premettono alcune condizioni materiali, economiche e finanziarie, senza le quali nessuna politica sociale sarà possibile (Tietmeyer, 1996). Non a caso, nella parte III del progetto, «scompare ogni riferimento al sistema di economia sociale di mercato» (Curti Gialdino, 2003, p. 85), e, come visto in precedenza, le oggettività macroeconomiche tornano a prevalere, o meglio a condizionare la finanza dei diritti sociali (ma v. Abramovich e Courtis, 2002). Le misure di coordinamento sono differenziate: mentre per le politiche sociali il coordinamento si effettua mediante interventi soft (art. I-14, par. 4, III-104), e per le politiche occupazionali è previsto lo strumento degli «orientamenti» (art., I-14, par. 3, III-100), in ordine alle politiche macroeconomiche l’Unione dispone degli «indirizzi di massima» e della procedura di sorveglianza multilaterale (art. I-14. par. 1, III-71). A questo riguardo, va rilevato che il gruppo governance economica della Convenzione (CONV 357/02, WG VI 17, cit.) aveva proposto, nell’ambito della distinzione tra politica monetaria europea, competenza esclusiva della Comunità e affidata alla Banca centrale europea, e politica economica, competenza degli Stati membri, un maggiore coordinamento delle politiche economiche di questi ultimi, attraverso appunto la formalizzazione degli indirizzi di massima per le politiche economiche, adottati dal Consiglio dell'Unione europea. Le ulteriori proposte dal gruppo prevedevano: a) avvertimento della Commissione rivolto direttamente allo Stato membro che si discosta da gli indirizzi di massima o in condizioni di disavanzo pubblico eccessivo; b) decisione del Consiglio, su proposta della Commissione, in merito alle misure da adottare; c) coinvolgimento del Parlamento europeo nel metodo di coordinamento aperto, i cui obiettivi, limiti e procedure avrebbero dovuto essere inseriti nel trattato costituzionale. Il progetto accoglie nelle linee generali tale modello, in particolare affidando alla Commissione la potestà di emettere early warnings, ma ne smussa alcuni angoli, evitando di accrescere il ruolo della stessa, alla quale l’art. III-71, par. 2, non attribuisce, come richiesto dal gruppo, un autonomo «potere di proposta», ma solo una potestà di «raccomandazione» relativamente all’avvio della procedura decisionale (maggioranza qualificata, con l’esclusione dal quorum strutturale degli Stati membri interessati, e non come nel regime attuale, all’unanimità) del Consiglio sulle raccomandazioni da indirizzare agli Stati membri le cui politiche deviano dagli indirizzi di massima. Si è così persa l’occasione di trasformare gli indirizzi di massima in un «vero documento di programmazione economica e finanziaria a livello europeo», e di dare alla Commissione un reale potere di monitoraggio sulla loro attuazione. Come si può facilmente arguire, il sistema dei poteri di politica economica e occupazionale manca di alcuni importantissimi strumenti di cui invece dispongono i grandi Stati federali tipo federale; l’Europa è ancora lontana dal disporre di un contesto di regolazioni automatiche e di misure (flessibilità nel mercato del lavoro e nelle politiche fiscali, mobilità del lavoro, mobilità dei capitali, bilancio europeo di dimensioni adeguate) che le consentano di contrastare efficacemente l’eventualità di shock asimmetrici (Kalemli-Ozcan, Sørensen e Yosha, 2003); l’art. III-72 si limita a prevedere che, in caso uno Stato membro si trovi in difficoltà a causa di «calamità naturali o circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo», con decisione europea del Consiglio, su proposta della Commissione, viene concesso «a determinate condizioni» aiuti finanziari europei; si tratta ovviamente di misure quantitativamente irrilevanti, e, d’altra parte, se misure del tipo sono violentemente contestate «dentro» gli Stati, e la richiesta di federalismo fiscale è alta nelle regioni d’Europa, non funzioneranno neanche «tra» gli Stati. Ma il mix di moneta unica e crisi locali è esplosivo; essendo impossibile la svalutazione, il rimedio (se funziona) è dato da flessibilizzazione e deregulation, cioè un mediocre livello di diritti sociali, oppure vincoli di bilancio e parametri rigidi, vale a dire condizionamento finanziario del welfare, che, di fatto, significa comunque un mediocre livello dei diritti sociali. In entrambi i casi, l’unico ingrediente che funziona è la crescita economica, ovviamente sostenibile, che è il vero Holy Graal delle costituzioni economiche del terzo millennio. 6. – Il bilancio dell’Unione. No constitution without budgetary constitution: un evidente motivo di frustrazione della Convenzione è quello di aver lavorato su una Costituzione europea, strutturando polity e competenze, senza aver potuto dire nulla sul bilancio dell’Unione (Guérot, 2003), che sarà riconsiderato, secondo i tempi di Agenda 2000, nel 2006, dalla nuova Europa a venticinque (Seguiti, 2003). Di conseguenza il progetto innova ben poco rispetto all’attuale regime – la cui fonte principale (Colom, 2002) è l’accordo interistituzionale fra il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione, del 6 maggio 1999, sulla disciplina di bilancio e il miglioramento della procedura di bilancio (in G.U.C.E, C 172 del 186-1999) – del quale si limita a costituzionalizzare la sostanza, con qualche innovazione terminologica («quadro finanziario pluriennale» in luogo di «prospettive finanziarie»), e una semplificazione procedurale articolata su tre passaggi: a) la decisione intergovernativa sulle risorse (art. I-53); b) il quadro finanziario pluriennale, deliberato dal Consiglio all’unanimità previa approvazione del Parlamento, che si pronuncia invece a maggioranza qualificata (art. I-54, par. 2, III-308); c) la codecisione, con un parere obbligatorio della Corte dei conti, sulla legge europea di bilancio annuale (art. I55), nel contesto del quadro pluriennale e mediante una procedura più scorrevole e semplificata rispetto alla procedura del Trattato CE (art. III-309 ss.) , e con l’estensione del regime anche alle spese in agricoltura, ma senza novità sostanziali rispetto a quanto può considerarsi già acquisito nella costituzione materiale. Sembra eccessiva l’opinione che il lavoro della Convenzione abbia apportato «modifiche sostanziali … sulle procedure di bilancio e sulle prospettive finanziarie … in senso favorevole al Parlamento europeo» (Carabba, 2003, 159). La posizione del Parlamento, infatti, come pure la dimensione programmatica pluriennale, sono già notevolmente definite nella costituzione materiale, mentre l’abolizione della distinzione tra spese obbligatorie e spese facoltative (già annullata, sotto il profilo procedurale, dall’estensione della concertazione interistituzionale anche alle prime da parte del citato accordo) è una conseguenza necessaria dei processi di riforma della PAC (cfr. G.U.C.E., L 270 del 21-10-2003), che trasferiscono la spesa comunitaria in agricoltura nella gestione ordinaria; neppure costituiscono novità la condizione di specifiche basi giuridiche ai fini dell’esecuzione delle spese (art. I-52, par. 4), già prevista dall’art. 36 del citato accordo interistituzionale, o la formalizzazione del principio di «sana gestione finanziaria» (art. I-52, par. 6), già desumibile dall’attuale ordinamento della Corte dei conti europea (come riconosce lo stesso Carabba, 2003, 159) ed espressamente prevista nel regolamento CE 1605/2002 del Consiglio, del 25-6-2002, che stabilisce il regolamento finanziario applicabile al bilancio generale delle Comunità europee (in G.U.C.E., L 248 del 16-9-2002, 1 ss.). Inoltre, sul versante dell’appropriation, dato che l’art. I-53 del progetto corrisponde integralmente all’attuale art. 269 CE, la posizione del Parlamento europeo non si è allargata di un millimetro, perché la chiave di volta resta il meccanismo strettamente intergovernativo dell’unanimità del Consiglio dei ministri, rafforzato dall’adattamento nazionale, in materia di decisione sulle risorse finanziarie dell’Unione. 7. – L’ombra di Keynes e il futuro della costituzione economica europea. In conclusione, si può considerare verificata l’ipotesi della transizione senza sostanziali cambiamenti della costituzione economica vigente nell’architettura complessiva del progetto. Resta aperto un importante terreno, su cui non è possibile in questa sede approfondire, vale a dire il versante costituzionale “alto” dei diritti sociali e delle funzioni di redistribuzione dei pubblici poteri. La risposta statale ai problemi sociali e strutturali del capitalismo è stata debole e confusa. In tutti gli stati si è assistito all’instaurazione delle «costituzioni keynesiane», a una dilatazione abnorme di trasferimenti, intervento pubblico e apparati, senza che fosse correlativamente e proporzionalmente cresciuta la base produttiva; lo stato sociale, dunque, ha iniziato a finanziare in misura sempre maggiore se stesso, in presenza di una interruzione della funzione di accumulazione. Indipendentemente dalle motivazioni (se il costo politico ed economico derivante dalle istanze dei diritti e della socialità, impedisce l'efficienza economica dell’intervento pubblico) è comunque certo che la produttività in termini di accumulazione non vi è stata, e quindi la razionalità e la legittimazione del disavanzo di bilancio sono venute a cadere, trascinando nel crollo il modello costituzionale keynesiano, e anche lo Stato. La crisi dello stato sociale (De Cabo Martin, 1986; ; García Herrera, 1997) si è presentata a) come crisi fiscale, cioè come “lacuna strutturale” tra le due parti del bilancio, in quanto le spese statali sono aumentate più rapidamente dei mezzi atte a finanziarle (O'Connor, 1971); b) come crisi di razionalità per l'incapacità della forma e della struttura degli apparati pubblici di spesa e di intervento di assicurare la continuità dell'accumulazione, con la conseguenza che lo stato stesso si presenta piuttosto che come controllore, come produttore di crisi di sistema: “essendo stata bloccata e trasformata in un sistematico aggravio eccessivo dei pubblici bilanci, la crisi economica si è spogliata del manto di fatalità sociale naturale. Se il management statale confrontato con la crisi fallisce, esso ricade dietro pretese programmatiche che esso stesso ha fatto valere, e ciò è punito con una sottrazione di legittimazione, sicché il margine di azione si restringe proprio nei momenti in cui dovrebbe essere ampliato” (Habermas, 1975a; Offe, 1977); c) come crisi di legittimazione, perché il corpo sociale interpreta i segni diretti dell'arresto di accumulazione (disoccupazione, caduta della produttività, inefficienza dei servizi) come responsabilità indistinta dei pubblici poteri, e apre un conflitto con le istituzioni dello stato sociale (Habermas, 1973; Id., 1975b). In teoria il sistema avrebbe potuto avviarsi alla pianificazione integrale dell'economia e al socialismo; la condizione di fondo perché ciò potesse avvenire non è politica, né attiene al sistema dei diritti umani e fondamentali, ma è legata alla razionalità: gli apparati pubblici totali avrebbero comunque dovuto assicurare l'accumulazione, anche se l'appropriazione e il controllo del plusvalore sociale sarebbe stato integralmente collettivizzato. Ciò non è storicamente avvenuto né in termini parziali (negli stati a economia “mista”), né in termini totali (nelle economie collettivizzate): nel primo caso le crisi hanno aperto una nuova trasformazione nel governo dell’economia, nel secondo il sistema è storicamente crollato. Una particolare attenzione, tuttavia, va riservata al rilievo che il Krisismanagement dello stato sociale interventista è nato nel novecento come risposta a crisi strutturali profonde e laceranti dell’accumulazione capitalistica, alle crisi di sovrapproduzione e alla separazione tra domanda globale e offerta globale, alla contraddizione di un processo di sviluppo elevato e di una “eccedenza di capitale”, da un lato, e di una immensa quota della popolazione senza reddito, alla quale è precluso il mercato, e della quale il mercato avrebbe un disperato bisogno, in termini di domanda e di sbocchi (sul disegno complessivo di queste problematiche, cfr. Di Plinio, 1998); queste ragioni esistono ancora, anche se assumono oggi, ovviamente, dimensioni e caratteri correlati ai tempi (Allegretti, 2002). Chi si occuperà del Krisismanagement nel terzo millennio? Il nodo da sciogliere è se il processo costituente europeo porti in sé, oltre ad una nuova storica variazione delle forme di potere e ad una stabile macroeconomia politica, anche i germi del governo sociale dell’economia, e sia in grado di assicurare diritti, socialità e redistribuzione accanto alle intoccabili fortezze d’acciaio costituite dal principio di concorrenza, dai parametri di Maastricht e dal Patto di stabilità (Maduro, 1999; Freixes Sanjuán y Remotti Carbonell, 2002) . I difficili sentieri che portano «al termine della notte» nel viaggio dei diritti sociali (prendo la suggestiva immagine da Salazar, 2001) possono intravedersi più nella costituzione materiale europea che nel progetto di Trattato che istituisce una costituzione per l’Europa. Tuttavia, la storia materiale delle costituzioni economiche statali mostra come lo shifting verso la socialità in Europa sia possibile solo a patto di non trasferire gli errori del passato dal livello degli Stati al livello dell’Unione, e di maneggiare con cautela estrema forze immense e delicate, come la moneta, la finanza e il mercato, che possono in ogni momento, se non sono tenute sotto controllo, impazzire, e distruggere in breve tempo quanto si è faticosamente costruito. 8. – Riferimenti bibliografici. ABRAMOVICH, V., COURTIS, C. (2002), Los derechos sociales como derechos exigibles, Madrid, Trotta. ALLEGRETTI, U. (2002), I diritti fondamentali fra tradizione statale e nuovi livelli di potere, in C. De Fiores (cur), Lo stato della democrazia, Milano, Franco Angeli. ATRIPALDI V. e BIFULCO R. (2001), [cur.], Federalismi fiscali e costituzioni, Torino, Giappichelli. 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