Drammaterapia
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Drammaterapia
Drammaterapia Salvo Pitruzzella “Per mezzo dell’atto drammatico - il dare corpo nel qui ed ora a costrutti immaginativi facendoli agire alla presenza di un pubblico –una miriade di possibilità viene portata alla luce, e conseguentemente testimoniata e vissuta.” Roger Grainger “For All Things Exist in the Human Imagination As in your own Bosom you bear your Heaven And Earth, & all you behold, tho it appears Without is Within.” William Blake (Jerusalem) Introduzione: livelli di realtà Una sera d’inverno, trovo i miei due figli, di tre e cinque anni, nascosti sotto le coperte. Si sentono gridolini e risate, e il letto cigola sotto i movimenti di quella piccola massa di bambini ben celata sotto due strati di morbida lana. Quando vedo emergere una testolina, chiedo: “Cosa state facendo?” Risposta: “Stiamo giocando a Pinocchio.” Il gioco, che spesso i bambini fanno, del confrontarsi col buio, con un’esperienza di “discesa nel profondo”, trovava qui un’immagine attraverso la quale esprimersi. L’identificazione con la scena di Pinocchio, forniva una cornice di significato in cui l’azione diventava Erlebnis. È importante, in questa trasformazione, che la storia di Pinocchio sia ricca di temi e motivi di forte carica simbolica e archetipica, ricalcando le strutture del “viaggio dell’eroe”? ( Campbell,1968) Può darsi. L’aspetto però a mio parere più rilevante della faccenda è come l’unione della dimensione corporea ed emotiva con una narrazione-cornice abbia generato una particolare forma di realtà condivisa, consapevolmente diversa dall’altra, dalla realtà quotidiana di là dalla coperta, eppure dotata di senso. È la realtà del gioco, ma anche quella del rito. Ad un esempio tratto dal mondo infantile ricorre Van der Leeuw per spiegare il comportamento rituale: “Per rendersi padrone della vita, per strapparle le possibilità che contiene, è necessario domarla, conformandola ad una condotta fissa. Un bambino di famiglia pietista si divertiva a spingere un carrettino a mano. Poi cominciò a rimproverarsi severamente il gioco colpevole; finalmente tranquillizzò la sua coscienza pensando che il Bambin Gesù stava nel carrettino, da lui portato in giro per far piacere al Signore. Il gioco è diventato rito, il divertimento spontaneo, senza costrizione, ha ceduto il passo al comportamento.” (1956). Aggiungerei che nel suo diventare rito, il gioco è rimasto gioco. La sua strutturazione in significati e in intenzionalità non esclude le caratteristiche fondamentali del gioco: l’essere una speciale sfera d’attività, dotata di sue proprie regole, l’assorbimento del giocatore, la libertà e il disinteresse, la tensione tra ordine e caos (Huizinga, 1939). Il rito costruisce, mediato dal consenso collettivo, un livello di realtà in cui l’identità storica della comunità, il sistema di relazioni che costituisce la società, e la sfera transpersonale, dei valori e delle immagini che trascendono il qui ed ora umano, vengono integrate ad un livello simbolico e messe in forma attraverso l’uso di elementi estetici (corpo e movimento, musica, parola, odori, luci e colori). Questa particolare capacità di istituire uno speciale livello di realtà è comune ad un’altra attività che –insieme al gioco è al rito– accompagna la storia della nostra specie: il teatro; che aggiunge ad essa un’altra caratteristica, quella di essere arte, legata quindi all’insopprimibile bisogno dell’anima umana di esprimersi (quindi di manifestarsi). “Come se” e realtà drammatica Nel teatro, la costruzione di questo livello di realtà è mediata dal “contratto drammatico” stipulato tacitamente tra attori e spettatori: quello che accade non è reale nel senso del linguaggio comune, ma è un’esperienza che ha un valore se deliberatamente mettiamo in atto quella che Coleridge chiamava “la sospensione dell’incredulità” (suspension of disbelief) (Coleridge, 1817), e ci rivolgiamo ad essa come se fosse reale. Nell’accettare questo patto, siamo coinvolti, come spettatori, in un evento che non è una imitazione della realtà, una mimesi, qualità che Aristotele poneva a fondamento dell’arte drammatica, ma qualcosa di profondamente diverso. (Aristotele pensava all’imitazione di una realtà esistente per sé, a differenza di Platone, che riteneva la realtà esterna stessa un’imitazione. Oggi i progressi del pensiero e della stessa scienza ci restituiscono un’immagine più problematica e composta della realtà, fatta di mappe, di livelli, di descrizioni e di cornici, che ci fanno pensare al mondo come ad un insieme d’insiemi di significati, a volte almeno parzialmente sovrapponibili, a volte decisamente incompatibili e incommensurabili). Il teatro è “ciò che avviene tra lo spettatore e l’attore” (Grotowski, 1968).L’evento teatrale è quindi una azione unica e irripetibile, in grado di creare un mondo che, fino al momento in cui sarà distrutto, vive di vita propria. Non è copia ma Doppio, “non di quella realtà quotidiana e diretta di cui è divenuto a poco a poco soltanto la copia inerte, vana quanto edulcorata, -predicava Artaud (1964)- ma di un’altra realtà rischiosa e tipica, dove i princìpi, come i delfini, una volta mostrata la testa, si affrettano a reimmergersi nell’oscurità delle acque”. La possibilità dell’esistenza stessa del teatro è legata alla creazione di un accordo tra attore e spettatore sulla dimensione del come se, accordo che non si può limitare ad una scelta razionale, ma che deve interessare, per essere efficace, l’intera sfera della personalità: le emozioni, la sensibilità e i sentimenti, l’intuizione e l’affetto. Quest’interessamento può avvenire solo in funzione di una disponibilità interiore preesistente, una potenzialità a vivere il come se in quanto modalità esistenziale. In questo senso, il come se “ denota un principio di base della condizione umana: quello della libertà o flessibilità del pensiero, e di conseguenza dell’esperienza”, (Grainger & Duggan, 1997) ed appartiene al sano sviluppo della persona. Per Winnicott (1971) lo spazio potenziale, analogo dell’oggetto transizionale che segna la soglia dell’individuazione insieme alla nascita delle facoltà immaginative, è il luogo in cui il bambino elabora strumenti di trasformazione della realtà attraverso l’immaginazione, ed è al cuore delle possibilità di una vita creativa nell’adulto, contrassegnata da flessibilità del pensiero, humour e senso estetico. Chiameremo realtà drammatica questo particolare livello di realtà che trova esistenza – con sfumature diverse- nel gioco infantile, nel rito, nel teatro. La realtà drammatica, continua Grainger, “è una forma di realtà speciale e protetta in cui è possibile sperimentare”. Ipotesi centrale della Drammaterapia è l' idea che la costruzione di una realtà drammatica condivisa possa facilitare lo sviluppo delle qualità esistenziali ad essa connesse: flessibilità, apertura, immaginazione, in una parola: creatività. Allo stesso tempo costituire un territorio di scambio, in cui è possibile sperimentare ruoli, relazioni, pensieri, emozioni, all' interno della cornice protettiva della "finzione". La chiarezza metacomunicativa del setting teatrale permette l’esplorazione di itinerari pericolosi, con la sicurezza dovuta alla mancanza di conseguenze delle nostre azioni: dopotutto, si tratta solo di un gioco. D’altra parte, la struttura stessa della comunicazione drammatica (che si fonda sul semplice paradigma storia-ruolipresentazione) e l’uso della distanza estetica garantiscono un argine al pericolo di essere travolti dall’emergere del proprio mondo interno. Distanza estetica è il punto di equilibrio tra attore e ruolo, tra l’essere sommersi dalle emozioni ed esserne totalmente distaccati. Ma soprattutto, la realtà drammatica è un luogo in cui fare esperienza dell’essere con l’altro, del con-vivere e del co-esistere. “Il dramma comunica per mezzo della nostra consapevolezza di avere qualche tipo di relazione personale con le persone in scena, alle quali è stata data vita dall’azione dell’immaginazione condivisa che diventa carne nell’evento teatrale.”(Grainger,1995) Sulla scena della Drammaterapia il gruppo condivide la costruzione di mondi, che magari non sono sempre i migliori dei mondi possibili, ma che nascono dai nostri sforzi umani e pertanto sono dotati di calore e di senso. Questo processo di costruzione, che è essenzialmente un processo di gruppo, implica la nascita di un clima di tolleranza e collaborazione, in cui è possibile riconoscersi ed essere riconosciuto senza essere giudicato, che incoraggia la sensibilità empatica del gruppo e consente l’incremento delle capacità di relazione. “La verità –scriveva Gandhi (1973)- risiede in ogni cuore umano, e qui bisogna cercarla; e bisogna lasciarsi guidare dalla verità quale ciascuno la vede”. Il processo empatico è in primo luogo un processo immaginativo. È solo attraverso uno sforzo immaginativo che possiamo “metterci nei panni dell’altro” , vedere le cose dal suo punto di vista e di conseguenza condividere le sue emozioni. È sforzo immaginativo il lavoro dell’attore che, pur sapendo bene che il personaggio che interpreta non è vero nel senso della realtà ordinaria riesce a entrare nelle sue emozioni attraverso le proprie, e dargli carne e sangue e una sorta di Verità, quella che faceva affermare a Stanislavskij “Ci credo!” dinanzi ad una bella interpretazione. È uno sforzo immaginativo quello del bambino che lungo il suo processo di individuazione trasmette parte della propria realtà sull’oggetto transizionale, che diventa l’ospite simbolico di una separazione, consentendo la trasformazione di uno stato fusionale in relazione. L’immaginazione “non è una mera espressione dell’esperienza personale, comoda e a volte autoindulgente; è piuttosto una dimensione della realtà personale e sociale, entrando nella quale sono affrancato dalle preoccupazioni rispetto alle mie azioni e intenzioni, e posso liberamente cercare la completezza di cui ho bisogno e che non posso trovare se non nell’incontro con un’alterità. Il suo ruolo non è quello dell’espressione di sé stessi, ma dell’andare oltre sé stessi per trovare nuove forme dell’essere stesso” (Grainger & Duggan, 1997). Il processo drammatico L’accesso alla realtà drammatica, a questa particolare declinazione esistenziale che è il luogo della possibilità, è al cuore del viaggio trasformativo della Drammaterapia. Per il bambino, il passaggio tra le due realtà è semplice e naturale, ed è facilmente reversibile. Per Sue Jennings il gioco drammatico infantile passa attraverso tre fasi di sviluppo, che evolvono l’una dall’altra, anche se le modalità delle prime due fasi continuano a permanere nella terza. Jennings definisce questo modello Paradigma EPR. Nella prima fase, quella dell’Embodiment (grosso modo corrispondente allo stadio sensomotorio di Piaget), la fisicità nel gioco è predominante. Il bambino esprime la sua esperienza del mondo, quindi primariamente del rapporto con la madre, attraverso il movimento, il tono corporeo e i sensi. Il corpo drammatizza la relazione: il corpo del bambino asseconda la madre che lo culla, ma può anche instaurare una lotta e resisterle. Nella fase P (Projection), il bambino utilizza gli oggetti esterni nella costruzione del suo mondo simbolico, attribuendo ad essi significati metaforici connessi con i suoi processi affettivi e cognitivi. L’oggetto transizionale entra in contatto con altri oggetti simbolici istituendo un universo relazionale: “ Quando il bambino va oltre l’esperienza sensoriale immediata degli oggetti, scenari più complessi iniziano ad emergere, il gatto si sente poco bene, il clown ha fame, la casa della bambola vuole ascoltare una storia, l’orsacchiotto va al mare” (Jennings, 1998). La terza fase –R (Role)– è quella in cui il gioco si fa teatro: il bambino può impersonare l’altro, che può essere reale o fantastico, pur rimanendo sé stesso. Sperimenta il paradosso drammatico, che trascende il principio aristotelico di identità: essere e non essere nello stesso tempo, la “relazione paradossale tra attore e ruolo, tra persona e Persona. Quando un attore, come Vivien Leigh, assume un ruolo, come Rossella O’Hara, è contemporaneamente se stessa (Leigh) e non se stessa (Rossella). Allo stesso modo, un bambino che gioca al dottore è contemporaneamente il bambino (non-dottore) e il dottore (non-bambino).” (Landy, 1995). Il “facciamo finta” crea una cornice teatrale condivisa –in assenza di pubblico– le cui regole possono essere rinegoziate in qualsiasi momento. Allo stesso tempo, il bambino “acquista un nuovo modo di vedere, flessibile e rigido a un tempo, che viene poi tradotto nella vita, quando si accorge che in un certo senso il comportamento può essere legato ad un tipo logico o a uno stile”. (Bateson, 1956) Nell’adolescente e nell’adulto, la capacità di accedere alla realtà drammatica è mediata dal teatro come forma d’arte, che include la rappresentazione, l’accogliere lo sguardo dell’altro come testimone del proprio manifestarsi. Per attivare il processo è necessario riformulare il “contratto drammatico”, che istituisce il livello comunicativo del come se, includendo in esso alcuni elementi che garantiscano la possibilità di muoversi all’interno di esso senza rischio. Insieme a questo, è necessario fondare il gruppo come comunità teatrale, nel senso di facilitare la libera espressione dei partecipanti, la collaborazione e la comunicazione attraverso la grammatica del linguaggio teatrale. Naturalmente, anche la costruzione di questo linguaggio è un processo creativo e relazionale, ed ogni gruppo nel suo insieme crea i propri strumenti a partire dal repertorio espressivo dei singoli membri. Questa fase di Fondazione è particolarmente delicata ed importante: al conduttore vengono richieste doti di facilitatore e di allenatore (trainer); egli deve attivare la sua sensibilità e le sue capacità intuitive ed empatiche, aiutando il gruppo a creare un clima “ad alta temperatura affettiva”, rassicurante e non giudicante. Il primo protagonista di questa fase è il corpo, con il suo potenziale espressivo ed evocativo. La messa in gioco del corpo avvia dei processi comunicativi non verbali nel gruppo, che consentono di stabilire un contatto attivando una rete relazionale: quello che Moreno chiamava tele. “Il tele, scrive Moreno, può essere considerato l’equivalente scientifico dell’Incontro; è il cemento che tiene insieme gli individui e il gruppo. La coesione del gruppo, la reciprocità delle relazioni, la comunicazione e la messa in comune dell’esperienza sono parte integrante o funzione del tele.”(Cit. in Schutzenberger, 1970, che continua: “Il tele ha dunque qualcosa del “sentire con” (insight), del sentire il modo di essere al mondo dell’altro, dell’empatia, della simpatia, dell’intuizione cordiale dell’altro, della comprensione e della valutazione”). La fase della Fondazione parte solitamente da un momento quasi informale di presentazione dei partecipanti, che può strutturarsi in forma ludica. La cornice ludica consente il superamento dell’imbarazzo, e introduce nel gruppo la chiave dell’humour. Ad esso seguono una serie di esercizi di progressivo coinvolgimento fisico ed emozionale, tratti dal repertorio del training dell’attore. Un ruolo particolare in questa fase hanno i “giochi di fiducia”, che diventano metafora vivente del rapporto col gruppo: se posso affidarmi agli altri fisicamente senza temere per la mia incolumità, vuol dire che il gruppo può sostenermi anche dal punto di vista psichico. (Naturalmente, questi giochi vanno proposti con una gradualità che tenga conto della situazione attuale del gruppo, e controbilanci le spinte distruttive). In un gruppo di giovani adulti con problemi di dipendenza, il gioco chiamato “la bottiglia ubriaca” (descritto in Boal, 1992), era consapevolmente diventato il rituale di ingresso per i nuovi membri, un insieme di accoglienza e messa alla prova. Nella fase fondativa si pongono le basi di una ricerca espressiva che prelude alla creazione di un linguaggio teatrale condiviso: esercizi di improvvisazione costruiti intorno alle “circostanze date” (Stanislavskij, 1963) o ai “giochi teatrali” formalizzati da V. Spolin (1963). Si tratta di semplici esercizi di “creazione di mondi”, in cui non vengono richieste prestazioni tecniche di recitazione, ma soprattutto interazione ed ascolto reciproco. È importante sottolineare che i giochi di fondazione non sono soltanto una preparazione alla fase centrale del dramma, una sorta di “costruzione del palcoscenico”, ma sono parte integrante e imprescindibile del processo trasformativo della Drammaterapia. Nel gioco “la paura di essere sorpresi con le difese abbassate e non saper come comportarsi e la difficoltà a partecipare e a lasciarsi coinvolgere, sono superate dalla soddisfazione di avere qualcosa da fare che non è realmente importante (“dopo tutto, è solo un gioco”) e che nessuno fa realmente bene. Se ciò suscita ilarità, ancora meglio. Ad un livello profondo, il gioco serve allo scopo primario della solidarietà umana”. (Grainger, 1995). La fase centrale del processo è quella in cui le immagini prendono corpo, si trasformano in storie e ruoli e trovano un’epifania sulla scena: la fase della Creazione. Questa fase è il cuore del processo drammatico: in essa, la distanza estetica consente di esplorare il mondo delle emozioni, dei sentimenti, dei desideri, confrontandosi con esso all' interno del medium rassicurante della metafora teatrale. Le scene possono avere genesi differenti. Possono essere originate dalla rievocazione di sensazioni, emozioni o temi immaginativi apparsi nel corso della prima fase; dalla comunicazione dei vissuti dei partecipanti relativi al qui ed ora del gruppo o ad eventi della loro vita personale; dallo sviluppo di temi drammatici (situazioni che contengono tensione, conflitto o contrasto) degli esercizi di improvvisazione; da storie raccontate e dal conduttore e dagli altri membri del gruppo; dall’elaborazione di immagini significative riportate dai partecipanti (che possono anche essere immagini letterarie, teatrali o cinematografiche). Possono avere stili diversi: essere scene naturalistiche o stilizzate, comiche o tragiche; presentare storie verosimili o fantastiche; utilizzare la parola o farne decisamente a meno. Possono avere differenti strutture: dal punto di vista della forma dell’improvvisazione, possono essere improvvisazioni strutturate (in cui vengono concordati in anticipo i tre parametri del gioco teatrale Chi-Dove-Cosa), semistrutturate (in cui il Chi e il Dove sono concordati e il Cosa è lasciato libero allo sviluppo spontaneo), impromptu (dove uno solo o addirittura nessuno dei parametri è concordato); possono essere proposte individuali, di coppia, di piccolo gruppo o di grande gruppo; avere un pubblico o non averlo. L’importante è che l’energia del gruppo fluisca all’interno della scena e tra una scena e l’altra, che le scene si susseguano “naturalmente, come i passi di una danza, affinché l’azione drammatica mantenga impeto e significato. Ogni movimento, ogni parola devono sorgere da un’intenzione interiore che rende l’azione significativa e quindi reale per l’attore e per lo spettatore. Se questo obiettivo è chiaro e comprensibile, produrrà un’azione che farà andare avanti il dramma”. (Grainger & Duggan, 1997) In questa fase il gruppo passa dall’atmosfera fusionale che connotava lo spazio ludico ad un momento di ricerca in cui alcuni elementi problematici possono essere affrontati e messi in luce attraverso il contenitore protetto della finzione teatrale. Tale ricerca potrà essere gioiosa e connotata da un’atmosfera allegra e incline al riso, o dolorosa e insidiata dal dubbio e dalla paura. In questo caso il conduttore dovrà praticare delle scelte terapeutiche fondate sulla consapevolezza del percorso del gruppo e degli individui. Potrà intervenire per distanziare, e permettere di guardare alla situazione da un punto di vista emotivamente meno coinvolto, o per intensificare, premere verso una risoluzione catartica che non dovrà in ogni modo rischiare di sopraffare i partecipanti. Per operare queste scelte, il conduttore può giocare diversi ruoli. Può essere regista, intervenendo direttamente sulla struttura drammaturgica della scena, proponendo modifiche, sviluppi, amplificazioni, confronti. Può essere sidecoacher, e suggerire dall’esterno indicazioni sull’azione o sull’interpretazione. Può essere compagno di gioco, portando il suo contributo consapevole e la propria testimonianza diretta all’azione del gruppo. Questi interventi sono suggeriti da una combinazione di analisi razionale, empatia, intuizione. Secondo Sue Jennings, il drammaterapeuta in azione deve essere in grado di gestire quattro “ruoli interni”: il paziente, il terapeuta, il supervisore e l’artista creativo. Questi ruoli devono “essere tenuti in equilibrio, e costantemente nutriti e stimolati. Il paziente interno mette in gioco quegli aspetti di noi che hanno compiuto percorsi simili a quelli dei nostri pazienti. Il terapeuta interno offre l’intera gamma del sapere terapeutico e della intenzionalità. Il supervisore interno è in grado di tirarsi da parte e osservare. L’artista creativo interno include e informa tutti gli altri ruoli: è spesso l’impulso creativo a consentire al supervisore di dare aiuto affinché il dramma proceda, ad orientare il terapeuta rispetto al contenuto e alla struttura del dramma, a entrare in connessione con il paziente interno e trovare vie creative per uscire dalla palude della disperazione”. (1990) La terza fase del processo drammatico, quella della Condivisione, è il momento in cui il gruppo varca la soglia della realtà drammatica in direzione opposta, tornando alla vita quotidiana, metaforizzata dal qui ed ora del gruppo, con un bagaglio di esperienze arricchito o modificato. “Il gruppo celebra il termine del proprio viaggio, ripercorrendone le tappe e condividendone i contenuti a partire dai propri vissuti. A tale scambio emozionale si affiancano una valutazione e una rivisitazione critica delle scene rappresentate a partire dalla riflessione sulla loro efficacia comunicativa. Nella condivisione (lo sharing di Moreno), il gruppo si rinsalda come contenitore affettivo e si legittima sempre di più come luogo in cui è possibile esplorare i conflitti e dare voce, sulla scena, ad emozioni represse e parti di sé in ombra” (Pitruzzella, 1998). Obiettivi e campi di applicazione La Drammaterapia è quindi una terapia creativa, centrata sull’uso artistico dell’immaginazione e sull’uso espressivo del corpo, e in quanto tale fonda i suoi obiettivi di trasformazione e di crescita sul potenziamento delle risorse individuali e delle "parti sane" e sull' espansione delle facoltà creative intese come occasione esistenziale di autocura e di sviluppo armonico della personalità. Si può pertanto affermare che la "teoria della cura" della Drammaterapia sia più vicina ai modelli delle psicologie umanistiche ed esistenziali che a quelli delle psicologie analitiche (cfr. Emunah, 1994; Landy, 1986), sebbene l' attenzione al simbolo come elemento curativo nel pensiero di Jung (soprattutto attraverso l' elaborazione storico-culturale di Campbell) sia molto presente nella riflessione corrente (cfr. Jennnings, & Minde, 1993; Grainger, 1995; Jennings, 1998). Alla persona che accede al processo drammatico, sono offerte diverse possibilità di lavorare su se stesso, con l' aiuto del conduttore e del gruppo. (Vedi schema sotto). Innanzi tutto, nel rapporto con l' altro, reale o immaginario: comunicazione, quindi, e affinamento delle capacità relazionali possono essere obiettivi terapeutici condivisi, raggiungibili in tempi brevi. Il lavoro su ruoli ed emozioni può essere un livello terapeutico più avanzato, che richiede tempi più lunghi e gruppi stabili. Obiettivi generali della Drammaterapia Modalità attraverso le quali il processo drammatico consente di raggiungere gli obiettivi 1. Facilitare il potenziamento delle abilità 1. L' attivazione di processi comunicativi di gruppo, a interpersonali e dell' interazione sociale. partire da un clima affettivo positivo e rassicurante, garantisce a ciascuno di essere riconosciuto e riconoscere l' altro. Il processo creativo che s' instaura apre la possibilità di cooperare all' interno di una progettualità collettiva, che non esclude ma esalta la responsabilità individuale. 2. Facilitare l' espressione e il contenimento delle 2. Il livello metaforico istituito dalla realtà drammatica emozioni, anche attraverso la condivisione in gruppo permette una regolazione degli investimenti emotivi della propria storia personale. nell' espressione, ciò che consente sia un coinvolgimento sia una presa di distanza dal materiale personale evocato nel processo di gruppo. 3. Stimolare le funzioni cognitive, le capacità di 3. attenzione e i processi di simbolizzazione. L' apprendimento e l' affinamento dei codici comunicativi connessi con il contesto drammatico implicano un potenziamento progressivo della concentrazione, dell' attenzione, della capacità di mettere in connessione segni ed eventi. esperienza, 4. Promuovere l' autonomia e la fiducia in sé stessi, 4. La possibilità di "mettersi in gioco" nell' anche attraverso una ridefinizione dell' immagine di quindi di confrontarsi col rischio, pur all' interno di una sé. cornice rassicurante e contenitiva, può condurre ad una crescita della fiducia in sé stessi e negli altri e dell' autostima, e consente, attraverso il "guardare a sé stessi con occhi diversi", di iniziare a lavorare verso una rielaborazione della propria autopercezione. 5. Favorire la scoperta e lo sviluppo delle proprie 5. I processi creativi connessi con l' espressione risorse creative. drammatica aprono le porte alla crescita della creatività personale, che si riflette sull' intera struttura della personalità, implicando una dimensione esistenziale di apertura, di flessibilità, di curiosità. La struttura del processo è comunque sufficientemente duttile da garantire risultati in contesti e setting diversi: la drammaterapia è stata usata con successo nella riabilitazione di soggetti disabili psichici e fisici, nella terapia dei disordini mentali da stress post-traumatico, nel sostegno ai bambini vittime di abusi, nella rieducazione di giovani socialmente devianti, nella riabilitazione di tossicodipendenti e alcolisti. Vi sono comunque dei campi di intervento privilegiati, in cui la specificità della drammaterapia come arte teatrale consente una particolare facilità di approccio ed efficacia terapeutica. Proveremo a descriverne sinteticamente alcuni. 1) Drammaterapia nell’adolescenza: prevenzione e terapia Scrive R. Emunah (1995): “L’adolescenza è uno stadio della vita piuttosto tumultuoso. L’adolescente è assaltato da una serie di cambiamenti che rivoluzionano il suo senso d’identità e lo sfidano ad assolvere compiti evolutivi a molti livelli. Per di più, conflitti irrisolti e pulsioni della prima età della vita riemergono prepotentemente. Molti adolescenti, specialmente quelli che appartengono a situazioni familiari disfunzionali, non sono in grado di gestire positivamente le numerose sfide e reagiscono con comportamenti di acting-out, attività delinquenziali, abuso di sostanze, isolamento, e perfino suicidio.” La “tempestosità” dell’adolescenza non è solo il risultato delle nuove complesse sfide, ma del fatto che impulsi e conflitti irrisolti degli stadi precedenti riemergono e chiedono risoluzione. Insieme a questa, un’altra importante istanza evolutiva contrassegna questa età della vita. “L' identità, scrive Erickson (1968), è un prodotto unico, che ora affronta una crisi risolvibile soltanto attraverso nuove identificazioni con coetanei o con figure-guida all' infuori della famiglia. La ricerca di una nuova eppure attendibile identità forse può essere individuata soprattutto nel continuo sforzo dell' adolescente di definire, ridefinire, superdefinire, ridefinire se stesso e gli altri in confronti spesso crudeli, mentre la ricerca di sicuri orientamenti compare nel continuo tentativo di sperimentare le possibilità più nuove e i valori più antichi.” Quando l’adolescente, per ragioni personali o collettive, non riesce a comporre un equilibrio tra i ruoli disponibili e il loro portato emotivo che lo possa proiettare verso una nuova identità, viene fuori un senso di confusione di ruoli, che lo conduce a volte ad identificarsi in ruoli “estremi” o a vivere questa confusione come disperazione. La drammaterapia, continua R. Emunah, “offre un setting-laboratorio in cui l’adolescente può sperimentare numerosi ruoli, senza impegni a lunga scadenza né conseguenze. In drammaterapia il soggetto non soltanto assume ruoli, ma li può scartare, correggere o trasformare. La forma dell’improvvisazione consente la fluidità dei ruoli, che è un fondamentale aspetto dello sviluppo per l’adolescente. Impegnarsi in un processo di drammaterapia, in cui è possibile impersonare senza abbandonarsi o lasciarsi sommergere da un ruolo, previene una prematura permanente solidificazione dell’identità.” 2 Drammaterapia in ambito psichiatrico Sappiamo che l’esperienza psicotica è qualcosa di estremamente soggettivo: i vissuti della “malattia mentale” sono stati tuttavia spesso descritti come una perdita di contatto con la realtà, un essere tagliato fuori dalla stessa propria esperienza, uno smarrimento della propria identità. La persona può sentire voci, o assumere altre identità, o compiere azioni ed emettere suoni apparentemente insensati. Se tutto questo accadesse su un palcoscenico, non ci darebbe pensiero. Il problema è il fatto che questi fenomeni vengono esperiti come se essi fossero la realtà quotidiana; i confini tra realtà quotidiana e realtà drammatica si sono dissolti, come accade agli attori che sono totalmente immersi nel personaggio. “Le persone descritte come borderline o psicotiche possono anche essere descritte come persone intrappolate nella realtà drammatica. Essi non sono in grado di muoversi liberamente tra l’una e l’altra realtà.” (Jennings 1998) L’aspetto più critico della realtà drammatica che si muove intorno al soggetto psicotico è il suo essere esasperatamente idiosincratica, una fortezza di senso alla quale l’altro ha difficile accesso: un’intrusione dell’altro potrebbe semmai metterla in pericolo scatenando reazioni distruttive e autodistruttive. Il processo drammatico si fonda sull’attraversamento cosciente delle soglie: grazie alla chiarezza metacomunicativa a cui si accennava prima, il soggetto cresce nella consapevolezza della distinzione dei livelli di realtà. La realtà drammatica che si costruisce nel gruppo, per quanto inusitata e bizzarra possa essere, è nondimeno comunicabile, quindi condivisibile: una dimensione relazionale e socialmente mediata. Attraverso di essa, i nuclei esistenziali della persona trovano una possibilità metaforica di manifestarsi, sotto forma di immagini che diventano patrimonio comune, spezzando le catene dell’isolamento e realizzandosi come luoghi dell’incontro. Vorrei concludere questa sezione con una piccola storia. Siamo al quindicesimo incontro di un ciclo annuale di drammaterapia con i pazienti di un day-hospital psichiatrico. Il gruppo è stato fluttuante, anche se un nucleo di quattro-cinque persone è rimasto costante per tutti gli incontri. Tra di essi Rosario, un giovane di ventiquattro anni, di bell’aspetto anche se trasandato e con una atteggiamento del corpo rigido e ripiegato su se stesso. Rosario ha trascorso infanzia e adolescenza tra le mura di un istituto, dove aveva iniziato una brillante carriera sportiva come boxeur, stroncata - pochi anni dopo la sua dimissione dall’istituto - dall’alcol e da una serie di episodi deliranti susseguitisi nel corso degli ultimi anni. Vive da solo con una piccola pensione di invalidità, senza alcun tipo di relazioni sociali. La mattina in questione, noto durante il riscaldamento un’insolita insofferenza da parte di Rosario rispetto al collaborare con gli altri e in generale una certa resistenza alla partecipazione. Quando ci sediamo in cerchio, gli chiedo di pensare ad un’immagine che possa esprimere il suo stato interiore in questo momento. “Mi sento come una bomba, anzi una bomba atomica; mi sento che esploderei e potrei distruggere il mondo intero.” Costruiamo la scena: Rosario sta sull’alto del palcoscenico, pronto a precipitare sul mondo. Gli altri membri del gruppo costruiscono il mondo che sarà distrutto: ciascuno assume un ruolo che gli sembra rappresentativo, e le interazioni sociali cominciano. Rosario sul palco non sa decidersi ad intervenire. Gli chiedo se vuole rinunciare: “No, no, risponde, stavo solo guardano. Adesso esplodo”. Ed effettivamente esplode, ma è un’esplosione così sommessa che il mondo non viene distrutto. Proteste degli altri, che non si sentono motivati all’apocalisse se l’esplosione non è sufficientemente impressionante. Rosario esplode di nuovo: stavolta è un evento travolgente. Tutte le persone vengono fisicamente toccate e muoiono, ciascuna a suo modo. A questo punto, non resta che andare a dare un’occhiata all’aldilà. Ci trasferiamo tutti sul palco, con Rosario in veste di giudice che, dopo un breve colloquio, destina i personaggi all’inferno o al paradiso (com’è facile immaginare, non viene preso in considerazione il purgatorio). A giudizio concluso, la situazione sembra diventare stagnante: il mondo è finito, tutti siamo morti e non stiamo meglio di prima. Rosario, che è stato molto eccitato durante la scena, adesso sembra piuttosto stanco. Sul gruppo cala un momento di perplessità, che viene presto interrotto da un altro paziente, Giacomo: “Perché non facciamo una partita di calcio tra angeli e diavoli?” Giacomo stesso si candida a fare la telecronaca dell’evento, si formano le squadre e la partita inizia. Il gioco dura quasi un quarto d’ora e vede pazienti e operatori impegnati insieme a rincorrere e colpire una palla immaginaria, con l’entusiasmo e il coinvolgimento di un gruppo di ragazzini che ha finalmente trovato un prato dove fare una partitella con gli amici. Senza arbitro, perché Rosario stesso, interpellato da un compagno, risponde che preferisce giocare, e viene cooptato a centro campo dalla squadra dei diavoli. Non ricordo il punteggio della partita, né tantomeno chi abbia vinto; posso solo testimoniare che, a scena conclusa e dopo un breve de-roling, il gruppo ha calorosamente ringraziato Rosario e tutti si sono salutati con straordinario affetto. Lungo la strada del ritorno verso il day-hospital, si passeggiava tranquillamente, chiacchierando di religione e di sport, con Rosario e Giacomo che camminavano a braccetto come vecchi amici. Genesi e sviluppo della Drammaterapia Sebbene abbia radici ideali molto antiche, la Drammaterapia come è conosciuta e praticata oggi non potrebbe esistere senza la seconda rivoluzione teatrale del 900: il lavoro delle avanguardie teatrali degli anni 60 che, nel tentativo di mettere in atto il messaggio di Artaud, demolivano le convenzioni teatrali puntando ad un’essenzialità comunicativa che le metteva nelle condizioni di fare teatro tra la gente, in strada, negli spazi sociali e nelle “istituzioni totali”, nei luoghi di gioia e di dolore e persino sulle barricate. Il teatro tornava ad investire la comunità col suo progetto trasformativo (e, secondo lo spirito di quegli anni, palingenetico). Nello sviluppare questi presupposti etici in percorsi curativi e di benessere, è stato basilare il lavoro dell’inglese Sue Jennings. Attraverso la creazione del Remedial Theatre, ha sancito il passaggio tra la forma teatrale che si piega ad obiettivi terapeutici e/o educativi e l’arte drammatica rinnovata nel suo rinascere nuova in ogni gruppo, terapeutica in quanto creativa. Per lei “Drammaterapia è una forma d’arte e come forma d’arte ha la potenzialità di essere curativa. Ha la potenzialità di consentire alle persone di entrare in contatto con gli aspetti obsoleti del proprio mondo e trasformarli” (1990), definizione che, sebbene alla distanza di quasi dieci anni debba essere integrata da altri aspetti, resta tuttora valida. Il lavoro trentennale di Sue Jennings, nel suo essere eclettico di attrice, terapeuta, educatrice, scrittrice, antropologa, ma soprattutto infaticabile animatrice di incontri e confronti teorici e pratici (cfr. Jennings, S., ed, 1988, 1992, 1997) ha dato uno slancio formidabile non solo alla crescita della ricerca empirica e alla definizione della Drammaterapia in termini di modelli e di statuto epistemologico, ma anche al concreto riconoscimento della professione. Come tutti i grandi precursori, Jennings nel corso della sua ricerca ha elaborato modelli diversi, a volte perfino contraddittori. Un impulso decisivo alla sistematizzazione del modello artistico in Drammaterapia è stato dato da Roger Grainger, ampiamente citato nel corso dei paragrafi precedenti, che fonda il potenziale terapeutico della Drammaterapia sul suo essere teatro, e costruisce un modello complesso che spiega il valore curativo del teatro attraverso paradigmi filosofici e psicologici, e il mondo delle relazioni umane attraverso il teatro. Ulteriori contributi sono stati dati dall’americano Robert Landy con il suo role method , che individua nei ruoli le “particelle elementari” della persona, vedendo quindi principalmente nella Drammaterapia un metodo per intervenire nella ristrutturazione e nell’arricchimento del repertorio di ruoli del paziente. Landy (1993) ha anche elaborato un prezioso strumento di indagine e di intervento, la “Tassonomia dei ruoli”, un inventario organizzato e coerente di ruoli teatrali, scelti tra quelli che si ripresentavano in varie forme nel teatro occidentale – dai greci ai contemporanei – ruoli che si manifestano come tipici o addirittura archetipici. A partire dal consolidamento nei paesi anglosassoni, le idee e la pratica della Drammaterapia si estendevano in Olanda, in Israele e – ovviamente – in Grecia, e si collocavano nella cornice più ampia delle ArtiTerapie (Creative Arts Therapies). In Italia la Drammaterapia è l’ultima arrivata nella famiglia delle ArtiTerapie. Nel nostro paese, i fermenti teatrali degli anni 60 hanno viaggiato in altra direzione. L’animazione teatrale, ad esempio, dopo l’esplosione degli anni 70 ha definito il suo raggio d’azione principalmente in ambito scolastico, diventando da “educazione attraverso il teatro” sempre di più “educazione al teatro”, a volte con risultati egregi, a volte pesantemente schiacciata da vincoli istituzionali. È fiorito il teatro sociale, con compagnie teatrali in cui sono presenti emarginati, disabili, prigionieri, e in alcuni casi, malati di mente, che però tendono a sottolineare, nella maggior parte dei casi la loro stretta appartenenza al mondo del teatro piuttosto che a quello della terapia. È solo negli ultimi anni che professionisti isolati, di provenienza e di formazione diversa, hanno iniziato a muoversi verso la collocazione della Drammaterapia in una dimensione autonoma, di forma artistica intenzionalmente indirizzata ad obiettivi curativi e trasformativi, dotata di propri paradigmi teorici incentrati su concetti drammatici e di un proprio bagaglio di strumenti di osservazione e di intervento legittimati da quei concetti. Sono nate le prime scuole e progetti di ricerca, che però dovranno compiere ancora un percorso di confronto e di approfondimento per integrarsi.