Variazioni sopra un poema vecchio

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Variazioni sopra un poema vecchio
Giovanni Baldaccini
Variazioni sopra un poema vecchio
(W. Turner, 1842)
scrivereperimmagini.wordpress.com
Isola di Ogigia. Data incerta (qui il tempo non esiste). Presumibilmente, tra il 1300 e il 1200
a. C. più o meno qualche ora.
Hanno ammazzato Telemaco. (Da fonte certa: per bocca di Calipso).
Mbé... che ti frega...? (dice) mentre ricavo zattera dal legno. (Occhiatacce di traverso, a volte).
Non dirmi... (ghignando)... davvero partiresti... (assemblo). Tra le stesse occhiatacce di prima
e sudore che inumidisce il sonno.
Poi: bye-bye...
Con vento che si tende nella vela. Senza sguardi all’indietro. E nel rincorrere con asprezza il
tempo che riprende a percuotere le ore dopo anni di malcelata assenza: di nuovo nella guerra.
Per mare: vagabondare acqua.
Con destino d’incertezza sicura, come le ore dove adesso vivo. Cielo s’addensa tiepido
nell’aria tra orizzontali grigioazzurre = nubi.
Spesso ricordi. Come il latte a sera, quando mungo la capra con la mente e gufo canta, nel
ricordo oscuro, mentre la casa chiama.
Girarsi verso lumi appena accesi rassicurando con la voce: vengo. Nella certezza che qualcosa
aspetta. Incamminarsi, calpestando l’erba, mentre scivola il piede sulla terra. E percepisce
ciottoli smussati e steli sotto petali già chiusi. Come la porta dietro le mie spalle. Con occhi
che accarezzano le cose.
Ah ricordare ricordare ancora…!
Alba: orizzontarsi dove non c’è nulla dopo notte di pioggia sulla vela appena schiusa da
respiro lieve. Sogni presso la barra del timone.
Ciao... (sirena a poppa, mezzobusto fuori).
Lo vuoi un granchietto? (Con la fame che ho...). Ma lo nega. Prima mi dai un bacino... E
schiude aguzzi denti nella bocca enorme.
Forse domani.
Perché?
Domani... (con tono adatto a non contrariare).
Col broncio: vabbé ! Ritorno dopo... (Intanto: allontanarsi rapido da lì).
Sveglio d’un tratto: giroguardarsi intorno. Non so più quante volte mi sei sorto davanti la
mattina. Sfumato, sulle prime; dopo intenso. Tra gli azzurri e gli aranci della luce e i gialli
propagati sulle onde. Frammentato di blu. Non puoi bruciarmi altro che le croste.
Diario di bordo.
Con corda che mi scortica le mani: raddrizzare la vela.
Vento vaneggia intorno alla rinfusa = spruzzi (per lo più dritti in faccia). Scivola il legno su
cui vivo tra correnti di mare variegato. Orizzonti incompiuti (come sempre) privi di scogli per
l’acqua che dilaga. Zigzagando in blu.
Strapiomba: cielo (a poppa come a prua). Con cervello a trivella: laggiù, dove diventa uguale,
precipitare a picco? Distrarsi un poco...
In breve, richiamato da annoso gorgoglio qui sotto i piedi. Per cui, inventarsi una rotta. Tra
calcoli furiosi (= ?). In pratica, navigare alla meglio. (Di notte, però, è dura)...
Come di consueto, intrusione di immagini qui a bordo.
Tanti anni fa, vicino casa: onde frugano notte. Sull’altalena. Dèi, come sale...! (Tra venti che
non fanno respirare).
Da nostromo affogato: Duce... sembra che il mare stia salendo a bordo! Mentre tuonacci
vanno a strasciconi, divaricando il nero dentro l’aria. Come se non bastasse,
cannoneggiamento insistente a poppa (che Poseidone ci stia prendendo a calci?)... A galla
ancora poco (temo). Quindi, cantare canzonacce a squarciagola. E sovrastare vento paura
beffe degli dei!
Tra nuvole a casaccio: dove la vita?
Intanto: cielo barcolla resti di fasciami; pesci pescano uccelli dentro l’aria; nave volteggia
onde alla rinfusa.
Con un ultimo schianto: notte di fuga nell’assoluto buio.
Nell’isola incantata. Da Circe.
Voi uomini siete tutti maiali!
(Grugnendo): te ne accorgi adesso?
Non pensate che a quello, quello, quello!
Pensa se non ci pensassimo… sai che fine farebbe il mondo!?
Vabbé! ma troppo monotematici!
Certo, se aspettassimo voi…
Giusto! E allora dammelo, dammelo, dammelo!
No.
Perché?
Prima restituiscimi i miei uomini.
Non posso: adesso sono miei. I miei porcellini. Se te li porti via, io come faccio?
Fa un po’ come ti pare…
Allora resta tu!
No!
E allora niente uomini.
E allora niente niente.
Mavàall’inferno…!
Ecc. ecc. ecc.
Nell’Ade.
(Figurarsi più o meno un divano coperto da tappeti in una stanza colma di statuette.
Vienna, primi del ‘900).
Lei ha un evidente complesso materno: Ma si tiri su, si tiri su… alla sua età… inginocchiarsi
di fronte al fantasma della madre… le pare serio !?
E questa smania di conoscere il futuro! Frutto della sua insicurezza e, allo stesso tempo, la
alimenta.
Le sue mete non sono disponibili: si muove perennemente all’interno di un circolo vizioso.
Figure di riferimento = 0. Achille, Agamennone… in pratica: due pazzi sanguinari totalmente
falliti nella realtà! Dica un po’, suo padre la picchiava da piccolo?
Le sue astuzie, stratagemmi, compromessi. Mai una posizione chiara, una determinazione
risoluta, comunque una scelta decisa. Lei è senza dubbio un bugiardo patologico! Definirei il
suo status borderline, fortemente compromesso con l’inconscio, di difficile risoluzione.
Mi dica, dottore, è grave?
Vento di ricordi nella testa.
E questo che non molla (Poseidone) = solita tempesta in avvicinamento. Legarsi all’albero.
Uffa!
In fin dei conti dovrebbe ringraziarmi... Era un mostro, il pupetto (Polifemo, dico). Vatti a
fidare degli dei!
Le cose andarono pressappoco così.
Appena sbarcati, manifesti elettorali dappertutto: vota Polifemo, vota Polifemo, vota
Polifemo: un occhio sulla tua realtà!. In pratica: unico candidato (ti andava organizzando una
dittatura niente male sotto il manto di elezioni pilotate). Per noi Greci rabbrividire è
inevitabile; ce la abbiamo nel sangue (la democrazia). Per cui, operazione di ripulitura. Dopo
breve conciliabolo: tutti d’accordo. Organizzata rivoluzione coi fiocchi.
E quello è fregato, che ci vuol poco a convincere questi pastori ignoranti. Comunque, stanarlo
non è stato semplice. Che si era asserragliato in una grotta con alcuni fedelissimi e resisteva
niente male. Alla fine ci siamo riusciti e lo abbiamo consegnato al popolo inferocito. Prima te
lo accecano, poi lo buttano a mare, con tutti i suoi manifesti. Solo che non si è instaurato
alcun regime democratico. Direi piuttosto una gran buriana, che ognuno di quelli voleva
prendere il posto del morto. In pratica, un gran casino con tanto di guerra civile. Coinvolti?
Nooo! che abbiamo salpato subito, mentre quelli ci tiravano dietro ogni sorta di roba (sassi,
tronchi, cassette per la frutta…) Bella gratitudine; nemmeno un minimo di rifornimenti. Meno
male che avevamo provveduto da soli a arraffare quanto ci capitava a tiro…
E questo che si incazza: (il padre, dico). Che ci vuoi fare: gli dei sono fascisti!
Abracadabra: che non vedo rimedi diversi.
Dalle sirene (mi legano perché se le vogliono fare tutte loro).
Spettacolino mica male, con tanto di luci ed effetti speciali per stuzzicare un po’, se mai ce ne
fosse bisogno…
Incredibile come si sanno acconciare. Sembrano tutte appetibili, anche le più scarsine. E come
si muovono, occhieggiano, atteggiano…
Dal mio osservatorio (legato all’albero maestro, ricordate?) Quello che non capisco è la
ragione per cui si comportano così. Alla fine ci rimettono sempre. Sì, una scopata non si nega
a nessuno, ma non è quello che vogliono. Loro cercano un rapporto! Parola compromessa, che
i geni non sanno di famiglia. Quelli tendono a espellere, propagare e ricominciare da capo.
Senza impegni o troppe storie, altrimenti come fanno a fare l’unica cosa che sanno fare?
E quelle si acconciano, ammiccano, ancheggiano, per attirare la loro frustrazione.
Fondamentale che restino insoddisfatte: se fossero appagate scenderebbero dalla giostra (e
noi, come faremmo, noi!?).
Dei dell’Olimpo com’è il mondo! Perché il fatto è che se fanno così è perché anche loro non
sanno fare altro! Certe volte ho il sospetto che sia tutto un meccanismo… Mah!
Comunque, dalla mia postazione (osservatorio privilegiato, che così legato sono fuori dalla
mischia), facile fare considerazioni filosofiche. Quindi: Slegatemi, slegatemi per Dio!
Nausicaa.
Con quegli occhioni poteva avere quello che voleva. E invece la ben crinita dea la fissa su di
me: un vecchio.
Sì, il padre era un debole; ci vuol poco a instaurare un transfert senza scampo. Pure, la madre,
donna avveduta, forse un po’ fallica detto per inciso, la aveva messa in guardia: è un
marpione! Non hai sentito l’altra sera, a cena, come ha stravolto i fatti? Sembrava lui la
vittima! Mentre, in realtà, è responsabile. Genocidio, ti dico. Con quel suo stratagemma li ha
fatti ammazzare tutti: un’intera città! Con la pietà in vacanza, che nemmeno i bambini.
Guarda Astianatte: buttato dalle mura davanti alla madre… te ne ricorderai, spero… ne hanno
parlato tutti i giornali!
Trent’anni, capisci!? Ha trent’anni più di te! Quando ne avrai quaranta, lui sarà un vecchio da
accudire, se non morto (che sarebbe già qualcosa). Impotente, bavoso e con la sciatica!
Ma quella niente, che la dea aveva lavorato bene. Per questo mi hanno dato una nave:
togliermisi di torno. (In fondo, era quello che volevo). Perché lo volesse anche lei, Atena,
dico, ancora non l’ho capito, e quando ci penso non posso fare a meno di rabbrividire. In fin
dei conti: cosa vuole da me!?
Veglia d’azzurro blu a fronte Itaca.
Frange la notte mare alla deriva mentre mi tengo a debita distanza. Mano nell’acqua:
sciacquettare.
Spettegolanti stelle e prima luna aggiustavano il tiro al limitare del mio fluire intenso. E tu,
anima viola che t’affacci al bordo, dove risiede il sonno che concede ristoro alla sventura?
Sempre domande inutili.
Con testa sollevata: tra profumo di terra dentro il vento. Fruscia dal naso fino nei polmoni
mentre vacilla (cuore). Che si riempie d’acqua nei miei occhi. Di fronte a questa terra il cui
nome è un richiamo: Itaca… Itaca…
Assalito da ricordi danzanti. Accendendo vecchi interruttori.
E mi ricordo te e il tuo penare, il figlio, la nutrice, i miei cavalli. Quando aravo la terra e la
vita era semplice e assonnata. Le cacce dentro i boschi con le ninfe. L’animale che fugge,
preceduto dal suo odore, e il dardo che lo atterra. Argo subito addosso, tracciandomi la strada
tra le foglie.
Dentro il tuo letto, asserragliato al seno che dà pace. E la notte che non passa, sospesa, col
mio fiato, tra le stelle.
Andate via… andate via…! Non è più tempo di desiderare.
Lievi. S’alzano nebbie alla collina. Notte a frammenti. Grida a richiamo: u cce lli. E guizza
giallo d’occhi terra nera.
Da mirti stretti al fondo: assidui odori. Strrrusciiareeee. Scalpiccio della sera nella sera.
Fuochi sul colle, proprio verso casa. Baluginio di voci. Serve in calore abbaiano alla luna; fili
di sangue ai piedi, tra le rose.
Sciiivoola: sudore a gocce vasti fianchi dove ricade fumo di capelli. Spreme la notte un dio
dai loro corpi penetrati da verghe d’assassini. Che pretendono quello che non hanno. Con la
forza degli anni e l’incoscienza. Disfacendo la sera.
Sbarcare? Un suicidio... Non ho più armi dentro questa schiuma dove racchiudo organi
affannati. Con fatica degli occhi sulla casa. Sarai lì dentro, tu, che mi conosci e tessi la tua
morte sopra un telo. Quanto alla mia, volgere altrove quello che rimane.
Organizzato funerale coi fiocchi.
Bene, era questo che volevi, no? L’hai perseguito fino dal principio; ora ci siamo.
Rinunciare alle armi. Idee, pretese, illusioni, stratagemmi. Sbattere il naso sulla scorza dura
(si chiama realtà) e bruciare le vesti dell’eroe. (Detto per inciso, non ha mai combinato un
cazzo!). Ma fa male.
In fin dei conti, sei nata dalla testa e non persegui che schemi razionali. Per questo non ti
accorgi del male che fa. Comunque, ormai è fatta (è qui che si doveva arrivare).
Pertanto: nudo. E privo di rimedi, cioè, del tutto svuotato; inerme, direi. Di fronte allo sfascio
di ciò che sono stato, che brucia con la notte dentro il fumo, senza neppure l’obolo dei morti,
rispondi almeno a questo: e adesso?
Poco distante, circa trenta leghe: una terra simile alla mia.
Sbarcato in incognito.
Ero già stato qui, molti anni fa, con i miei compagni, prima del naufragio. Girovagato intorno,
tra cose che rimandano al passato. Presenze che stanno sopra i muri, tra cespugli e pietre
animate da immagini danzanti che attribuisco loro in un gioco che provoca dolore perché se
spengo gli occhi sono solo.
Verso il paese.
Farsi forza: tra case bianche lungo una parete. Spruzzi di mare: = vento..
Spaziano: gabbiani sull’abisso, tra correnti a spirale. Anche loro sono spinti a ritornare
quando il vento ritorce le ali grandi cercando sosta sulle rocce aguzze. Dunque, sostare.
Incredibilmente, incontrato alcuni compagni (anche loro rifugiati lì). Quasi non mi
riconoscevano… Hanno aperto un ristorantino che d’estate se la cava mica male. Quando
posso do loro una mano e la sera puliamo verdure. Tra ricordi: sulla porta di casa.
Ti penso, a volte, quando voci riportano gli eventi. Incerte, che non sanno dire chi regni nella
casa e chi comandi sulle donne al fianco. Forse scalzata da qualcuna più giovane e feroce.
Schiava, se non sei morta come il figlio. Quanto a me, sbarcare il lunario.
Faccio un mestiere futile: zattere a ore per clienti svagati e occasionali. Non fornisco la rotta
(per quello che mi danno). Lascio che se la cavino da soli. Soltanto a volte, durante notti
infide, quando voci dal mare danno pena: salpare.
Attoniti, per lo più, quando li trovo. Che non sanno la strada dove stanno, privi di voglia
adatta a ricercare. Li riaccompagno in acque meglio note dove l’azzurro non diventa nero.
Rassicurando (pezzi di parole). Vaghi incoraggiamenti. Quindi, addio.
E ti passo davanti navigando, con occhi tesi verso la tua riva (chissà se ancora esisti).
Comunque: sottrarre un braccio al ritmo della voga. E ti saluto, a volte.