Il terrorismo colpisce la mente

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Il terrorismo colpisce la mente
Il terrorismo colpisce la mente
Intervista a Michele Tansella sulla sindrome da stress post traumatico
L'attentato dell'11 settembre 2001 negli Stati Uniti, con i due aerei schiantatisi contro le torri gemelle di
New York e un terzo contro il Pentagono e, ancor prima, la bomba al Murrah Federal Building di Oklahoma
City, sono solo alcuni esempi, per quanto eclatanti, di disastri capaci di incidere fortemente sull'equilibrio
psichico di chi li ha vissuti in prima persona. Non bisogna dimenticare comunque che eventi di questo
genere sono, purtroppo, ben più frequenti in molte parti del mondo (Israele e Palestina, ma anche Iraq,
Afghanistan, Cecenia e diversi paesi africani) dove si vive quasi perennemente nella morsa della paura di un
attentato terroristico. E che si tratti di un aereo che distrugge un grattacielo, di un kamikaze che salta in aria
su un autobus oppure di un tank che rade al suolo la propria casa, fa ben poca differenza: sono tutte
esperienze che non passano senza lasciare traccia nella psiche di coloro che le hanno vissute più da vicino:
chi, pur colpito, è riuscito a sopravvivere, chi si trovava nelle vicinanze, parenti e amici delle vittime, chi ha
prestato i soccorsi.
Tanto peculiare è questo disturbo da meritarsi un nome proprio: sindrome da stress post traumatico
(PTSD), dal 1980 riconosciuta ufficialmente come disturbo psichiatrico. Sindrome che, è bene sottolinearlo,
comprende tutte le reazioni a esperienze fortemente traumatiche, ed è perciò comune a molte delle vittime di
violenze, abusi, torture, ma anche di disastri naturali, che risentono per un lungo periodo di disturbi psichici.
Visti i tempi che corrono, caratterizzati dall'estendersi a macchia d'olio della minaccia terroristica che
ormai sembra non risparmiare più alcun paese, anche quelli fino a non molto tempo fa ritenuti immuni, "è
necessario migliorare le nostre conoscenze sugli effetti che terrorismo, disastri naturali ed eventi traumatici
in generale, esercitano sulla salute mentale delle persone coinvolte" auspica Michele Tansella, docente di
psichiatria all'Università di Verona e direttore della rivista Epidemiologia e psichiatria sociale.
Quali sono le sfide più urgenti da affrontare?
Due editoriali, usciti recentemente su Epidemiologia e psichiatria sociale hanno discusso questi aspetti,
fornendo dati provenienti dalla ricerca internazionale. Uno a firma di Carol North e Betty Pfefferbaum
dell'Università di St. Louis, l'altro scritto da Benedetto Vitello, del National Institute of Mental Health (NIMHdi
Bethesda. Innanzitutto dobbiamo sviluppare la ricerca scientifica in questo campo, per poter proporre
interventi basati su prove di efficacia. E' necessario, infatti, fornire la migliore assistenza psicologica a tutti
coloro che sono colpiti, direttamente o indirettamente, e che lamentano sintomi o manifestano reazioni
psicologiche in seguito a eventi traumatici. Ma occorre anche mettere a punto programmi di intervento,
semplici e poco costosi, da attivare subito dopo un grave trauma e che aiutino a prevenirne le conseguenze
più gravi, compresa l'insorgenza di una PTSD.
Infine, la terza sfida che abbiamo di fronte è cercare di neutralizzare o, quanto meno, controllare gli
effetti che gli eventi traumatici hanno sulla società nel suo complesso.
Questo vale soprattutto per il terrorismo?
Sì. L'effetto più subdolo (e il vero scopo) del terrorismo è proprio l'erosione del senso di sicurezza a
livello individuale e sociale. In effetti, diversi studi hanno dimostrato che atti di violenza deliberata inducono
disturbi psichici più duraturi rispetto a quelli provocati da disastri naturali o da incidenti.
Quando si è parlato per la prima volta di sindrome da stress post traumatico?
Questo disturbo è stato riconosciuto per la prima volta tra i soldati statunitensi di ritorno dal Vietnam,
molti dei quali, una volta in patria, avevano cominciato a esibire comportamenti antisociali. Oggi lo si
riscontra in chi ha vissuto situazioni fortemente traumatiche, come stupri, violenze familiari, torture, guerre,
disastri naturali, attentati terroristici.
Quanto è diffusa la sindrome tra chi è stato coinvolto in episodi di terrorismo?
Studi condotti negli Stati Uniti dimostrano che una percentuale compresa tra il 25 e il 50 per cento delle
persone che sono state esposte direttamente ad attacchi terroristici sviluppano la sindrome da stress post
traumatico. Inoltre, la maggior parte dei sopravvissuti che non presenta una malattia mentale diagnosticabile
soffre di reazioni psicologiche gravi e dolorose, spesso di lunga durata. Insomma, bisogna ricordare che,
oltre ai morti, il terrorismo produce anche questo tipo di vittime. Qui è chiamata a intervenire la ricerca: solo
confronti sistematici tra sopravvissuti a disastri di diverso tipo possono aiutare a capire meglio questi effetti
sulla salute mentale e a fornire un aiuto più efficace.
Come si manifesta la PTSD?
La gamma dei sintomi è molto vasta e comprende incubi incentrati sull'evento traumatico, pensieri
sconvolgenti, comportamenti di evitamento, ansia, depressione, aumento dell'irritabilità e uno stato di
ipervigilanza. Tutti elementi che minano la capacità dei singoli di vivere una vita sociale normale.
Ci sono persone più a rischio di altre?
Sì, sono soprattutto coloro che hanno già subìto traumi, chi ha una storia di disturbi psichiatrici,
persone a cui manca un adeguato sostegno da parte della famiglia o della società o che vivono in situazioni
di disagio sociale (senza casa, disoccupati, poveri). Anche l'avere provato un'angoscia acuta e uno stato di
depressione subito dopo il trauma favorisce l'insorgere della sindrome sul lungo periodo. Per quanto
riguarda in particolare i minori, Benedetto Vitiello, che si occupa della salute mentale di bambini e
adolescenti al NIMH di Bethesda, ricorda come l'esposizione a certi traumi aumenti il rischio di PTSD e come
una conoscenza migliore dei fattori di rischio e di prevenzione sia essenziale per sviluppare interventi
specifici, dedicati ai bambini a maggiore rischio.
Come si cura la sindrome?
Le terapie psicologiche (come i trattamenti cognitivo-comportamentali) si sono dimostrate utili nel
trattamento di questo disturbo. Anche i farmaci antidepressivi, in particolare gli inibitori del reuptake della
serotonina (SSRI) aiutano a ridurre i sintomi. Ma abbiamo bisogno di ulteriori ricerche per decretarne la
validità in termini evidence-based.
C'è chi, su un recente numero di Nature (del 13 giugno) ha proposto l'utilizzo dell'ecstasy per trattare
questa sindrome. Lei che cosa ne pensa?
Sarei molto, molto cauto prima di prendere in considerazione il trattamento con la MDMA (un derivato
dell'amfetamina, che è il composto attivo contenuto nell'ecstasy) di pazienti con sindrome post-traumatica da
stress, o con altri disturbi mentali. Mancano dati e in particolare risultati di studi clinici controllati. Nature
riporta alcune informazioni su di uno studio su 20 pazienti. programmato a Charleston, South-Carolina, ma
ricorda anche alcuni dati che suggerirebbero i possibili danni indotti dal MDMA sul cervello e in particolare
sui neuroni che sintetizzano la serotonina e forse anche sul sistema vascolare e anche la possibilità che
essa induca psicosi, ipertermia e possa causare la morte. Sembra di essere tornati indietro ai tempi della
proposta di usare l'LSD e la "psicoterapia psichedelica transpersonale". Ma non è meglio utilizzare le
(scarse) risorse disponibili per studiare terapie psicosociali e interventi con più alte probabilità di dimostrarsi
efficaci? E che effetto possono avere queste ricerche (anche se condotte in condizioni controllate e con le
dovute precauzioni), a prescindere dai loro risultati, sulle campagne per scoraggiare l'uso di ecstasy e di
altre droghe nei giovani? Mi creda, attualmente mancano i dati per proporre quell'utilizzo, e per il futuro non
vedo grosse prospettive e sarei comunque molto cauto nel seguire questo filone di ricerche.
di Cinzia Tromba - Tempo Medico n. 781
26 giugno 2004