il progetto europeo sul benessere animale

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il progetto europeo sul benessere animale
“In caso di mancato recapito, rinviare all’Ufficio Postale di Milano CMP-Roserio, detentore
del conto, per la restituzione al mittente che si impegna a pagare la relativa tassa”.
Sistema
Università
Notiziario
trimestrale
Anno IX, n. 37
Settembre 2011
Autorizzazione n. 320
del Tribunale di Milano - 11/5/1996
Poste Italiane Spa
Spedizione in A.P. - 70%
LO/MI
Crescere
in tempi difficili
di Dario Casati
pag.
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Il museo
mineralogico
di Rosangela Bocchio
pag..
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L’Archivio Colla
al Centro Apice
di Martino Marazzi
Gli ostraka
della Collezione
Milano Vogliano
pag.
4
di Claudio Gallazzi
pag.
6
La nuova
pubblicazione
di Egittologia
AWIN:
il progetto europeo
sul benessere animale
di Patrizia Piacentini
di Silvana Mattiello,
Sara Barbieri,
Lorenzo Ferrari
e Elisabetta Canali
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pag.
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Un quadro
in evoluzione
di Guido Sali
pag.
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EDITORIALE
Crescere in tempi difficili
di Dario Casati, Prorettore,
Università degli Studi di Milano.
2
L
a predisposizione del Bilancio di previsione ha assunto una crescente
importanza, trasformandosi, da un’operazione in apparenza solo
ragionieristica e di scarso interesse immediato, in un momento di rigorosa
riflessione su obiettivi, priorità e, in parallelo, sulle risorse disponibili.
La gestione dell’Università divenuta, non per nostra scelta, sempre più
complessa e, per certi aspetti, quasi ostica ci richiama all’assunzione di
una maggiore responsabilità: esistono limiti invalicabili a cui non eravamo
abituati a prestare attenzione, le risorse non sono illimitate e nemmeno
crescenti, una serie di eventi economici di cui non coglievamo
il collegamento con l’Università, al contrario, incidono profondamente
sulla sua vita. Di fronte a ciò si sarebbero potute assumere due diverse
modalità di comportamento: provvedere ad una stesura del Bilancio di
previsione formalmente corretta, ma in cui ci si limitava a prendere atto
passivamente delle crescenti difficoltà, oppure elaborare, entro i limiti della
rigidità della spesa e della contrazione delle entrate, un bilancio che fosse
davvero programmatico, almeno per quanto consentito, e contenesse
indicazioni su come l’Ateneo intendeva reagire al nuovo contesto.
A questo criterio ci siamo attenuti in questi anni, anche con l’approvazione
nel Consiglio di amministrazione di dicembre 2011 del
Bilancio per il 2012. Un bilancio predisposto ed approvato
ancora in assenza della precisa entità delle risorse trasferite
dallo Stato per il 2011: anche se gli elementi nel frattempo
emersi appaiono complessivamente tali da consolidare le
previsioni. Dopo la devastante minaccia di tagli prodotta
nel 2008, le manovre effettivamente sviluppate per il 2010
e il 2011 ne hanno considerevolmente ridotto l’impatto
negativo. L’introduzione di percentuali premiali nella
definizione del FFO ha avuto conseguenze decisamente
positive per la nostra Università, che ha visto riconosciuto,
e una volta tanto non in modo platonico, il suo impegno
nella ricerca. La situazione complessivamente drammatica
della finanza pubblica non deve indurre a facili ottimismi. Ma possiamo
guardare con relativa fiducia al futuro immediato, e cioè al nuovo anno;
con qualche timore prudenziale in più a quello successivo, ma prevedendo
in ogni caso condizioni migliori che in passato.
Per il dettaglio delle cifre e l’allocazione delle diverse voci rinviamo
direttamente al documento di bilancio, mentre vorremmo sviluppare
qualche considerazione sulla logica che ha animato gli organi di governo.
Stiamo affrontando contemporaneamente due passaggi molto critici:
la trasformazione dell’Ateneo conseguente all’applicazione della legge
240/2010, che assorbe energie consistenti, ma che dovrebbe consentire
una gestione più attenta e una maggiore valorizzazione delle risorse
umane, finanziarie e strutturali; la grande operazione di avvicendamento
delle risorse umane, dettata dai nuovi vincoli sul pensionamento
dei docenti e sul parziale recupero delle risorse finanziarie che si liberano,
con la creazione di nuove figure, come i ricercatori a tempo determinato,
l’attivazione delle nuove modalità di selezione dei docenti, le soluzioni da
adottare per la progressione delle carriere.
Con un uso attento delle risorse disponibili e di quelle assegnate in
relazione alla riforma l’Ateneo vuole riprendere il suo cammino di crescita
per un apprezzamento sempre più evidente della sua qualità, attestata
dalla collocazione nei ranking internazionali più seri. Lo abbiamo già fatto
nel 2011 e con il bilancio 2012 la nostra Università indica come
proseguire nell’immediato futuro. È questo il senso profondo
del cambiamento del significato di un bilancio che valorizza anche
la necessità di rafforzare gli interventi strutturali che a fine 2011vengono
rimessi in movimento: con l’avvio del completamento del Polo di Lodi,
la costruzione dell’edificio per gli Informatici e i doverosi interventi
sulla messa in sicurezza.
Il 2012 ci vedrà impegnati nella sfida della costruzione del nuovo assetto
dell’Università, basato sulle rinnovate competenze delle strutture. Ma non
si ferma (non si può fermare!) l’attività ordinaria, mentre ricominciamo
a investire per il futuro dell’Ateneo dopo anni di stasi dei grandi progetti,
a partire da quelli di supporto alla ricerca e alla didattica.
Milano, 30 gennaio 2012
Foto di Glenda Mereghetti
Università
Sistema
Collezioni
Il museo mineralogico
di Rosangela Bocchio, Dipartimento di Scienze della Terra “Ardito Desio” (sezione di Mineralogia e Petrografia),
Università degli Studi di Milano.
I
l Museo delle collezioni mineralogiche, gemmologiche, petrografiche
e giacimentologiche è stato istituito formalmente nel 2004. Esso
è situato in via Botticelli 23 presso la Sezione di Mineralogia
del Dipartimento di Scienze della Terra “Ardito Desio” e comprende
un vasto patrimonio storico di minerali, gemme, rocce e campioni
di interesse giacimentologico raccolti a partire dal 1937, anno in cui
avvenne il trasferimento in questa sede degli Istituti di Mineralogia
e Geologia dell’Università degli Studi di Milano. Infatti, fino dal 1924,
anno di fondazione dell’Ateneo milanese, i due istituti erano stati
ospitati presso il Museo Civico di Storia Naturale della città e avevano
potuto godere dei Gabinetti di Mineralogia, Geologia e Paleontologia
in esso presenti. Nel corso degli anni, grazie al contributo dei docenti,
dei ricercatori e degli studenti, le collezioni sono diventate via via
sempre più consistenti per quanto riguarda gli allestimenti, il numero
dei campioni e il loro valore.
La raccolta del materiale museologico cominciò a costituirsi con
il trasferimento nella nuova sede ed avvenne ad opera di Emanuele Grill
(1884-1961), al tempo Direttore del nuovo Istituto di Mineralogia, che
ottenne dal Consiglio di amministrazione dell’Università una
assegnazione di fondi per l’acquisto di una collezione di minerali e rocce
appartenente agli eredi di un famoso collezionista, l’Ing. Eugenio Bazzi
(1862-1929).
La collezione Bazzi, costituita da qualche migliaio di pezzi, molti dei quali
eccezionali, era nota in tutto il mondo scientifico e comprendeva
una parte sistematica mondiale e alcune collezioni regionali di aree
italiane mineralogicamente molto significative, composte da campioni
raccolti nei primi anni del 1900. L’intera collezione Bazzi, che costituisce
tuttora il nucleo più importante delle raccolte di minerali del Museo,
fu acquistata per la somma di Lire 45.000, con la clausola che
il pagamento fosse effettuato nell’arco di tre anni, dal 1939 al 1941,
in rate di Lire 15.000 ciascuna. Una piccola parte dei minerali
della collezione Bazzi venne subito esposta ma, purtroppo, con l’avvento
dei tristi anni della seconda guerra mondiale (1940-1945), Grill si vide
costretto a ricoverare i campioni nelle cantine dell’Istituto per ripararli
dai bombardamenti.
Nel dopoguerra furono Giovanna Pagliani e Gustavo Fagnani (in seguito
anch’essi professori dell’Università) ad aiutare Grill a riordinare e
catalogare tutti i campioni, creando anche le prime collezioni didattiche.
Lo spazio espositivo del Museo aumentò significativamente nel 1955,
anno in cui l’Istituto di Geologia lasciò la sede di via Botticelli per
trasferirsi in quella nuova di Piazzale Gorini. L’Istituto di Mineralogia
venne rimodernato e, grazie anche al contributo di Giuseppe
Schiavinato (1915-1996) che sostituì nel 1955 Grill alla cattedra
di Mineralogia, le collezioni dei minerali e delle rocce si arricchirono
di nuovi campioni.
In particolare, è opportuno ricordare l’allestimento, nel 1961, di una
collezione regionale alpina con i fondi donati dagli eredi di Luigi
Magistretti (1886-1958), altro famoso collezionista milanese di minerali.
Nella sala a lui dedicata sono attualmente esposti numerosi campioni
provenienti da tutte le Alpi e appartenenti per la maggior parte
alla collezione Bazzi, ad eccezione di alcuni campioni del Gottardo,
di Baveno, della Val Malenco e della
Val Codera donati dagli stessi eredi
di Magistretti.
Dai primi anni Sessanta del secolo scorso
cominciò ad essere notevolmente
incrementato, grazie al contributo
del personale di tutto l’Istituto, anche
il numero dei campioni della collezione
di rocce, che divenne poco alla volta
rappresentativa dei principali litotipi
presenti in Italia e di molte aree del resto
del mondo.Tali rocce, raccolte durante
le campagne di rilevamento o in occasione
di congressi e di spedizioni scientifiche,
oltre a costituire un materiale espositivo molto interessante, sono state
o sono tuttora anche oggetto di studi e di ricerche pubblicate su riviste
italiane ed estere.
Negli stessi anni venne iniziato anche l’allestimento di una vasta
collezione di campioni di interesse giacimentologico provenienti
da tutto il mondo. Il promotore di questa iniziativa fu Dino
di Colbertaldo (1913-1972), titolare della cattedra di Giacimenti
Minerari dal 1962. La collezione giacimentologica venne curata
dallo stesso di Colbertaldo fino al 1972, anno della sua prematura
scomparsa e poi, per oltre i tre successivi decenni, da Luciano Brigo
e Ida Venerandi. I campioni presenti sono rappresentativi delle
mineralizzazioni di alcuni dei più importanti giacimenti italiani
e stranieri, frutto di ricerche e campagne di studio di allievi e studenti
e in parte provenienti da donazioni di società minerarie cui era stato
richiesto il contributo.
Nei primi anni settanta del secolo scorso la ristrutturazione dell’edificio
portò ad un notevole incremento dello spazio espositivo delle
collezioni, meglio valorizzate grazie ai nuovi allestimenti curati, in modo
particolare, da Bona Bianchi Potenza, che occupò la qualifica di
Conservatore di Museo nel periodo 1967-1996.
Nel 1982 gli Istituti di Geofisica, Geologia, Mineralogia e Paleontologia si
fusero in una unica struttura, il Dipartimento di Scienze della Terra,
che tuttavia mantenne distinte, in quanto ubicate in edifici diversi, le tre
sezioni di Geologia e Paleontologia, di Mineralogia, Petrografia,
Geochimica e Giacimenti minerari e di Geofisica.
Anche nell’ambito della nuova struttura, le collezioni di via Botticelli
continuarono ad essere costantemente arricchite sia mediante acquisti
diretti di singoli campioni da commercianti di minerali milanesi e
lombardi, sia mediante acquisizioni da collezionisti privati di intere
collezioni composte da un rilevante numero di campioni.
Ad incrementare il numero delle specie mineralogiche presenti
contribuirono anche numerose donazioni di membri della Sezione
di Mineralogia o di ex allievi dei corsi di laurea in Scienze Geologiche
e Scienze Naturali.Va ricordato, in particolare, che Giuseppe Schiavinato
nel 1995 donò tutti i campioni di rocce e minerali da lui raccolti
in occasione di Congressi internazionali.
Nel 2004, alle collezioni mineralogiche, gemmologiche, petrografiche
e giacimentologiche della Sezione di Mineralogia venne attribuito,
con decreto rettorale, lo stato di Museo. Il riconoscimento del valore
culturale e scientifico delle collezioni presenti nell’edificio di via
Botticelli fu da stimolo per Achille Blasi, Direttore del Museo
dal 2004 al 2010, per incrementare il patrimonio mineralogico mediante
l’acquisto di una collezione di oltre 3.000 campioni (collezione Borrelli),
per curare l’allestimento di nuove vetrine (acquistate grazie
all’acquisizione di fondi regionali) e per aumentare e valorizzare
ulteriormente lo spazio espositivo. La nuova sistemazione ha riguardato
il piano rialzato e il 1° piano dell’edificio e l’Aula E, situata
nel seminterrato.
Il patrimonio museologico attuale comprende 13.000 esemplari di
minerali e di gemme, sia naturali che sintetiche, e una raccolta costituita
da circa 33.000 rocce e campioni di interesse giacimentologico.
Il Museo dispone anche di altro materiale
museale didattico costituito da strutture
atomiche di minerali, modelli di poliedri
cristallini, tabelloni didattici d’epoca,
strumenti scientifici di interesse storico
e un pregevole patrimonio librario
di antiquariato.
Di seguito una breve descrizione
delle collezioni.
- Le collezioni mineralogiche
comprendono circa 10.000 campioni di cui
oltre 1.400 esposti nelle vetrine.Tra i
minerali più significativi della regione alpina
attualmente esposti ricordiamo i famosi
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Università
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Collezioni
demantoidi della Val Malenco e un campione di quarzo, ortoclasio e
fluorite di Baveno, citato tra i minerali più belli del mondo (P. Bancroft,
The world’s finest minerals and crystals, 1973). Quest’anno, per celebrare i
150 anni dell’Unità d’Italia, è stata allestita ed esposta una selezione di
minerali provenienti dalle diverse regioni italiane ed appartenenti alle
numerose collezioni storiche del Museo.
- Le collezioni gemmologiche comprendono circa 300 campioni di
gemme naturali e sintetiche di cui oltre 250 in vetrina. Recentemente
sono entrate a fare parte della collezione alcune olivine della Sardegna
e due tanzaniti, oggetto di ricerche tuttora in corso.
- Le collezioni petrografiche comprendono circa 30.000 campioni
di rocce di cui oltre 1.000 esposti in vetrine. Pregevoli sono le raccolte
litologiche regionali italiane e le lastre lucidate di pietre ornamentali
usate in edilizia e provenienti da varie località italiane ed estere.
Da citare sono anche le collezioni di rocce delle diverse aeree del
mondo oggetto di spedizioni scientifiche.
- Le collezioni giacimentologiche comprendono circa 3.000
campioni di interesse giacimentologico, di cui oltre 900 esposti in
vetrine e circa 400 provenienti dai più importanti depositi metalliferi e
di minerali industriali coltivati in Italia e all’estero.
I campioni, spesso di notevoli dimensioni, rivestono un particolare
interesse scientifico in quanto, in molti casi, nei siti di provenienza
l’attività estrattiva è ormai esaurita. Ricordiamo una serie di campioni,
storici e recentemente acquisiti, provenienti dall’importante complesso
minerario di Trepcha (Kosovo).
Il Museo occupa una parte significativa all’interno del patrimonio
storico-scientifico dell’Università. Nel suo ambito si svolgono attività
di ricerca, di didattica e di informazione scientifica. La realizzazione
di tutti questi comparti e la gestione stessa del Museo (allestimenti,
catalogazione, aggiornamento) potrebbero essere significativamente
migliorati attraverso l’individuazione e l’acquisizione di personale
tecnico e scientifico professionalmente preparato ad affrontare nuove
progettualità.
Apice
L’Archivio storico del Teatro delle Marionette
Colla al Centro Apice
di Martino Marazzi, Dipartimento di Filologia moderna, Università degli Studi di Milano.
H
a trovato una sistemazione presso il Centro Apice una parte
cospicua del poliedrico patrimonio storico del Teatro delle Marionette
di Gianni e Cosetta Colla.“Sistemazione” è vocabolo che, nel caso
del teatro delle marionette, suona quasi ossimorico, tanto mobili
le figure sul palco, misteriosamente cangiante la loro espressività,
rischiosa la scommessa artistica dei marionettisti e dell’intera
operazione drammaturgica, complicata la gestione – stagione dopo
stagione – di compagnie la cui esistenza (e ormai, occorre dire,
sopravvivenza) appare quasi da sempre in bilico fra il fascino
e il consenso manifestato dagli spettatori, e la distrazione – quando non
l’indifferenza – delle istituzioni “grandi”.
In questo senso, l’attenzione dell’Università degli Studi di Milano
potrebbe persino essere vista come il segnale di un’auspicabile
controtendenza nei confronti di una tradizione teatrale tanto
riconosciuta e consolidata quanto erroneamente e frettolosamente
giudicata “minore” o di scarso rilievo. Il discorso non chiama in causa
solo il Teatro di Gianni e Cosetta Colla, anche se l’attuale acquisizione
ci invita ovviamente a partire da qui; il nuovo fondo archivistico offre
a studiosi, studenti, appassionati un’occasione unica per addentrarsi con
cognizione di causa nel suo universo, al tempo stesso storicamente
reale, intriso di materialità, ma anche meravigliosamente fantasmagorico.
Il Teatro della Marionette è di casa non lontano dal Centro Apice,
al milanese Teatro della Quattordicesima (dopo una peregrinazione che
l’ha visto attivo, negli ultimi decenni, al Litta, al Teatro dell’Arte,
agli Olivetani; da anni langue in rovina il Gerolamo, eponimo simbolo
del marionettismo meneghino). Attualmente vi operano la seconda
e la terza generazione di Colla discendenti di Gianni, il quale (19061998), fondatore dell’attuale compagnia, era a sua volta figlio, nipote
e bisnipote d’arte, di un Giovanni già marionettista nel periodo
napoleonico, col suo teatro di giro, fra Piemonte, Lombardia ed Emilia.
Come per i Rame, i Preti, i Campogalliani, i Ferrari, i Reccardini, i Fiando,
i Lupi, gli Aimino, i Razzetti, i Corelli, i Monticelli, e tanti altri nel corso
dell’Ottocento e sino alla prima metà del XX secolo, lungo tutta
la penisola e non solo (i pupi siciliani), è il gruppo familiare a garantire –
nelle sue diverse componenti generazionali e di genere – la continuità
dell’esercizio e la graduale evoluzione del repertorio, come pure
la “naturale” eccellenza della difficile professionalità, la quale richiede
una padronanza assoluta delle tecniche e una non comune duttilità sia
drammatica che produttivo-organizzativa. Del resto, famiglie (più o
meno “biologiche”) di marionettisti sono ben documentate nell’intero
continente (fiorentissima la tradizione in Francia, Germania e Austria,
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nell’Europa orientale) e, com’è noto, è di assoluto rilievo anche la storia
dei teatri di figura asiatici. Marionette, burattini,“ombre” fanno parte, si
può dire, delle strutture antropologiche dell’immaginario eurasiatico.
Nella tradizione indiana antica, il sutradhara, narratore-regista delle
rappresentazioni teatrali, è – letteralmente – “colui che controlla i fili”;
per arrivare all’oggi, una delle ultime proposte dell’avanguardia
newyorkese prevede una mise-en-scène della Tempest per mezzo delle
figure del bunraku giapponese (Teddy Jefferson, Rorschach Tempest). Si
tenga presente che anche in Italia si può parlare, e da almeno due
secoli, del repertorio di uno “Shakespeare manipulated” (Susan Young).
Lo stesso Gianni Colla, nel 1960, allestisce al Teatrino di Brera una
Tempesta con splendide marionette costruite dagli allievi
dell’Accademia, per musiche di Niccolò Castiglioni. Nella tradizione
marionettistica i grandi classici (anche tragici) convivono con l’eredità
del repertorio delle fiabe; il teatro “scritto”, riformato, con la vivacità
della commedia dell’arte: volta per volta, intrecciandosi e alternandosi.
La fissità delle maschere è, appunto, animata. Shakespeare e le Mille e
una notte; Perrault e Andersen; Collodi e Carlo Gozzi; Giulio Cesare
Croce e il “Corriere dei Piccoli”; Jules Verne e Pirandello; Buzzati e
Rodari; Lewis Carroll e Mark Twain;Tolstoj e Barrie. Ma quel binomio
attoriale inscindibile che è la coppia marionettista-marionetta può
anche, all’occorrenza, adattarsi alla misura di originalissime opere
liriche: per Gianni Colla accadrà soprattutto negli anni Settanta e
Ottanta, in allestimenti (alcuni dei quali scaligeri) del Retablo de Maese
Pedro di De Falla, dell’Histoire du soldat di Stravinskij, del Viaggio a Reims
di Rossini. E c’è spazio per memorabili sperimentazioni “metamarionettistiche”, come nel capolavoro Ballata per un popolo di legno
(Il popolo di legno si intitola la rivelatrice, poetica autobiografia scritta
insieme a Gustavo Bonora: 1982).
A portare sul piccolo palco la Tempesta di Brera è la compagnia dei
“Fratelli Colla”: i vari membri della famiglia (Gianni è l’ultimo di otto
fratelli) hanno cominciato a prendere strade diverse. A partire dal
1945, il ramo che fa capo a Gianni, coerentemente con una riflessione
sulla logica del proprio teatro che chiama in causa un’idea “sociale”
(quasi brechtiana) di pedagogia, e quindi di necessità un’idea
dell’immaginario marionettistico in rapporto al proprio pubblico
di grandi e piccini, si muove in direzione di un teatro per ragazzi; per
conferirgli nuova dignità occorre svecchiare evitando le secche
di un facile e corrivo infantilismo. Si ricordi che, sin dall’Ubu Roi
del 1896, alle marionette e al marionettismo sono ricorsi anche autori
di punta del rinnovamento teatrale europeo: da Jarry, appunto,
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Apice
al Depero dei Balli plastici; dal 1939 al 1949, a Milano, è attivo il teatrino
sperimentale di Marta Latis, con cui collaborano fra gli altri Giorgio
Strehler e Franca Valeri.
Per portare avanti la sua svolta di un teatro indirizzato ai ragazzi, Gianni
Colla, anziché abbassare il livello artistico, mette allora in campo
collaborazioni altrettanto prestigiose e indicative del suo impegno
intellettuale: da nomi già ricordati, come il Buzzati della Famosa invasione
degli orsi in Sicilia, a Luigi Veronesi nelle vesti di creatore di marionette, a
Coca Frigerio per le scene e i costumi. Dalle carte d’archivio spuntano
altre firme non casuali, da Calvino a Paolo Grassi.
Lo spettacolo simbolo dell’innovazione è il Pinocchio del 1961: mettendo
a frutto una vera e propria interpretazione del capolavoro collodiano e
del suo protagonista-avatar in rapporto con la coppia adulta GeppettoFatina, Colla decide di dar corpo agli attori, facendoli interagire sul palco
con quelli che già Goldoni, per il suo allestimento marionettistico dello
Starnuto d’Ercole, aveva chiamato i “comici di legno”. Ne esce pressoché
rivoluzionato l’intero equilibrio scenico e drammaturgico. D’altra parte,
è significativo che questa interpretazione-esecuzione sia
contemporanea (e anzi preceda) riletture più blasonate del capolavoro
di Collodi, come quelle di Carmelo Bene e di Giorgio Manganelli.
Si pensi, per analogia, a quanto abbia agìto sottotraccia su uno
Shakespeare autenticamente contemporaneo quello dei Sonnets
“eseguiti” da Duke Ellington. Il Teatro di Gianni e Cosetta Colla –
Compagnia di Marionette e Attori rinasce su queste basi nel 1972.
Questa operazione di rottura (cui seguirà con naturalezza, nel 1973,
l’introduzione della tecnica “allo scoperto”, che rende visibili al pubblico
i marionettisti nerovestiti all’opera sul “ponte”) ottiene il risultato
di avvicinare i due pubblici. L’effetto dal vivo è commovente e
coinvolgente; la riuscita artistica, certo, si fonda sulla maestria, il talento,
il gusto degli esecutori tutti. Ma se al teatro di marionette è
connaturato il riferimento al fantastico, tramite il quale grandi e piccini
sospendono la propria incredulità, ora l’esplicita sottolineatura
dell’effetto di finzione, mentre conferma al bambino e al ragazzo la
pratica normale e quotidiana della creazione fantastica alla radice dei
meccanismi del gioco, viene vista dall’adulto come un altrettanto
naturale portato delle riflessioni teatrali novecentesche sul doppio, la
corporeità attoriale, la convenzionalità del rapporto fra scena e realtà.
Semplicità e perfezione si sposano nella nuova e “strana” coppia di un
Geppetto umano (e marionettista) che dialoga con il suo figlio-creatura
di legno. Nella piena pratica scenica, nel rapporto al tempo stesso
umanissimo e del tutto artificiale (la “magia” del teatro...) fra attore
“reale” e attore “animato”, si raggiunge così quel centro di gravità
simbolo di grazia e innocenza al di là del tempo, del senso e, persino,
della colpa, su cui aveva memorabilmente teorizzato Kleist nel suo
saggio sul teatro delle marionette.
I nomi dei teorici (e adepti) del marionettismo formano un’altra, e non
meno nobile, famiglia, da Maeterlink a Gordon Craig, dal nostro Yorick a
Benjamin, da Kantor a Roberto Leydi. Ma non è ora il caso di allargarsi
agli universali: dai tanti storici copioni, dai bozzetti, dai più vari
documenti sugli spettacoli, la loro produzione ed esecuzione, la vita
della compagnia, oltre che dalla presenza di uno scelto gruppo di
marionette, è possibile ricostruire le vicende di una parte importante
del teatro e della cultura teatrale italiana, seguirne il lavoro, porsi in
ascolto diretto – nella migliore delle ipotesi – dei suoi demiurghi.
Come concludeva Gianni Colla,“non sarà esagerato (...) definire il
teatro delle marionette un vero e proprio laboratorio drammaturgico e
di animazione, il quale, mentre conserva e trasmette la tradizione,
introduce le innovazioni più audaci e le soluzioni più rigorose”: come
quella, appunto, di parlare “per davvero” a un burattino di legno. O,
come nell’Alice, portando in scena con strabiliante energia uno dei
grandi racconti letterari sulla crescita al femminile, fra libertà fantastica
e richiami all’ordine:Alice è marionetta, ma la Regina di Cuori (Cosetta
Colla) urla a ripetizione e a squarciagola di tagliarle la testa, fra scene
coloratissime, marionette incredibili, musiche travolgenti. Un’altra
perfetta metafora di questo insostituibile teatro, e della inscindibile unità
dei suoi due caratteri principali. Le carte e i materiali d’archivio ce ne
raccontano, almeno in parte, la storia.
1
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1. Un primo piano del coniglio dell’Alice nel Paese delle Meraviglie.
Il debutto dell’Alice è del 1997.
2. Un primo piano del Prospero dalla Tempesta di Shakespeare allestimento 1960.
3. La marionetta della Principessa per l’Histoire du soldat di Stravinskij, realizzata
da Luigi Veronesi negli anni Trenta, ha debuttato alla Piccola Scala solo nel 1981.
Foto di Paolo Delvecchio.
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Collezioni
Gli ostraka della Collezione Milano Vogliano
di Claudio Gallazzi, Dipartimento di Scienze dell’antichità, Centro di Papirologia “Achille Vogliano”, Università degli Studi di Milano.
I
n uno degli scorsi numeri di Sistema Università si è già trattato
della raccolta di reperti scritti che è conservata presso il Laboratorio
di Papirologia di via Festa del Perdono e che è conosciuta come
Collezione Milano Vogliano. Sebbene fosse piuttosto esteso, quell’articolo
si è soffermato unicamente sui papiri, che costituiscono la parte più
cospicua e scientificamente più rilevante della collezione. Questa, però,
nel corso degli anni, è venuta acquisendo anche varie decine di testi stesi
su supporti diversi, ad esempio ostraka, vale a dire cocci di terracotta
provenienti da vasellame e recipienti spaccati.
Gli ostraka, come si sa, furono utilizzati in Atene, a partire dalla fine
del VI sec. a.C., per tracciarvi sopra i nomi delle persone da mandare in
esilio con quella pratica che, non a caso, ha preso il nome di ostracismo.
Essi, però, erano già impiegati per scrivere nell’Egitto del III millennio a.C.
e continuarono ad essere usati sino all’XI sec. d.C. Certamente non
costituivano il supporto più funzionale per la scrittura, giacché la loro
superficie era piuttosto ridotta, era incurvata e sovente scabrosa; tuttavia
non costavano niente ed erano facilmente reperibili in tutti i centri abitati,
dove gli oggetti in terracotta, quando si rompevano, venivano lasciati sul
posto o gettati sui mucchi di pattume sparsi qua e là fra le case. Per
questa ragione gli ostraka furono usati a migliaia per scrivere testi di breve
estensione e non destinati a un’archiviazione prolungata: ricevute,
attestati, lettere, appunti, liste, conti, esercizi di scuola e formule magiche.
I primi ostraka entrarono nella raccolta del nostro Ateneo allorché questa
cominciò a formarsi, nel 1934. In quell’anno Achille Vogliano (1881-1953),
titolare di Letteratura greca presso la Facoltà di Lettere e filosofia,
condusse la sua prima campagna di scavi in Egitto, tra le rovine dell’antica
Tebtynis, ed effettuò i suoi primi acquisti di materiale scritto. Come risulta
dalla documentazione inclusa nel suo archivio,Vogliano recuperò 38
ostraka a Tebtynis e ne comperò altri 30: una ventina da Maurice Nahman
(1868-1948), all’epoca il più noto antiquario del Cairo, i restanti da uno o
più venditori locali nell’oasi del Fayûm.Alla fine del ’34 tutti i pezzi furono
trasferiti a Milano; e negli anni successivi qualche altro esemplare si
aggiunse ad essi: uno raccolto nel 1936 a Narmuthis, dove Vogliano aveva
aperto uno scavo, e una decina comperati nel 1938 presso venditori non
meglio conosciuti. Con lo scoppio della guerra, nel giugno del 1940, il
materiale fu collocato nei sotterranei del Castello Sforzesco, per
proteggerlo dai bombardamenti, e là dentro rimase per decenni, senza
che nessuno più ne conoscesse la collocazione. Quando tutti ormai lo
ritenevano perduto, all’inizio degli Anni Settanta, il materiale venne
ritrovato, ma purtroppo in condizioni pessime: a causa dell’umidità
dell’ambiente alcuni pezzi erano andati distrutti, parecchi si erano sfaldati
e molti avevano subito distacchi dell’inchiostro più o meno estesi.
Allorché il lotto dei reperti fu finalmente riportato in Università,
nell’aprile del 1990, dell’ottantina di ostraka riposti dentro le gallerie
del Castello ne giunsero in via Festa del Perdono solamente 48.
Nel frattempo, però, la collezione, sia per le esigenze della ricerca sia per
quelle della didattica, si era procurata altri reperti. Due erano stati
concessi nel 1967 dal Service des Antiquités dell’Egitto nell’ambito
della ripartizione degli oggetti rinvenuti a Narmuthis dalla Missione
archeologica dell’Ateneo, che aveva ripreso i lavori di Vogliano. Un altro
paio arrivarono dieci anni dopo: erano due attestati di consegna in greco
un tempo appartenuti a George Michaïlidis (1900-1973), un grande
Figura 1. Conto in greco (III sec. a. C.)
collezionista residente al Cairo, la cui raccolta era andata dispersa. 7 pezzi
furono comprati nell’84; e subito dopo venne acquisito un importante
lotto di oltre 40 reperti, tutti quanti scritti in greco, ma con varie
provenienze e diverse collocazioni cronologiche. Un secondo gruppo
consistente di pezzi entrò nella raccolta sul finire degli Anni Ottanta: una
trentina di esemplari con testi in copto raccolti nell’area dell’odierna
Luxor. Così la collezione è arrivata a comprendere 130 pezzi con scritti in
demotico, greco e copto, che sono dislocati in un arco cronologico esteso
dal III sec. a.C. all’VIII sec. d.C.
I reperti con testi in greco sono quelli più numerosi: 88 esemplari, di cui
10 trovati nello scavo a Tebtynis (1934), 3 rinvenuti a Narmuthis (1936,
1966) e i rimanenti acquistati sul mercato. I pezzi raccolti sugli scavi si
presentano quasi tutti in condizioni precarie ed in genere portano testi
ridotti, in prevalenza un semplice onomastico seguito dal patronimico. Ma
fra essi si segnalano 3 cocci del II sec. d.C. venuti alla luce a Tebtynis, che
conservano attestati delle consumazioni di birra fatte da membri di
associazioni religiose. I regolamenti di queste ultime, conosciuti da alcuni
papiri in greco ed in demotico, prevedevano che i soci effettuassero
bevute rituali di birra nel corso di varie cerimonie: i 3 ostraka ci offrono
una testimonianza diretta di tale consuetudine. Meglio conservati sono gli
esemplari comperati, i quali risultano pure assai più vari per contenuto,
provenienza e datazione. I più antichi sono un paio di conti scritti nella
zona di Tebe (Luxor), che risalgono al III sec. a.C. (Fig. 1). Al II sec. a.C.
data, invece, un ordine proveniente dall’oasi del Fayûm, che fu emesso da
un komogrammateus, cioè dalla più alta autorità di un villaggio, per dare
avvio alla vendemmia in un appezzamento di terra, in quell’epoca, infatti, la
raccolta e la pigiatura dell’uva erano sottoposte ad un rigido controllo
statale e senza un’autorizzazione esplicita non potevano essere effettuate.
Un ordine analogo, impartito dalla stessa persona, è conservato nel
Kelsey Museum of Archaeology dell’Università del Michigan (Ann Arbor).
Più recenti, cioè collocabili nel I e nel II sec. d.C., sono una dozzina di liste
contabili e di ricevute, che arrivano da Tebe e dal suo circondario.
Dai forti dislocati lungo le piste, che collegavano la Valle del Nilo al Mar
Rosso, vengono, invece, una quindicina di pezzi, che riguardano la vita
quotidiana di piccoli distaccamenti militari romani acquartierati in presidi
sperduti: sono ordini inviati a subalterni, messaggi scambiati fra
commilitoni, attestati per consegne di razioni ed elenchi di turni di
guardia, tutti da attribuire al II sec. d.C. Un altro lotto di materiale
omogeneo è costituito da 10 esemplari provenienti dal Fayûm, scritti negli
anni a cavallo fra il III e il IV sec. d.C. e tutti contenenti ricevute per il
pagamento di imposte in natura o per l’adempimento di obblighi in lavoro
cui i contribuenti erano tenuti.
Rispetto all’insieme degli ostraka greci, il gruppo di quelli scritti in copto è
assai meno cospicuo: consta di 36 esemplari situabili nel VII e nell’VIII sec.
d.C., di cui 2 scavati nel 1934 a Tebtynis, 3 di origine incerta comperati da
Vogliano nel 1938 e i restanti provenienti dal territorio di Tebe, acquisiti
alla raccolta sul finire degli Anni Ottanta. I 2 di Tebtynis contengono
ricevute per pagamenti di tributi, che sino a pochi anni addietro, cioè sino
a quando la Missione congiunta del nostro Ateneo e dell’IFAO del Cairo
non ha ripreso gli scavi nell’area, erano gli unici documenti in copto
conosciuti per quel grande centro urbano. I pezzi acquistati, invece, nella
stragrande maggioranza portano lettere, in qualche caso di carattere
Figura 2. Domanda oracolare in copto (VII-VIII sec. a. C.)
Università
Sistema
Collezioni
ufficiale. Ma accanto a queste troviamo pure testi di contenuto
nettamente diverso e talora poco usuale.
Ad esempio, abbiamo due esercizi scolastici: uno con le lettere
dell’alfabeto tracciate più volte da un principiante, l’altro costituito da una
frase scritta dal maestro nella prima riga e successivamente copiata
dall’allievo sino all’esaurimento della superficie del coccio. Incontriamo
poi un paio di domande oracolari, che riflettono la pratica assai diffusa di
chiedere responsi alla divinità sottoponendole domande scritte. Queste
in genere erano due per ogni quesito: una formulata in modo positivo,
l’altra in modo negativo. I due testi venivano deposti davanti all’immagine
della divinità; poi, con procedimenti a noi sconosciuti, si effettuava la scelta
di uno di essi, che costituiva il responso. Nell’Egitto tolemaico, romano e
bizantino, cioè dal IV sec. a.C. in poi, le domande di norma erano scritte
su foglietti di papiro; nel nostro caso, invece, sono eccezionalmente stese
su pezzi di coccio. Una riguarda l’acquisto di un terreno, l’altra la
posizione occupata da una certa persona (Fig. 2). Oltre agli esercizi di
scuola e alle domande oracolari, merita una citazione specifica almeno un
altro reperto, che fu scritto ben tre volte. Dapprima vi fu steso un conto
sulla superficie convessa; poi ne fu tracciato un altro su quella concava;
indi il testo scritto per primo fu parzialmente cancellato e al suo posto
vennero aggiunti i nomi di alcuni dei 40 Martiri di Sebaste. Il coccio
diventò così un insolito filatterio, cioè un amuleto protettivo, realizzato
senza pretese di accuratezza, ma non per questo privo di efficacia, almeno
nelle speranze di chi lo preparò.
Ancora meno numerosi degli esemplari in copto sono quelli scritti in
demotico: appena 9, raccolti da Vogliano a Tebtynis durante i suoi scavi
del ’34. Sfortunatamente questi pochi pezzi, che forse erano già in
condizioni precarie al momento del recupero, si sono ulteriormente
guastati durante gli anni trascorsi nei sotterranei del Castello; sicché ora
si può soltanto dire che essi portano i resti di liste e di conti situabili nel
periodo compreso fra il II sec. a.C. e il I sec. d.C.
Di tutti i reperti della raccolta solo 25 sono stati finora editi: 9 con testi
in greco e 16 scritti in copto. Però l’insieme dei pezzi è dettagliatamente
catalogato, viene studiato regolarmente e ha già offerto materiale per una
tesi di laurea, oltre che per innumerevoli esercitazioni. Si conta quindi di
presentare fra non molto l’edizione degli ostraka greci in uno specifico
volume, mentre quelli copti e quelli demotici, non sufficienti per formare
volumi, saranno pubblicati insieme ai papiri scritti nella stessa maniera.
Quando i testi appariranno si vedrà ancora meglio quale sia l’interesse
scientifico della raccolta e quale importanza essa abbia per il patrimonio
culturale di Milano.
In Italia le collezioni di ostraka sono ancora meno di quelle di papiri:
la più consistente si trova al Museo Egizio di Torino, una abbastanza ampia
è all’Università di Pisa, un centinaio di pezzi stanno all’Università di
Padova, esigui lotti sono conservati a Firenze e al Castello Sforzesco.
Ma i reperti di Torino sono pressoché tutti in egiziano, così come quelli di
Pisa, mentre i testi di Padova sono tutti greci e vengono da un unico sito.
La Collezione Milano Vogliano, invece, comprende esemplari in varie
lingue, con provenienze differenti e datazioni diverse; conseguentemente
offre una campionatura ben più vasta e più articolata dell’utilizzo di un
supporto della scrittura che a noi appare sorprendente, ma che in epoca
antica fu diffusissimo.
Le vetrine del sapere
La nuova pubblicazione di Egittologia
di Patrizia Piacentini, Dipartimento di Scienze dell’antichità, Università degli Studi di Milano.
G
li straordinari materiali d’archivio, fotografie, disegni, libri antichi e
rari, conservati nella Biblioteca e Archivi di Egittologia dell’Università
degli Studi di Milano, vengono presentati, in molti casi per la prima volta,
nell’opera in due volumi Egypt and the Pharaohs. Pharaonic Egypt
in the Archives and Libraries of the Università degli Studi di Milano. Il primo
volume reca come sottotitolo From the Sand to the Library, il secondo
From Conservation to Enjoyment (entrambi pubblicati nella collana
di «Le vetrine del sapere», edita da Università degli Studi di Milano
e Skira).
A partire dal 1999 l’Ateneo milanese ha condotto, con l’aiuto
della Fondazione Cariplo e di alcuni generosi mecenati, una sistematica
politica di acquisizione di collezioni librarie e archivistiche egittologiche,
che ha portato in pochi anni alla creazione di un centro di ricerca
di eccellenza.
La pubblicazione dei due volumi costituisce una sorta di celebrazione
del decennale della Biblioteca e degli Archivi, ma ancor più degli studiosi
che, con il loro paziente lavoro sul campo e nelle biblioteche, hanno
fatto la storia dell’Egittologia.
Vi sono presentate le prime esplorazioni dei siti antichi e le grandi
scoperte archeologiche compiute in Egitto, le tappe della decifrazione
dei geroglifici e della comprensione della civiltà egiziana, la ricostruzione
della storia dei faraoni e del loro popolo attraverso una
documentazione variegata e ricchissima, fatta di libri e di documenti
d’archivio, conservata a Milano.
I momenti salienti della nascita e della strutturazione della disciplina
vengono presentati dal celebre egittologo egiziano Zahi Hawass che,
negli anni recenti della sua direzione del Supreme Council of Antiquities, ha
introdotto nuove regole a protezione e valorizzazione del patrimonio
archeologico, artistico e architettonico del Paese, allargando
la conoscenza dell’Egitto antico anche al grande pubblico grazie a
una capillare utilizzazione dei media. Hawass racconta le imprese dei
principali egittologi egiziani e del resto del mondo impegnati in scavi
e ricerche nella terra dei faraoni, e le principali scoperte da lui stesso
effettuate. Alcune di esse sono state compiute partendo da quelle
degli archeologi del passato, come la recente identificazione – grazie
all’incrocio di dati storico-archeologici e a test del DNA – di alcune
mummie ritrovate da Victor Loret nel 1898 nella tomba di Amenhotep
II nella Valle dei Re. La documentazione relativa a questa scoperta di fine
Ottocento, e in particolare il giornale e le fotografie di scavo
dell’archeologo, è stata acquisita nel 2002 dagli Archivi egittologici
milanesi, e pubblicata nel 2004 da Christian Orsenigo e da chi scrive nel
volume La Valle dei Re riscoperta. I giornali di scavo di Victor Loret (18981899) e altri inediti, primo della collana «Le vetrine del sapere». Questo
materiale eccezionale è stato inoltre esposto, nel 2008, alla mostraVictor
Loret in Egypt. (1881-1899). From the Archives of the Milan University to the
Egyptian Museum in Cairo, organizzata dalla Cattedra di Egittologia
dell’Università degli Studi di Milano e dalla direzione del Museo Egizio
del Cairo, e qui tenutasi dal 19 maggio al 30 giugno 2008. La mostra si
inseriva nelle attività di collaborazione tra l’Università milanese, il
Museo e il Supreme Council of Antiquities, iniziata alla metà degli anni ’90
e tuttora in corso.
In un capitolo redatto con Elmar W. Seibel si traccia poi la storia della
diffusione del “mito” dell’Egitto, le prime esplorazioni del Paese,
la nascita e lo sviluppo dell’Egittologia attraverso volumi antichi e rari
conservati a Milano: da alcune cinquecentine a libri novecenteschi
appartenuti ad Howard Carter, scopritore della tomba di Tutankhamon,
e a molti altri celebri studiosi. Questi volumi provengono
essenzialmente dal fondo Elmar Edel, acquistato dall’Ateneo nel 1999
e composto da circa sedicimila titoli, tra libri ed estratti da riviste,
e dal fondo Alexandre Varille, depositato in Biblioteca in comodato
da un privato nel 2002 e formato per lo più da libri di pregio.
Vengono quindi presentati nel volume i numerosi fondi archivistici
egittologici – completi o parziali – raccolti presso l’Università degli Studi
di Milano: da quelli di Auguste Mariette, fondatore del Museo Egizio
del Cairo, a quelli appartenuti ad altri celebri egittologi, quali Victor
Loret, Giuseppe Botti, George Fraser,Alexandre Varille, James Quibell,
Pierre Lacau, Bernard V. Bothmer,William Kelly Simpson. Gli archivi
costituiscono oggi una nuova frontiera per gli studi egittologici: il loro
studio accurato permette infatti di ripercorrere la storia delle ricerche
per meglio condurre le esplorazioni future. Si tratta inoltre di materiali
non solo di grandissimo interesse egittologico e storico, ma anche
pregevolissimi da un punto di vista estetico, com’è il caso degli
7
Università
Sistema
Le vetrine del sapere
acquerelli realizzati da Victor Loret nella Valle dei Re.
Christian Orsenigo illustra, attraverso inediti materiali d’archivio, alcune
delle più grandi scoperte archeologiche effettuate nel Paese tra i primi
decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento, dalla necropoli di
Saqqara che cominciava a emergere dalla sabbia grazie alle ricerche di
Mariette fino alle mummie rinvenute da Loret, dagli ori di Tutankhamon
scoperti da Carter e rimasti in Egitto grazie alla determinazione di
Lacau, agli argenti dei faraoni di Tanis trovati da Montet, in una galleria
sorprendente per la personalità degli archeologi e i materiali portati
alla luce.
Il più famoso egittologo italiano del Novecento, Sergio Donadoni,
racconta quindi, attraverso ricordi personali, alcune lettere inedite e
bellissime fotografie, la grande avventura del salvataggio dei monumenti
della Nubia che rischiavano di essere sommersi dalle acque del lago
Nasser, tra cui il grandioso tempio di Abu Simbel.
Il primo volume si conclude con uno sguardo al futuro. Glauco
Mantegari e Laura Marucchi illustrano infatti le applicazioni informatiche
e le soluzioni più attuali, già adottate dagli Archivi di Egittologia
di Milano o che saranno applicate in futuro, per salvaguardare
il patrimonio archivistico, fotografico e bibliografico e metterlo
a disposizione di un pubblico sempre più vasto.
Infine, Elmar Seibel, alla cui paziente ricerca di fondi archivistici e librari
si deve il continuo arricchimento della Biblioteca e degli Archivi
di Egittologia, immagina il completamento della Biblioteca stessa con
opere molto rare e pregiate, che potrebbero andare ad aggiungersi
a quelle già presenti. L’augurio è che i fondi archivistici possano essere
reperiti nel futuro e che altri egittologi vogliano lasciare la loro
documentazione di studio e di scavo presso gli archivi milanesi,
seguendo l’esempio generoso del Professor William Kelly Simpson,
di Clara e Paola Botti – nipoti di Giuseppe Botti “primo” – di MarieJeanne e Solange Lacau – figlie di Pierre Lacau – e degli illustri studiosi
che hanno già promesso i loro archivi.
Nel secondo volume, chi scrive riprende la parola per raccontare come
nel corso dell’Ottocento siano stati compiuti i primi passi per
la protezione del patrimonio archeologico egiziano e siano nati i musei
in Egitto, tra cui quello Egizio del Cairo e quello Greco-Romano
di Alessandria. Molti aspetti della nascita e degli sviluppi di quest’ultima
collezione sono illustrati in una serie di lettere del suo fondatore
e primo direttore, Giuseppe Botti “primo”, depositate in comodato
negli Archivi di Egittologia della nostra Università.Altre utili informazioni
possono dedursi dai documenti conservati nelle collezioni Loret e
Lacau dell’Ateneo.
La storia del Museo Egizio del Cairo, nelle sue successive sedi di Bulaq,
di Giza e del centro della città – oggi piazza Tahrir – è stata ricostruita
in molti suoi aspetti inediti grazie a numerosissimi materiali conservati
negli Archivi milanesi. Essa è stata illustrata nella mostra The History of
the Egyptian Museum, organizzata dalla Cattedra di Egittologia
dell’Università degli Studi di Milano e dalla direzione del Museo Egizio
del Cairo, e qui tenutasi dal 19 ottobre 2008 al 31 gennaio 2009.
La mostra è stata molto apprezzata non solo dai numerosi visitatori
internazionali del Museo – tra i quali il Presidente della Repubblica
8
Gli egittologi E. Brugsch, F.W. von Bissing e P. Lacau sulla balconata del Museo di Giza,
12 marzo 1898. Biblioteca e Archivi di Egittologia, Università degli Studi di Milano, fondo
Lacau.
Giorgio Napolitano – ma anche, e forse ancor più, dal pubblico egiziano,
che ha potuto scoprire episodi inediti relativi alla creazione di una delle
più importanti istituzioni del Paese e al suo sviluppo nel corso di un
secolo e mezzo dalla sua nascita.
Laura Marucchi e chi scrive ripercorrono quindi, attraverso immagini di
straordinaria bellezza, la storia dei fotografi operanti in Egitto fin dalla
nascita della Fotografia verso gli anni ‘40 dell’Ottocento, dai dagherrotipi
di Joly de Lotbinière ai calotipi di Maxime Du Camp, da Francis Frith ad
Antonio Beato e a molti altri.Vengono quindi presentate le immagini
delle prime riprese aeree realizzate nel Paese da Kofler – un
personaggio di probabile origine altoatesina di cui non si sa ancora
molto ma sul quale si stanno conducendo intense ricerche –, e illustrate
le sperimentazioni e la diffusione delle tecniche fotografiche applicate
all’archeologia egizia.
Una sezione del volume tratta della “fortuna” dell’Egitto nella cultura
moderna. Si inizia dalla pittura con un saggio di Fernando Mazzocca
relativo agli aspetti dell’antico Egitto più frequentemente ripresi dai
pittori del XIX secolo, tra i quali gli italiani Federico Faruffini e Pietro
Paoletti.
Nel capitolo seguente, la scrivente illustra e analizza criticamente le
realizzazioni di ispirazione egizia del pittore “ornatista” italiano Gaetano
Lodi. Dopo aver partecipato alla decorazione del foyer dell’Opéra
di Parigi e della galleria Vittorio Emanuele a Milano, Lodi nel 1872 partì
per l’Egitto dove decorò, tra l’altro, il palazzo del vicerè Ismail Pasha
a Giza, in seguito divenuto, nell’ultimo decennio del XIX secolo, sede
del Museo Egizio del Cairo. Durante gli anni della sua permanenza
in Egitto, Lodi realizzò inoltre i bozzetti preparatori per un servizio in
porcellana in stile “egittizzante” commissionato dal vicerè e realizzato
tra il 1874 e il 1875 dalla Manifattura Ginori. Grazie a una serie
eccezionale di acquerelli, che un collezionista ha concesso in studio
alla Cattedra di Egittologia dell’Università milanese, e al raffronto con
alcuni pezzi conservati nel Museo Richard-Ginori della Manifattura
di Doccia a Sesto Fiorentino, si è potuto infatti provare con certezza
che proprio a Gaetano Lodi si deve il raffinato design del prezioso
servizio. Il pittore realizzò inoltre la decorazione all’egiziana
di una saletta in un palazzo di Bologna, che costituisce un bell’esempio
di Egyptian Revival in Italia nella seconda metà del XIX secolo.
L’immagine dell’Egitto, come si era formata e andata consolidando a
partire dalla Spedizione di Napoleone Bonaparte del 1798-’99 e dalle
successive ondate di Egittomania, si riflette anche nell’arte, nei libri e
nelle riviste novecentesche, conservate negli Archivi del Centro Apice
dell’Università degli Studi di Milano.All’argomento è dedicato il
contributo di Antonello Negri e Marta Sironi.
Gli Archivi egittologici, infine, hanno ricevuto in deposito temporaneo
un’incredibile collezione di oggetti del XIX e XX secolo di ispirazione
egizia, formata in particolare da oltre 800 scatolette di sigarette
in cartoncino o metallo con decorazioni egittizzanti. Si tratta di un
esempio non comune di Egittomania, un fenomeno culturale
e di costume cui la Cattedra di Egittologia dell’Università milanese sta
dedicando da anni studi specifici. Un capitolo riccamente illustrato su
questo argomento chiude, con un sorriso, il volume.
Il tempio di Karnak in una fotografia di Heinz Leichter, tra il 1910 e il 1940.
Biblioteca e Archivi di Egittologia, Università degli Studi di Milano, fondo Varille.
Università
Sistema
Ricerca
AWIN:il progetto europeo
sul benessere animale
di Silvana Mattiello, Sara Barbieri, Lorenzo Ferrari e Elisabetta Canali, Dipartimento di Scienze animali Sezione di Zootecnica veterinaria, Università degli Studi di Milano.
N
ell’ambito del 7° Programma Quadro dell’Unione Europea (FP7KBBE-2010-4), il Dipartimento di Scienze Animali (DSA) partecipa al nuovo
progetto Development, integration and dissemination of animal-based welfare
indicators, including pain, in commercially important husbandry species, with
special emphasis on small ruminants, equidae e turkeys, coordinato da
Adroaldo Zanella dello Scottish Agricultural College.
Si tratta di uno dei più importanti studi europei sinora finanziati, dedicato
all’approfondimento dei temi riguardanti il benessere degli animali da
reddito.
Questa tematica è oggetto di una crescente attenzione non solo da parte
dell’ambiente scientifico, ma anche dell’opinione pubblica: il benessere
animale è diventato negli ultimi decenni argomento di attualità, al centro
di discussioni e dibattiti tra allevatori, consumatori e tutti coloro che
operano nel settore delle produzioni animali.
Le esigenze dei consumatori stanno cambiando velocemente.
Il consumatore è alla continua ricerca di prodotti con elevati livelli qualitativi
e, tra le caratteristiche di qualità richieste, sempre più spesso compare
anche la certificazione di processi produttivi che siano in grado di garantire
un adeguato livello di benessere agli animali.
Numerosi autori hanno proposto, nel corso degli anni, una definizione
di “benessere animale” che risultasse accettabile sia dal punto di vista
scientifico che da quello etico, riuscendo spesso a conciliare i due aspetti.
Tra tutte le definizioni, quella data da Hughes e Duncan nel 1988 può
essere considerata sufficientemente esaustiva e allo stesso tempo chiara e
concisa:“Il benessere è uno stato generale di buon equilibrio fisico-mentale
in cui l’animale si trova in armonia con l’ambiente circostante”. L’animale
deve quindi essere messo in condizione di potersi adattare all’ambiente
in cui viene allevato e l’uomo è responsabile della qualità di tale ambiente.
La domanda sempre più pressante per la ricerca di soluzioni di allevamento
orientate al benessere animale rende necessario lo sviluppo di un metodo
semplice ma valido per la valutazione delle condizioni in cui vivono
gli animali che alleviamo.
Attivato ufficialmente nel maggio 2011, grazie a un finanziamento
di circa 5 milioni di euro, il Progetto AWIN (acronimo di Animal Welfare
Indicators) si compone di quattro linee di ricerca (Work Packages), ognuna
mirata al raggiungimento di uno specifico obiettivo: individuare un
“protocollo di valutazione del benessere in campo” che possieda quattro
fondamentali caratteristiche (validità, semplicità di utilizzo, economicità e
accettazione da parte degli allevatori); comprendere la reale percezione del
dolore degli animali rispetto ad alcune pratiche di allevamento, al fine di
vagliare procedure alternative; stabilire l’effetto dell’ambiente prenatale e
neonatale sul futuro benessere degli animali allevati; attivare un programma
globale di divulgazione ed educazione in tema di benessere animale, con
metodiche innovative e interattive.
Il diretto e importante coinvolgimento dell’Università degli Studi di Milano
si concretizza attraverso il lavoro del gruppo di ricerca del DSA che si
occupa di benessere animale e produzioni sostenibili. Il gruppo coordinerà
infatti la linea di ricerca,che prevede la stesura di protocolli basati
sull’utilizzo di indicatori di pratico utilizzo in allevamento, al fine di
permettere la valutazione del
benessere di cavalli, asini, pecore,
capre e tacchini. Il progetto
rappresenta il logico
proseguimento del precedente
progetto europeo denominato
Welfare Quality ® (nel quale il DSA
era già stato attivamente
coinvolto), che si era a suo
tempo focalizzato sulla messa a
punto di protocolli per la
valutazione in allevamento del
benessere di bovini, suini e polli.
Il 9 e 10 novembre 2011, presso
la Rappresentanza della
Commissione Europea a Milano, ha avuto luogo il primo meeting
degli esperti, nel corso del quale sono stati presentati e discussi
i risultati del lavoro di revisione della letteratura scientifica sui possibili
indicatori di benessere per le varie specie considerate, al fine
di selezionare quelli più promettenti da inserire nei futuri protocolli
di valutazione del benessere in allevamento. Le ricerche per lo sviluppo
di tali protocolli verranno svolte in aziende zootecniche di vari Paesi
europei, per testare la validità, la ripetibilità e la fattibilità degli indicatori
selezionati.
Hanno partecipato al meeting alcuni tra i maggiori esperti internazionali,
appartenenti a numerose istituzioni ed enti di ricerca: Scottish Agricultural
College, Neiker-Tecnalia (Spagna),Technical University of Lisbon, Institute of
Animal Science di Praga, Pferdeklinik Havelland Equine Clinic (Germania),
University of Edinburgh (UK) e Federal University of Paraná (Brasile).
Durante il meeting sono inoltre stati tenuti in considerazione gli input di
altre istituzioni afferenti al progetto, quali la Norwegian University of Life
Sciences che, pur non avendo direttamente preso parte all’incontro, ha
comunque fornito un importante contributo. In chiusura dei lavori, è
intervenuto Andrea Gavinelli, laureatosi presso la Facoltà di Medicina
Veterinaria del nostro Ateneo e oggi Head of Unit D5 - Animal Welfare Health
and Consumers Directorate General (DG SANCO) della Commissione
Europea, che ha illustrato le aspettative della UE relativamente ai risultati
del progetto e ha sottolineato l’importanza crescente delle ricerche nel
campo del benessere animale.
Tra gli aspetti peculiari di AWIN, risalta il forte coinvolgimento del mondo
operativo fin dalle prime fasi di stesura dei protocolli per la valutazione
del benessere, che devono necessariamente trovare un consenso anche
da parte delle associazioni di allevatori, produttori, grande distribuzione
e consumatori finali.
Un altro aspetto fortemente caratterizzante del progetto risiede
nel WP4, che prevede il coinvolgimento di tutti i partner per la creazione
di un “global hub” interattivo per promuovere la ricerca e la formazione
in tema di benessere animale, integrando ricerche passate, presenti e future
e materiale didattico. Il contributo dei singoli partner al WP4 si concretizza
nella messa a punto di specifici strumenti formativi, cioè di materiale audio
e video da inserire in un’apposita sezione del sito AWIN dedicata
alla formazione (http://www.animal-welfare indicators.net/site/index.php/
learning-objects) e già parzialmente attiva.Tale materiale deriva
dalle sperimentazioni attuate di volta in volta nel corso del progetto
e servirà come supporto per uniformare l’insegnamento dell’etologia
applicata e del benessere animale a livello europeo.
AWIN punta molto sui giovani e prevede pertanto la creazione di
numerose posizioni di PhD e di formazione post-dottorato nei vari Paesi
coinvolti, offrendo molteplici opportunità di formazione e crescita
professionale.
Per il Dipartimento di Scienze animali è un grande onore essere
protagonisti di AWIN. L’attenzione dedicata e le risorse messe a
disposizione dall’Unione Europea testimoniano la crescente importanza
attribuita al benessere degli animali in allevamento. La leadership in uno
dei principali Work Package
del progetto è per il team del DSA
una grande sfida e un’irripetibile
opportunità per contribuire
attivamente alla definizione
di nuovi standard di benessere
animale e, al contempo, una
conferma del buon lavoro svolto
in questi anni.
Il gruppo di AWIN.
Project AWIN website:
www.animal-welfare-indicators.net
9
Università
Sistema
10
Cooperazione allo sviluppo
Un quadro in evoluzione
di Guido Sali, Dipartimento di Economia e politica agraria, agro-alimentare e ambientale, Università degli Studi di Milano.
L’
attività universitaria nel campo della cooperazione allo sviluppo si è
evoluta seguendo percorsi non sempre facili.
La nascita della moderna cooperazione allo sviluppo è collocabile
a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 quando, sull’onda dell’allora giovane
processo di decolonizzazione, si venne formando il fenomeno
della cooperazione non governativa che agiva in aggiunta, e non
raramente in contrapposizione, alla cooperazione attraverso i canali
istituzionali. Occorre dire che l’università non era all’epoca
interlocutore privilegiato né delle istituzioni né della società civile.
Le prime si avvalevano principalmente del mondo delle imprese
favorendo anche, in tal modo, l’affermazione dell’industria italiana
all’estero attraverso grandi progetti industriali e infrastrutturali. Quanto
alla cooperazione non governativa, essa si sviluppò intorno a modelli
che differivano da quella governativa relativamente all’approccio, alle
dimensioni, alle finalità. In sostanza si trattava di azioni che si fondavano
su modelli derivanti più dalla tradizione missionaria di matrice cristiana
o dalla elaborazione delle ideologie miranti al riscatto delle popolazioni
oppresse, dove prevalevano decisamente l’aspetto operativo
e relazionale rispetto alle esigenze di analisi e di impostazione tecnicoscientifica degli interventi.
Entrambi gli approcci nel corso degli anni hanno manifestato limiti
e difetti che non è il caso di approfondire. Basti pensare al processo
di ripensamento della cooperazione governativa che, non solo a livello
nazionale ma anche a livello europeo, già dagli anni ’90 ha dato vita
a programmi coordinati e integrati in cui trovano sintesi da un lato
le fasi di ricerca ed analisi e dall’altro quelle di intervento e di
partnership operativa e paritetica. Anche la cooperazione non
governativa ha maturato un processo di crescita tale da sviluppare la
consapevolezza che solo poggiando i propri programmi su un solido
quadro conoscitivo multilivello e multidimensionale fosse possibile
migliorare sensibilmente non solo i risultati degli interventi ma anche
gli impatti in ambito sociale ed economico.
In questo contesto l’intervento dell’università nella cooperazione
allo sviluppo ha acquisito un ruolo via via più rilevante parallelamente
al crescere dell’esigenza di miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia
degli interventi progettati. Non solo, una spinta fondamentale è derivata
anche dal bisogno di imprimere un forte impulso alla crescita
del capitale umano attraverso la formazione, gli scambi di studenti
e docenti, l’allacciamento di rapporti sempre più stretti tra università
sul fronte della ricerca e della didattica.
Si può quindi affermare che il ruolo dell’università nella cooperazione
allo sviluppo è cresciuto in virtù del processo di riequilibrio del fulcro
decisionale, spostatosi dal paese donatore alla partnership bilaterale.
È un ruolo cresciuto anche grazie al rovesciamento del processo
di trasferimento (di tecnologie, di risorse finanziarie, di competenze)
a favore della crescita endogena e della condivisione dei saperi, fino
alla elaborazione di sintesi culturali nuove ed originali.
In questo quadro negli ultimi anni si è venuto delineando un sistema
nel quale istituzioni, società civile e università hanno ormai trovato
una collocazione precisa e ruoli complementari nell’affrontare i temi
dell’aiuto allo sviluppo. Il modello che nasce dall’esperienza acquisita
nel corso degli anni vede quindi oggi una nuova stagione di
collaborazione tra i tre soggetti che diventano altrettanti pilastri su cui
si regge l’attività di cooperazione.
Tra le azioni che hanno consentito di superare vecchie e comprensibili
diffidenze va ricordata l’iniziativa del Ministero degli Affari Esteri che ha
istituito un canale dedicato di interlocuzione con il mondo universitario,
così da poter avviare iniziative concertate, di ampio respiro e
multidisciplinari. Parallelamente è ormai prassi consolidata da parte
delle organizzazioni non governative (ONG) avvalersi del supporto
universitario per le fasi di analisi ed elaborazione dei problemi, così
come per la verifica ex ante ed ex post dei progetti elaborati.
Il modello di approccio ai temi della cooperazione così impostato su tre
soggetti in stretta interrelazione consente di raggiungere diversi
obiettivi strategici. In primo luogo il mondo della cooperazione non
governativa, ormai radicato nei paesi in cui opera, è in grado di
percepire i bisogni provenienti dal basso, legati ai problemi di sviluppo
dell’economia locale, alle domande di salute e istruzione, alla qualità
della vita e dell’ambiente, alla crescita del capitale sociale. Inoltre, le
ONG sono in grado non solo di dotarsi della struttura necessaria a
realizzare gli interventi, ma sovente hanno creato reti con altre
organizzazioni locali ed estere per collaborare allo sviluppo dei
programmi d’azione.
In questo contesto le azioni prevalentemente intraprese riguardano
i progetti in campo agricolo e artigianale, nella gestione delle risorse
naturali ed energetiche, assistenza sanitaria di base, educazione e
sensibilizzazione della popolazione, sviluppo dell’associazionismo e di
un più solido tessuto sociale.
Il coinvolgimento del mondo universitario in questo ambito è stato
graduale e solo negli ultimi anni sta cercando di farsi “sistema” e uscire
dall’approccio basato sul volontariato di tanti docenti. Questi, in
contatto con il mondo della cooperazione per motivazioni ideali, hanno
costruito nel tempo una fitta rete di collaborazioni tecnico-scientifiche
che, tranne qualche eccezione, solo negli ultimi anni hanno trovato
visibilità e sistematicità nelle attività istituzionali degli atenei.
Testimonianza della dimensione istituzionale acquisita dalla attività
di cooperazione per quanto riguarda il nostro Ateneo è il volume di
prossima uscita, curato dal Delegato del Rettore per la Cooperazione
allo Sviluppo, Claudia Sorlini, che raccoglie i progetti in corso su un
ampio ventaglio disciplinare: dall’agricoltura alla sanità, dall’alimentazione
all’energia, dall’archeologia alla mediazione linguistica e culturale.
Il coinvolgimento universitario nei progetti di sviluppo locale ha
consentito anche l’elaborazione di metodologie di intervento basate
sulle “tecnologie appropriate”, una forma di trasferimento tecnologico
non improntato ai criteri di efficienza propri dei paesi industrializzati,
ma in grado di adattarsi al sistema di vincoli strutturali delle realtà in cui
devono essere implementate. L’università può quindi operare all’interno
del perimetro delle proprie competenze e della propria missione,
valorizzando e qualificando nel contempo l’azione della cooperazione,
dotandola di una solida impostazione metodologica e mettendo
a disposizione competenze, strutture e tecnologie.
Sul fronte governativo le rappresentanze dei paesi donatori e delle
istituzioni internazionali elaborano le strategie di intervento tenendo
conto di un vasto spettro di parametri decisionali, tra cui spiccano le
esigenze espresse dalle istituzioni locali. In questo caso l’università è
chiamata a ricoprire un ruolo di cerniera tra l’individuazione del
problema e la predisposizione di strategie per affrontarlo. È a questo
Un momento dell’attività di cooperazione del CICSAA in Libano.
Università
Sistema
Cooperazione allo sviluppo
livello che si riscontrano le attività di cooperazione svolte dal nostro
Ateneo nel campo delle grandi strutture sanitarie e dei programmi
di lotta alle malattie endemiche, dei progetti di riconversione agricola,
di tutela e valorizzazione delle risorse culturali (archeologiche,
architettoniche, etnografiche, ecc.), fino alla predisposizione e
realizzazione di progetti di istruzione universitaria e di alta formazione.
I due livelli di intervento appena descritti, uno micro e uno macro,
tendono inevitabilmente a congiungersi e a trovare parziali
sovrapposizioni laddove alla rilevazione del problema da parte
delle istituzioni governative fa riscontro il coinvolgimento dell’università
per la fasi analitica e progettuale e della cooperazione non governativa
per la fase di attuazione degli interventi.
Si realizza così la saldatura dei tre pilastri in un quadro di azione che è
oggi ancora ben lungi dal produrre tutti i potenziali benefici. Dalle
esperienze recentemente vissute emerge infatti la consapevolezza che
i tre soggetti possono sviluppare proficue azioni su diversi fronti e
a diversi livelli, come dimostra l’impostazione dei principali strumenti
comunitari di cooperazione: ENPI (strumento della politica europea
di vicinato), DCI (strumento per la cooperazione allo sviluppo) e IPA
(strumento di preadesione).Ad esempio ENPI è organizzato su diversi
livelli di intervento, dalla cooperazione bilaterale a quella regionale
e interregionale, fino alla cooperazione transfrontaliera e tematica.
Soprattutto nell’ambito della cooperazione tematica viene affermato
il decisivo ruolo della società civile da un lato e del mondo della cultura
e dell’educazione dall’altro, con una particolare attenzione al ruolo che
le università possono rivestire sia nell’elaborazione di proposte
progettuali complesse sia nella creazione di consorzi tra soggetti
pubblici e privati in grado di acquisire contratti quadro, strumento
prezioso per dare continuità alle azioni intraprese e formare
professionalità specificamente indirizzate verso i temi della
cooperazione allo sviluppo.
Non c’è dubbio quindi che il processo di riorganizzazione cui assistiamo
in questi anni stia modificando profondamente gli schemi di intervento
della cooperazione, evidenziando che la sfida dello sviluppo sta vivendo
una stagione nuova, in cui l’azione si fa sistema di partenariato e
l’approccio si fa pluridisciplinare e multilivello. L’esperienza di Ateneo
testimoniano che il mondo universitario, e l’Università degli Studi
di Milano in particolare, è in grado di raccogliere la sfida.
Uno dei settori di intervento dell’Università degli Studi di Milano
in questo tipo di attività fa capo al CICSAA - Centro Interuniversitario
per la Cooperazione allo Sviluppo Agro-Alimentare e Ambientale.
Attraverso il Centro, l’Ateneo ha avviato da circa cinque anni un’attività
di supporto scientifico all’impostazione e all’esecuzione di programmi di
cooperazione in Libano, affiancando l’azione delle ONG che operano in
loco, la cooperazione italiana e le istituzioni locali.
Elemento qualificante di tale attività è costituito dalla forte integrazione
tra due livelli di azione: la presenza sul territorio e la fitta rete di
relazioni locali realizzata dalle ONG, che permette di avere il “polso”
delle problematiche provenienti dalla società locale e il bagaglio
scientifico e metodologico che il partner universitario mette a
disposizione e che consente di razionalizzare i problemi e le modalità
di ricerca delle soluzioni.
L’università può quindi operare dotando l’azione della cooperazione
di una solida impostazione metodologica e mettendole a disposizione
competenze, strutture e tecnologie.
Tale azione, unitamente alla costante interlocuzione con le Istituzioni
pubbliche italiane e libanesi, ha avuto come risultato un modello di
interazione tra attori capace di affrontare i temi dello sviluppo secondo
percorsi di partenariato, di condivisione e diffusione dei saperi, di
radicamento sul territorio.
Quelli che seguono sono i progetti a cui il CICSAA ha fornito fino ad
oggi le proprie competenze:
Interventi di emergenza nella piana di Marjayoun, Libano - finanziato
dal MAE.
Interventi di emergenza in West Bekaa, Libano - finanziato dal MAE.
Promozione dell’agricoltura sostenibile in Libano - finanziato dalla
Regione Lombardia.
Improvement of irrigation water management in Lebanon and Jordan
- finanziato dalla UE.
Interventi di sviluppo socio-economico e agro-ambientale nella Caza
di Marjayoun e in West Bekaa, Libano - finanziato dal MAE.
Riabilitazione del perimetro irriguo di Balbeck, Libano - finanziato dal
MAE.
Acqua sorgente di convivenza - finanziato dalla Regione Lombardia.
Acqua sorgente di convivenza: risposte urgenti e stabili per una
coabitazione possibile a Marjayoun, Libano - finanziato dal MAE.
Lotta integrata al fitoplasma delle drupacee in Libano - finanziato dal
MAE.
Lotta al fitoplasma “Candidatus Phytoplasma phoenicium” attraverso
la valorizzazione della biodiversità in frutteti di pesco e mandorlo in
Libano – finanziato dal Comune di Milano.
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Nel corso della realizzazione dei programmi di collaborazione
scientifica è stato organizzato il convegno “La cooperazione allo
sviluppo rurale ed agroalimentare in Libano”, tenutosi presso la Facoltà
di Agraria il 18 aprile 2008.
L’11 luglio 2008 il Centro ha partecipato al convegno “Eau et
Agriculture: méthodes, impact et perspectives pour un développement
durable dans la région de Marjayoun et dans la Békaa Ouest”, tenutosi
nella Caza di Marjayoun, Libano. Il convegno è stato l’occasione per
divulgare alle autorità locali e ai portatori di interesse i risultati dei
lavori condotti dal Centro.
Il 31 marzo 2009 il Centro ha partecipato al convegno “Acqua sorgente
di convivenza: Interventi di sviluppo socio economico e agro ambientale
nella caza di Marjayoun e West Bekaa”, tenutosi presso l’Université de
Notre Dame a Beirut, Libano. Il convegno, organizzato dall’ONG AVSI,
ha permesso di coinvolgere nel dibattito sui progetti di cooperazione
numerosi stakeholders: Ministero degli Affari Esteri, ONG,
amministratori locali, mondo accademico italiano e libanese.
Il 25 settembre 2010 il Centro ha organizzato il convegno “Biodiversity,
nutrition, development”, svolto presso l’Università degli Studi di Milano
che ha avuto lo scopo di pubblicizzare i risultati conseguiti nel corso
del progetto “Lotta integrata al fitoplasma delle drupacee in Libano”.
Il 27 ottobre 2011 il ministro dell’Agricoltura libanese ha fatto visita alla
nostra Facoltà di Agraria, manifestando il grande interesse del Libano al
rafforzamento delle collaborazioni sui temi dell’agricoltura, dello
sviluppo rurale e della gestione delle risorse naturali.
Parallelamente, l’attività svolta ha consentito all’Università di Milano di
stringere rapporti di cooperazione universitaria con diverse università
libanesi, con cui sono attivati programmi di scambio scientifico e
didattico.Al momento sono in essere tre Memorandum of
Understanding con American University of Beirut, l’Université SaintEsprit de Kaslik, l’Université Libanaise. Con l’Università di Saint-Esprit si
è appena conclusa una collaborazione didattica per la formazione di
uno studente libanese presso la scuola di dottorato in “Innovazione
tecnologica per le Scienze agro-alimentari e ambientali”.
Un paesaggio rurale in Libano.
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“Sistema Università” è edito
da Università degli Studi di Milano,
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La versione online di “Sistema Università”
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