La comunicazione aziendale nell`era dello storytelling - e
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La comunicazione aziendale nell`era dello storytelling - e
UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE SEDE DI MILANO FACOLTÀ DI Scienze linguistiche e letterature straniere CORSO DI LAUREA IN Scienze linguistiche TESI DI LAUREA LA COMUNICAZIONE AZIENDALE NELL’ERA DELLO STORYTELLING: LA NARRATOLOGIA COME NUOVO STRUMENTO DI MANAGEMENT Relatore: Ch.ma Prof.ssa Rossella Chiara Gambetti Correlatore: Ch.mo Prof. Edoardo Teodoro Brioschi Candidata: Cristina Fona Matricola N. 3806106 ANNO ACCADEMICO 2010/2011 A mio nonno Pietro, che porto sempre con me “Non è mai troppo tardi, o nel mio caso, troppo presto, per essere quel che vuoi essere. Non c’è limite di tempo, comincia quando vuoi, puoi cambiare o rimanere come sei, non esiste una regola in questo,possiamo vivere ogni cosa al meglio o al peggio. Spero che tu viva tutto al meglio, spero che tu possa vedere cose sorprendenti, spero che tu possa avere emozioni sempre nuove, spero che tu possa incontrare gente con punti di vista diversi, spero che tu possa essere orgogliosa della tua vita, e se ti accorgi di non esserlo, spero che tu trovi la forza di ricominciare da zero”. Dal film “Il curioso caso di Benjamin Button” “Angela, perché la vita si riduce a così poco? E dov’è la clemenza? Dov’è il rumore del cuore di mia madre? Dov’è il rumore di tutti i cuori che ho amato? Dammi un cesto figlia mia, il cestino con cui andavi all’asilo. Voglio metterci dentro, come lucciole nel buio, i bagliori che hanno attraversato la mia vita”. “Non ti muovere” Margaret Mazzantini “Bisogna avere ancora il caos dentro di sé per partorire una stella danzante”. Friedrich Nietzsche INDICE INDICE 1 RINGRAZIAMENTI 5 INTRODUZIONE 7 1. LA COMUNICAZIONE D’IMPRESA 11 1.1 ISTRUZIONI PER L’USO: UNA RIFLESSIONE MULTIDISCIPLINARE 11 1.2 LA CORPORATE COMMUNICATION: FRA MODELLI E NUOVE REALTÀ 19 1.3 I TRE PILASTRI DELLA CORPORATE COMMUNICATION 26 1.3.1 1.3.2 1.3.3 26 35 35 La Corporate Image La Corporate Identity La Corporate Reputation 1.4 I CAMPI D’ESPRESSIONE E GLI STRUMENTI DELLA C.C. 40 1.4.1 1.4.2 Dalla comunicazione di crisi alla B to B: i campi d’espressione della C.C. Dalla comunicazione eventi alla pubblicità: tecniche e strumenti della C.C. 40 50 1.5 IL NUOVO CONTESTO MEDIATICO WEB 2.0: NUOVE PRATICHE COMUNICATIVE 58 2. L’IDENTITÁ AZIENDALE 65 2.1 IL CONCETTO D’IDENTITÀ: UNA BREVE INTRODUZIONE 65 2.2 LA CORPORATE IDENTITY: MODELLI E FUNZIONI 68 2.3 LE IDENTITÀ DELL’AZIENDA: FRA STORIA, CULTURA E PERSONALITÀ 76 2.3.1 2.3.2 2.3.3 2.3.4 77 78 81 82 Corporate identity ed organizational identity Identità, cultura e sottoculture Fra storia e biografia in azienda La strategia d’impresa: mission e vision 2.4 CORPORATE IDENTITY MANAGEMENT 84 2.4.1 2.4.2 2.4.3 86 88 90 Il Corporate identity policy planning: Van Riel Identity formation, maturation and dissemination: Melewar Il Soul Searching: Brioschi e l’ottica della comunicazione 1 2.5 IL METRO DELLA CORPORATE IDENTITY E DEL CIM 95 3. IL CORPORATE STORYTELLING 99 3.1 COMUNICAZIONE NARRATIVA E NARRATOLOGIA: I FONDAMENTI 99 3.2 LA MODERNITÀ DELLA FIABA: LE TEORIE DELLA NARRATIVITÀ 3.2.1 3.2.2 3.2.3 3.2.4 3.2.5 3.2.6 Propp e la scuola russa (1895-1970 ) Greimas e la scuola francese (1917-1922) Chatman ed Eco: passeggiando fra “Storia e discorso” e “Lector in fabula” La psicologia cognitiva e narrativa: il pensiero di Bruner Vogler e gli american studios: il viaggio dell’eroe Il nostro finale: una breve sintesi delle puntate precedenti 105 105 106 109 113 119 126 3.3 STORYTELLING E IMPRESA: STUDI ITALIANI ED ESTERI 128 3.3.1 3.3.2 128 130 La rinascita dello storytelling: the narrative turn Corporate storytelling: da Denning a Fontana…fra ricercatori e guru 3.4 IL RACCONTO NEL WEB 2.0: CORPORATE DIGITAL STORYTELLING E TRANSMEDIA STORYTELLING 149 4. L’ORGANIZZAZIONE SI RACCONTA 153 4.1 I CAMPI D’INTERVENTO NELLA COMUNICAZIONE D’IMPRESA 153 4.2 RACCONTARE L’IDENTITÀ AZIENDALE: STORYTELLING E C.I 161 4.2.1 4.2.2 Cees Van Riel: the Sustainable Corporate Story Andrea Fontana: Fabula impresa e storytelling experience 161 166 4.3 IMPRESA REGISTA DI SAPERI: CRITICITÀ E PROBLEMATICHE 173 5. STORY-FACTORY: I CASI D’ANALISI 177 5.1 UN MODELLO DI IMPRESA NARRANTE: LA APPLE DI JOBS 177 5.2 MONTE DEI PASCHI DI SIENA: UNA STORIA ITALIANA 181 5.2.1 5.2.2 5.2.3 Una banca italiana: Monte dei Paschi di Siena Una storia italiana- La nostra Italia “E’ l’Italia a rendere unica la nostra storia” 181 182 186 5.3 MULINO BIANCO: IL MULINO CHE VORREI E LE SORPRESINE 187 5.3.1 187 Dal Mulino Bianco al Mulino che Vorrei 2 5.3.2 Nel Mulino che Vorrei e il blog delle sorpresine: una storia che vive con noi 5.3.3 Un brand partecipativo, una marca che si racconta nel tempo 188 192 5.4 GRUPPO AMATORI: VIAGGIARE TERRA E MARE 194 5.4.1 Un Tour Operator made in Italy 5.4.2 Viaggiare Terra e Mare: una storia fra mondi diversi 5.4.3 Una storia per viaggiare…anche con la fantasia 194 195 197 6. COME UNA STORIA PUÒ CAMBIARE LA SOCIETÀ 199 6.1 LA COMUNICAZIONE E L’IMPRESA OGGI OLTRE LA CRISI 199 6.2 ACCOMPAGNARE L’ORGANIZZAZIONE, NARRANDOLA 203 6.3 IL FILO DI ARIANNA: BEYOND THE TALE 206 ALLEGATI 209 BIBLIOGRAFIA 211 ARTICOLI CONSULTATI 213 SITI E DOCUMENTI 216 INDICE DELLE IMMAGINI 221 3 4 RINGRAZIAMENTI Nei due anni che hanno scandito il mio percorso universitario, ho avuto la fortuna di avere al mio fianco persone che hanno saputo consigliarmi, guidarmi e darmi conforto nelle difficoltà. A tutte queste persone rivolgo un ringraziamento particolare, per essere stati capaci di vedere in me la luce anche nei momenti più bui. In modo particolare vorrei ringraziare: i miei genitori per aver accettato e sostenuto le mie scelte, per la loro presenza costante capace di superare ogni distanza; mio fratello, che mi aiuta sempre, il mio migliore amico e il primo lettore ufficiale della tesi; gli zii Domenico e Margherita con i quali sono cresciuta e che mi sono stati vicini in ogni momento della mia vita; mia zia Mina, per i consigli, l’ospitalità, l’affetto e tutte le attenzioni che mi dedica; gli zii Giuseppe e Marì, per la fiducia che hanno sempre riposto nelle mie capacità; tutti la mia grande famiglia, zii e cugini, perché negli anni ti rendi conto che il calore di una famiglia bella e unita è un qualcosa di insostituibile; il mio ragazzo, per aver capito le mie scelte e aver trovato sempre un po’ di tempo per ascoltarmi e consigliarmi nonostante il lavoro, l’università e la distanza; ma soprattutto grazie…per avermi aspettata; le amiche di sempre Dolores e Sara e le mie compagne di liceo Giulia, Silvia, Rosi, Irene e Zalea perché ritrovarsi con loro è come sentirsi finalmente a casa; gli amici e colleghi dell’università di Brescia, per l’amicizia che dura da ormai cinque anni e che ci tiene legati malgrado le distanze; grazie a Marta, Eleonora, Monica, Anna, Marco, Roberto, Andrea, Giulia, Mariagiovanna, Chiara… le mie amiche e compagne universitarie Melania e Giulia, per avermi sopportata durante questi due anni universitari a Milano e per la bella amicizia che ci unisce; le mie coinquiline Claudia, Laura e Tania, per le amorevoli cure e perché con le loro parole riescono sempre a farmi ritrovare il sorriso; Angelo, per gli spunti nella redazione della tesi; 5 le coinquiline di Parigi con le quali ho condiviso emozioni meravigliose ed un anno intero da rivivere; grazie a Monica, Elena e Daniela; i professori dell’Università Cattolica di Brescia e di Milano per quanto mi hanno insegnato in questi anni, non soltanto dal punto di vista accademico ma anche a livello umano. In particolare ringrazio la professoressa Chiara Molinari per avermi aiutata e supportata durante il periodo d’erasmus in Francia e la professoressa Marisa Verna per i grandi insegnamenti; la mia relatrice, la professoressa Rossella Gambetti, per avermi insegnato le basi della comunicazione aziendale, facendomi appassionare attraverso le sue lezioni a questo campo di studi; gli insegnanti dell’università Sorbonne Paris IV-CELSA e tutte le persone che ho conosciuto a Parigi, perché mi hanno lasciato davvero tanto; il dott. Gabriele Qualizza per la disponibilità nel rispondere alle mie domande e per gli spunti forniti durante l’elaborazione della tesi ed il dott. Michele Luconi per la sua testimonianza ed i consigli; gli insegnanti, le coordinatrici e i compagni del Master dell’Università Cattolica di Media Relations, perché in questi mesi con loro sono cresciuta e mi sono divertita, imparando molto della vita e della professione. A tutte queste persone e a quelle che sicuramente ho dimenticato di menzionare ma conservo nel cuore, auguro una buona vita! “La gioia di vivere – mi hanno insegnato i miei genitori e maestri – non dipende dal successo, ma dal fatto di occupare il proprio posto nel mondo, nella fedeltà a quello che siamo chiamati a essere e fare, sulla base dei nostri talenti e dei nostri limiti (…). Ciascuno di noi è la propria vocazione, la propria chiamata, il proprio compito. Sul tempio di Apollo a Delfi c’era scritto «Conosci te stesso». Da lì prese le mosse il pensiero occidentale ed è lì che bisogna guardare per questa crisi che è prima ancora che economica, una crisi di senso e di identità” (A. D’Avenia) 6 INTRODUZIONE “Il lavoro occuperà gran parte della vostra vita e per essere veramente soddisfatti dovete fare qualcosa di veramente buono. E per fare qualcosa di veramente buono dovete amare quello che fate. Se non l'avete ancora trovato, continuate a cercare. Non accontentatevi. Come capita sempre nelle faccende di cuore, quando avrete trovato ciò che amate ve ne accorgerete immediatamente. E come capita nei rapporti profondi, le cose col passare degli anni non fanno che migliorare. Quindi continuate a cercare finché non troverete quello che cercate. Non accontentatevi.”1 (Steve Jobs) Q uesta storia è una storia di ricerca, la mia. Ma è anche l’incontro di tante altre storie di uomini che ogni giorno costruiscono la realtà che ci circonda, la storia delle loro imprese, grandi e piccole e delle persone che ne fanno parte. Imprese intese come atti eroici, ed imprese intese come organizzazioni, collettività, gente che lavora, che crea ogni giorno con le sue mani un pezzo di mondo: dal dirigente di Fiat, all’operaia di Barilla, dal ricercatore di medicina, alla cassiera della Coop. Ogni individuo partecipa della vita di comunità ed organismi e dà valore con il suo piccolo a ciò di cui si occupa e con le sue scelte, i prodotti che consuma, i programmi che guarda in tv, che ascolta alla radio costruisce un universo di senso, una sua identità. La mia ricerca prende spunto dalle parole pronunciate da Steve Jobs agli studenti dell’università di Stanford prima della consegna dei diplomi. Questo frammento è un piccolo stralcio di una parabola di vita, un esempio magistrale di storytelling, ma anche un insegnamento di indubbio valore morale fatto da un personaggio che ha rivoluzionato il mondo della tecnologia e dell’animazione. La sua filosofia è diventata la filosofia di un’azienda e dei suoi prodotti. Il suo spirito ci accompagnerà lungo il percorso del mio lavoro di ricerca, ma segnerà anche i passi di una mia ricerca personale e formativa. Le pagine che stringete tra le mani, vogliono essere una sintesi del mio percorso universitario e del lavoro portato avanti negli ultimi due anni fra esperienze all’estero e professionali. L’idea nasce da interessi maturati nel corso del tempo e dal bisogno di approfondire tematiche oggi estremamente attuali: l’importanza rivestita dalla comunicazione in contesto 1 http://www.romagnanoi.it/news/722629/Steve-Jobs-e-un-discorso-da-portare-nel-cuore.html 7 aziendale, il ruolo del giornalismo d’impresa e delle relazioni pubbliche, il concetto di identità aziendale e le modalità attraverso cui veicolare tale concetto. All’interno di questo campo ho trovato numerosi spunti di riflessione che hanno contribuito a risvegliare il mio spirito critico e a mutare il mio sguardo nei confronti dei processi che coinvolgono una società in continua evoluzione. La mia scelta si sviluppa al bivio tra due esperienze: l’attività accademica in Italia che ha fatto sì che mi avvicinassi in poco tempo all’ambito della comunicazione e il mio anno di studio a Parigi, corredato da uno stage svolto in un’agenzia di comunicazione nel polo di Corporate communication, in cui ho avuto la possibilità di applicare quanto visto in teoria. Quando ho cominciato a pensare a questo lavoro, non avrei mai immaginato di trovarmi di fronte tante idee, tante personalità, tanti ostacoli. Nel momento di mettere nero su bianco quanto raccolto, mi sono accorta di aver molta materia fra le mani, senza sapere esattamente come l’avrei formata. Mano mano il progetto si è fatto più chiaro e come Raffaello era solito fare con le sue opere, ho cominciato a limare, a togliere materia, a dare una parvenza di linearità al racconto. Ho deciso in quel momento che avrei intrapreso l’avventura di questa tesi con uno spirito diverso, e con una prospettiva più ampia rispetto ai tradizionali studi di comunicazione aziendale. In queste pagine ho voluto mettere in gioco me stessa e la mia esperienza professionale e di vita, facendo di tante storie un’unica storia e di una ricerca la mia ricerca. La mia sfida vuole essere quella di fornire al lettore un approccio multi prospettico della comunicazione, come una chiave capace di aprire molte porte. Per farlo mi son mossa nell’ambito della comunicazione narrativa, esplorando le capacità originarie dell’essere umano e le potenzialità del racconto. Ma avere la chiave non significa poter aprire qualsiasi porta; si tratta di trovare la giusta combinazione, la giusta formula capace di muovere le cose. Così funziona anche per i racconti: ci sono storie scritte bene, altre male, alcune ci appartengono altre ci sfiorano a malapena. L’utilizzo di questo mezzo per comunicare valori, identità, emozioni appartiene a ciascuno di noi: ci si racconta con parole, gesti, comportamenti, fotografie, video, messaggi. Ancora più interessante è pensare a come una collettività possa sfruttare tale strumento per parlare di sé: è il caso delle organizzazioni, di cui ci occuperemo in questa tesi, una moltitudine di storie che si incontrano per formarne una sola, un’identità apparentemente condivisa sotto un’unica firma, ma a volte contestata, altre osannata… 8 Dove sta il connubio tra comunicazione e racconto? Come possiamo utilizzarlo al meglio senza forzare troppo la mano? In un’era di crisi in cui l’individuo cerca dei valori stabili, dei punti di riferimento, delle ancore a cui aggrapparsi, quello che vorrei sottolineare è un cambiamento nelle modalità di creazione del capitale economico, cambiamento dei grandi organismi che si muovono oggi consci delle responsabilità che ricoprono nei confronti dei singoli. La loro attività non si situa solo nell’ambito della produzione ma anche nella necessità di un riconoscimento da parte della società, grazie al quale conferire valore al proprio operato. Queste in breve le linee guida che ci accompagneranno lungo questo percorso alla scoperta della narrazione d’azienda e del racconto che è insito in ciascuno di noi. Nei prossimi capitoli vedremo innanzitutto cos’è la comunicazione ed in particolare come si configura la comunicazione d’impresa, sviluppando i concetti di identità aziendale, immagine, reputazione e cultura. Nell’ultima parte del primo capitolo delineeremo anche la situazione della comunicazione nel panorama mediatico attuale e le possibilità offerte dal mondo digitale e dal web 2.0. Successivamente il secondo capitolo si impegnerà a definire i principi su cui si basa la comunicazione narrativa dalla sua fondazione sino alle recenti applicazioni nei diversi campi del sapere dal teatro sino al marketing e alla pubblicità. Vedremo poi come la pratica dello storytelling possa essere sfruttata in ambito aziendale, quale sia l’efficacia dell’analisi narrativa e quali i campi d’intervento, per arrivare poi a presentare dei quadri aziendali che facciano uso della narrazione come strumento di management al fine di mantenere salda la propria identità e veder riconosciuto il proprio operato all’interno del contesto politico e sociale. Nella parte conclusiva tireremo le fila del discorso, proponendo uno sguardo attento sugli scenari futuri, scenari che vedranno molto probabilmente la comunicazione diventare uno strumento di indiscutibile rilevanza all’interno della sfera manageriale politicoeconomica. Prima di lasciarvi alla lettura, mi piacerebbe concludere quest’introduzione così come l’ho iniziata, con le parole finali del discorso di Steve Jobs, un augurio ai ragazzi di ieri e a quelli di oggi, che lascio come tesoro ai lettori di questa tesi: 9 “Eravamo verso la metà degli anni Settanta e avevo la vostra età. Sul retro della rivista c'era la foto di una strada di campagna alle prime luci dell'alba, il tipo di strada che potreste vedere anche voi se foste così avventurosi da alzarvi presto per fare l'autostop. Sotto la foto la didascalia diceva: "Continuate ad aver fame. Continuate ad essere folli". Era il loro messaggio di addio. Continuate ad aver fame. Continuate a essere folli. È un augurio che ho sempre fatto a me stesso. Ed è lo stesso augurio che faccio a voi nel giorno della laurea”. (Steve Jobs) 10 1. LA COMUNICAZIONE D’IMPRESA “Nessuno che impari a pensare può tornare ad obbedire come faceva prima, non per spirito ribelle, ma per l’abitudine ormai acquisita di mettere in dubbio ed esaminare ogni cosa”. (H. Arendt) 1.1 Istruzioni per l’uso: una riflessione multidisciplinare C he cos’è la comunicazione d’impresa? Quale ruolo svolge all’interno della nostra società? Vorrei partire da questi interrogativi apparentemente semplici per cercare di far luce su un tema molto importante, che permea il nostro vivere quotidiano, tema che riguarda da un lato l’atto primo d’esistenza dell’uomo, l’atto del “relazionarsi con”, e dall’altro l’utilizzo dello stesso da parte di soggetti molteplici e diversificati quali le aziende. Esistono oggi numerosi tentativi di dare delle definizioni più o meno precise di questo processo tanto che spesso esse vengono a sovrapporsi o ad integrarsi a vicenda sino a trovare ampliamenti e nuove applicazioni all’interno di recenti ambiti di ricerca. Malgrado ciò è impossibile esimersi da questo compito, il quale risulta essere fondamento per la nostra discussione e per le pagine a venire. A tal proposito mi piacerebbe portare l’attenzione del lettore su due concetti chiave: il termine comunicazione e il termine impresa. Il concetto di comunicazione gravita intorno ad un innumerevole spettro di significati nutriti dal sapere delle scienze che nel corso del tempo se ne sono occupate: dalla sociologia alla linguistica, dalla filosofia alle scienze dell’informazione, dalla psicologia alla politica. Ogni punto di vista diverso sull’argomento ha una sua ragion d’essere ben precisa che non abbiamo al momento tempo sufficiente per analizzare in profondità. Ci limiteremo in questa sede a raccogliere alcuni dati di fondo che ci permettano di mettere in evidenza le chiavi di volta su cui la comunicazione si fonda. Per questo motivo mi rifaccio all’introduzione del libro “Lezioni di filosofia della comunicazione”1 del professor Ugo Volli, semiologo ed esperto di comunicazione, il quale afferma che l’uomo è un animale che parla, vive nel linguaggio. Si 1 VOLLI U., Lezioni di filosofia della comunicazione, Editori Laterza, 2008, Roma 11 tratta di un pensiero che ci riporta indietro nel tempo, un’intuizione che vanta nomi quali Platone ed Aristotele sino alla più moderna ideologia Heideggeriana. Oggi quest’idea si è evoluta e lo studio del linguaggio e della relazione esistente tra uomo e parola viene analizzata sotto il profilo di una nuova categoria, la comunicazione. E’ con uno sguardo rivolto all’evoluzione di un concetto così profondo che la constatazione: “La comunicazione ci circonda”, risulta quasi banale. La natura comunicativa infatti è insita nell’uomo, ed è presente in esso secondo tre livelli di coinvolgimento comunicativo: come cerchio che ci circonda sempre, come rete che ci unisce agli altri, come sguardo che interroga ed interpreta il mondo. La relazione che il soggetto instaura con l’altro da sé è quindi uno dei primi pilastri che definisce il verbo comunicare1. A questa accezione è necessario aggiungere un altro elemento molto importante su cui si fonda tale relazione, ovvero l’esperienza. L’entrata in contatto con l’altro si manifesta sempre attraverso un frame di sapere condivisi e la costruzione di conoscenze nuove, maturate nell’arco dello scambio comunicativo come interazione. A tal proposito mi sembra rilevante la definizione data da un altro grande esperto di comunicazione, Gianfranco Bettetini: “Comunicare significa mettere in comune beni simbolici”2. Con ciò egli intende specificare la natura profondamente partecipativa del processo comunicativo “nel quale gli interlocutori hanno lo stesso peso e i destinatari possono agire come emittenti”3. Abbiamo in poche righe delineato un quadro abbastanza completo del fenomeno: la comunicazione è un processo che implica il relazionarsi di un soggetto con “l’altro”, é uno scambio comunicativo di beni simbolici caratterizzato da una struttura circolare basata sul feedback, ovvero sulla dinamica della risposta. A questo quadro dobbiamo aggiungere un elemento che ci verrà molto utile in seguito. E’importante sottolineare infatti come ogni atto comunicativo sia di per sé manipolatorio. Ovvero, la comunicazione è sempre intrisa di retorica, una retorica naturale come la definisce Lausberg in opposizione alla retorica scolastica4. Il soggetto attraverso il proprio atto, la propria, parola mira a produrre degli Per ulteriori approfondimenti si consiglia la lettura di PETROSINO SILVANO “L’esperienza della parola. Testo, moralità e scrittura”, Vita e Pensiero, 2008, Milano 2 BETTETINI G., op. cit. p. 12 3 Ibid. p. 13 4 PETROSINO S., op. cit. pp. 169-177 1 12 effetti, ad ottenere delle risposte, o meglio, a modificare la situazione attuale. Per farlo attualizza volontariamente delle forme retoriche nel suo discorso. Sintetizzando possiamo quindi affermare che ogni atto comunicativo è per sua natura manipolatorio, nel senso che tende a mutare la circostanza presente. Oltre a questo nodo molto importante della questione non vanno dimenticati alcuni modelli di riferimento sui quali si fondano le precedenti riflessioni, in particolar modo il modello di trasmissione delle informazioni di Shannon –Weaver poi rivisitato da Roman Jakobson alla luce delle sei funzioni del linguaggio da lui individuate. Tale schema può essere riassunto come segue1: Figura 1.1 Schema generale della comunicazione elaborato da Roman Jakobson In questo modello è chiaro come un processo comunicativo funzioni seguendo la logica della retroazione o feedback a cui sono soggetti sia l’emittente, colui che invia, che il destinatario, colui che riceve un messaggio X, attraverso un dato canale, in un contesto determinato. E’ necessario prendere nota di questo sistema in quanto esso risulta essere alla base di ogni processo comunicativo: dalla notizia che abbiamo sentito al telegiornale, al comunicato La figura 1.a è tratta dalla presentazione online di Lorenza Rossini – La Corporate communication 2005/2006 – http://www.uniurb.it/lingue/matdid/rossini/Comunicazione%20d_impresa%20%20concetti%20base.pdf 1 13 stampa di una data azienda, al semplice rimprovero che abbiamo fatto a nostro figlio. Ad esso va aggiunto che ogni atto di comunicazione non sempre va a buon fine e questo determina un’incomprensione oppure un lack d’informazione che deve essere colmato. Sebbene tali gap dovrebbero essere evitati, in alcuni casi possono essere sfruttati in vista di un benefit ulteriore. E’ bene sottolineare inoltre che non serve un progetto preciso o una strategia per mettere in moto lo schema visto in precedenza: ogni individuo, azienda, ente o gruppo sociale comunica per il semplice fatto di esistere. Questo è uno dei principi fondamentali su cui si basano le teorie della comunicazione, principio che ci rimanda al primo concetto da noi affrontato all’inizio del capitolo e già elaborato dalla filosofia antica, ovvero l’idea che l’uomo sia un animale razionale che comunica. Quindi se “è troppo facile e semplicistico affermare che tutto è comunicazione, si può però tranquillamente dire che ogni azione comporta una componente comunicativa: così come l’indirizzo di studi pragmatici ci porta a considerare che ogni dire è anche un fare1”, affermazione che non può che coadiuvare la riflessione precedente. Date le premesse per una maggiore comprensione del fenomeno comunicativo, passiamo ora a parlare dell’impresa quale soggetto implicato in tale processo. Innanzitutto con il termine impresa intendiamo indicare non soltanto le aziende cosiddette profit, ma anche tutte le organizzazioni con o senza scopo di lucro, pubbliche o private. Per comodità nel corso del testo troverete il termine organizzazione ricorrere insieme ad altri quali azienda o impresa utilizzati come sinonimi, questo solo in vista di una migliore resa linguistica e nell’ottica di evitare delle ripetizioni. Fatto questa rapido appunto, entriamo ora nel vivo della questione. Al fine di concepire l’azienda come soggetto parlante è necessario immaginarla come un organismo tendente all’unità. Si tratta evidentemente di un intento utopistico, in quanto ogni organizzazione è formata da una pluralità di individui differenziati e di compartimenti distinti a seconda delle mansioni e secondo una gerarchia ben precisa. Tuttavia la concezione sistemica dell’azienda, fondata sulla teoria generale dei sistemi2 di Ludvig Von Bertalannfy, risulta utile per comprendere l’attività comunicativa svolta dall’azienda stessa. Tale teoria BETTETINI G., op cit. p. 44 In riferimento agli studi di linguistica pragmatica si veda AUSTIN J. L. , How to do things with words, Harvard University Press, 1975 2 Per maggiori approfondimenti si veda http://www.barbiotech.it/LUCIDI/lezione_eco_dispari1.pdf 1 14 definisce le organizzazioni come “degli insiemi complessi di parti interdipendenti che interagiscono per adattarsi ad un ambiente in continuo cambiamento al fine di raggiungere i loro obiettivi1”. Questo punto di vista risulta molto interessante soprattutto per l’idea di individuare l’organizzazione come un sistema composto da sottosistemi (dipartimenti, gruppi, individui), che si relazionano con dei sovra sistemi (mercati, pubblici esterni, politiche statali) nei quali si trovano inseriti, in un continuo passaggio di input ed output che condiziona le parti trasformandole e facendole evolvere. In tal senso l’organizzazione non è statica ma si comporta da agente dinamico presente nella società come soggetto in crescita continua. Come tale, essa è centro vitale di costrutti socio-economici e porta con sé un frame di valori simbolici dall’elevato valore cognitivo, entro i cui confini si autodefinisce. Questa considerazione anticipa il concetto di cultura aziendale che svilupperemo nel seguito del nostro lavoro, ma è utile in questa prima fase per definire cosa un’azienda è e come si configura nel panorama odierno. Definiti i due concetti base è ora giunto il momento di trovare la giusta correlazione che spieghi le nostre premure nella contestualizzazione iniziale: qual è il rapporto fra impresa e comunicazione? Da quanto detto in precedenza è facile comprendere che le aziende comunicano sempre: esse si esprimono “non solo attraverso ciò che dicono intenzionalmente (ad esempio, le proprie campagne pubblicitarie), ma anche attraverso quello che mostrano (ad esempio il design dei prodotti, la forma degli edifici, la disposizione degli uffici) e quello che fanno (il comportamento dei loro membri)”2. Il punto successivo su cui vogliamo soffermarci è il seguente: cosa comunica di norma un’impresa? In prima istanza possiamo dire che il contenuto dei suoi messaggi è teso ad affermare gli elementi finali della sua attività e a mettere in luce il loro valore, la loro efficacia, l’utilità e il rendimento. Si tratta del lavoro portato avanti dall’apparato pubblicitario, da intendersi non soltanto a livello referenziale ma anche valoriale: “il prodotto e il servizio si trasformano in discorsi, spesso “storie”, che, per quanto ancorate alla concretezza dei loro presupposti di origine, se ne possono allontanare, avviando una produzione di senso sempre più libera, sempre meno materializzata, sempre più orientata in una prospettiva simbolica”3. Ad un BETTETINI G., op. cit. p. 40 Ibid. p. 60 3 Ibid. p. 65 1 2 15 secondo livello troviamo il discorso di marca, quel valore aggiunto che si unisce al prodotto e lo rende unico nell’immaginario del consumatore. Infine il terzo livello di messaggi che l’impresa porta in auge è costituito dalla sua entità, il suo essere soggetto partecipe della vita sociale sotto forma di identità aziendale o corporate identity, pensiero che svilupperemo adeguatamente nel corso del nostro lavoro. Applicando ora lo schema comunicativo individuato da Jakobson al caso specifico della comunicazione aziendale otterremo quanto segue1: Figura 1.2 La comunicazione nell’organizzazione aziendale SISTEMA VALORIALE DI RIFERIMENTO: ETICA DELLA COMUNICAZIONE * MESSAGGIO: emotivo referenziale conativo poetico fàtico MESSAGGIO MESSAGGIO RICETTORE INTERNO O ESTERNO IMPRESA O ORGANIZZAZIONE MESSAGGIO CULTURA DELL’IMPRESA O DELL’ORGANIZZAZIONE Dal quadro è evidente come il sistema comunicativo si adegui al contesto aziendale facendo emergere un nuovo elemento che per ora ci siamo limitati ad accennare: il ricettore. I destinatari del messaggio che il nostro ente invia si distinguono in due grandi tipologie: utenza esterna ed interna. Oggi questa suddivisione si fa più sfumata ed i vari pubblici 1 BETTETINI G., op. cit. figura p. 86 16 vengono divisi secondo precisi ambiti d’influenza: ambito finanziario, commerciale, istituzionale e gestionale. Il modello1 sottostante sintetizza in breve quanto detto in relazione ai destinatari della comunicazione d’impresa: Figura 1.3 I pubblici di riferimento della comunicazione aziendale A conclusione di questo capitolo introduttivo non ci resta che dirimere un ultimo quesito: quale obiettivo ci si pone nella gestione del processo comunicativo all’interno di un’organizzazione o di un’impresa? La risposta a questa domanda non è così immediata quanto sembra. Ci limiteremo perciò ad una prima riflessione in merito, con il proposito di giungere in fase conclusiva ad una spiegazione più esauriente. La finalità che si pone l’azienda e che ne definisce le condizioni di esistenza è anzitutto quella di continuare ad esistere attraverso la creazione di valore economico che le consenta di autogenerarsi nel tempo. L’idea di creazione di valore in questo contesto va intesa come atto che consenta di accrescere il capitale economico. Ciò significa che uno delle funzioni principali della comunicazione è quella di diffondere questo valore, di canalizzarlo, in modo tale da generare un messaggio efficace, incrementare il patrimonio intangibile dell’impresa rendendolo visibile nell’ambiente economico e sociale in cui l’azienda opera e andando ad aumentare a sua volta il vantaggio competitivo dell’azienda stessa. La figura 1.c è tratta dalla presentazione online di Lorenza Rossini – La Corporate communication 2005/2006 – http://www.uniurb.it/lingue/matdid/rossini/Comunicazione%20d_impresa%20%20concetti%20base.pdf 1 17 L’obiettivo di questa tesi risiede nell’impegno ad accompagnare il lettore attraverso il processo comunicativo appena delineato, al fine di mostrare l’importanza di tale strumento e le modalità per aumentarne l’efficacia in ambito aziendale in vista di una maggiore visibilità economica e di una solida reputazione. Concludo con un passo dedicato ai cinque assiomi della comunicazione elaborati da Paul Watzlawick, perché restino come riferimento per le riflessioni successive : 1. Non si può non comunicare. Ogni comportamento è comunicazione. 2. Ogni comunicazione presenta due aspetti: il contenuto e la relazione, in modo che il secondo qualifica il primo ed è quindi metacomunicazione 3. La natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione tra i comunicanti 4. Gli esseri umani comunicano sia con il modulo numerico che con quello analogico. Il linguaggio numerico ha una sintassi logica assai più’ complessa e di estrema efficacia, ma manca di una semantica adeguata nel settore della relazione, mentre il linguaggio analogico ha la semantica ma non ha alcuna sintassi adeguata per definire la natura della relazione 5. Tutti gli scambi di comunicazione possono essere definiti simmetrici o complementari, a seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza tra i due comunicanti 18 1.2 La Corporate Communication: fra modelli e nuove realtà Entriamo ora nel vivo del discorso avvicinandoci alle teorie elaborate in ambito economico manageriale al fine di spiegare il funzionamento e la gestione dei processi comunicativi. Gli approcci sono molteplici e si sono evoluti nel tempo dovendosi confrontare con il mutare dei mercati, del sistema sociale e l’introduzione di nuove pratiche di consumo e di produzione, senza contare l’emergere di nuovi mezzi di comunicazione: blog, forum, intranet, web 2.0. Il mondo si è trasformato in una sorta di rete globale, creando delle culture convergenti e generando nuove modalità di relazione. Al suo interno le organizzazioni hanno dovuto adattarsi e perciò gli approcci alla comunicazione dati dalle varie discipline sono andate di volta in volta succedendosi ed integrandosi: dalla comunicazione di marketing è scaturita la definizione di Comunicazione Integrata d’Impresa data dalla scuola italiana e quella di Integrated Marketing Communication data da studiosi dell’area anglosassone, negli USA si è fatto largo il concetto di Comunicazione Organizzativa, cui segue sempre in area anglosassone il modello delle Relazioni Pubbliche, oggi largamente sviluppato anche in Italia. Non da ultimo l’approccio della Corporate Communication, disciplina che trae origine dagli studi di strategia e management, ha vissuto recentemente un grande successo e i suoi fondamenti hanno trovato florido sviluppo nella scuola italiana e nel concetto di Total Business Communication1. Vorrei in questa sede occuparmi in particolare della filosofia di gestione teorizzata dalla Corporate Communication, e dei suoi attuali sviluppi. Questo modello gestionale nasce intorno agli anni settanta presso agenzie di comunicazione internazionali e si diffonde durante il decennio successivo nelle aziende. Inizialmente la sua applicazione risulta inadeguata alle aspettative: essa si esemplifica nella pratica attraverso campagne d’immagine di breve durata e politiche di corporate identity. Sul finire degli anni ottanta e a partire dagli anni novanta la teoria si avvale di consulenti e manager che individuano il nocciolo della questione ponendo l’enfasi più che sulle singole pratiche, sul coordinamento delle stesse in funzione di una politica di comunicazione unitaria. Per ulteriori approfondimenti sui modelli comunicativi e una minuziosa scansione temporale si veda: A cura di MAZZOLI A., op. cit. pp. 9-37 1 19 Ma il vero anno di svolta sarà il 1995, anno in cui venne pubblicata e tradotta l’opera del professore olandese Cees Van Riel. Il suo libro “Principles of Corporate Communication”, s’impegna nella teorizzazione del modello in questione fornendo alcune tra le più importanti nozioni su cui esso si fonda. Van Riel definisce la corporate communication come: “an instrument of management by means of which all consciously used forms of internal and external communication are harmonised as effectively and efficiently as possible, so as to create a favourable basis for relationship with groups upon which the company is dependent”1. E’ bene sottolineare che il termine corporate non è utilizzato da Riel nel senso di corporation, ma in relazione al termine latino corpus, più vicino al corrispettivo inglese “body”, ovvero corpo o meglio “che inerisce alla totalità”. Infatti spiega Thierry Libaert “la corporate communication designa la comunicazione in cui l’impresa parla di sé stessa, della sua identità, della sua mission e dei suoi valori e si presenta come persona morale, al di là dei suoi prodotti e servizi”2, quindi si mostra nella sua totalità come soggetto facente parte della società. La sua vocazione principale in questo senso risiede nell’affermare la personalità propria all’impresa ed assegnargli une identità distinta e coerente favorendo le relazioni con gli stakeholder aziendali e gestendo al meglio la sua immagine e reputazione. Questo approccio definisce in sostanza una nuova visione del ruolo ricoperto dalla comunicazione nell’impresa e dalle sue relazioni con l’ambiente circostante. Esso è un innovativo strumento manageriale e si pone come tale tre compiti principali: 1. Sviluppare iniziative che riducano le discrepanze tra l’identità aziendale e l’immagine desiderata; 2. Indicare le responsabilità degli addetti alla comunicazione al fine di facilitare i processi decisionali e aumentarne l’efficacia in un’ottica di istituzionalizzazione della comunicazione ; 3. Favorire una strategia aziendale che vada oltre il brand e ne valorizzi i caratteri distintivi. 1 2 VAN RIEL C. B. M. , op. cit. p. 26 THIERRY L.- JOHANNES K, .op. cit. p. 14, traduzione mia dall’originale francese 20 Secondo il professore olandese la corporate communication non è una nuova professione ma un nuovo modo di concepire la comunicazione secondo una prospettiva olistica ed interdisciplinare. Essa ingloba pertanto tre categorie di comunicazione: la management communication, la organizational communication e la marketing communication. Vediamo in breve di cosa si tratta. • Management communication: è la comunicazione messa in atto a livello manageriale e si rivolge a pubblici esterni ed interni. Comprende funzioni di pianificazione della strategia, organizzazione, coordinamento e controllo effettuate dai senior manager. • Marketing communication: è l’attività di comunicazione legata alle pratiche di carattere commerciale ovvero la pubblicità di prodotto, la direct response advertising, il personal selling, la sponsorizzazione di prodotto, la promozione delle vendite, le relazioni pubbliche e le varie attività legate al promotional mix. La maggior parte del budget aziendale destinato alla comunicazione è solitamente utilizzato in questo ambito. • Organizational communication: comprende un gruppo eterogeneo di attività comunicative quali le relazioni pubbliche, i public affairs, la comunicazione ambientale, le investor relation, la comunicazione rivolta al mercato del lavoro, la comunicazione interna e la pubblicità istituzionale. Ciò che accomuna le varie forme distinguendole dalle attività di marketing è il fatto di rivolgersi a dei target group precisi. Figura 1.4 La politica di comunicazione aziendale 21 Oltre all’approccio di Van Riel sintetizzato nello schema qui sopra, altri studiosi si sono occupati di definire meglio le potenzialità della Corporate Communication e gli ambiti di cui si occupa. In particolar modo mi sono sembrati rilevanti i punti di vista di Jean-Noel Kapferer e di J. Cornelissen. Il primo individua quattro livelli di discorso attraverso cui la C.C. si sviluppa: la comunicazione d’impresa a livello fattuale, economico, che riguarda in concreto la fisicità dell’azienda; la comunicazione istituzionale, che porta in auge i suoi valori rivolgendosi ai cittadini, la comunicazione di marca, che conferisce senso ai prodotti ed infine la comunicazione di prodotti e servizi che si rivolge ai clienti potenziali1. I quattro ambiti individuati contribuiscono a comunicare la realtà aziendale ai diversi stakeholders e devono essere percepiti come parti di un discorso globale. Nell’immagine2 che segue vengono riassunte le quattro aree chiave individuate da Kapferer all’interno della corporate communication, divise secondo livelli di tangibilità ed intangibilità: Figura 1.5 Il modello della C.C. secondo Kapferer Livello connotativo, immaginario, intangibile Livello connotativo, informativo, monosemico La marca Il prodotto L’istituzione L’impresa Altro punto di vista, quello di Cornelissen, il quale elabora il concetto di corporate communication come quadro che integra tutte le attività comunicative insite in un’organizzazione al fine di conseguirne una gestione ottimale. Dalla comunicazione di crisi alle media relations, dalla pubblicità all’attività di lobbying, dalle attività di promozione alla comunicazione interna. Si tratta sicuramente della prospettiva più inglobante rispetto alle precedenti, in quanto fa emergere l’importanza della C.C. come grande sfera che racchiude tutte le pratiche. Dopo aver analizzato i diversi punti di vista sull’argomento, risulta evidente in tutti e tre il tentativo di proporre una visione unitaria sotto l’egida della comunicazione corporate. 1 2 LIBAERT T.- JOHANNES K., op. cit. p. 22, figura 2.2 Ibid. p. 22, figura 2.2 22 Tuttavia dobbiamo cogliere una certa confusione nella concettualizzazione ( per esempio la distinzione poco chiara fra management communication e organizational communication in Riel, ma anche i limiti insiti nell’approccio di Cornelissen nell’immaginare una sfera indistinta comprendente attività così eterogenee), confusione che diventa più rilevante a livello di prassi, tanto che ancora oggi l’importanza data alla comunicazione varia di azienda in azienda1. Questo denota la necessità di una sistematizzazione delle teorie che sia finalizzata alla creazione di un background solido da cui le imprese possano partire per creare una piattaforma di comunicazione unitaria, radicata nella struttura imprenditoriale. Un approccio interessante da questo punto di vista è quello proposto da Thierry Libaert e Karine Johannes i quali mettono a fuoco il concetto di relazione come fondamento a cui la comunicazione d’impresa deve puntare. Il “relazionarsi con”, è del resto, come abbiamo visto nella prima parte, uno degli elementi del processo comunicativo. Relazionarsi significa secondo Libaert costruire un legame, mettere in comune degli interessi e degli obiettivi. “Entrare in relazione con dei pubblici consiste per un’impresa nell’oltrepassare il livello di transazione, l’atto di acquisto ed introdurre una continuità, uno spessore temporale”2. Il compito dell’azienda in questo senso è coltivare tale legame attraverso le pratiche comunicative, sino a giungere ad una personalizzazione degli scambi e ad una conoscenza approfondita dei pubblici di riferimento. Secondo due autori esperti nell’analisi dei contesti relazionali in ambito aziendale, Ledingham e Bruning, la relazione si definisce in questi termini: “il rapporto esistente tra un’organizzazione e i suoi pubblici di riferimento, in cui le azioni di ogni soggetto hanno un impatto sul benessere economico, sociale, politico e/o culturale dell’altro”3. Partendo dall’idea di relazione, Libaert e Johannes ritrovano nella corporate communication due radici comuni a tutte le teorie precedentemente vagliate: il marketing e le relazioni pubbliche. Dall’evoluzione di queste due discipline e con l’emergere intorno agli anni ’80 della concorrenza e della necessità di gestire i prodotti intangibili dell’impresa (i suoi valori, la sua mission, la sua vision e la sua cultura) si sono sviluppate progressivamente le teorie della corporate communication e i concetti ad essa correlati: corporate image, identity e reputation. Uno sviluppo relativo al passaggio da una logica di vendita ad una di 1 RICHARD R. D., The corporate communication function: how well is it funded?, in Corporate communication: An International Journal, MCB UP Limited, volume 8, numero 1, 2003, pp. 5-10 2 LIBAERT T.- JOHANNES K., op. cit. p. 28, traduzione mia dall’originale francese 3 Ibid. p. 29, traduzione mia dall’originale francese 23 costruzione dell’identità e della relazione con l’altro. In quest’ottica se il marketing si occupa principalmente di valorizzare i prodotti ed i servizi, le relazioni pubbliche si impegnano a generare un contratto di fiducia con i diversi pubblici e a comunicare la filosofia aziendale e i suoi valori. Il paradigma della corporate communication si inserisce secondo Libaert proprio in questo punto d’incontro tra i due poli sostenendo che entrambe le aree debbano essere gestite in modo unitario, affinché i prodotti da un lato siano compenetrati dalla filosofia aziendale e dall’altro mission e vision si concretizzino nell’operare dell’azienda: in prodotti, servizi, nelle modalità lavorative, nei rapporti con i clienti e i dipendenti. Nella nuova era della relazione risulta infatti evidente come l’interesse degli stakeholders vada al di là dei semplici prodotti e servizi e si porti più sul processo di produzione, sulle politiche di prezzo, sulla coscienza dell’azienda come soggetto attivo nella società e responsabile ( si veda il concetto di Corporate Social Responsability). La società si è resa conto oggi più che mai del livello di interdipendenza presente fra organismi pubblici e privati ed i singoli individui, per questo nuove sfide si propongono oggi alle imprese e negli anni a venire. La sfida più difficile sarà sicuramente quella della sincerità e dell’apertura alla relazione verso gli stakeholder, la comunicazione superlativa è destinata al fallimento: la vera comunicazione sarà quella capace di ritornare ai suoi valori essenziali. Questo è quanto sostiene Stéphane Billet, presidente dell’agenzia di comunicazione francese Hill & Knowlton e presidente del Syntec Conseil en Relations Publiques1. A questa sfida per la corporate communication se ne aggiungono altre tre, secondo Marianne Kugler, docente del dipartimento di scienze dell’informazione e della comunicazione presso l’università di Laval2: 1. La necessità di rimanere visibili e credibili mentre si moltiplicano le fonti d’informazione a causa dell’avvento dei nuovi media (blog, Twitter, Facebook), che fanno aumentare la circolazione delle notizie (vere e false) grazie alla modalità del passaparola (“I like” di Facebook ne è un esempio palese); 1 2 LIBAERT T.- JOHANNES K., op. cit. intervista p. 33 Ibid. intervista p. 29 24 2. Creare una cultura d’impresa, e instaurare all’interno e all’esterno un sentimento d’appartenenza mentre aumenta il cinismo dei dipendenti nei confronti delle promesse dei leader non mantenute; 3. Raggiungere i pubblici di riferimento in un momento in cui le persone sempre più disincantate preferiscono racchiudersi nella loro individualità e nel loro piccolo. Si tratta di punti di vista rilevanti in quanto ci aiutano a contestualizzare la Corporate Communication nella modernità e nel momento attuale, ricco di spunti ma anche di minacce per le imprese e le organizzazioni. Da questo vogliamo partire per un’analisi completa del fenomeno a partire dal quale andremo ad esaminare l’utilizzo specifico della narrazione come strumento di costruzione d’identità e racconti. Concludendo, all’interno di questa realtà complessa la Corporate Communication si configura come un elemento dall’elevato potenziale, capace di generare un vantaggio competitivo per l’azienda. Per comprenderne meglio la strategia andremo nei prossimi capitoli a sviluppare alcuni principi base su cui si fonda (corporate identity, corporate image e corporate reputation) e a delinearne i confini di applicazione. 25 1.3 I tre pilastri della Corporate Communication Come si è visto, la Corporate Communication è un ambito ricco e complesso tanto che la vasta letteratura a riguardo ha generato una molteplicità di approcci diversi. Per continuare la nostra analisi e presentare al lettore i capisaldi su cui si fonda la Corporate Communication, ci baseremo soprattutto sul lavoro di Cees B. M. Van Riel e la rielaborazione di Thierry Libaert e Karine Johannes. Le loro opere saranno poi integrate da letture e nuovi apporti scientifici. Tratteremo qui in modo abbastanza esauriente i concetti di immagine e reputazione, accennando soltanto al terzo concetto che verrà ulteriormente approfondito in un capitolo dedicato. 1.3.1 La Corporate Image Vorrei iniziare il nostro discorso sull’immagine aziendale con una metafora proposta da Van Riel: “An image might be considered as a photographic film wich is on the point of developing in people’s minds. It provides the receiver (an individual) with a means by which to simplify the reality of objects through concepts such as “good-bad” and “pleasant-unpleasant”. The image of an object develops through a set of impressions that individuals experience when they directly or indirectly are confronted with the object”1. E’ interessante sottolineare questo punto di vista in quanto esso ci richiama ai recenti studi di neuropsicologia e di sociologia dei comportamenti che indagano il sistema cognitivo umano e le modalità attraverso cui l’uomo conosce ed interpreta la realtà. Ci limiteremo in questo ambito a ricordare alcune idee fondamentali che riprenderemo successivamente parlando della comunicazione narrativa. Innanzitutto la mente umana ed in particolare la memoria, è narrativa. In particolare Ervig Goffman2 introduce a questo proposito il concetto di framing: schemi di interpretazione che permettono ad individui o gruppi, di collocare, percepire e classificare eventi e fatti, strutturando il significato, organizzando le esperienze e guidando le azioni. Inoltre la memoria umana è VAN RIEL C. B. M. , op. cit. p. 73 ERVIG GOFFMAN, sociologo canadese, noto per la formulazione dell’interazione simbolica e per la teoria del frame. Per maggiori informazioni sul pensiero e la filosofia di Ervig Goffman si veda http://sistemicomplessi.humnet.unipi.it/lezioni1.htm , ulteriori approfondimenti sono disponibili nel suo testo Frame analysis: An analysis on the organization of experience, Harper and Row, 1974, Londra 1 2 26 spesso visiva, ovvero si lega a singoli frammenti di racconto, immagini impresse nella nostra mente. Cosa significa concretamente quanto stiamo dicendo? Per spiegarlo utilizzeremo l’esperimento messo in pratica da George Lakoff1 durante il suo corso di scienze cognitive presso l’Università di Barkely in California. Per spiegare il processo cognitivo umano disse ai suoi studenti: “Non pensate ad un elefante!”. Secondo Lakoff nel pronunciare la frase era impossibile per il suo pubblico non pensare ad un elefante, perché la semplice menzione della parola elefante porta con sé inevitabilmente l’immagine dell’elefante; un costrutto mentale che Lakoff definisce frame d’accompagnamento. Figura 1.6 2 Il concetto di framing e l’esperimento universitario di Lakoff La stessa cosa avviene con qualsiasi altra parola o oggetto: che io dica Barbie o Barilla oppure Coca Cola, ciascuno di noi identifica immediatamente ciò di cui si sta parlando attraverso delle immagini derivanti dalla propria esperienza pregressa. Parlando di Barbie penso alla bambola con cui giocavo da piccola, mentre Barilla mi richiama direttamente il logo a colori bianco, rosso e blu e l’immagine della pasta che viene gettata nell’acqua bollente (v. Figura 2). Si potrebbe parlare per ore dei costrutti mentali e delle immagini che associamo a ciò che ci circonda e troveremmo probabilmente molte idee o immagini che ci accomunano mentre altre completamente diverse. GEORGE LAKOFF è un linguista statunitense e professore di linguistica presso l’Università californiana di Barkley. Fra i suoi studi più importanti ricordiamo la tesi sulla metafora concettuale e i lavori sulla mente incorporata. Per ulteriori informazioni si consiglia di consultare il sito ufficiale: http://georgelakoff.com/ 2 Figura 1.f. Immagini tratte da: http://www.welovemercuri.com/2010/03/screen_beans_per_chi_usa_il_pa.html http://www.soluzionipercrescere.com/articoli/controllo-di-gestione-e-organizzazione-aziendale.htm 1 27 Figura 1.7 1 Le immagini mentali associate ad una marca o ad un prodotto Questo quadro introduttivo ci aiuta a comprendere meglio cosa sia l’immagine aziendale e i recenti sviluppi sull’argomento. Tale concetto infatti, nasce già a partire dagli anni ’50 a seguito di diversi fattori quali la scoperta dell’importanza ricoperta dai valori intangibili dell’azienda e la volontà di far rientrare l’impresa nella coscienza collettiva fornendo una risposta ad un mercato sempre più concorrenziale e ad un’opinione pubblica sempre più esigente. Riconosciuta l’importanza del fenomeno varie ricerche in ambito economico-sociale si sono susseguite nel tentativo di sistematizzare l’argomento. Ad oggi risulta arduo il compito di dare una paternità al concetto di corporate image, anche se il primo autore a riferirsi in modo specifico all’immagine aziendale fu Pierre Martineau, in particolare nell’articolo “Sharper focus for the Corporate Image”2 (1958). In realtà prima di lui altri scrittori aprirono la strada per la riflessione: William Newman grazie al suo contributo “Basic objectives which shape the character of a company” e Kenneth Baulding il quale approfondì l’argomento nella sua opera“Image”. Le ricerche andarono avanti tanto che Van Riel annovera nel suo libro più di una decina di autori che si sono interessati alla tematica. Egli li classifica in tre gruppi di cui vedremo brevemente le caratteristiche: 1. I Social critics = considerano il concetto d’immagine dal punto di vista sociologico, in particolar modo criticando il ruolo delle immagini nella società contemporanea. I maggiori esponenti di questo gruppo sono: Boorstin (1961), Alvesson (1990) e Morgan (1986). In particolare l’approccio di Alvesson risulta interessante nel suo Figura 1.g. Le immagini sono tratte da: http://justreous.blogspot.com/2010_09_01_archive.html http://web-release.info/2011/02/25/barilla-winning-the-product-of-the-year-award/ 2 PIERRE MARTINEAU, research director del “Chicago Tribune” e uno dei maggiori studiosi in meteria di corporate image. Il contributo a cui facciamo riferimento è “Sharper focus for the Corporate Image”, Harvard Business Review”, 1958, numero 6, pp. 49-58 1 28 modo di descrivere l’immagine come “the picture that someone has of an organization (the sense image) and the impression that the organization communicates (the communicated image)”1. Egli sottolinea inoltre che l’immagine scaturisce in primis attraverso i rapporti interpersonali, al di fuori dalle informazioni fornite dai mass media o da un’esperienza diretta dell’azienda. 2. Gli Analytic writers = il cui interesse principale si situa nel significato del termine immagine e nelle modalità di misurazione della stessa. Le domande a cui cercano di rispondere sono le seguenti: cos’è un’immagine? E com’è possibile misurare il suo impatto? Questo gruppo annovera tra gli altri: Poiesz (1988), Wierenga e Van Raaij (1987), Verhallen (1988), Beijk (1989), Pruyn (1990), e Reynolds e Gutman (1988). In questo filone di studi risulta interessante il tentativo di spiegare il processo di formazione individuale delle immagini. Un’immagine risulta essere il risultato di una serie di stimoli generati da un oggetto X nei confronti di un soggetto Y. E’ a partire da questo presupposto che gli autori indagano il processo di creazione e passaggio d’informazioni. Qui spicca soprattutto lo studio di McGuire (1976), il quale sostiene che il passaggio d’informazioni può essere diviso in cinque fasi, come lo mostra lo schema riportato di seguito2: Figura 1.8 Processo di creazione e passaggio d’informazioni, Mc Guire Esposizione Attenzione Stimoli Memoria Comprensione Accettazione Conservazione 1 2 VAN RIEL C. B. M. , op. cit. p. 80 Ibid. p. 81, Figura numero 3.3 29 Le cinque fasi individuate partono dall’input degli stimoli, per arrivare in fase finale alla sedimentazione nella memoria dell’individuo. Dall’esposizione alla conservazione delle informazioni è evidente che sia nell’interesse della fonte delle informazioni guidare il processo e quindi generare degli stimoli tali da catturare l’interesse del soggetto fino a condurlo alla fase finale. L’importanza dei processi cognitivi che portano alla conservazione delle immagini e di associazioni mentali nella memoria è evidente. Così come lo è la memoria, elemento d’indagine per molti autori di questo gruppo, i quali sono giunti a concepire le immagini secondo tre livelli di elaborazione a seconda dell’importanza conferita dal soggetto all’oggetto. Dal loro punto di vista è necessario analizzare la corporate image a partire dall’interazione che intercorre fra questi due agenti a partire da domande come: Quali soggetti potrebbero essere interessati all’oggetto X? Quale parte dell’impresa dev’essere presa in considerazione ed analizzata? Ecc… 3. Gli utility writers = possono essere suddivisi in due categorie. Nella prima troviamo tutti gli autori che si interessano di vagliare il processo di formazione dell’immagine. Tra di essi abbiamo: Van Raaij (1986), Dowling (1986) e Kennedy (1977). Nel secondo gruppo invece troviamo coloro che si interessano ai processi da attuare al fine di ottenere un’ immagine aziendale favorevole: Bernstein (1985), Garbett (1988), Olins (1989) e Blauw (1994). Non avendo il tempo di soffermarci sui singoli autori, mi sembra interessante riportare in sintesi la prospettiva del primo gruppo, in particolare il lavoro di Dowling sul processo di formazione dell’immagine. Egli sostiene che l’immagine nasca dal risultato di una serie di impressioni (personali, interpersonali e mass mediali) che si formano nella mente dell’individuo. Inoltre mette in evidenza alcune caratteristiche tipiche dell’immagine aziendale: in primis essa non è univoca ma è molteplice e varia a seconda dei pubblici a cui fa riferimento, in secondo luogo nasce la necessità per l’azienda di gestire la corporate image al fine di influenzare o modificare i giudizi degli stakeholders. A fronte di tali considerazioni, Dowling elabora un modello che schematizza il progressivo formarsi dell’immagine aziendale. Tale modello prende atto delle influenze esterne ed interne: esperienza personale, comunicazione interpersonale, comunicazione di massa, ma 30 anche la cultura aziendale, le sue politiche e i suoi valori. Il risultato finale si evince dallo schema seguente1: Figura 1.9 Modello di formazione della corporate image elaborato da Dowling Support by members of the distribution channel Organizational culture External interpersonal communications Internal communications Formal company policies Previous product experience Interpersonal communications Employee’s images of the company External groups’images of the company Marketing media communications Da quanto detto sui vari filoni di studio, emergono diversi spunti rilevanti che non restano statici, ma vengono continuamente ripresi e rielaborati. E’ bene sottolineare infatti che gli autori citati non si limitano a restare all’interno del loro gruppo (ricordiamo che questa suddivisione ad opera di Van Riel è funzionale ad una indicizzazione degli autori e delle prospettive sull’argomento in essere): i diversi studi si compenetrano dando adito ad un corpus significativo. Abbiamo visto finora, quali sono stati i principali sviluppi di ricerca nell’ambito della corporate image e i diversi approcci all’interno dei quali si è evoluto il concetto. Vogliamo però lasciare da parte per un attimo la prospettiva storica per andare invece ad indagare da un punto di vista sincronico l’importanza di questa scoperta: chiariremo prima di tutto il significato di immagine d’impresa per poi sottolinearne le potenzialità in un’ottica di management aziendale. VAN RIEL C. B. M. , op. cit. p. 95, Figura numero 3.7 The creation of the corporate image (Dowling, 1986) 1 31 Secondo Dowling “an image is the set of meanings by which an object is known and through which people describe, remember and relate to it. That is the result of interaction of a person’s beliefs, ideas, feelings and impressions about an object 1”. Il concetto di corporate image può essere definito in sostanza come il giudizio che scaturisce dall’insieme delle percezioni dell’azienda maturate dai diversi pubblici con i quali essa entra in contatto. Essa è composta da una serie di percezioni, credenze, impressioni ed esperienze che un individuo o un gruppo si sono creati, nei suoi confronti, nel corso della loro vita. Come ci dice Libaert avere una data immagine di un’impresa, significa quindi crearsi una certa rappresentazione di quell’azienda (immagine appunto) ed attribuirle un certo numero di caratteristiche fisiche e morali. Le immagini che ciascuno si costituisce, positive o negative che siano, sono infatti utili per orientare i nostri comportamenti e per farci decidere in chi o in cosa riporre la nostra fiducia. Ricordiamo nuovamente basandoci sugli studi di Dowling e compagni che le fonti principali della corporate image sono essenzialmente: relazioni personali o per contatto diretto (le esperienze personali avute con l’azienda o i suoi prodotti/servizi), relazioni interpersonali (i contatti con il mondo esterno e quindi con dipendenti, leader aziendali o persone che hanno provato i prodotti), relazioni con i media (con media si intendono tutti i canali d’informazione dalla tv, a internet alla carta stampata) ed infine informazioni diffuse direttamente dall’azienda attraverso precisi programmi di comunicazione o azioni (identità visiva, pubblicità istituzionale o di prodotto …)2. Da quanto detto fino ad ora emerge quindi che l’immagine di un’organizzazione non è formata soltanto da elementi cognitivi, ma anche da elementi emotivi ed affettivi: ovvero l’impatto sugli individui è sia di carattere oggettivo che soggettivo. Illuminante la definizione di immagine data da Martineau: “Image is the sum of functional qualities and psychological attributes in the mind of the consumer” (Martineau, 1958)3. Inoltre l’immagine di un’azienda non è mai unica, come abbiamo visto, ma è molteplice: “a company has not one, but many images, depending upon the specific object being studied, the public whose view is being VAN RIEL C. B. M. , op. cit. p. 73 LIBAERT T.- JOHANNES K., op. cit. p. 40 3 VAN RIEL C. B. M. , op. cit. p. 78 1 2 32 assessed, and other conditions1”. Questa moltitudine di immagini che circola si manifesta sin dalla nascita dell’azienda: quest’ultima infatti, comunica sempre, per il semplice fatto di esistere. Per questo motivo benché l’immagine appartenga giuridicamente all’impresa, essa non può disporne completamente, in quanto non essendo il solo attore sulla scena, l’immagine che cercherà di proiettare non sarà necessariamente quella presente nell’opinione pubblica. Per comprendere meglio quest’ultimo punto riprendiamo il modello proposto da Georges Lewi2, il quale per spiegare il concetto di immagine aziendale elabora il seguente “triangolo della comunicazione”: Figura 1.10 3 Il triangolo della comunicazione di Georges Lewi Immagine percepita Immagine desiderata Immagine reale Il triangolo riporta ai vertici le tre modalità attraverso cui si esprime la corporate image: l’immagine desiderata è quella voluta e concepita dall’azienda, l’immagine reale si assesta su un’analisi semiologica dei segni e dei simboli utilizzati, ovvero è l’immagine oggettiva ed infine l’immagine percepita è l’idea che il pubblico si crea della marca e più generalmente dell’azienda. Ciò sta ad indicare la molteplicità dell’immagine e sottolinea in sintesi che malgrado gli sforzi dell’azienda, una parte dell’immagine gli sfuggirà sempre, proprio perché è insita in essa una parte incontrollabile ed inafferrabile. H. BARICH- PH. KOTLER, A frame work for marketing image management, “Sloan Management review”, 1991, numero 32, p. 135 - http://www.oppapers.com/essays/A-Framework-For-MarketingImage-Management/500081 2 GEORGES LEWI, studioso e uno fra i più reputati esperti in Branding management, insegna presso l’HEC, e l’Alta Scuola in Comunicazione della Sorbona (Sorbonne Paris IV- CELSA). Per ulteriori informazioni è possibile visitare il suo sito ufficiale: http://www.georges-lewi.com/FR/index.html 3LIBAERT T.- JOHANNES K., op. cit. p. 42, Figura numero 3.2 in LEWI G., La marque, Vuibert, 2004 1 33 Una corretta gestione dell’immagine aziendale volta a generare un’ impressione positiva sugli stakeholder, coerente rispetto all’immagine desiderata e rispetto alla identità aziendale è essenziale per la continuità e il successo economico e sociale dell’impresa. Ignorarla è impossibile, come afferma Bernstein: “Image is a representation in the mind. It affects attitudes which in turn affect behaviour. No company can afford to ignore image. The impression it createsconsciously or unconsciously, whether it wishes to or not- inevitability affects people who do business with”(Bernstein, 1986)1. Inoltre la gestione e lo sviluppo di un’immagine favorevole presso i diversi pubblici consente all’azienda di ottenere una serie di vantaggi. Vediamone brevemente alcuni: - facilitare e migliorare le relazioni con gli stakeholder = creare dei rapporti più duraturi con i pubblici, - incrementare i risultati commerciali = una buona immagine ha una ricaduta favorevole sulla vendita dei prodotti e dei servizi, in quanto l’azienda attrarrà più facilmente clienti e consumatori, - consolidare la posizione competitiva = un’immagine positiva risulta essere di supporto nelle attività operative e commerciali dell’azienda, - attrarre personale di talento = un’azienda con valori forti ed un’immagine favorevole sarà fonte di stima per i dipendenti potenziali , - migliorare la capacità dell’azienda nel contenere crisi e gestire cambiamenti , - sviluppare e sostenere una reputazione positiva. Dobbiamo tuttavia ricordare che un’immagine troppo forte può, a volte, essere d’ostacolo restringendo il margine di manovra, come sottolinea Libaert. E’ quindi opportuno valutare i diversi fattori nella costruzione dell’immagine aziendale desiderata e nelle attività di gestione o cambiamento svolte al fine di mutare i giudizi dei clienti. Si tratta di operazioni estremamente delicate e con una forte incidenza a livello economico: l’immagine aziendale infatti, come abbiamo cercato di mostrare in queste poche righe, è un valore intangibile dell’azienda, ma la sua influenza ricopre tutte le attività della stessa agli occhi dei diversi pubblici. 1 VAN RIEL C. B. M. , op. cit. p. 76 34 1.3.2 La Corporate Identity Altro grande “strategic intangible asset”, l’identità aziendale, è il luogo in cui si identifica il “core” di un’azienda, ovvero il suo nucleo. Non intendiamo per il momento soffermarci troppo su questa nozione: co-protagonista del nostro lavoro, essa verrà trattata in modo più approfondito in un capitolo dedicato. Ci sembra però utile cominciare a dare una prima definizione del termine, al fine di circoscriverne il campo alla stregua di quanto fatto per il precedente concetto. E’ bene mettere da subito in chiaro una cosa: malgrado i termini “immagine” ed “identità” siano spesso usati, impropriamente, come sinonimi, si tratta di due aree diverse della comunicazione strategica d’azienda. Se l’immagine è il ritratto, l’impressione, l’insieme di giudizi sull’azienda così come viene percepito dai diversi pubblici, l’identità viene ad indicare le modalità attraverso cui l’impresa presenta sé stessa al proprio target di riferimento. Riportiamo per ora l’interessante definizione d’identità di Reitter e Ramanantsoa: “Pour l’organisation, son identité est ce qui la définit spécifiquement, la rend identifiable et reconnaissable, et permet de s’identifier à elle”1 - ovvero l’identità per un’azienda è ciò che la definisce, la rende identificabile e riconoscibile nei confronti degli altri attori, favorendo l’identificazione dei suoi pubblici. 1.3.3 La Corporate Reputation Allo stesso modo di immagine ed identità anche la reputazione svolge un ruolo strategico all’interno dell’azienda. Il termine reputation sovente associato a quello di image, crea a volte confusione fra i non addetti ai lavori: i due concetti, infatti, rimandano al medesimo fenomeno, ovvero la formazione di impressioni e rappresentazioni riguardanti un’azienda da parte dei suoi stakeholder. Ciò nonostante possiamo affermare con certezza che si tratta di due nozioni diverse, la cui nascita risale a momenti completamente distinti nella storia della comunicazione aziendale. Mentre la corporate image nasce e si sviluppa a partire dagli anni ’50, il concetto di reputazione aziendale si forma a partire dagli anni ‘70 all’interno dell’ambito dell’economia politica in riferimento a casi di incompleta o imperfetta informazione: in sostanza spesso i clienti/consumatori malgrado una scarsa conoscenza dell’azienda comprano i prodotti o fruiscono dei servizi perché data l’elevata reputazione ripongono in essa la loro fiducia. In sintesi: “Non ho conoscenza diretta ma mi fido”. In questi casi la corporate reputation costituisce un elemento essenziale di attrazione di valore 1 LIBAERT T.- JOHANNES K., op. cit. p. 36 35 economico e relazionale. Uno dei maggiori studiosi del campo, Charles Fombrun1, la definisce come segue: “una percezione delle azioni passate e delle prospettive future che mettono in luce l’attrattività dell’impresa nei confronti dei suoi pubblici chiave e rispetto ai suoi concorrenti”2. Altra definizione interessante, che riassume le caratteristiche della corporate reputation è quella di Kottasz e Bennett3: “Corporate reputation is an amalgamation of all expectations, perceptions and opinions of an organization developed over time by customers, employees, suppliers, investors, and the public at large in relation to the organization’s qualities, characteristics and behavior, based on personal experience, hearsay, or the organization’s observed past actions”. Un recente sondaggio di Burson-Masteller ha riportato che il 95% dei leader aziendali intervistati sono convinti che la reputazione aziendale giochi un ruolo fondamentale nel raggiungimento degli obiettivi aziendali, tuttavia soltanto il 19% ha messo in atto un sistema in grado di misurare e valutare il valore della loro corporate reputation. Questo si verifica soprattutto in relazione al fatto che essendo la reputazione un valore intangibile che necessita di un lungo periodo per cambiare, ed i costi necessari per ottenere una solida reputazione difficili da quantificare e prevedere, le aziende spesso sono caute nelle loro mosse. Una cosa però è certa: il prezzo da pagare per la perdita della reputazione o per una reputazione negativa sono molto elevati, tanto che piccole e medie imprese non sufficientemente pronte ad affrontare una crisi di questo genere potrebbero veder crollare il proprio impero economico. Non si tratta perciò di un elemento trascurabile, quanto piuttosto di un dato con un certo peso di rilievo sul mercato. Le sue caratteristiche principali sono le seguenti: - la reputazione è un complesso percettivo e relazionale, un giudizio che si basa sulla stima e la fiducia dei diversi pubblici dell’azienda - rispecchia la corporate identity e ne porta in auge i valori ed i punti di forza - la reputazione è unica ed identifica la singola impresa dai competitors CHARLES J. FOMBRUN è professore emerito di Management presso la Stern School of Business dell’università di New York e direttore del Reputation Institute, gruppo privato di ricerca che si occupa di misurare e valutare la corporate reputation. Fra le sue opere più importanti ricordiamo: “Realizing value from the Corporate Image”, “Strategic Human Resource Management”, “The advice business” e il libro scritto in collaborazione con il professor Cees B. M. Van Riel, “Fame and fortune: how successful compagnie build inning reputations”. 2 LIBAERT T.- JOHANNES K., op. cit. p. 44 3 GOTSI M. –WILSON A. M., Corporate reputation: seeking a definition, in Corporate Communication: An International Journal, MCP UP Limited, volume 6, numero 1, 2001, pp. 24-30 1 36 - deriva dall’interazione di scelte strategiche e competitive e rappresenta un reale vantaggio competitivo per l’azienda da un punto di vista economico e di mercato - si caratterizza per una forte dimensione storica che si basa sulla lettura delle varie azioni passate e dei comportamenti dell’azienda. Per tali motivi la reputazione è un complesso che impiega molto tempo per mutare: cambiamento e formazione richiedono tempi dilatati di messa in pratica e sperimentazione. Allora perché un’azienda dovrebbe curare questo asset? Quali sono i benefici di una corporate reputation positiva? Secondo Stephen A. Greyser possiamo annoverare i seguenti tre benefici1: - “Preference in doing business with a company when several companies’ products or services are similar in quality and price - Support for a company in times of controversy - A company’s value in the financial marketplace”. Ciò che ci dice Greyser deriva da uno studio compiuto su un campione di aziende americane, elaborato in un certo lasso di tempo: il risultato conferma l’importanza del concetto di reputazione per la maggior parte di questi attori, in particolare per i punti appena menzionati. A tale livello la corporate reputation è considerata come una risorsa immateriale al pari di immagine ed identità, people-dependent, generatrice di capacità distintive nel tempo: una risorsa strategica che, come vedremo più avanti, influisce su tutti i campi d’applicazione della C.C. La sua importanza è andata in crescendo negli anni tanto da scalzare il posto di leadership ottenuto dall’immagine e divenendo uno degli obiettivi principali della Corporate Communication. Questo anche perché, a differenza di identità ed immagine, la reputazione è una risorsa relativamente quantificabile e misurabile, soprattutto grazie agli studi di Fombrun. I principali strumenti di misurazione della reputazione sono i seguenti: - il Reputation Index, sviluppato dalla “Corporate Reputation Survey” svolta annualmente dalla rivista americana “Fortune”; - il Reputation Quotient, creato sulla base dell’indagine annuale realizzata dal Reputation Insitute diretto da Charles Fombrun e da Cees Van Riel. Il concetto di misurabilità è caro al mondo economico-finanziario ed in particolare al top management: per queste ragioni abbiamo riscontrato negli ultimi anni una particolare 1 GREYSER A. S., Advancing and enhancing corporate reputation, op. cit., p. 2 37 attenzione per il concetto in questione. Tuttavia dobbiamo sottolineare che la ricerca scientifica si è spesso trovata discorde su diversi punti riguardanti la misurabilità e l’efficacia della Corporate reputation. Come ci spiega Dowling1, secondo alcuni il problema risiederebbe nel comprendere se effettivamente una buona reputazione crei un vantaggio economico reale o non sia piuttosto il contrario, ovvero sono i buoni profitti aziendali che creano una reputazione positiva. Secondo uno studio2 compiuto da Roberts e dallo stesso Dowling nel 2002, vi sarebbe una relazione biunivoca fra reputazione e performance finanziaria, ma è indubbio che una delle risposte alla necessità di garantirsi introiti maggiori e più stabili sia investire nella reputazione, ovvero cercare di guadagnarsi la fiducia ed il rispetto dei propri pubblici. Il nodo centrale del problema sta proprio qui, nel fatto che la reputazione crea del plus valore che può essere variamente utilizzato dall’azienda. Infatti sottolineano Van Riel e Fombrun: “A Corporation’s value stems from its corporate vision, stakeholder perceptions, supportive behaviour and employee beliefs. A strong Reputation Platform will help reduce the perceptual or behavioural gaps between these elements through properly configuring messaging, engagement, bonding, and aligning strategies. The net result accelerating Value Creation”3. La spiegazione di questo concetto viene esemplificato dallo schema di seguito: Figura 1.11 La Reputation Platform secondo il Reputation Institute Inoltre riteniamo risolutiva la loro risposta alla domanda: “Perché la Reputazione è considerata così importante?”. Spiegano Van Riel e Fombrun: “Reputation strategy is DOWLING G., op. cit. p. 134 Ibid. p. 135 3 Per ulteriori informazioni si veda il sito ufficiale del Reputation Institute: http://www.reputationinstitute.com/advisory-services/ Lo schema riportato qui in alto, si trova nella sezione “Advisory Services” dello stesso sito. 1 2 38 competitive strategy. Reputation initiatives drive stakeholder perceptions, which drive likelihood of eliciting supportive behaviours, and fuel business results. Leveraging reputation allows clients to build advantage in the marketplace and reduce risk exposure”. Non dobbiamo dimenticare infatti che uno dei principi su cui si basa il libro di Van Riel (Principles of Corporate Communication – Identiteit en Imago, di cui si è già detto sopra), uno dei “padri” della Corporate Communication, risiede nel idea secondo cui l’obiettivo delle attività messe in atto dalla Corporate Communication consiste fondamentalmente nell’accrescere la reputazione aziendale1. Alla reputazione viene dunque conferito un ruolo di preminenza sin dall’inizio. Ciò nonostante, crediamo che malgrado la rilevanza data alla reputazione, tutti e tre gli elementi considerati (immagine, identità, reputazione), concorrano a creare del valore per l’azienda, e abbiano per questo uguale importanza. E’ perciò essenziale essere in grado di non confondere tra loro tali concetti ed avere ben chiare in testa quali sono le differenze e quali i punti in comune. Possiamo dire, a questo proposito, che la reputazione si rifà agli attuali giudizi dei pubblici sull’azienda, può essere pertanto sia positiva che negativa. E’ relativamente stabile nel tempo, a differenza di quanto accade per l’immagine; Gray e Balmer infatti sottolineano: “image can be attained relatively quickly but a good reputation takes time to build”2. In sostanza i tre concetti vanno a rispondere a domande diverse: la corporate identity si rifà alla domanda “Chi o cosa siamo e quali sono i nostri obiettivi?”; la corporate image “Come ci vedono i nostri diversi pubblici e quali aspetti emotivi ne scaturiscono?”; mentre la corporate reputation “Quali giudizi emergono a proposito della mia azienda da parte degli stakeholder?”. Quindi la prima si staglia sul concetto di essere, la seconda di apparire, la terza di credere. Tre verbi che riassumono in breve quanto abbiamo detto sino ad ora. Concludiamo, lasciando sedimentare, per il momento, le informazioni acquisite, per passare ad un altro paragrafo d’ampio respiro. Nelle prossime pagine, infatti, andremo a vedere come questi tre concetti analizzati influiscono sulla vita e sulle funzioni comunicative dell’azienda ed in particolare sottolineeremo per ciascun ambito come queste risorse immateriali abbiano un peso rilevante sul mercato, tanto da essere considerate vantaggi competitivi per l’impresa. 1 2 BERENS G., op. cit p. 73 KENT W., op. cit. p. 367 39 1.4 I campi d’espressione e gli strumenti della C.C. Dopo aver analizzato la comunicazione aziendale descrivendone le caratteristiche peculiari, questo paragrafo si pone l’obiettivo di chiudere il cerchio, delineando i confini della nostra indagine. Le domande a cui tenteremo di rispondere sono le seguenti: a che livelli opera la comunicazione d’impresa? e quali tecniche e strumenti ha a sua disposizione? 1.4.1 Dalla comunicazione di crisi alla B to B: i campi d’espressione della C.C. Dal punto di vista dei campi d’espressione all’interno dei quali opera, a seconda dei pubblici a cui si rivolge e dei fini che si pone è possibile distinguere i seguenti ambiti: Figura 1.12 I campi d’espressione della Corporate Communication Comunicazione B to C o gran pubblico Lobbying Comunicazione interna COMUNICAZIONE D’IMPRESA Comunicazione B to B Comunicazione finanziaria o investor relations Comunicazione di crisi e gestione del cambiamento Questi sei riquadri mostrano i diversi campi d’espressione della Corporate Communication. Prima di passare ad un’analisi delle singole aree, è bene notare che tutte e sei rientrano nelle categorie precedentemente annoverate da Van Riel e poi da Libaert secondo una classificazione più sintetica. Inoltre esse fanno uso di strumenti diversificati, alcuni dei quali ricorrono in più aree: pensiamo alle media relation e all’ufficio stampa per esempio, oppure all’organizzazione di eventi. Ogni area ha certamente la sua peculiarità, ma iscrivendosi nelle tre categorie menzionate poc’anzi, prendono forma seguendo una strategia comune. 1. Iniziamo parlando della comunicazione B to C, la comunicazione esterna per eccellenza. Si tratta dell’ambito più ampio della C.C., quello che si rivolge al grande pubblico, o meglio 40 all’opinione pubblica, intesa come tutti coloro che conoscono l’impresa o che entrano in relazione con questa. Ciò significa comunicare con un pubblico spesso indistinto e diversificato. Da qui la sfida maggiore per l’impresa che deve essere sempre pronta all’ascolto dei diversi pubblici e deve cercare di andar loro incontro mostrando disponibilità al dialogo. Questa sfida risiede inoltre nell’impossibilità di segmentare i destinatari del messaggio e nella capacità d’interpretare le esigenze delle varie categorie. D’altro canto ciò permette un gran margine di manovra dal punto di vista delle tecniche potenzialmente utilizzabili. Libaert sostiene che è proprio a questo livello che si manifestano delle grandi modifiche in ciò che riguarda le percezioni dell’opinione pubblica, sempre più attenta alle influenze dei grandi attori socio-economici sul territorio nazionale ed internazionale1. Da tale attenzione si comprende l’importanza conferita a responsabilità sociale e sviluppo sostenibile: settori che vedono impegnata l’impresa come soggetto morale all’interno della società. La prospettiva etica è un elemento centrale, tanto che l’impatto della CSR sull’immagine aziendale è sempre più spesso oggetto di dibattito. 2. Passiamo ora alla comunicazione interna. Essa s’incentra sulle relazioni con i dipendenti, uno dei pubblici d’élite dell’impresa, con i quali è necessario instaurare un rapporto di dialogo al fine di ottenere, da un lato la loro adesione agli obiettivi aziendali, dall’altro una fiducia reciproca che sul lungo periodo possa incrementare il rendimento e quindi generare un beneficio economico che vada a favore dell’intero organismo. In particolare a questo livello il concetto di relazione si dimostra fondamentale: comunicare con i propri dipendenti non significa sommergerli di messaggi, secondo un tipo di comunicazione top-down2, ma creare un dialogo che si faccia portatore di valori e che metta sullo stesso piano mittenti e destinatari, senza per questo dimenticare gli obblighi dell’uno nei confronti dell’altro. La comunicazione interna è un elemento chiave dell’intera comunicazione aziendale: i dipendenti rappresentano “gli ambasciatori” dell’azienda e i primi vettori dell’immagine. Essi sono dei leader d’opinione di primo ordine nei confronti dei pubblici esterni: da qui l’estrema importanza data alla comunicazione interna, soprattutto oggi, in un momento cruciale in cui il confine fra interno ed esterno all’azienda è estremamente labile tanto da risultare come due facce di un’unica medaglia. Possiamo quindi concordare con Libaert nel LIBAERT T.- JOHANNES K., op. cit. p. 65 Per maggiori informazioni sul passaggio da comunicazione top-down ad interazione comunicativa in ambiente aziendale si veda http://www.slideshare.net/giacomo.mason/la-nuova-comunicazioneinterna 1 2 41 dire che: “Nell’attuale contesto di crisi, segnato dalla globalizzazione e dalla mondializzazione, il rapporto dei dipendenti con il loro lavoro ed in particolare con il loro datore, è diventato uno dei nodi centrali e dei punti più sensibili”1. Oltre a focalizzarsi sui dipendenti attuali, la comunicazione interna condivide con la comunicazione esterna il compito di parlare ai potenziali candidati: questa funzione che consiste nella capacità di attrarre i talenti migliori viene definita employer branding. La “guerra ai talenti” è uno degli effetti più rilevanti dell’attuale contesto di crisi economica: abbiamo ragazzi sempre più formati e sempre meno posti disponibili da riempire. Le aziende fanno a gara per ottenere da un lato i candidati migliori e dall’altro per mantenere positiva sia l’immagine interna, sia l’employer image, le quali confluiscono poi nell’immagine totale, la corporate image. Partendo da questi presupposti e facile comprendere quali siano le finalità che si pone il polo della comunicazione interna: - Motivare i dipendenti affinché trovino un senso al loro lavoro e contribuiscano a dare valore a ciò che fanno, aumentando così il senso d’appartenenza all’azienda - Informare adeguatamente i dipendenti sui compiti da eseguire e sulle direzioni ed azioni intraprese dall’azienda, in modo chiaro ed il più possibile trasparente - Mobilitare gli individui perché siano veri e propri ambasciatori dell’organizzazione all’interno della società, perché ne condividano la vision e la mission e le sappiano comunicare all’esterno - Unire tutti coloro che fanno parte dell’impresa, costruendo un rapporto di reciprocità al di là delle gerarchie, in modo tale che si costruisca un corpus sociale e non soltanto economico - Dialogare con i lavoratori, perché si instauri un rapporto di scambio reciproco e di fiducia che porti le diverse parti a sedersi al medesimo tavolo di confronto e a riflettere insieme sui problemi che minacciano la compagnia o i singoli individui I punti delineati restano da monito, come paradigma di un sistema ideale di interazione all’interno di una qualsivoglia azienda o organizzazione. Spesso non tutte le finalità sono prese in considerazione, oppure più semplicemente il contesto politico-sociale interno ed esterno all’azienda creano degli ostacoli all’instaurarsi di una politica di comunicazione interna efficace. Tuttavia, come si è detto, oggi più che mai emerge l’importanza di parlare 1 LIBAERT T.- JOHANNES K., op. cit. p. 67, traduzione mia dall’originale francese 42 con i propri pubblici interni, in particolare perché essi risultano essere il motore di propulsione verso l’esterno, portatori del marchio aziendale e perciò dell’identità stessa. “As soon as employees are able to identify themselves with the internal mechanics of the company and understand the endorsed corporate identity they can work better, pay more attention to their responsibilities, understand how they fit into the entire company, associate with the identity of their respective business units as well as that of the organization, and become ambassadors of the company. For a business to enhance its reputation it needs to invest in effective internal communication with its employees because internal communication becomes the foundation for an effective and rewarding reputation” (Dortok, 2006)1. L’importanza di una solida comunicazione rivolta verso l’interno è proprio il fatto di ottenere dei benefici a livello di reputazione e d’identità aziendale in cui tutti i pubblici dovrebbero riconoscersi. Data la situazione attuale è interessante notare quali saranno le nuove sfide che la comunicazione interna dovrà affrontare nei prossimi anni2: Figura 1.13 Le sfide della comunicazione interna per il futuro Facilitare l’autoformazione Trasmettere i valori Uniformare le credenze Diffondere le direttive Cercare il consenso Veicolare decisioni Facilitare le relazioni professionali trasversali Condividere il sapere diffuso Supportare la collaborazione informale Mettere a fattore comune l’innovazione Facilitare i processi organizzativi HOLTZHAUSEN L. – FOURIE L., op. cit., p. 82 Modello costruito a partire dallo schema di Giacomo Mason - Nuove sfide per la comunicazione interna http://www.slideshare.net/giacomo.mason/la-nuova-comunicazione-interna 1 2 43 Come è possibile notare dallo schema qui sopra, se da un lato restano centrali le finalità descritte in precedenza, dall’altro nuove sfide si presentano all’ordine del giorno, sfide che riguardano sia la necessità di trovare nuove strade per la collaborazione, sia il bisogno di affrontare insieme la situazione attuale dando importanza all’innovazione, alla formazione, alla condivisione di sapere. Per quanto riguarda gli strumenti ad uso della comunicazione interna, abbiamo un elevato numero di possibilità che si estendono dall’e-mail ai forum alle intranet. Nella tabella sottostante vengono riportati i mezzi più usati suddivisi secondo la classificazione tradizionale in strumenti orali, scritti, audiovisivi ed informatici1. Figura 1.14 Gli strumenti utilizzati dalla comunicazione interna Mezzi orali Mezzi scritti - Comunicazione di prossimità - Riunioni e convention - Teleconferenze - Comunicazione d’eventi - Colloquio diretto - Numero verde - Programma suggerimenti e focus group - Lettera personale - Brochure - Giornale aziendale - Rassegna stampa - Procedure e manuali di lavoro - Documentazioni (brochure, poster…) - Sondaggi ed inchieste esterne Mezzi audiovisivi - Videoconferenze - Film o video aziendali Mezzi informatici - Intranet - Extranet - E-mail personale o collettiva - Portale di employee self service - Blog e forum - Newsletter interna - Wikis Detto questo, ritroveremo il concetto di comunicazione interna più volte nel corso del nostro lavoro, in particolare in relazione alla gestione della corporate identity. Saper riconoscere la sua importanza è un asset decisivo nella gestione della comunicazione aziendale. 3. Altro campo d’espressione della comunicazione corporate è l’ambito della comunicazione finanziaria. Se ne parla poco, ma è uno degli elementi più importanti della comunicazione aziendale per la sua capacità di attrarre valore economico e di far corrispondere ad un’ immagine finanziaria positiva, un adeguato grado di reputazione. L’oggetto principale della LIBAERT T.- JOHANNES K., op. cit. p. 70. Tabella 5.1 con relative modificazioni ed aggiunte. Traduzione mia dall’originale francese. Per ulteriori informazioni sui vantaggi e gli svantaggi degli strumenti utilizzati e la loro diffusione si veda anche http://www.odmconsulting.com/survey/mancom/cap4comunicazimpresa.pdf 1 44 comunicazione finanziaria è l’informazione relativa all’andamento economico, finanziario e patrimoniale. Nello specifico la sua peculiarità consiste nella capacità di comunicare dati economico-finanziari ai diversi target dell’azienda, in modo trasparente e chiaro: lo scopo è di aggiungere significato a questi dati, trasformandoli in informazioni fruibili per un efficace trasferimento del valore d’impresa1. I dati finanziari devono quindi essere plasmati su un discorso che prenda in considerazione i risultati dell’azienda rispetto agli obiettivi preposti, la mission, la vision e la sua politica di sviluppo. Non si tratta solo di rendere i conti alla fine del mese, la questione è più complessa: “…il reporting finanziario deve fornire informazioni che aiutino investitori, creditori ed altri soggetti interessati, sia attuali che potenziali, a valutare l’ammontare, il timing e il grado di certezza delle future entrate ed uscite di cassa dell’impresa.(…) Deve inoltre garantire informazioni circa le risorse economiche di cui l’azienda dispone (i suoi assets), nonché sui diritti esistenti su tali risorse (le sue passività e l’equity); ed informazioni sugli effetti di transazioni, eventi, o circostanze che possano modificare tali risorse o i diritti ad esse relativi. Deve infine fornire informazioni utili a valutare come il management stia adempiendo alle proprie responsabilità gestionali, che riguardano la tutela e la custodia delle risorse economiche aziendali, ma anche il loro efficiente e profittevole utilizzo, nonché il rispetto delle leggi, dei regolamenti e delle previsioni contrattuali applicabili”2. Si tratta in sostanza, come sottolinea Libaert, di creare e mantenere un rapporto di fiducia con i propri pubblici finanziari, grazie ad un’immagine finanziaria solida, coerente e giusta3, una “capital image” capace di convincere del potenziale di crescita dell’impresa. Ma andiamo ora a descrivere brevemente gli attori in gioco. La gestione di questo tipo di comunicazione è delegata oggi alle investor relation, che, nelle aziende quotate in Borsa, sono inglobate nell’area finanza ed occupano un posto di rilevanza nei piani alti del management. Si tratta naturalmente di persone molto competenti, risorse abituate a gestire i rapporti con gli investitori e con tutti gli attori del mercato finanziario: analisti e gestori di portafoglio, giornalisti specializzati, azionisti. I target maggiori a cui si rivolgono le investor relations sono infatti sia interni che esterni e comprendono: azionisti, Per approfondimenti si veda STELLA ROMAGNOLI, Strumenti e strategie della comunicazione d’impresa 2008-2009, http://web.me.com/sromagnoli/comunicazione/SSCI.html. In particolare si pone attenzione sul Modulo II, La comunicazione finanziaria d’impresa: http://web.me.com/sromagnoli/comunicazione/Programma_2%C2%B0_mod.html 2 BULLERI P., op. cit. p. 17. Per approfondimenti si veda anche: “Preliminary Views on an improved Conceptual Framework for Financial Reporting”, IASB Discussion Paper , Luglio 2006 3 LIBAERT T.- JOHANNES K., op. cit. p. 71 1 45 creditori, clienti, il fisco e la comunità finanziaria1. Gli strumenti maggiormente utilizzati possono riassumersi in quanto segue: - Documenti finanziari (bilancio, rapporti annuali, semestrali, trimestrali…) - Riunioni ed incontri regolari - Pubblicità finanziaria - Eventi (assemblee generali annuali degli azionisti, road-show, reverse show) - Relazioni pubbliche e addetto stampa ( analyst & investor days, comunicati stampa) - Web (pubblicazione on-line dei risultati finanziari sul sito aziendale) - Dispositivi di fidelizzazione (club degli azionisti, lettere agli azionisti…) - Dispositivi interattivi (numeri verdi, newsletter, videoconferenze, webcasts…). Questi strumenti ed in particolare l’uso di internet hanno permesso alla comunicazione finanziaria di allargare il proprio campo d’azione e di confrontarsi con le nuove sfide della modernità: la globalizzazione, i numerosi scandali finanziari, l’esigenza continua di informazioni costanti ed aggiornate. Si è passati quindi da un’informazione finanziaria, semplice resoconto di dati economici, ad una comunicazione più allargata, che comprenda l’intera azienda e il suo operato. Oggi tuttavia la sfida si è fatta ancora più consistente: la necessità di dare un valore in termini economici non soltanto ai beni tangibili ma anche agli intangible assets2 sta diventando una priorità anche in ambito finanziario. E’ bene ricordalo da un lato perché si tratta di una problematica attuale di notevole rilevanza, dall’altro perché è proprio sulla pregnanza di questi valori che si costruisce il nostro lavoro. Concludiamo con questa riflessione tratta dalla tesi di Paolo Bulleri: “(…) la nuova sfida è quella di dare un valore ad un qualcosa che non passa, nella maggior parte dei casi, neppure indirettamente dal mercato, ma a cui il mercato attribuisce valore, gli intangibili. Il paradosso è che questo ulteriore allontanamento del modello da una logica di mercato è richiesto dal mercato stesso: se questo attribuisce del valore a tali assets, valore che in molti casi è addirittura quello più rilevante per la società, nonché la fonte di ROMAGNOLI S., La comunicazione finanziaria d’impresa: http://web.me.com/sromagnoli/comunicazione/Programma_2%C2%B0_mod.html 2 Per intangible assets s’intende: “An asset that is not physical in nature. Corporate intellectual property (items such as patents, trademarks, copyrights, business methodologies), goodwill and brand recognition are all common intangible asset’s in today’s marketplace”. Per ulteriori chiarimenti sul concetto di intangible assets si veda: http://www.investopedia.com/terms/i/intangibleasset.asp#axzz1bsXg1DAj Nel nostro caso assumiamo sotto il termine di intangibile assets anche i concetti base su cui si fonda la corporate communication, ovvero immagine, reputazione ed identità. 1 46 vantaggio competitivo di cui essa gode rispetto ai propri competitors, il sistema contabile non può permettersi il lusso di non tenerne conto”. 4. Dopo esserci dilungati sulle caratteristiche di comunicazione interna e finanziaria, ci occupiamo ora di un altro ambito che può essere variamente interpretato: come facente parte della corporate communication oppure come una cellula di supporto esterna in casi di minaccia potenziale o reale per l’azienda. Si tratta della comunicazione di crisi, tipologia di comunicazione che si è andata affermando soprattutto in questo periodo dominato dall’instabilità dei mercati e dalla precarietà dei governi al potere. Per crisi s’intende, come spiega il professor Emanuele Invernizzi1: “ un evento straordinario, il cui accadimento e la cui visibilità all’esterno minacciano di produrre un effetto negativo sulle attività e sulla reputazione dell’organizzazione rispetto al quale la prontezza e la pertinenza della risposta diventano fondamentali”2. Per comprendere meglio come funziona il lavoro degli esperti, vediamo insieme il piano di gestione e di comunicazione delle crisi secondo il modello del professor Invernizzi3 che riportiamo nella pagina successiva. Come si può notare dallo schema, ogni tappa del processo di comunicazione pre e post crisi richiama delle misure che devono essere adottate al fine di proteggere e gestire la reputazione da parte dell’impresa. In breve, il sistema si basa su una prima tappa di pre-crisi che deve essere caratterizzata da un’operazione di veglia mediatica e di identificazione dei rischi potenziali, cui segue, in caso di scoppio della crisi la messa in opera di un programma di gestione basato sul posizionamento che l’impresa intende tenere, secondo varie modalità di risposta possibili. Infine il post-crisi serve per valutare l’operatività della cellula anti-crisi da un lato e dall’altro serve al top management per trarre delle lezioni per il futuro dell’azienda, individuare i punti deboli e prendere le decisioni per i passi successivi da compiere. INVERNIZZI EMANUELE, professore ordinario di Economia e tecniche della comunicazione aziendale presso l’università IULM di Milano, è direttore dell’Istituto di Economia e Marketing, e direttore dell’Exectuive Master in Relazioni Pubbliche d’Impresa. Ha scritto molti libri nell’ambito della comunicazione aziendale e delle relazioni pubbliche, tra cui ricordiamo: “Institutionalising PR and corporate communication. Proceedings of the Euprera 2008 Milan Congress” e “La comunicazione organizzativa: teorie, modelli e metodi”. 2 Per una chiara definizione di comunicazione di crisi si veda: http://www.comunicazione.uniroma1.it/materiali/15.17.32_LA%20CRISI.ppt#258,3,Definizione di crisi ; Per ulteriori precisazioni si consiglia la lettura di E. Invernizzi, “Manuale di relazioni pubbliche 2”, Mc Graw Hill, 2006, capitolo 6 – La comunicazione per la gestione delle crisi. 3 Per una spiegazione più dettagliata del modello si veda : http://www.emanueleinvernizzi.it/showPage.php?template=formazione&id=107 1 47 Figura 1.15 Piano di gestione e comunicazione delle crisi elaborato da Invernizzi 1. PREVEDERE Soluzione preventiva Valutazione ed approfondimen to 4. GESTIRE IL DOPO CRISI 2. PROGRAMMARE Evento critico Soluzione o fallimento 3. GESTIRE LA CRISI E COMUNICARE Secondo i maggiori studiosi di comunicazione è necessario integrare all’interno dell’area di comunicazione aziendale una cellula che si occupi di monitorare costantemente il flusso comunicativo al fine di prevenire eventuali contesti di crisi. Per questo motivo, quando si parla di gestione della comunicazione di crisi, si fanno rientrare in questo ambito non solo le attività post-crisi ma tutta una serie di pratiche preventive, atte a mantenere salda la reputazione dell’azienda e a garantire una forte identità che scongiurino ogni possibilità di tracollo. Inoltre un focus sugli intangible assets risulta indispensabile: immagine e reputazione sono gli attori al centro del sistema comunicativo, la cui solidità va controllata e in casi critici ristabilita. Lo stesso Thierry Libaert sottolinea : “…la réputation constitue un enjeu essentiel, à la fois comme un actif immatériel à protéger et comme un atout majeur dans la gestion de la crise”1, quindi la reputazione è sia un elemento essenziale per prevenire eventuali crisi attraverso la sua salvaguardia, sia un utile strumento su cui appoggiarsi in eventuali casi di stallo. Allo stesso modo l’identità ed in particolare un’identità forte e coesa, stabile nel tempo è un costrutto determinante che, in particolare, in contesti di crisi diventa un vantaggio competitivo inestimabile. Prima di chiudere il capitolo della comunicazione di crisi, ci sembra utile mettere in evidenza il ruolo dei media nei confronti dell’azienda, che 1 LIBAERT T.- JOHANNES K., op. cit. p. 75 48 soprattutto in questi casi fungono da cassa di risonanza ma anche da vera e propria miccia che accende la polemica. Curare le relazioni con i media è pertanto fondamentale per conquistare o riconquistare la fiducia del proprio pubblico. Vogliamo infine ricordare l’importanza di un’altra cellula: la comunicazione nel processo di gestione del cambiamento, che può essere compatibile con una situazione di crisi oppure essere messa in pratica al fine di ottenere determinati obiettivi aziendali. Non è questo il luogo di approfondire un discorso così vasto come può essere quello del cambiamento in contesto aziendale, oggi più che mai una necessità che si presenta in modo forte e che vede le aziende in continua evoluzione al passo con i tempi e con le continue innovazioni del mercato1. 5. Il Lobbying e la comunicazione rivolta agli attori politici è un altro ambito cruciale della C.C. Con il termine lobbying si definiscono tutte quelle attività che cercano di influenzare i processi decisionali delle istituzioni e della politica. Altri termini familiari, utilizzati spesso al posto di lobbying sono: public affairs, corporate affairs o relazioni istituzionali. In linea generale, “un’azienda ricorre al lobbying quando vuole tentare di modificare il corso di una legislazione per difendere i suoi interessi o quelli del settore in cui opera”2. La comunicazione legata al lobbying si è affermata soprattutto recentemente ed è ancora fonte di numerosi dibattiti in merito alla sua liceità: la sua immagine è spesso negativa e collegata all’idea di corruzione. In realtà si tratta di una pratica sempre più attuale, legata a temi come il principio di sussidiarietà, il “governo per reti” e le privatizzazioni, che emerge sempre più in contesti di allargamento dei confini politici: l’Unione Europea con tutte le direttive e le legislazioni nazionali ad essa collegate ne sono un esempio. Gli esperti del sistema del lobbying, i lobbisiti, intermediari fra potere politico ed economico, hanno a loro disposizione i seguenti strumenti: - lobbying diretto, ovvero rapporti diretti con legislatori ed amministratori; - grassroots lobbying, forma più recente che mette in gioco la base di un’associazione mobilitandola su provvedimenti mirati; - finanziamenti elettorali sotto forma di Political Action Committees; Un esempio interessante in ambito di gestione del cambiamento è rappresentato dal caso degli URP e delle pubbliche amministrazioni in Italia che stanno attraversando un periodo di forte mutamento delle strutture e delle modalità di comunicazione con il pubblico. Interessante è la politica riportata sul sito URP- Comunicazione pubblica in rete: http://www.urp.it/Sezione.jsp?titolo=Ruoli%2C+attori+e+competenze+della+comunicazione+nel+p rocesso+di+cambiamento+della+P.A.&idSezione=1027 2 LIBAERT T.- JOHANNES K., op. cit. p. 79, traduzione mia dall’originale francese. 1 49 - le coalizioni o policy area1. L’attività di lobbying si lega inoltre in modo specifico agli intangibile assets, in particolare all’immagine aziendale che può trasformarsi in una vera e propria arma. D’altro canto come si è detto in precedenza l’uso di queste pratiche è ancora legato ad un’aura negativa e perciò spesso criticato, tanto che ancora oggi molte aziende non dichiarano apertamente di fare uso di attività di lobbying. Chiudo concludendo con una frase di John F. Kennedy, che sottolinea l’efficacia di quest’ambito della comunicazione, ancora tutto da scoprire e studiare: “ I lobbisti impiegano dieci minuti e tre pagine per farmi capire un problema. I miei assistenti hanno bisogno di tre giorni e di una tonnellata di cartacce”2. 6. La comunicazione B to B o Business to Business è la tipologia di comunicazione che si occupa dei rapporti fra professionisti o imprese. In breve il suo fine è principalmente di carattere commerciale. Naturalmente data la diversità del destinatario del messaggio, la comunicazione B to B pur utilizzando molti degli strumenti della comunicazione del largo consumo differisce in alcuni punti, quali: - innanzitutto è selettiva e non di massa - è informativa e non aggressiva - si basa su motivazioni razionali più che emozionali. Fra gli strumenti considerati di maggior rilevanza rispetto alla comunicazione B to C, la comunicazione Business to Business si distingue per l’uso di eventi, in particolare le fiere ad elevato impatto sui destinatari, ma anche convegni, attività di pubblicità e tutte le pratiche relative alle relazioni pubbliche (mailing e e-mailing, newsletter cartacea e digitale, lanci stampa…ecc). E’ bene ricordare che la comunicazione B to B si rivolge a pubblici eterogenei e quindi i mezzi utilizzati per raggiungerli sono fra i più diversificati, a seconda degli obiettivi che l’azienda si prefigge e in relazione a delle strategie di comunicazione ben precise. 1.4.2 Dalla comunicazione eventi alla pubblicità: tecniche e strumenti della C.C. Dopo aver analizzato in breve i diversi ambiti all’interno di cui s’inscrive la comunicazione corporate, passiamo ora ad analizzare gli strumenti e le tecniche a disposizione di esperti ed Per un approfondimento del termine lobbying ed in particolare del grassroots lobbying si veda: http://impresa-stato.mi.camcom.it/im_33/graziano.htm 2 Citazione tratta da: http://www.utopialab.it/?l=ita Interessante il caso di UTOPIA Lab, Relazioni Istituzionali, Comunicazione & Lobbying, società nata dall’incontro di giovani esperienze professionali specializzata in Lobbying. 1 50 imprese. Alcuni di essi sono già stati citati parlando delle singole attività e dei campi d’espressione della comunicazione d’impresa, ci teniamo tuttavia a creare un quadro completo delle strumentazioni a disposizione, perché il lettore abbia a comprendere la pluralità dei mezzi a disposizione e soprattutto la necessità di compiere una scelta oculata dello strumento in relazione alla strategia comunicativa e agli obiettivi che si vuole raggiungere. Il quadro completo che andremo a delineare ci sarà poi utile per comprendere come veicolare la nostra storia d’impresa, su quali strumenti puntare a seconda delle loro potenzialità e dove mettere l’accento, perché il nostro racconto non sia soltanto performante ma sappia attrarre ed appassionare. 1. La comunicazione simbolica è il primo strumento che l’azienda utilizza per comunicare ed entrare in relazione con l’altro. Si tratta di un’area spesso sottovalutata perché considerata come insita nell’identità aziendale. In realtà è uno dei maggiori strumenti di comunicazione, la cui cura e gestione è fondamentale, soprattutto in termini di cambiamento e di crisi. All’interno di questo ambito possiamo distinguere diverse entità: il nome dell’impresa, il brand e l’identità visiva, all’interno della quale ritroviamo il logo, il design degli ambienti, l’identità sonora. - Il nome dell’impresa è il suo biglietto da visita: sintetizza in una parola il senso della sua esistenza, e ne rappresenta il corpus economico e sociale. Il naming è la prima azione di ogni politica d’immagine, infatti, già gli scrittori latini concepivano il nome come ponte sonoro tra l’uomo e la realtà: “Nomina sunt omnia”1. Attraverso il nome, in sostanza, l’azienda comunica sé stessa ai propri clienti, ed in tal senso, l’essere del nome coincide con l’esistenza dell’impresa. Libaert mette inoltre in evidenza le funzioni del nome aziendale: identificazione, differenziamento e posizionamento rispetto ai competitors2. Scegliendo un nome l’azienda rivela quindi la propria identità, traendo spunto di volta in volta dalla storia dell’impresa, dal suo progetto di partenza, o dal nome suo creatore. - L’identità visiva o corporate design è costituita dall’insieme delle espressioni visive che permettono l’identificazione dell’impresa da parte dei suoi pubblici. Come si è detto all’interno di questo ambito ritroviamo diversi strumenti dall’elevata valenza comunicativa. 1 Si consiglia la lettura dell’articolo di Giovanni Sodano : “Scegliere il nome della propria azienda. Una miniguida alla scelta del giusto nome per il tuo business”, http://www.giovannisodano.it/ scegliere-ilnome-della-propria-azienda/ 2 LIBAERT T.- JOHANNES K., op. cit. p. 87, traduzione mia dall’originale francese 51 Innanzitutto il logo o marchio spesso connesso al nome dell’impresa, è l’espressione simbolica della corporate identity e si esemplifica attraverso una rappresentazione grafica e specifica del suo nome. Fulcro dell’intera comunicazione simbolica, può essere considerato come un retaggio delle antiche culture del passato che utilizzavano simboli ad elevato contenuto significativo per comunicare tra loro. Ancora oggi, nella società contemporanea il logo è un simbolo ricco di valori, che si rifà alla storia, al mito, alla cultura. I suoi componenti principali sono i seguenti: il nome che identifichi l’impresa, un emblema che riassuma i valori dell’azienda, un codice grafico e tipografico di colori ed uno stile caratteristico che rispecchi l’essenza dell’azienda e dall’altro si faccia promotore dei valori sociali. Vediamo di seguito alcuni esempi: il marchio della Shell1, riproposto nello schema in basso in cui sono riportate le varie evoluzioni del marchio dal 1900 al 1999, il logo del famosissimo social network Facebook, il logo di Starbucks, il marchio del WWF e della BMW. Marchi di aziende molto diverse fra loro, aziende di prodotti o servizi, associazioni, tutte si identificano grazie ad un sistema di simboli che fungono da parametri di riferimento. Figura 1.16 L’evoluzione del marchio di Shell ed alcuni loghi famosi Per quanto riguarda il design degli ambienti si tratta di un adeguamento degli spazi alla filosofia aziendale e ai principali sistemi grafici di riconoscimento. Non si tratta soltanto dell’architettura esterna degli edifici, si tratta più in generale della concezione degli spazi interni ed esterni, della presentazione dei locali ed in particolare dei luoghi d’accesso al Immagine tratta dal blog Best Ads: http://best-ad.blogspot.com/2008/08/evolution-of-logos.html Si tratta di un sito interessante che riporta molti casi di evoluzione del marchio. 1 52 pubblico. Secondo Libaert il design degli ambienti ingloba due dimensioni principali: una dimensione funzionale ed una dimensione comunicativa. Per darci un’idea basta suggerire l’esempio della sede del colosso informatico Google, luogo in cui idee e materia hanno finito per influenzarsi a vicenda creando una certa armonia fra linea di pensiero e qualità della vita lavorativa. L’identità sonora è un altro componente comunicativo molto sfruttato, specialmente nelle campagne pubblicitarie commerciali. L’utilizzo del jingle diventa una vera e propria firma sonora dell’azienda, una modalità di entrare nella mente del cliente in modo facile ed efficace. Questa tecnica trae origine dal marketing esperienziale ed in particolare dal marketing sensoriale ed è oggi particolarmente utilizzata per attrarre l’attenzione del pubblico e per restare ancorati nella sua memoria a lungo termine. Fra le campagne più famose che ci piace ricordare, vi è indubbiamente l’indimenticabile pubblicità “Barilla ‘99”, il cui jingle ancora oggi ci ricorda il profumo della pasta appena buttata e del calore familiare, oppure il jingle della “Coppa del nonno”, altra colonna sonora intramontabile. Attualmente questa tecnica viene sfruttata soprattutto dalle compagnie telefoniche mutuando alcuni tormentoni estivi e dalle agenzie di prestito attraverso dei motivetti martellanti molto semplici e facilmente memorizzabili. Abbiamo deciso di inserire in quest’ambito anche il concetto di brand o marca, per tutta una serie di connotazioni simboliche che la rendono un elemento chiave dell’impresa. Non mi soffermerò troppo sulle caratteristiche di questo elemento, in primis perché si tratta di un capitolo a sé stante talmente ampio da non poter essere contenuto in queste poche righe a disposizione, in secondo luogo perché si parla di un concetto complesso che la letteratura tende a trattare separatamente ed in modo molto più approfondito. Vorrei, però, prima di allontanarci dall’universo simbolico, dare una definizione dello strumento, definizione che possa giustificare la mia scelta di inserirlo in questo contesto. Lascerò pertanto la parola a due grandi esperti dell’universo della marca: Kotler1 e Scott2. Secondo loro, possiamo definire la marca come: “un nome, termine, simbolo, design o una combinazione di questi che mira a PHILIP KOTLER, è S.C. Johnson & Son Distinguished Professor of International Marketing presso la School of Management della Northwestern University di Evaston, Illinois. Ha contribuito alla diffusione del modello delle Quattro “P” del marketing (Product, Price, Placement, Promotion). Per maggiori approfondimenti si consiglia di visitare il suo sito – Kotler Marketing Group: http://www.kotlermarketing.com/ 2 WALTER GIORGIO SCOTT, già professore ordinario di marketing presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ha ricoperto importanti ruoli sia di esecutivo che direttivo in imprese commerciali e di servizi. E’ autore di numerose pubblicazioni in tema di marketing e management ed ha curato la maggior parte delle edizioni italiane delle opere del professor Philip Kotler. 1 53 identificare i beni o i servizi di un’impresa o di un gruppo d’imprese e a differenziarli da quelli dei concorrenti”. In questa spiegazione emergono i punti salienti del discorso: si tratta di un elemento dall’elevato valore cognitivo, tale da essere immediatamente memorizzabile da parte del cliente ed identificabile con l’azienda. Non c’è niente che non sia di marca, persino nei discount, di conseguenza, è bene tener presente questo strumento nel delineare le caratteristiche del panorama aziendale: il lavoro della maggior parte delle imprese ruota intorno alle connotazioni simboliche della marca, le quali si riallacciano naturalmente ai valori e alle credenze della casa madre, l’azienda. Essere capaci di veicolare i giusti punti di forza, di creare una connessione forte fra azienda e marca è un vantaggio enorme dal punto di vista economico. Concludendo possiamo dire che la marca è un concetto astratto che vive nella testa dei consumatori e che porta sempre con sé una storia, dei valori, uno stili di vita, delle emozioni ed il mito1. 2. Il racconto è al centro della vita di ciascuno e di parole, gesti, azioni, storie vivono anche le organizzazioni. Lo dice Libaert in poche righe: “prima di essere una tecnica di comunicazione, i racconti sono parte integrante della vita quotidiana di ogni impresa, che si tratti di grandi miti fondatori, (…) di racconti quotidiani che costituiscono la vita sociale dei lavoratori, o dei racconti di finzione in cui l’impresa si mette in scena”2. Vi sono quindi diversi livelli in cui può manifestarsi il racconto ed altrettanti diversi modi di concepirlo e strutturarlo. Proprio il racconto è l’altro co-protagonista, insieme all’identità aziendale, della nostra storia, del nostro lavoro. Ci sarà modo più avanti di approfondirne le origini, mostrarne le potenzialità e le diverse applicazioni. Per il momento ci limiteremo a rilevare l’importanza che ha acquisito negli ultimi anni ed in particolare nell’ultimo decennio con l’emergere di nuove possibilità fornite dagli strumenti digitali. Da qui è nato il concetto di storytelling, oggi regolarmente impiegato in relazione alla dimensione narrativa della comunicazione istituzionale. Si tratta dell’arte di raccontare storie, molto semplicemente; in pratica risulta essere uno strumento molto potente. Pensiamo soltanto all’utilizzo della retorica nei discorsi politici ad opera di esperti della comunicazione (spin-doctors): la parola ha ancora oggi un potere magico, capace di attrarre e conquistare, mobilitare le masse ed emozionare. Proveremo nel terzo capitolo ad Per approfondire il tema della marca oggi, nel contesto nazionale ed internazionale, si consiglia di visionare il sito curato da Patrizia Musso, docente di “Storia e linguaggi della pubblicità” presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, e direttore responsabile del sito Brandforum.it: http://www.brandforum.it/ 2 LIBAERT T.- JOHANNES K., op. cit. p. 88, traduzione mia dall’originale francese 1 54 entrare nel merito di tale tecnica, a identificarne i pregi ed i difetti e a capire come si può realmente creare un unica storia da tante vite diverse. 3. L’advertising è un altro dispositivo di comunicazione, sicuramente uno dei più conosciuti. Possiamo distinguere in questo ambito due aree: la pubblicità istituzionale e la pubblicità commerciale o di prodotto. La prima, di cui ci occuperemo maggiormente in questo testo, è uno degli strumenti privilegiati della corporate communication il cui compito è di mettere in primo piano l’azienda stessa come organismo sociale. La seconda, invece, più frequente e facilmente identificabile, tende a promuovere un prodotto particolare dell’azienda al fine di incrementarne le vendite. Se la pubblicità commerciale ha come obiettivo la vendita dei prodotti, la pubblicità istituzionale si distingue per l’intento di promuovere i valori dell’impresa, la sua mission e la sua vision. E’ uno strumento che permette di rivolgersi al grande pubblico e di offrire uno spazio d’espressione ad alta visibilità, all’interno del quale raccontare la propria storia, mettere in luce gli obiettivi raggiunti, creare o migliorare l’empatia con i diversi pubblici…in sostanza far emergere la propria identità aziendale: mostrarsi per come si vuole essere. Fra gli obiettivi assegnati alla pubblicità istituzionale abbiamo: favorire l’inserimento dell’impresa nel suo settore di mercato, fare da apripista ad azioni strategiche di comunicazione, garantire la coesione dell’immagine delle diverse attività dell’impresa, coadiuvare la comunicazione interna, portare avanti un obiettivo commerciale a breve o medio termine, fare conoscere l’azienda ai diversi pubblici, conquistare o riconquistare la fiducia dell’opinione pubblica e prevenire o far fronte ad una situazione di crisi. Inoltre la pubblicità istituzionale è molto utile anche in termini di comunicazione di gestione del cambiamento. In breve, possiamo dire che la pubblicità istituzionale pur condividendo le stesse tecniche della pubblicità commerciale ha delle finalità, codici e potenzialità diverse, utili all’azienda per comunicare con l’esterno la propria essenza. 4. Le media relation e l’ufficio stampa sono i principali strumenti di comunicazione esterna nelle organizzazioni pubbliche e private. Rappresentano un elemento chiave per il loro compito di mediazione fra impresa e mezzi di comunicazione: quotidiani, radio, tv, riviste, siti internet… L’obiettivo è di stabilire con i media un rapporto di collaborazione duratura, diventando un interlocutore fidato per i giornalisti e fornendo le informazioni in modo chiaro, trasparente e soprattutto interessante. Si tratta di monitorare la situazione mediatica (veglia mediatica), filtrando i contenuti e di fare in modo che il flusso informativo 55 riguardante l’azienda sia positivo al fine di garantire e mantenere una buona immagine e comunicare i principi e i valori guida dell’azienda. Oltre a questi compiti, l’ufficio stampa occupa un ruolo di rilievo anche in contesti particolari, come possono essere le crisi o situazioni di cambiamento, in quanto interfaccia fra l’esterno e l’interno dell’azienda. Gli addetti stampa hanno a disposizione per il loro lavoro: media list, rassegne stampa, brochures istituzionali, schede informative, articoli ed inserti, comunicati stampa, sito web aziendale, conferenze stampa, interviste, seminari, press tour… Trattare con i media è un compito complesso e richiede una buona preparazione e capacità relazionali e di mediazione: i mezzi di comunicazione sono una finestra sul mondo, la loro funzione di amplificazione delle notizie può giocare a vantaggio o a svantaggio delle imprese, è quindi indispensabile tenere sotto controllo il flusso informativo, perché comunicare e non solo vendere è uno dei primi compiti dell’azienda1. 5. Lo sponsoring è un altro mezzo oggi sempre più in espansione. Sponsorizzare significa sostenere un evento, un’attività, una persona o un’organizzazione, finanziariamente oppure attraverso la fornitura di prodotti o servizi. Si tratta di un’attività commerciale che consente all’azienda da una parte un ritorno in termini economici, dall’altra di acquisire visibilità e notorietà presso il suo pubblico. E’ molto utile anche nei casi in cui l’azienda voglia mostrare un altro lato della propria identità…mostrarsi quindi più attenta alla cultura o allo sport, in breve ai bisogni della società. La sponsorizzazione è quindi un’azione che a livello contrattuale sigla un win-win2: ovvero un rapporto che genera benefici ad entrambi gli enti implicati. 6. La comunicazione ed organizzazione d’eventi è utilizzata dalle imprese ed organizzazioni al fine di creare eventi grazie al contributo di agenti terzi (agenzie specializzate) per raggiungere i propri obiettivi3. L’evento viene creato ad hoc in un tempo circoscritto e con uno scopo preciso, ed ha come destinatari dei target di pubblici definiti e selezionati. La sua caratteristica peculiare è di essere innanzitutto un evento eccezionale, con In merito all’importanza dei media e della loro influenza sull’opinione pubbica si veda: LIBAERT T.JOHANNES K., op. cit. p. 98-99. Si consiglia inoltre la lettura di “Mezzi di comunicazione e modernità” di J. B. Thompson. 2 Ibid. p. 102 3 Per una definizione esaustiva della comunicazione ed organizzazione d’eventi si veda il sito della rivista francese Stratégies, che si occupa di marketing, media, comunicazione e pubblicità, ricca di spunti interessanti e di numerosi casi d’analisi disponibili per gli abbonati: http://www.strategies.fr/evenementielle.html 1 56 un impatto forte sul target di riferimento: per questo motivo è un mezzo di grande rilevanza all’interno degli strumenti della corporate communication. Attraverso la creazione di un evento, l’azienda può raggiungere numerosi obiettivi: informare o formare i partecipanti, federare e motivare il personale, creare occasioni di incontro e di scambio, sviluppare una comunità ed una rete di scambio, migliorare la relazione con certi pubblici, migliorare l’immagine e affermare il prestigio dell’impresa. Quello che bisogna ricordare è che l’evento non è mai un mezzo costruito per farsi pura pubblicità, si tratta di uno dispositivo che viene impiegato all’interno di una politica aziendale e di comunicazione ben precisa e con un obiettivo determinato che sarà poi rivalutato post-evento attraverso studi qualitativi o quantitativi di marketing. Parliamo quindi di un qualcosa che deve dare dei risultati, un riscontro ben preciso. 7. La comunicazione editoriale, ambito ricco di possibilità ed in continua evoluzione soprattutto a partire dall’avvento di internet e poi del web 2.0, comprende una serie di documenti fruibili on e off line: customer magazine, brochure, giornali aziendali, libri… Include tutti quei tipi di comunicazione che prevedono una redazione scritta e strutturata di contenuti, strumenti utilizzati anche da diverse aree della comunicazione come per esempio il rapporto annuale per la comunicazione finanziaria, la brochure per l’organizzazione d’eventi, oppure ancora il sito internet aziendale per la comunicazione istituzionale. Figura 1.171 Alcuni esempi di comunicazione editoriale Ma possiamo parlare di comunicazione editoriale anche nel caso di supporti audiovisivi e multimedia destinati ad essere ascoltati e non letti, supporti che richiedono sempre una strutturazione ed una gerarchizzazione del contenuto. Il vantaggio principale di questo tipo Le seguenti immagini sono tratte da alcuni principali siti aziendali e riportano l’esempio di un bilancio sociale (Intesa San Paolo), di una brochure informativa (BIVB), di un giornale aziendale (Aspes) 1 57 di strumento è la permanenza delle informazioni nel tempo e la possibilità attraverso i diversi device digitali di consentire l’interattività ed un feed-back diretto. Pensiamo soltanto alla web tv aziendale, all’utilizzo di documentazione in duplice versione, print e web, oppure ancora alla creazione di minisiti appositi, dedicati ai diversi target1. Sicuramente la comunicazione editoriale è il settore più vasto ed interessante; il suo sviluppo dovrà essere costantemente monitorato nei prossimi anni, per tenersi sempre aggiornati sulle nuove possibilità che la tecnologia ci offre. 1.5 Il nuovo contesto mediatico Web 2.0: nuove pratiche comunicative Prima di addentrarci in un’analisi approfondita dell’identità aziendale e delle attività compiute dall’azienda per renderla comprensibile ai propri pubblici, passiamo ora in rassegna un capitolo particolare della nostra storia, che riguarda i rapporti fra azienda e new media, soffermandoci sui cambiamenti avvenuti all’interno della comunicazione aziendale a partire dalla nascita del web. Questo paragrafo ci aiuterà poi, più avanti, per comprendere i nuovi sviluppi avvenuti nell’ambito della comunicazione narrativa online, per spiegare cioè cosa significa digital storytelling e quali potranno essere i suoi campi d’intervento futuri. Vorrei tornare per un attimo al concetto di comunicazione inteso come “relazionarsi a”, così come espresso nel primo capitolo di questa tesi. L’atto di comunicare e tessere relazioni è notevolmente mutato nella società 2.0. Lella Mazzoli2 nel suo libro parla di un duplice movimento di disgregazione e ricomposizione. Il primo movimento si può ricondurre al crollo delle grandi ideologie, sistemi politici ed utopie che hanno accompagnato la vita degli uomini del secolo precedente al nostro. Questo crollo ha generato un venir meno dei confini geografici, politici, linguistici e comunicativi. Il secondo movimento, conseguenza del primo, tratta invece di una ricomposizione all’interno della rete, nuova struttura comunicativa ove tutto converge. All’interno di questo microcosmo, valori nuovi e vecchi, credenze, ideali, si polarizzano e si incontrano in una sorta di melting pot caratterizzato da un nomadismo Per ulteriori analisi sullo sviluppo della comunicazione editoriale on e off line si veda il sito della rivista francese Stratégies, al link Dossiers: http://www.strategies.fr/etudes-tendances/dossiers/113758/113002W/rapport-annuel-cherchenouveaux-espaces-de-parole.html 2 MAZZOLI L., op. cit. p. 4 1 58 culturale e simbolico1 fondato su legami deboli. Secondo la teoria delle reti2 e i suoi recenti sviluppi in materia di social network, la rete si è trasformata in una sorta di universo parallelo e complementare al nostro, un ambiente sociale capace di ri-mediare gli altri media e di ri-mediare le nostre identità, creando una sorta di agorà virtuale. Inoltre, secondo Henry Jenkins, la rete digitale crea una vera e propria cultura convergente, caratterizzata da intertestualità ed intermedialità: le forme di comunicazione si fanno più complesse o addirittura liquide generando nuove modalità di relazione. Il mondo degli utenti è di fatto un mondo basato su strutture relazionali diverse, caratterizzate da interazione e partecipazione alla creazione di senso. Questo rappresenta per le organizzazioni un beneficio ma anche una potenziale minaccia. La relazione con i diversi pubblici si instaura sulla rete in piattaforme diverse: dai forum ai blog, dal sito istituzionale ai social network come Twitter o Facebook. La comunicazione diventa dinamica e si fa più interattiva: l’azienda da un lato ha la possibilità di interagire direttamente con il cliente, creare nuove forme di svago, oppure una nuova attività che coinvolga il target selezionato generando un interesse su un particolare prodotto o su una marca, dall’altro però il consumatore trova nella rete nuovi spazi in cui esprimersi per sostenere oppure criticare l’azienda stessa o i suoi prodotti. Il consumatore si trasforma allora in prosumer, il consumatore produttivo il quale “è tale nella misura in cui ha conquistato un luogo proprio, la rete, e grazie al fatto che nella rete vi siano spazi (leggi piattaforme) che non sono di esclusiva proprietà e controllo della produzione, ma che sembrano pensati per dare riparo alle creazioni dei consumatori, alla loro connaturata immaterialità. Si tratta infatti (…), prevalentemente di modi di usare, modi di fare e modi di raccontare i prodotti.”3. I clienti diventano veri e propri attori, produttori di senso intorno all’azienda o ad una data marca o prodotto, e lo fanno utilizzando tutti i modi a loro disposizione, passando dalla semplice lettura alla scrittura e conservando il proprio lavoro che viene capitalizzato nella rete e si espande a forza di click. Dal punto di vista, quindi, dei pubblici esterni, il campo di applicazione è estremamente vasto: tale spazio può essere sfruttato e valorizzato dall’azienda in caso di creazioni positive, in ogni caso deve essere sempre monitorato per Si vedano a questo proposito gli studi di Maffesoli sul nomadismo e la postmodernità La teoria delle reti nasce ad opera di Jacob Levi Moreno, il fondatore della sociometria, scienza che analizza i comportamenti interpersonali. L’analisi delle reti sociali o SNA, Social Network Analysis, si basa sull’idea che la società sia costituita da una serie di relazioni più o meno complesse, delle reti. Fra gli studiosi più importanti che si sono occupati di questa tematica abbiamo: Simmel, Freeman, Chiesi e Piselli. 3 MAZZOLI L., op. cit. p. 65 1 2 59 evitare il diffondersi di notizie infondate o di situazioni che potrebbero mettere a repentaglio la vita stessa del business, grazie alla capacità di diffusione rapida delle informazioni sul net. Questo è uno dei compiti principali riservato all’ufficio stampa e alle relazioni pubbliche. Oltre alla veglia mediatica, sempre l’ufficio stampa, spesso coadiuvato dal reparto marketing, si occupa di rappresentare l’impresa nella rete, toccando i diversi pubblici e utilizzando diversi strumenti. Se da un lato il sito ufficiale dell’azienda è un canale privilegiato di comunicazione, al suo interno è possibile trovare un’ampia gamma di dispositivi: forum, community, web tv, attività interattive… E’possibile inoltre creare spazi appositi di condivisione su altre piattaforme: attualmente si parla molto dei social network dopo l’esplosione di casi come Facebook e Twitter. Si tratta di modalità innovative di coinvolgimento del pubblico in attività spesso ludiche che riguardano la marca o l’azienda: per esempio Barilla.com ha recentemente creato un’attività su Facebook, “Taste it. Love it. Share it.”, per incrementare le vendite di un nuovo prodotto in lancio, ma ha anche creato una piattaforma di condivisione su Facebook “Share the table with thousands”, per dare la possibilità agli utenti di sedersi ad una tavola (virtuale) tutti insieme, semplicemente caricando la propria foto online. Insomma aggiungi un posto a tavola in casa Barilla!1 Figura 1.18 Le applicazioni di Barilla su Facebook Non si tratta soltanto di vendere prodotti, ma di creare delle comunità di persone, legate dagli stessi interessi per questa azienda o quel brand. La relazione nei social network e nel web 2.0 si fa quindi più complessa, ricca di significati e di produzioni. Infatti, non soltanto i consumatori possono interagire fra loro e scambiarsi idee su un dato prodotto o servizio (condivisione), ma possono anche creare del plus valore, costruendo delle proprie opere a partire da un’idea aziendale o da un dato prodotto (creazione). Un caso esemplare che Le attività di marketing e comunicazione create da Barilla US sono disponibili sul sito aziendale ufficiale al link: http://www.barillaus.com/Pages/Home.aspx Le immagini riportate di seguito, ricavate dal sito ufficiale rappresentano i due casi presi in analisi. 1 60 riporta Roberta Bartoletti nel suo articolo “Il lato B della Barbie: la rivincita dei consumatori nel social web”1, racconta di come gli utenti appassionati della casa di produzione Mattel, si scambino idee, utilizzino la loro creatività per modificare la bambola (Barbie Ooak), creino dei contesti o delle storie entro cui far vivere il loro oggetto di culto, la Barbie appunto. Analizzando le modalità di utilizzo del web 2.0 è possibile trarre delle prime considerazioni: - il web crea vere e proprie comunità di utenti, consentendo la tribalizzazione e la nascita di culture convergenti; - la relazione da parte delle organizzazioni con i pubblici diventa dinamica, caratterizzata da un dialogo aperto e un feedback costante; - i pubblici collaborano alla creazione di valore per l’impresa, risulta quindi necessario coltivare e monitorare il proprio capitale relazionale; - la comunicazione si fa fluida nel web 2.0, permette quindi ad un messaggio di superare i confini fisici, passando da un testo all’altro e da un media all’altro; un vantaggio da non sottovalutare per la comunicazione integrata d’impresa; - i nuovi strumenti del web generano una società virtuale, in alcuni casi speculare a quella reale, producendo luoghi di senso e socialità, di autorappresentazione del sé e costruzione della propria identità (si tratta di un punto chiave del nostro lavoro, infatti come è possibile crearsi una propria identità personale, allo stesso modo le aziende, grazie alla loro presenza sul web, generano identità aziendali, diventano attori sociali del mondo virtuale); - il consumo si evolve, diventa partecipativo, veicola valori all’interno dei quali ci riconosciamo, grazie ai quali ci facciamo riconoscere all’interno di un gruppo, una comunità di soggetti e creiamo quindi una nostra identità (in breve secondo le recenti ricerche sociologiche, io sono ciò che consumo2). Tenendo presente questi principi guida, possiamo dire che il web 2.0 si configura all’interno di questo pattern: creare, partecipare, connettere. “Se, quindi, la strada della costruzione della relazione sembra l’unica percorribile (…), allora l’impresa dovrebbe impegnarsi sempre più nella costruzione del proprio valore attraverso il riconoscimento e “la coltivazione” del proprio capitale relazionale, che oggi più che mai permette di rendere il riconoscimento reciproco tra brand e MAZZOLI L., op. cit. pp. 57-74 Per approfondire il concetto di consumo come costruzione del sé all’interno del panorama attuale si consiglia la lettura del libro di Andrea Fontana, Story selling. Strategie del racconto per vendere sé stessi, i propri prodotti, la propria azienda, Etas, 2010, Milano 1 2 61 consumatore come asset strategico. In questo senso, l’attivazione di strategie di comunicazione e di ascolto rivolte a ciascun soggetto diviene una sorta di imperativo categorico che plasmi l’insieme delle tattiche e delle scelte aziendali”1. Ma il ruolo del web nei confronti delle aziende non si assesta soltanto a questo livello puramente relazionale. Il vantaggio di un utilizzo cosciente dei nuovi media digitali sta soprattutto nel risvolto economico della questione: il web ed in particolare il web 2.0 permettono di creare una strategia comunicativa vincente in quanto garantiscono il tracciamento del consumatore ed un feedback in tempo reale delle operazioni di marketing e comunicazione. Tutto ciò è reso possibile grazie all’avvento della Web Analytics: strumento che permette di verificare come si muove un utente sul sito, esaminare cosa fa, cosa guarda e comprendere perché si comporta in quel modo. Infatti “per poter far business in maniera stabile e trarre profitto dalle ampie possibilità offerte dal web, oggi è indispensabile avere il pieno controllo delle attività. (…) La rete, a differenza degli altri media, è misurabile e quantificabile in tutti i suoi aspetti. Tutto ciò che accade sul web è controllabile e misurabile, questa è la vera rivoluzione!”2 Il web è quindi un’opportunità cardine per le organizzazioni che voglio da un lato comunicare con i propri pubblici e dall’altro misurare l’efficacia delle proprie attività comunicative. Una delle problematiche principali che frena le aziende nell’investire nella comunicazione è spesso il fatto di non poter misurare l’efficacia delle attività previste, temendo quindi di spendere male i propri soldi, soprattutto se si tratta di azioni volte a modificare o migliorare i valori intangibili di cui abbiamo già parlato, a loro volta difficilmente quantificabili (si veda il paragrafo riguardante la comunicazione finanziaria). Il web va loro incontro in questo senso e permette di ampliare gli orizzonti: lavorare da un lato sul fronte sociale, permettendo all’azienda di mettersi in gioco, monitorare dall’altro sul fronte più prettamente economico e di marketing la risposta alle proprie iniziative di comunicazione. Lo stesso procedimento relazionale, di interconnessione con l’azienda è poi valido naturalmente sia per i pubblici esterni che interni. Per questo la comunicazione interna si avvale oggi sempre di più dei nuovi strumenti comunicativi digitali creando di volta in volta intranet, web tv per i dipendenti, web magazine aziendali, forum, newsletter, blog… Vedremo più avanti, parlando della comunicazione narrativa e del digital storytelling come il mondo virtuale può essere impiegato per costruire storie e assemblare le esperienze. Per il 1 2 MAZZOLI L., op. cit. p. 79 SEMOLI A., op. cit. p. 1 62 momento abbiamo deciso di concludere qui il nostro viaggio nei media digitali, anche se ancora molto ci sarebbe da dire. Vogliamo lasciare al lettore il piacere di scoprire le grandi potenzialità del web, sperando di avergli mostrato in queste poche righe alcuni concetti chiave che costituiscono il panorama digitale contemporaneo. Concludiamo dicendo che, sicuramente internet costituisce per le aziende un vantaggio inestimabile ed un canale comunicativo d’eccellenza, tuttavia molta strada è ancora da fare, numerose sono ancora le potenzialità inesplorate e siamo certi che il futuro ci riserverà non poche sorprese. Lasciamo quindi il mondo digitale per addentrarci nello studio di una delle componenti principali dell’azienda, la corporate identity, il nucleo vitale che costituisce il senso e l’essenza di ogni organizzazione. 63 64 2. L’IDENTITÁ AZIENDALE “Cosa ci rende unici non è né la condizione di nascita (…) né lo stato sociale (…) né quello che comunemente si ritiene sia il sapere. L’identità è data dal coraggio di essere quello che si è, e dal rispetto profondo per la propria vita e dal giusto valore che le diamo. E allo stesso tempo l’identità è l’unica vera fonte di potere degli esseri umani. Solo se si ha un’identità si può cambiare il mondo, apprezzare la vita, capire cos’è”. (Sabina Guzzanti) 2.1 Il concetto d’identità: una breve introduzione Q uando si parla di identità spesso non ci si sofferma adeguatamente sul significato. Ed è strano, perché credo sia una delle parole più belle ed interessanti dell’intero vocabolario. Non è certo questo il luogo per entrare nei dettagli della questione, ma prima di introdurre i modelli a capo del concetto di “corporate identity” mi sembra doveroso soffermarmi un attimo sull’utilizzo della parola identità ed in particolare sulla sua applicazione in campo aziendale. Per quale motivo parliamo di identità d’impresa? Quali sono le caratteristiche di un’identità molteplice come quella di un’organizzazione rispetto al concetto, come siamo soliti intenderlo, d’identità legata alla singola persona? Innanzitutto partiamo dal concetto di identità, appoggiandoci alle varie ricerche provenienti da sfere diverse del sapere (psicologia, sociologia, medicina, etica, filosofia…). Tutti si son dovuti confrontare prima o dopo con questo concetto e il risultato può essere sintetizzato in queste poche parole: la nostra identità “è ciò che caratterizza ciascuno di noi come individuo singolo e inconfondibile. E’ciò che impedisce alle persone di scambiarci per qualcun altro”1. In particolare è possibile distinguere due tipi d’identità: l’identità soggettiva, ovvero l’identità per sé che corrisponde all’insieme delle mie caratteristiche così come io le vedo e le descrivo Definizione ricavata dalla discussione fra il professor Giovanni Jervis e alcuni studenti ospiti al programma Il Grillo di Rai Educational, 16/2/1998. Per una sintesi della puntata si veda: http://www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=181 1 65 a me stesso e l’identità oggettiva, l’identità per gli altri, cioè la nostra riconoscibilità. Le due identità sono in stretta correlazione, ma non si trovano in un equilibrio stabile di corrispondenza: è possibile infatti che si venga a creare una discrepanza fra come io mi sento e come mi vedono gli altri. E’ evidente il parallelo con identità ed immagine aziendale: mentre la corporate identity si avvicina al concetto di identità soggettiva, la corporate image si assesta sul concetto di rappresentazione esterna, ovvero identità oggettiva. Inoltre proprio come nel caso dell’individuo, corporate identity e image sono legate da una relazione dinamica in continuo mutamento, soggetta a differenze anche notevoli. Bisogna poi tener conto di un’altra variante: il contesto sociale, economico e politico. Il soggetto e “l’altro” non sono soli, ma sono inseriti in un dato ambiente che ne condiziona in qualche modo la vita, portandoli a far emergere certe caratteristiche piuttosto che altre. Un esempio concreto e molto vicino a noi è l’attuale contesto di crisi: un individuo posto di fronte ad una crisi economica e di valori sarà costretto a ricostruire la propria identità, ovvero a cercare all’interno del puzzle quei pezzi che potranno essergli utili nel trovare strade alternative per affrontare il periodo difficile. L’adeguamento alla situazione attuale, però, non significa tradire il proprio “io”, o abbandonare il proprio sogno, semplicemente entrare nel gioco della vita facendo le mosse giuste. Un azzardo oppure l’attesa possono essere strategie vincenti, ma ogni mossa determina un cambiamento (di certi lati della propria personalità), una crescita, per non perdere la partita della vita. Questa metafora può essere applicata in modo speculare all’identità aziendale: per fronteggiare la crisi ci si trova spesso a riflettere sui propri credo, sui valori aziendali, sulla mission e sulla vision, e in certi casi è necessario cambiare qualcosa di sé, dal punto di vista strategico oppure prettamente tecnico-organizzativo. Il tempo, la società, la cultura in cui siamo immersi, ci costringono ad evolvere con loro, a restare al passo con i tempi e questo vale anche per le nostre identità soggettive e sociali. La similitudine fra persona e azienda non è del resto un qualcosa di nuovo, ma è riconducibile ad una serie di studi che identificano le due entità per comunanza di tratti nella personalità e per il loro ciclo di vita speculare. Molte teorie aziendali oggi partono da questa assunzione di fondo, garantita anche dall’applicabilità della Teoria Generale dei Sistemi (Bertalanffy, 1971), di cui abbiamo già parlato. E’quindi possibile sottolineare “la stretta similitudine che nei processi di cambiamento si può utilizzare tra le organizzazioni aziendali e gli esseri umani, sia nei percorsi di crescita, sia nel perseguimento di obiettivi di miglioramento della propria posizione economica e nel raggiungimento di uno stato 66 (globale, e non solo per forza economico) di benessere”1. Riteniamo questo tipo di approccio molto interessante e sempre più attuale in una società in cui entrambe le entità si trovano a doversi conquistare un posto e per farlo è necessario guadagnarsi un riconoscimento (reputazione) e curare le proprie relazioni, inserite oggi in un panorama globale aperto. Le relazioni hanno quindi un peso fondamentale, sia per l’individuo, nella formazione della propria identità, sia per l’azienda costretta ad entrare in relazione con i propri pubblici per potersi affermare sul mercato. Molte, come abbiamo visto, sono le complementarietà fra azienda e persona, tuttavia vi sono alcune peculiarità proprie all’azienda che dobbiamo approfondire. Nell’introduzione alla tesi si è parlato di una storia e di molte storie che popolano le organizzazioni. Per quale motivo? Semplicemente perché le imprese sono costituite da gruppi di uomini diversi per età, sesso, cultura, estrazione sociale, interessi, orientamenti politici e sessuali. Trovo che sia un dato decisamente centrale della questione. E’ facile infatti parlare di identità aziendale, ma spesso ci si dimentica su cosa sia costruita questa identità: si tratta di un’identità inglobante, che traccia la filosofia di vite, propone loro dei valori, le coinvolge nei suoi obiettivi e nelle sue “passioni”. E’ un’identità che si fonda su una miriade di identità soggettive diverse ed individuali e che per essere tale deve essere in qualche modo unica e deve creare coesione e rispetto per i propri ideali, ma anche rispetto per le miriadi d’identità che la costellano. Costruire un’identità aziendale, perciò, non è impresa semplice: richiede ascolto, dialogo, volontà e determinazione. Si è vista l’importanza rivestita dai dipendenti nella costruzione sociale dell’azienda: essi sono i primi ambasciatori dell’azienda stessa. Pertanto è naturale che ottenere il loro appoggio, far sì che si possano rispecchiare nei valori di quell’organismo sociale all’interno del quale lavorano, non è solo un’utopia, è oggi più che mai un dovere. Di conseguenza le dinamiche di costruzione della corporate identity sono molteplici e devono essere fedeli da un lato alla mission e alla vision, dall’altro misurarsi con le esigenze del contesto politico e sociale. Come attore sociale, l’azienda ha delle responsabilità nei IACONO G., op. cit. p. 56, nota 4. Si consiglia inoltre la consultazione del sito di Progetto Uomo, agenzia di comunicazione che lavora avendo come obiettivo quello “di promuovere la Risorsa Umana all’interno delle strutture aziendali, ad ogni livello di responsabilità”. La filosofia che ispira quest’agenzia è “basata sull’unicità dell’uomo, il quale possiede infinite potenzialità da individuare, accrescere, liberare. (…) [Per questo] l’organizzazione, come insieme di uomini, può aspirare al raggiungimento di obiettivi sempre più elevati”. Un approccio interessante, molto simile a quello di cui stiamo parlando in queste pagine. http://www.progettouomo.it/azienda.htm 1 67 confronti della società e dei suoi dipendenti e questo i consumatori, ormai disillusi, lo sanno bene. Inoltre l’identità aziendale è un valore intangibile dell’azienda che esiste sin dalla sua nascita, ma necessita di cure specifiche perché possa emergere e farsi unica: perché possa farsi portatrice di una filosofia aziendale condivisa e di valori condivisi. Ovviamente il processo è lungo ed evolve con l’azienda, proprio come accade all’individuo, il quale crescendo, gestendo le proprie relazioni e facendo le proprie esperienze, cambia degli aspetti della propria personalità e matura un’identità più consapevole. Così come l’uomo cerca continuamente sé stesso, cerca la propria strada ogni giorno ed ogni giorno scopre una parte di sé, anche per l’azienda le domande non devono mai essere un motivo di insicurezza: porsi domande su chi siamo e cosa vogliamo sono le basi per crearsi un’identità o per assicurarsi che stiamo facendo la cosa giusta, che la nostra impresa non si è persa nel mare del mercato, ma che ha le potenzialità per emergere o per affrontare un grosso cambiamento. La ricerca è la chiave del successo di oggi e di domani. Ed è con questa convinzione che da sempre si lega al concetto di identità, che terminiamo qui il breve excursus su identità e corporate identity, avvicinandoci agli studi che hanno dato luce al termine scientifico in ambito aziendale ed approfondendo i diversi modelli che hanno cercato di spiegarne il funzionamento. 2.2 La Corporate Identity: modelli e funzioni La nozione d’identità nasce in ambito aziendale a partire dagli anni ’70 e da allora numerose definizioni si son susseguite. In generale possiamo portare all’attenzione tre diverse accezioni sotto cui annoveriamo il concetto di corporate identity: Grafic Design Paradigm, Total Corporate Communication Paradigm, Interdisciplinary Paradigm. Si tratta di tre scuole di pensiero, le quali portano in auge ciascuna una sfaccettatura particolare dell’identità aziendale: tre ottiche differenti ma, come vedremo più avanti, complementari. Passeremo ora in rassegna i tre punti di vista appena menzionati per arrivare a dare, alla fine della riflessione, una definizione esaustiva di corporate identity. - Il Grafic Design Paradigm è il primo ambito all’interno di cui si afferma il concetto di identità aziendale intorno agli anni ’70 a partire dagli studi di Balmer e compagni. Il principio su cui si fonda è il seguente: “For many people corporate identity is considered synonymous with a symbol or icon, with or without a name or “brand” and, sometimes, with a short 68 sentence or statement which summarizes the mission, purpose or positioning of the organization or a product or service offered by it”1. Ancora Carter nel 1982 descriveva la corporate identity ”as the logo or brand image of a company, and all other visual manifestations of the identity of a company”2. Come si può notare, viene circoscritta l’identità alla sola identità visiva, ovvero tutta la simbologia attraverso la quale l’azienda si identifica presso i propri pubblici e si distingue dalla concorrenza: dal logo, al nome, al packaging, ai colori distintivi del marchio … Ancora oggi questo settore, sotto il nome di corporate aesthetics management, resta fondamentale per la politica di comunicazione aziendale ed è uno degli aspetti principali che contraddistinguono l’identità aziendale. - Il Total Corporate Communication Paradigm ha il merito di ampliare il concetto precedentemente sviluppato, grazie agli studi di Bernstein, Birkigt e Stadler, intorno agli anni ‘80. Tale modello sottolinea come l’identità aziendale non si limiti agli elementi visivi ma li inglobi. I presupposti da cui parte sono essenzialmente gli studi di marketing di matrice britannica, da cui emerge anche il concetto di Total corporate communication. Secondo questo modello, l’identità abbraccia l’intera realtà dell’impresa, rifacendosi ai molteplici aspetti attraverso cui essa si differenzia sul mercato. - L’Interdisciplinary Paradigm o approccio interdisciplinare, fa corrispondere al concetto di corporate identity, l’insieme di simboli, messaggi e comportamenti attraverso i quali l’identità dell’azienda si rivolge ai pubblici esterni. La necessità di adottare un approccio interdisciplinare sta nell’importanza che ogni singolo elementi costitutivo dell’azienda ha nell’elaborazione della sua identità e nella volontà di adoperarsi per una loro coordinazione. Questi punti brevemente descritti rappresentano una sintesi dei principali studi sull’identità e sulla comunicazione aziendale che vedono impegnate diverse scuole e numerosi autori illustri come: Balmer (1995) e le sue sette scuole di pensiero sulla corporate identity, Van Riel (1997), Moingeon, Ramanantsoa (1997) e la scuola francese, Cornelissen ed Harris (2001) e He (2005)3. Dati i diversi punti di vista che abbordano la questione, non è facile trovare una definizione unanime, malgrado possiamo dire che l’approccio interdisciplinare cerchi di farsi sintesi dei vari pensieri. Tenteremo nelle prossime pagine di dare una risposta esauriente ed BAKER M. J. – BALMER J. M. T., Visual identity: trappings or substance?, in European Journal of Marketing, 1997, p. 366 2 VAN RIEL C. B. M. , op. cit. p. 32 3 OTUBANJO O. B. – MELEWAR T. C., op. cit. pp. 415-418 1 69 il più possibile inglobante, tuttavia risulta evidente che uno degli obiettivi della ricerca futura in termini di corporate identity consisterà nel sistematizzare i precedenti studi al fine di dare una risposta concreta alle aziende per quanto concerne la strategia di comunicazione e l’impatto dell’identità sul business. Innanzitutto, secondo Bernstein, la parola “identità” deriva dal latino idem (stesso), medesima radice della parola latina “identidem” che significa “ripetutamente”, o “ogni volta la stessa cosa”. Van Riel a sua volta riporta la definizione del dizionario, citandola nel suo libro: “the characteristic or condition of complete agreement, absolute or essential similarity, unity of being”1. Partendo da questi presupposti Van Riel prosegue, definendo la corporate identity come segue: “Corporate identity is the self-presentation of an organisation; it consists in the cues which an organisation offers about itself via the behaviour, communication, and symbolism which are forms of expression”. Lo stesso Libaert ribadisce quanto già detto da Van Riel: “l’identità di un’impresa rimanda a ciò che gli è intrinsecamente proprio, la sua natura interna, garantendogli elementi di distinzione rispetto agli altri attori sul mercato e favorendo l’identificazione con i suoi pubblici”2. Seguendo le orme dei predecessor, Antonoff usa un termine interessante, parla di “portrayal” e porta questa definizione: “Corporate identity is the sum of all methods of portrayal which the company uses to present itself to employees, customers, providers of capital, and the public. According to organizational units, CI is the sum of all the typical an harmonised methods of portrayal of design, culture and communication”3. Possiamo sintetizzare quanto detto attraverso pochi concetti fondamentali: - l’identità certifica l’esistenza di un’azienda rendendola unica ed inimitabile, - permette all’azienda di comunicare ed esprimersi su sé stessa ed i propri valori, - garantisce l’identificazione dell’ente con i diversi pubblici di riferimento, - consente all’azienda di distinguersi dai competitors. Riprendendo gli studi di Stadler e Birkigt, di cui abbiamo già parlato poco sopra, è possibile trovare numerosi spunti di riflessione. A parere dei due autori tedeschi, l’identità si fonda su tre componenti ben precise: “behaviour”, “communication”, “symbolism”. Le tre insieme coadiuvano il manifestarsi della “corporate personality”. VAN RIEL C. B. M. , op. cit. p. 31 LIBAERT T.- JOHANNES K., op. cit. p. 36, traduzione mia dall’originale francese 3 VAN RIEL C. B. M. , op. cit p. 30. Per ulteriori definizioni del concetto di “corporate identity”, si consiglia di consultare il Box 2.1 “Definitions of corporate identity”, in cui è possibile consultare le idee formulate dai diversi autori. 1 2 70 La relazione che intercorre fra le quattro concorre a proiettare l’immagine aziendale, come appare evidente nella figura che segue: Figura 2.11 Il modello di corporate identity secondo Stradler e Birkigt Behaviour Communication Symbolism Corporate Personality Corporate image Corporate identity Seguendo Birkigt e Stadler, l’aspetto comportamentale (behaviour) è uno dei principali mezzi di espressione dell’identità, in quanto si manifesta attraverso le azioni dell’azienda. L’aspetto comunicativo (communication) comprende tutte le attività comunicative dell’azienda, i suoi messaggi verbali e visivi. Infine l’aspetto simbolico (symbolism) rimanda in gran parte al concetto di Visual Identity. Per poter funzionare a dovere i tre aspetti devono convivere armonicamente, dando un senso di coesione reale e percepita e portando in auge la personalità aziendale ovvero “the manifestation of the company’s self-perception”. In stretta relazione con l’immagine, secondo i due autori la corporate image non è altro che una proiezione della corporate identity – punto quest’ultimo variamente criticato. Ancora più interessante è il lavoro di Kapferer e il suo prisma dell’identità, attraverso il quale tenta di dare una visione sistematica alla corporate identity. Si tratta di un prisma a sei lati costituito da sei caratteristiche precise: natura fisica, personalità, relazione, cultura, riflesso, natura mentale. Andiamo a vedere cosa significano: - 1 la natura fisica è la realtà oggettiva dell’azienda, il nucleo su cui si fonda l’identità, VAN RIEL C. B. M. , op. cit. p. 33, figura 2.1 71 - la personalità è una caratteristica implicita che si manifesta attraverso alcuni tratti peculiari dell’azienda. Tali tratti si esemplificano attraverso le azioni ma anche altri segni distintivi propri dell’azienda, come il logo, il nome, la pubblicità, i messaggi (contenuto) ed i discorsi (modo di trasmettere tale contenuto), - la relazione è il rapporto che l’impresa intrattiene con i propri pubblici, - la cultura è l’insieme di storie e valori che costellano l’universo aziendale, - il riflesso è l’idea che l’impresa dà della sua clientela, il modo attraverso cui la riflette, - la natura mentale infine è uno specchio interno all’azienda che mostra come i pubblici si vedono e si sentono scegliendo di consumare i suoi prodotti . Figura 2.2 Il prisma dell’identità di Kapferer PERSONALITÁ NATURA FISICA RELAZIONE RIFLESSO CULTURA NATURA MENTALE Aiutandoci con il disegno di Kapferer1, possiamo operare ulteriori distinzioni. Leggendo il prisma orizzontalmente i primi due lati riguardano l’azienda o il brand, i due nel mezzo la relazione con i pubblici, infine gli ultimi due fanno riferimento diretto ai pubblici o consumatori. Se invece leggiamo lo schema verticalmente, è possibile notare due zone suddivise da una linea divisoria al centro dell’esagono: le dimensioni che si trovano sulla sinistra riguardano la comunicazione in esterno, mentre a destra rimandano a delle caratteristiche interne all’azienda. Sono connotazioni particolarmente interessanti, perché, come ci spiega Libaert: “L’identité corporate, telle qu’elle est communiquée, est un équilibre entre la LIBAERT T.- JOHANNES K., op. cit. p. 37, figura 3.1. Tale imagine è ripresa a sua volta da un articolo di Kapferer J.- N. , Matriser l’image de l’entreprise, le prisme d’identitè, in Revue française de gestion, novembre-dicembre 1988 1 72 nature interne de l’organisation, ce qui est partagé par ses membres et ce qui est attendu par les parties prenantes, et par l’environnement externe”1. Ovvero, nell’elaborazione dell’identità aziendale notevole rilevanza va posta sia a ciò che viene comunicato all’interno, sia a ciò che viene condiviso all’esterno, con i pubblici di riferimento. Perciò abbiamo appositamente apportato una leggera modifica al disegno originale di Kapferer, sostituendo la linea continua che divideva l’esagono in due parti (esterno ed interno dell’impresa) con una linea tratteggiata ad indicare il continuo processo di scambio fra interno ed esterno dell’azienda. Le componenti che via via danno vita all’identità sono quindi molteplici e se autori come Stadler - Birkigt e Kapferer si sono limitati ad un approccio sintetico secondo sfere d’influenza, l’opera che più si avvicina a mettere in luce la complessità della corporate identity è la tassonomia di Melewar2 (2003), creata per render conto di questa definizione: “ [Identity is] the presentation of an organization unique and it incorporates the organization’s communication, design, culture, behaviour, structure, industry identity and strategy”3. Figura 2.3 La tassonomia di Melewar LIBAERT T.- JOHANNES K., op. cit. p. 38 MELEWAR T.C., op. cit. p. 10, figura 1.1. Vedi anche http://arno.unimaas.nl/show.cgi?fid=15791 3 Ibid. p. 9 1 2 73 Il quadro soprastante riassume quanto detto da Melewar, evidenziando i 7 punti chiave ed i relativi correlativi. In esso ritroviamo alcuni elementi in comune con i precedenti: il corporate design (visual identity), il behaviour, la cultura che sintetizza concetti fondamentali quali mission, vision, le guidelines, la filosofia aziendale e la storia … Vengono introdotti: la corporate strategy, l’industry identity, la corporate structure e la corporate communication che include sia la comunicazione programmata sia la comunicazione che fuoriesce dal controllo strategico dell’azienda. L’identità risulta quindi essere costituita da diverse sfaccettature, ne rappresenta il sinolo, il punto d’incontro. Per questo motivo una delle principali proprietà della corporate identity è la coerenza delle sue diverse componenti. Lo stesso Olins ribadisce la centralità della “consistency” della C.I. : “The identity of the corporation must be so clear that it becomes the yardstick against which its products, behavior and actions are measured…Everything that the organization does must be an affirmation of its identity”1. A questo punto di vista, che potremmo definire tradizionale, se ne aggiunge un altro, che fa della sua ragion d’essere la “multiplicity”. Parliamo della visione post-moderna, dominata dai lavori di grandi linguisti e semiologi quali Ferdinand de Saussure (1960) e Roland Barthes (1972), secondo i quali i segni, inclusi parole e simboli, non hanno un significato fisso, che può essere facilmente stabilito da un individuo X nel tentativo di spiegarlo ad un individuo Y. “(…) Semioticians have drawn attention to the connotative level of all signs. This is the level at which interpretation occurs. For example, even simple nouns such as “dog” and “car” have multiple connotations. These words may be interpreted very differently by different people or by the same person at different times, regardless of the intentions of the author”2. Si tratta di una riflessione molto importante non solo nel nostro ambito, ma anche da un punto di vista gnoseologico ed ontologico, tanto che alcuni autori sono giunti ad affermare, non soltanto l’esistenza di una molteplicità di significati, ma anche una molteplicità di verità. Uno di questi, Derrida, sintetizza bene il tipo di pensiero: “There is no such thing as a truth in itself … truth is plural”. Tali dichiarazioni nel nostro studio, hanno un peso particolare e vengono a porsi da contraltare ai due concetti di cui sopra: coherency e consistency. Molteplicità e stabilità in apparente contraddizione fra loro, han fatto sì che per molto tempo i teorici della corporate identity considerassero la molteplicità come un nemico, qualcosa da eliminare. 1 2 LEICH S. – MOTION J., op. cit. p. 193 Ibid. p. 194 74 Solo in tempi recenti alcuni studiosi, tra cui Van Riel, hanno dimostrato che la molteplicità in quanto insita nei significati, è presente in contesto aziendale sotto svariate forme, ma in particolare in riferimento alla corporate identity, nucleo che custodisce il senso, o meglio i sensi dell’azienda. Per questo, suggerisce Van Riel, la pluralità di identità non deve costituire un handicap, ma piuttosto un elemento che deve essere innanzitutto accettato e successivamente commutato in ricchezza per l’intero business. Ciò non va a ledere il principio di stabilità e coerenza inizialmente menzionato, ma anzi va a trasformarlo e rafforzarlo, grazie al modello dei CSPs, ovvero dei Common Starting Points, di cui diremo in modo più approfondito più avanti, ma che vorremmo qui accennare attraverso la metafora di Motion e Leitch: “Consistency is generally thought of as relating to harmony. A consistent corporate identity, then is one in which the various elements of corporate identity are in tune, to continue the musical metaphor. Van Riel, however, moved us beyond this simple notion of consistency. CSPs do not imply a single tune but rather signify a common set of notes from which a variety of organizational tunes may be composed”. Van Riel parla sostanzialmente di coordinazione che deriva dalla giusta combinazione dei significati per giungere ad un’identità coesa e strutturata. Ciò che dobbiamo per ora ricordare di questa riflessione è quanto segue: l’identità è spesso caratterizzata da una pluralità di manifestazioni, quindi un’azienda può avere più identità. Il compito della comunicazione risiede nella capacità di dare una coerenza a tutte queste sfaccettature, evidenziando i punti forti e facendoli diventare i valori guida dell’impresa. Del resto è innegabile che i vantaggi di una corporate identity forte e ben strutturata siano rilevanti per il business aziendale: - aumenta la motivazione degli impiegati, - migliora l’immagine e può a lungo termine consolidare la reputazione, - determina le basi per il riconoscimento e l’identificazione, - genera fiducia all’interno dei diversi pubblici di riferimento, - permette di rendere coese i vari dipartimenti o corporation in cui è divisa l’azienda, - stabilisce le basi per una relazione duratura con i clienti/consumatori. Secondo molti autori, tra cui annoveriamo anche Melewar: “The aim of corporate identity management is to acquire a favorable corporate image among key internal and external stakeholders so 75 that, in the long run, this image can result in the acquisition of a favorable corporate reputation, which leads to key stakeholders having a favorable disposition towards the organization”1. Oltre alla sua rilevanza in relazione ad immagine e reputazione, l’identità deve essere curata e coltivata soprattutto in interno: è dalle proprie radici che bisogna trovare spunti nuovi per guardare avanti, per mettere in atto cambiamenti e per gestire al meglio le proprie potenzialità. Capire la corporate identity non è quindi prettamente uno stimolo verso l’esterno, ma innanzitutto un lavoro da compiere in e per l’interno, per capire chi siamo, cosa vogliamo, dove vogliamo arrivare. In poche parole: “(…) the quest to answer “Who are we?” is a quest for meaning and justification. (…) the issue of identity goes to the core of what something is, what fundamentally defines entity”2. 2.3 Le identità dell’azienda: fra storia, cultura e personalità Prima di addentrarci nell’analisi dei diversi modelli di corporate identity management, vorrei assicurarmi di togliere ogni dubbio o confusione in merito all’identità aziendale. Può sembrare forse una forzatura nozionistica la mia, ma sono sicura che si rivelerà utile per il lettore, per creare nella sua memoria tanti piccoli cassetti diversi, che sarà capace, più avanti di aprire, usufruendo del contenuto in modo separato o mescolando i diversi contenuti all’occorrenza. Ciò che è importante in questa fase, è che tutti i cassetti siano ben disposti e ordinati, così che non possa mettere nello stesso ripiano calzini e pullover. Fuor di metafora, lavoreremo ora sul concetto di identità secondo le due maggiori accezioni riportate dai teorici di marketing e comunicazione, analizzeremo il rapporto fra identità e cultura, ma anche l’influenza della storia e l’importanza del leader. Vaglieremo in sostanza tutte le principali dominanti che costellano l’universo della corporate identity, per aiutarci a capire come destreggiarci e soprattutto quali carte ci consente di giocare sul piano della competitività aziendale. 1 2 MELEWAR T.C., op. cit. p. 11 KIRIAKIDOU O. – MILLWARD L. J., op. cit. p.50 76 2.3.1 Corporate identity ed organizational identity Si tratta di una distinzione da non sottovalutare, sebbene, annoveri ancora delle critiche e dubbi. Secondo alcuni autori, del calibro di Cornelissen, è possibile suddividere l’identità in corporate, ciò che l’azienda mostra di sé, e organizational, ciò che l’azienda è realmente. Approfondiamo meglio i due concetti. Secondo Balmer e Soenen (1999), “the development of corporate identity starts from the vision and aims of the top management board and reflects the organization’s identity which the management board wish to acquire, that is, the desired identity of the organization”1. Inoltre essa mette a fuoco cos’ è un’organizzazione, cosa pensa, cosa sente, come si comporta e si rapporta agli altri. D’altro canto l’organizational identity “(…) refers to the set off beliefs a member holds about the existing character of the organization. Organizational identity is the set of constructs organizational members use to describe what is central, enduring and distinctive about their organization”2. Non si tratta semplicemente di distinguere fra identità desiderata e identità reale (Cornelissen), quanto di parlare di piani diversi di ascolto e di conoscenza. Come non si tratta di una distinzione fra due tipologie diverse, ma piuttosto di scavare in profondità nella corporate identity, per capire non solo chi è l’azienda ma chi la rappresenta, da chi è costituita. Per questo motivo possiamo concordare con Kiriakidou e Millward nel dire che: “organizational identity is at the core of organization’s corporate identity. Corporate identity is then the tangible representation of the organizational identity, the expression as manifest in the behaviour and communication of the organization”. I due autori parlano infatti di corporate identity come “internal and external fit”: l’identità aziendale infatti, come abbiamo già accennato, non è soltanto un costrutto che va portato verso l’esterno, ma s’inscrive nella pratica quotidiana del vivere comune di un’azienda e ne descrive il suo essere nelle forme più svariate. A tale livello l’organizational identity rappresenta una (o più) delle molteplici identità di cui si è detto, e che costituiscono un’impresa. Ancora meglio, possiamo dire che l’organizational identity si circoscriva all’interno dei diversi dipartimenti aziendali sino al top management: essa è quindi un motore propulsivo perché nasce da coloro che fanno l’azienda (dipendenti, funzionari, impiegati) e che ne sono primi ambasciatori. La coordinazione e la congruenza fra corporate e organizational identity, dovrà essere pertanto 1 2 KIRIAKIDOU O. – MILLWARD L. J., op. cit. p.50 – Corporate Identity: external fit Ibid. 77 uno dei primi obiettivi della comunicazione, perché si eliminino gli eventuali gap, formulando la mission e la vision in funzione dei valori, della cultura, del sentire comune e del substrato di storie che popola l’azienda. 2.3.2 Identità, cultura e sottoculture La cultura è oggi riconosciuta come parte integrante dell’identità, grazie soprattutto alla letteratura organizzativa. L’organizational culture è considerata come una costante insita in ogni organizzazione e uno strumento di supporto efficace per rafforzare l’identità aziendale e per raggiungere determinati obiettivi. Ma cosa indica esattamente il termine cultura e quali sono le sue caratteristiche peculiari? Hatch e Schultz la definiscono come segue: “organizational culture involves all organizational members, originates and develops at all hierarchical levels, and is founded on a broad-based history that is realized in the material aspects (or artefacts) of the organization (e.g. its name, products, buildings, logos and other symbols, including its top managers)”1. Secondo gli stessi Hatch e Schultz, la cultura rappresenterebbe “a context (…) an interpretative or sense-making mechanism”2 che non può né essere misurato né controllato. Autori come Melewar, sostengono che la cultura sia una variabile osservabile e misurabile, altri ancora (Cornelissen, Stuart), la interpretano come contesto pregno di significati per l’azienda. Tali divergenze di opinione non fanno che render evidente la necessità di un’analisi più approfondita sull’argomento, data l’importanza riconosciuta alla cultura nel business. Prima di passare al concetto di storia, vorrei affrontare la prospettiva di Scehin e il suo modello relativo all’organizational culture. L’autore suggerisce tre livelli su cui si fonda la cultura in azienda: artefatti, credenze, valori. Gli artefatti culturali sono presenti nella quotidianità di tutti coloro che lavorano in azienda, ma sono facilmente reperibili anche per i clienti. Questo gruppo include: l’architettura degli edifici, uffici, prodotti, uniformi, disposizione degli spazi, disposizioni e rituali. In particolare i riti a livello culturale assumono un’importanza strategica nell’andamento lavorativo e devono essere incentivati qualora non rappresentino un ostacolo a livello operativo e di rendimento. Queste forme 1 HATCH M.J. – SCHULTZ M., Relations between organizational culture, identity and image, in European Journal of Marketing, 1997, 5/6, p. 359 2 MELEWAR T.C., op. cit. p. 16 78 rituali possono emergere a partire dal top management, ma possono essere anche forme nate dal basso e prese ad esempio. Pertanto è bene sottolineare che la cultura è spesso una formula difficile da decodificare, poiché le sue varianti sono molteplici ed evolvono con il tempo. Ma passiamo al livello delle credenze e dei valori: “over time, group-learning outcomes tend to create a shared system of conscious beliefs and values about what works and what does not, what is right and what is not. Some beliefs and values are tested while others are acquires through a socially validated and reinforced process of consensus among members”1. Tali valori, considerati validi da parte della comunità, diventano parte integrante di un paradigma sociale di vita e della filosofia aziendale e come gli artefatti possono essere elementi derivati secondo un movimento top-down (elementi cardine, spesso tramandati dalla figura del fondatore o del leader) o bottom-up (valori condivisi da dipendenti provenienti da un dato ceto sociale, o valori che si sono costituiti a partire da modelli di comportamento interni alla comunità). Non si tratta tuttavia di sistemi di valori precostituiti, come si diceva la cultura è un dato mutevole che difficilmente si radicalizza: il suo carattere evolutivo intrinseco è dato dalla diversità stessa insita nel contesto aziendale e dal mutare dei tempi e delle condizioni esterne, che influiscono a loro modo nell’interpretazione dei significati. L’instabilità e la non misurabilità di tale parametro, determinante nella creazione della corporate identity, non deve per questo spiazzare, ma deve aiutarci a ragionare. La cultura è un elemento che per sua definizione identifica e contraddistingue popolazioni, nazioni, comunità … le differenzia, rappresentando una punta d’orgoglio. La comunicazione deve agire in questo campo da fattore stabilizzante: deve essere capace di valorizzare quelle credenze che possano trasformarsi in punti forza per l’impresa. Tali valori possono essere: la diversità, il rispetto (per il colore della pelle o la credenza religiosa), la determinazione, la creatività … Prendiamo ad esempio una delle principali aziende italiane, Barilla. I valori che la contraddistinguono sono: passione, curiosità intellettuale, coraggio, fiducia, integrità2. Tali valori sono ricavati dagli elementi della cultura corporate e vengono confermati dal lavoro decennale che l’azienda porta avanti e dalla sua cura per i prodotti e per la relazione con i clienti. Esternare i valori, far sì che i pubblici interni ed esterni vi si identifichino, come una MELEWAR T.C., op. cit. p. 17 Si veda il sito aziendale all’indirizzo : http://barillagroup.com/corporate/it/home/chisiamo/vision.html 1 2 79 costante della loro cultura aziendale e delle relative sottoculture è uno dei compiti della comunicazione. Ultimo appunto sull’organizational culture riguarda il modello dinamico di Hatch che rappresenta il processo di formazione culturale nelle sue varie fasi: manifestazione, realizzazione, simbolizzazione, interpretazione. Tale modello riprende alcuni concetti già elaborati da Schein e li approfondisce, permettendo una maggior comprensione di come i dipendenti interiorizzano i significati presenti negli artefatti e portino in auge i valori aziendali. Figura 2.41 Modello dinamico dell’organizational culture di Hatch Valori Manifestazione Realizzazione Credenze Artefatti Interpretazione Simbolizzazione Simboli Come si evince dallo schema riportato qui sopra, durante la manifestazione le credenze vengono percepite, riconosciute e trasformate in valori, i quali grazie al processo di realizzazione diventano artefatti. Questo secondo movimento genera una trasformazione (realizzazione proattiva) e d’altro canto garantisce il mantenimento dei valori all’interno di artefatti culturali (realizzazione retroattiva). Infine gli artefatti diventano veri e propri simboli, anche se Hatch sottolinea che tale passaggio non è immediato, e non tutte gli artefatti si trasformano automaticamente in simboli. Ciò permette in sintesi l’interpretazione da parte dei membri dell’azienda dei simboli a partire dalle loro credenze, cioè da ciò che essi percepiscono e sentono all’interno dell’organizzazione. Molti altri autori si sono occupati di dimostrare l’importanza della cultura all’interno dei processi di formazione identitaria in azienda e nelle organizzazioni, ulteriori modelli sono 1 MELEWAR T.C., op. cit. p. 21, figura 1.2 80 stati proposti per esempio da Johnson (1998) e Heracleous (1995), di cui ricordiamo in modo particolare il concetto di cultura applicato ai siti aziendali. Ciò che conta per il nostro lavoro è soprattutto rimarcare in questa sede il peso che la cultura ricopre in ogni comunità, non solo a livello territoriale, ma anche socio-economico: le comunità presenti nei singoli ambienti lavorativi al pari delle altre, sviluppano una serie di valori, di stili di vita, di linguaggi peculiari al loro ambiente. Pertanto “cultural forms are recognized as providing fundamental clues to the thoughts, beliefs and actions of organizational memebers (…). [They] justify behaviour and become instruments for telling organizational members what is valued within the organization”1. 2.3.3 Fra storia e biografia in azienda I riferimenti alla storia di un’azienda sono un elemento chiave nella costruzione di una forte identità d’impresa. Faccio da subito una precisazione: con il termine storia indichiamo qui non tanto il concetto di narrazione, di cui parleremo, quanto piuttosto quello di “biografia” aziendale (per intenderci parliamo di “history”, e non semplicemente di “story”). Molte ricerche nell’ambito hanno dimostrato il ruolo importante della storia nel costruire e ricostruire identità. Pensiamo per esempio ai lavori di Hobsbawm - Ranger (1992) e di Schulze (1987), i quali hanno evidenziato come individui, gruppi di persone, intere comunità, si rifacciano al passato per dare un senso alla propria esistenza, per definire chi siamo e da dove veniamo. Sostanzialmente la biografia ci aiuta a tenere le fila del tempo, a non perderci mai. Secondo Blomback e Brunninge: “In one sense or another all firms have a history. This history may be long or short, but even in a newly established company there is usually a history before the formal incorporation. This may include the formation of the business idea, the background of the founder, or businesses that preceded the firm. Since all companies have it, history can be interpreted as an omnipresent firm feature, which generally is also an important means for constructing the identity of an organization”2. Il ruolo che assume il passato in contesto organizzativo è dunque inconfutabile: le esperienze che vengono assimilate all’interno dell’organizzazione, i progetti di vita, sono come piccoli mattoni che contribuiscono a 1 2 MELEWAR T.C., op. cit. p. 23 BLOMBACK A. – BRUNNINGE O., op. cit. p. 405 81 costruire una grande casa, l’azienda. La storia risiede in ciascun mattone, ma soprattutto contribuisce a rendere salde le fondamenta. Partendo da questo dato di fatto, la biografia aziendale risulta essere un elemento chiave nella costruzione dell’identità non soltanto per una questione di riconoscimento e di consenso, quanto per dare maggiore stabilità alla corporate identity, che come abbiamo visto, risulta spesso mutevole nelle sue diverse componenti (pensiamo alla cultura aziendale, di cui sopra). In particolare i riferimenti storici in azienda: - Influenzano l’immagine aziendale presso i diversi pubblici esterni, - Rafforzano il senso di unicità dell’azienda e quindi hanno un peso rilevante nella corporate identity e nella sua formazione, - Influenzano le percezioni dei membri interni all’azienda, aumentando il consenso e l’identificazione con il vissuto aziendale, - Fanno leva sull’età; sia che l’azienda sia molto giovane, sia che possa vantare di una grossa eredità in termini biografici, la biografia può essere un motore per stringere nuove alleanze o per continuare il percorso già in atto, - Migliorano reputazione e fiducia presso i target interni ed esterni, - Possono costituire un ostacolo al cambiamento, ma possono anche essere utilizzati come input da parte del top management per creare nuovi significati e dar via ad una nuova storia a partire dalle ceneri della precedente. Le organizzazioni sono quindi in grado di trarre enormi vantaggi dal loro passato. Il trucco sta nella capacità di saper scremare le informazioni e utilizzare le giuste dominanti, cioè nel saper comunicare in modo convincente chi siamo e da dove veniamo. Ma non solo. Come vedremo più avanti, la biografia aziendale, proprio per la sua vicinanza al racconto, è spesso utilizzata nella comunicazione narrativa per raccontare l’azienda: può essere trasformata in prodotto, oppure semplicemente consultata, quel che è importante è che qualsiasi progetto in ambito di corporate storytelling parte sempre da qui, da un’indagine sul nostro passato e sulle nostre aspettative per il futuro. 2.3.4 La strategia d’impresa: mission e vision Malgrado Melewar tratti questi due concetti all’interno dell’ambito dell’organizational culture, abbiamo deciso, come per la biografia aziendale, di trattare a parte missione e visione aziendale. Tale decisione parte da una semplice constatazione: innanzitutto mission e 82 vision sebbene si leghino alla cultura aziendale, sono prodotto primario della strategia di comunicazione aziendale inoltre come la cultura e la storia, questi due elementi sono fra i più importanti nella costruzione dell’identità e meritano per questo un trattamento a parte. Tuttavia a differenza di quanto accade per le precedenti, è bene sottolineare che mission e vision pur rispecchiando in toto l’identità dell’azienda provengono da un lavoro combinato di strategia e comunicazione. Esse sono concepite per comunicare l’essenza dell’azienda in una frase breve, d’impatto, facilmente memorizzabile. Il loro carattere peculiare, rispetto alla cultura è la relativa stabilità nel tempo; malgrado la forma possa cambiare, il contenuto, ovvero i valori che l’azienda cerca di trasmettere restano immutabili. Ciò è ancor più vero se ci addentriamo meglio nell’ambito per capire cosa sono e in cosa si differenziano. La mission, è lo scopo o vocazione dell’azienda, la giustificazione della sua stessa esistenza. Comunicare la mission significa spiegare i propri obiettivi e rendere manifeste le proprie specificità, ovvero ciò che differenzia l’azienda sul mercato. Una buona mission statement dovrebbe rispondere essenzialmente alle seguenti tre domande: chi siamo? cosa vogliamo fare? perché lo facciamo? 1 Se la mission è il “manifesto” dell’azienda, la vision ha il compito di ispirare i membri dell’organizzazione, non rappresenta la situazione presente, ma l’ambizione finale, ciò a cui tende a medio e a lungo termine l’azienda, al di là della realizzazione quotidiana delle sue missioni. Sono entrambe un punto fermo all’interno dell’impresa e sono esternalizzate secondo varie modalità, in particolare giungono ai pubblici grazie al sito istituzionale che rimanda ai tre parametri fondamentali: mission, vision e valori. Prima di passare al capitolo successivo, facciamo un breve esempio per capire come si costruiscono mission e vision. Prendiamo nuovamente Barilla2, di cui ci siamo occupati anche in precedenza a proposito dei valori aziendali. La mission riprende alcuni dettagli storici e afferma i valori di tradizione italiana tipici dell’azienda: - “Dal 1877 Barilla è l’azienda italiana e familiare che interpreta l’alimentazione come momento conviviale di gioia, ricco di gusto, affetto e condivisione. Per approfondire il tema di mission e vision e la loro correlazione con i valori si consiglia di leggere LIBAERT T.- JOHANNES K., op. cit. p. 58-59 2 I riferimenti a mission e vision aziendali di Barilla possono essere consultati anche sul sito istituzionale alla pagina: http://www.barillagroup.it/corporate/it/home/chisiamo/vision.html 1 83 - Barilla propone un’offerta di qualità fatta di prodotti gustosi e sicuri. - Barilla crede nel modello alimentare italiano che combina ingredienti di qualità superiore e ricette semplici, offrendo esperienze uniche ai cinque sensi. - Il senso di appartenenza, il coraggio e la curiosità intellettuale ispirano il nostro modo di essere ed identificano le persone con le quali lavoriamo. - Barilla lega da sempre il suo sviluppo al benessere delle persone e delle comunità in cui opera”. La vision invece si riassume in una sola frase, è chiara, sintetica, d’effetto: “Aiutiamo le persone a vivere meglio, portando ogni giorno nella loro vita il benessere e la gioia di mangiare bene”. Sarebbe interessante dal punto di vista comunicativo, studiare come le aziende costruiscono i loro vision e mission statement, ma non è questo il luogo per un’analisi così approfondita. Ciò che ci preme ora è segnalare che saper comunicare bene i propri valori attraverso la missione e la visione aziendale è un punto determinante, che condiziona fortemente identità ed immagine presso i diversi pubblici. Mission e vision sono quindi degli elementi strategici nella costruzione dell’identità e non soltanto un mero dato culturale, traggono linfa dalla cultura per parlare ai clienti e ai consumatori, raccontando in breve chi è l’azienda e cosa vuole fare. 2.4 Corporate identity management Abbiamo approfondito alcuni temi cari alla letteratura in ambito di corporate identity, soffermandoci sui tratti caratteristici. Vogliamo ora assicurare al lettore una panoramica completa sull’argomento, analizzando il ciclo di vita dell’identità all’interno dell’azienda, in particolare soffermandoci sull’utilizzo della corporate identity in ambito manageriale. Possiamo annoverare diverse posizioni e una pluralità di modelli, ma analizzeremo in modo specifico solo alcuni di questi: il piano di Van Riel (CIPP), il programma di Melewar (IFMD), cui seguirà l’approccio di Brioschi e della total business communication (Soul Searching). Innanzitutto però, credo sia importante soffermarsi un istante sul concetto di identità e di management. A cosa serve gestire l’identità in azienda? Se il lettore ha seguito con attenzione la nostra riflessione, la risposta dovrebbe essere abbastanza semplice: l’identità in quanto centro vitale dell’azienda è importante per definire 84 gli obiettivi aziendali da un lato e dall’altro per amministrare meglio la comunicazione che si rivolge ai diversi pubblici, influenzando in modo diretto o indiretto immagine e reputazione. Pensare in termini di Corporate identity management (CIM) è fondamentale: secondo Van Riel e Balmer “the objective of CIM is to establish a favourable reputation with an organization’s stakeholder which is hoped will be translated by such stakeholder into a propensity to buy that organization’s product and services, to work for or to invest in the organizations. (…) There is evidence to support the notion that a favourable corporate reputation gives organization a competitive advantage” 1. Gli stessi autori hanno dimostrato le influenze reciproche che intercorrono fra i tre valori intangibili dell’azienda (identità, immagine, reputazione) ed elaborato un modello interdisciplinare il cui merito è quello di esser riuscito ad integrare le varie tematiche in questione. Lo presentiamo qui in breve, perché pensiamo possa riassumere quanto detto sino ad ora, prima di passare ai singoli autori: Figura 2.5 Il rapporto fra gli intangible assets aziendali secondo Riel e Balmer Owner/chef executive & Management Corporate philosophy & mission External stakeholders Corporate personality Corporate identity Corporate image and reputation Molti altri teorici, come si è detto, hanno affrontato l’argomento, partendo da punti di vista diversi. Il modello di Dowling (1986) è uno dei primi a mettere in gioco immagine e identità nel processo comunicativo aziendale, senza però soffermarsi troppo sulle diverse discrepanze possibili. Nel 1989 è la volta di Abratt, il quale apre la strada anche per le interpretazioni di Van Riel. Oltre all’organizational culture già introdotta nel precedente modello, particolare rilevanza viene data alla corporate personality in relazione all’identità. Inoltre, maggiore chiarezza viene fatta fra immagine ed identità grazie all’introduzione del concetto di corporate identity/corporate image interface, su cui si fonda l’intero modello2. Per un approfondimento si veda VAN RIEL C. B. M: – BALMER T. C., op. cit., p. 342 Nel suo articolo relativo ai modelli di C.I management Helen Stuart riporta anche altri spunti teorici. Si tratta di modelli importanti anche se oggi risultano ormai superati. Lasciamo quindi al lettore la possibilità di continuare con lo studio storiografico delle varie teorie che si sono avvicendate e che 1 2 85 Di seguito ci soffermeremo meglio ad analizzare l’interazione dei diversi elementi che compongono la CI, affrontando con Van Riel il piano di comunicazione basato sulla valutazione del CI mix , con Melawar le varie fasi di costruzione della corporate identity nella globalità della comunicazione aziendale, infine con Brioschi, vaglieremo un approccio nuovo che dà alla ricerca e allo studio dell’identità un peso estremamente importante all’interno della strategia comunicativa. 2.4.1 Il Corporate identity policy planning: Van Riel Dopo aver passato in rassegna i diversi punti di vista della tradizione, derivanti sia dalle diverse aree della comunicazione, sia dai modelli di Integrated Corporate Comunication, Van Riel si appresta ad elaborare un proprio modello partendo dal seguente presupposto: “In my view, a corporate identity programme may be described as a systematic long term view approach to an organization’s total communication activities (in both the broad and the narrow sense). Its aim is the achievement by the company of a positive starting position (direct and indirect) in relation to the target groups which the company has dependency relationships by improving familiarity with and appreciation of the organization’s intentions”1. Riprendiamo le esatte parole del testo per rimarcare l’importanza del processo di management dell’identità: esso, come viene specificato da Van Riel, deve essere integrato alle attività comunicative d’impresa, meglio ancora deve essere il punto da cui partire per elaborare una strategia di comunicazione ben strutturata e coesa. Il suo piano, in breve CIPP, consta di dieci step, ed è un processo alquanto elaborato. 1. La prima fase riguarda la problem analysis, individuare il problema, ovvero cercare la caratteristica chiave dell’organizzazione che resta stabile nel tempo e permette all’azienda di differenziarsi dalle altre del settore, 2. Determining the current positioning riguarda invece il posizionamento attuale, che può essere individuato grazie a diversi strumenti, fra cui ricordiamo il SWOT, proveniente dal marketing strategico. Prima di muoversi in nuove direzioni è infatti necessario capire dove si è ora e cosa si è fatto fino a questo momento, Helen Stuart annovera in modo preciso nel suo articolo: Towards a definitive model of the corporate communication identity management process, in Corporate Communication: An International Journal, volume 4, numero 4, 1999, pp. 200-207 1 VAN RIEL C. B. M. , op. cit. p. 123 86 3. A questo punto è necessario testare se il fattore chiave precedentemente individuato è presente in modo adeguato ed esplicito nelle diverse forme di comunicazione messe in atto, 4. Ad esso segue un altro passaggio di analisi, quello della determinazione dell’immagine in relazione ai diversi pubblici aziendali di riferimento, grazie alla mappatura dei target groups, detta anche stakeholder analysis, 5. Competition market analysis, ovvero una valutazione globale del mercato e del CI mix della concorrenza, per considerare il cambiamento come una necessità o una possibilità, 6. Arriviamo quindi alla gap analysis, in cui si tirano le somme del quadro d’analisi compiuto, decidendo se è utile mantenere il medesimo status di CI mix, modificandolo se necessario o se sia invece più saggio orientarsi verso la strada del cambiamento, 7. Le conclusioni a cui può giungere la gap analysis sono tre. Come si è detto è possibile che tutto vada bene così com’è e non sia necessario procedere ad un cambiamento, può essere si renda necessario modificare delle parti del CI mix, oppure, terza possibilità, la necessità di risistemare il posizionamento strategico dell’impresa, 8. A questo livello si devono valutare le implicazioni e le eventuali conseguenze per il CI mix, in modo tale da poter trasmutare le decisioni a carattere strategico in operazioni in ambito comunicativo, 9. Siamo nel cuore del CIPP, ovvero è qui che si mettono in atto le attività individuate in fase strategica, rispetto ai diversi obiettivi finali dell’impresa, 10. L’ultimo step riguarda la valutazione dell’intero processo. Malgrado non sia facile quantificare il contributo della comunicazione nella realizzazione dei diversi obiettivi aziendali, una valutazione finale è necessaria per poter comprendere l’efficacia delle attività portate avanti ed il loro riscontro sul piano del business. Le tipologie di valutazione possono riguardare l’intero processo oppure il solo prodotto finale. Per capirci meglio: “a process evaluation is the evaluation, by means of theoretically derived standard protocols, of internal processes during the preparation and implementation phases. A 87 product evaluation is aimed at determining whether the communication objectives vis-à-vis the target group have been met”1. Secondo Van Riel soprattutto la dimensione di individuazione degli obiettivi risulta essere strategica e determinante per la comunicazione e più in generale per l’intero posizionamento aziendale. A lui va il merito di aver cominciato a dare un certo peso all’identità, intesa come strumento centrale fra i vari elementi che costellano la comunicazione aziendale ed in particolare la corporate communication. Partendo dal modello di Van Riel e dalla sua concezione di corporate communication, autori come Markwick e Fill (1997) hanno elaborato una loro interpretazione, sottolineando soprattutto l’importanza strategica delle diverse componenti in gioco: corporate personality, corporate identity, corporate image e corporate reputation. Lo menzioniamo in conclusione in quanto si tratta di un approccio che si distingue per la sua capacità di inglobare tutte le dominanti in gioco, nel rispetto delle teorie precedenti, spostando l’asse dalla corporate communication di Van Riel ad un’ottica di maggior integrazione, ovvero di “total corporate communication” o comunicazione totale2. 2.4.2 Identity formation, maturation and dissemination: Melewar Un approccio diverso è quello di Melewar, il quale parte non tanto da intenti strategici, quanto da studi relativi all’impatto della cultura sull’azienda e dal connubio esistente fra identità e cultura. Basato sulla sua tassonomia, di cui abbiamo già parlato, il modello in questione si focalizza in modo particolare sul top management e sui dipendenti, quali pubblici interni e fonte primaria per la formazione, crescita e diffusione dell’identità aziendale. Infatti, ci spiega lo stesso Melawer: “The focal points of the IFMD process are management and their corporate identity management programs and organizational members who interpret and translate these programs into images, organizational identity, and affinity”3. Nel definire l’identità, il top management porta in auge una serie di significati che riguardano le caratteristiche principali dell’organizzazione, elementi che i dipendenti e tutti i membri dell’azienda devono acquisire, interiorizzare ed utilizzare nel descrivere, parlare e nel riferirsi all’azienda stessa. Corporate identity ed organizational identity si fondono VAN RIEL C. B. M. , op. cit. p. 130 Il modello di Nigel Markwick e Chris Fill, elaborato nel 1997, è stato pubblicato nell’articolo: Towards a frame work for managing corporate identity, in European Journal of Marketing, 1997, p. 340 3 MELEWAR T.C., op. cit. p. 27 1 2 88 quindi in quelle dinamiche culturali che raggruppano ed influenzano tutti coloro che fanno parte dell’impresa. Corporate structure, culture e strategy, inglobano l’intero processo di scambio verticale, interno (ovvero top-down e bottom-up) ed orizzontale esterno all’azienda. A sua volta, riprendendo in parte quanto già detto da Van Riel, Melewar definisce gli obiettivi del suo modello e della gestione della corporate identity in questi termini: “The objective of corporate identity management is to acquire a favorable corporate image and consequently organizational identity among employees that, in the long run, it can result in the acquisition of a favorable corporate reputation, which leads to employees having a favorable disposition towards their organization. Such a favorable disposition should also result in employees transmitting a favorable image to external stakeholders through their everyday contact with them”1. Figura 2.6 Il processo di formazione e maturazione della C.I. secondo Melewar 1 MELEWAR T.C., op. cit. p. 27-28. L’immagine è ripresa dallo stesso libro, figura numero 1.3 p. 26 89 Secondo il suo pensiero, la forza nel processo di gestione dell’identità, si trova nella fusione culturale che si sviluppa in azienda, creando quei costrutti che abbiamo visto nel precedente paragrafo in relazione all’organizational culture. Per questo mette l’accento sui significati, essenziali per creare dei piani di sviluppo della corporate identity coerenti e di successo. Ma non solo. Arriva infatti a propugnare l’utilizzo delle differenze come vere e proprie risorse: “the degree of cohesiveness, differentiation, and/or fragmentation is also a function of the strenght of corporate identity programs and the mediating influences of management behaviour, communications, and design”. Un modello innovativo quello di Melewar, che fa riflettere, ed offre allo stesso tempo notevoli vantaggi: - facilita l’interazione fra le discipline che si sono occupate di corporate identity e quelle che hanno posto l’accento sull’organizational identity, superando le divisioni fra strutturalisti e funzionalisti, - mette in rilievo l’importanza del singolo come membro in contesto aziendale e la cultura che emerge dall’interazione fra i diversi membri, - spiega in modo efficace le relazioni fra le variabili in gioco, - supera gli ostacoli derivanti dalle debolezze dei precedenti modelli, ponendo l’accento sul profilo culturale ed organizzativo dell’azienda per spiegare i vari fenomeni intrinseci legati al concetto d’identità. 2.4.3 Il Soul Searching: Brioschi e l’ottica della comunicazione L’idea di presentare l’approccio della Total Business Communication deriva da due esigenze precise: la prima è quella di dare al lettore una prospettiva il più possibile globale della gestione dell’identità in ambito organizzativo, la seconda è quella di dare un supporto di rilievo allo storytelling come innovativo strumento di management, grazie proprio alla filosofia portata avanti da Brioschi. Abbiamo già accennato nel primo capitolo alla comunicazione totale d’impresa, definendola un passo importante all’interno della comunicazione aziendale, come evoluzione e rivisitazione della Corporate Communication. Da quest’ultima vengono ripresi e sviluppati alcuni concetti chiave, inseriti in una nuova visione della gestione, in cui il concetto d’identità assume un’importanza ancora maggiore. Per comprendere meglio in che senso questo avvenga, facciamo qualche passo indietro. Per Brioschi: “ (…) the term business communication is intended to cover every manifestation by which 90 the firm activates a process of communication with one or more publics (whether people, businesses, or institutions), to which it presents one or more aspects of its identity”1. Sin da subito Brioschi sottolinea la stretta relazione fra il concetto d’identità e l’orientamento strategico del business, centro dell’identità aziendale. Proprio l’identità dell’azienda costituisce un aspetto importante nella gestione del business sia a livello amministrativo che comunicativo. “The business identity –whether deep, manifest or desired – forms the central question which is the pivot of the whole struggle strategic issue, considered both on the level of the underlying orientation and in the concrete articulation of the different strategies and finally, in the development of the strategic management of the business”2. A questo livello è indispensabile che una cultura della comunicazione si stabilisca all’interno dell’organizzazione al fine di poter portare in auge i valori e gli obiettivi aziendali e comunicarli all’interno e all’esterno. Il professore si sofferma più volte su questo concetto: la cultura viene definita come “the whole set of principles and convictions shared by the members of the organization, which act below the level of consciousness and define the establish vision that a business has of itself and its ambience”3. Il breve schema4 che segue, ci aiuta a capire meglio le interazioni fra cultura e politica di comunicazione: come si può notare politica ed ottica discendono dalla cultura dell’azienda e in particolare dalla sua cultura di comunicazione. Figura 2.7 La politica di comunicazione totale CULTURA AZIENDALE CULTURA DELLA COMUNICAZIONE OTTICA DI COMUNICAZIONE POLITICA DI COMUNICAZIONE TOTALE BRIOSCHI E.T., op. cit. p. 78 Ibid. op. cit p. 89 3 Ibid. op. cit. p. 95 4 BRIOSCHI E.T., Communicative business: verso un modello ottimale di azienda nell’ottica della comunicazione, Vita e Pensiero, 2008, Milano, p. 27 1 2 91 Seguendo la politica di comunicazione totale, un’azienda deve stabilire una cultura della comunicazione che derivi direttamente dalla cultura aziendale (dai suo valori, dai suoi obiettivi e dalle sue storie) e che si fondi sui seguenti quattro assiomi fondamentali: 1. L’azienda per il solo fatto di esistere, comunica elementi della sua identità e influisce sulla propria immagine (da un lato notiamo il riferimento esplicito a Watzlawick, dall’altro vediamo come nuovamente l’accento venga posto sulla corporate identity); 2. Qualsiasi aspetto, elemento, attività dell’azienda contribuisce a delinearne l’identità e ad influenzarne l’immagine; 3. Per quanti sforzi l’azienda compia, non riuscirà mai a gestire completamente la propria immagine ( questo l’abbiamo visto parlando della corporate image, l’azienda non è sola e non è l’unica fonte di informazione su sé stessa, inoltre forte peso hanno non soltanto i fattori oggettivi, ma anche quelli soggettivi più emotivi/affettivi); 4. Solo la presentazione veritiera degli aspetti della propria identità consentirà all’azienda di perseguire efficientemente ed efficacemente i propri obiettivi di medio e lungo termine (detto anche assioma della razionalità etica, sottolinea il fatto che la disonestà non viene mai premiata e ogni tentativo di falsificare le carte verrà prima o poi alla luce con conseguenze negative per l’organizzazione). Fra gli assiomi qui citati è bene soffermarsi sul primo, il quale mette in gioco la relazione fra identità ed immagine. L’idea di fondo della total business communication è il tentativo di perseguire un equilibrio stabile fra corporate identity e corporate image. Di fatto, la relazione può portare a tre diverse situazioni: - equivalenza = situazione ottimale in cui vi è perfetta corrispondenza fra le due, è la strada da perseguire per l’azienda - ipovalutazione = situazione patologica in cui l’immagine che hanno i pubblici svilisce l’identità - ipervalutazione = situazione patologica in cui l’immagine è più positiva rispetto all’identità, perciò alla realtà dei fatti E’ evidente che il primo sia l’obiettivo che l’impresa deve cercare di raggiungere in qualsiasi attività comunicativa decida di mettere in atto. Del resto identità e immagine costituiscono l’inizio e la fine di un processo circolare messo in atto dalla comunicazione totale. Tale processo, è molto interessante e ci apprestiamo nelle ultime righe che ci restano a 92 disposizione a spiegarlo, approfondendo in modo particolare il concetto di soul searching. Questo modello sarà poi utile per spiegare il meccanismo che ruota intorno alla comunicazione narrativa e allo storytelling, quindi particolare attenzione verrà messa nella sua spiegazione. Iniziamo dicendo che l’attuazione della politica di comunicazione totale è un processo complesso che si attua attraverso una serie di fasi a cascata (si veda la Figura 2.8). La prima di queste fasi, parte dall’identità del business e viene definita soul searching. Consiste in un’analisi dell’identità che parte da tre domande: chi siamo come azienda? qual è il nostro ruolo sul mercato e all’interno della società? e cosa vogliamo fare? Mentre le prime due domande si realizzano su un piano statico, la terza introduce riflessioni più dinamiche che coinvolgono i concetti di mission e vision aziendale e riguardano più da vicino la corporate identity desiderata. Si tratta di un’analisi che tutte le aziende dovrebbero compiere periodicamente, dando risposte chiare e precise, per permettere al piano di comunicazione di svilupparsi nel modo più efficace possibile. Figura 2.8 Processo d’attuazione della total business communication1. SOUL SEARCHING PREMESSA IDEOLOGICA MISSIONE AZIENDALE OBIETTIVI AZIENDALI SISTEMA DI IDENTITÁ VISIVA OBIETTIVI ISTITUZIONALI DI COMUNICAZIONE OBIETTIVI DI IDENTIFICAZIONE SISTEMA DI MESSAGGI OBIETTIVI DI QUALIFICAZIONE Lo schema riportato si basa su una rielaborazione del quadro presentato da Brioschi nel suo libro, p. 109-112, figura 1 e 2, rivisitato poi dalla prof.ssa Gambetti durante il corso di Economia della comunicazione aziendale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. 1 93 Come si può facilmente evincere dal sistema, il secondo passo viene definito premessa ideologica (ideological premise), intesa come il complesso di valori che permeano la realtà e la cultura dell’azienda, orientandone decisioni e comportamenti. Dalla premessa ideologica derivano le riflessioni su mission e vision. A questo punto, avendo chiaro in testa chi siamo e dove vogliamo andare, vengono messi nero su bianco gli obiettivi aziendali, ovvero gli obiettivi economici del business (economic objectives) e quale contributo possa dare la comunicazione totale al fine di raggiungere tali obiettivi. La fase degli obiettivi istituzionali di comunicazione (tecnica objectives) parte proprio da qui, per affermare, modificare o sviluppare l’identità aziendale e con essa l’immagine in relazione al posizionamento scelto dal business sul mercato. Si tratta della fase più operativa che si ripercuote su due sistemi: il sistema di identità visiva e il sistema dei messaggi, fra di loro strettamente legati. Gli obiettivi tecnici si dividono quindi in due classi: gli obiettivi di identificazione, dipendenti dal sistema di identità visiva (fanno riferimento alle caratteristiche tipiche del business, a specifici modi di produzione, ai prodotti e alle loro rappresentazioni simboliche) e gli obiettivi di qualificazione dipendenti dal sistema dei messaggi (afferiscono alle tipologie e qualità delle risorse utilizzate dal business e più in generale alla modalità di veicolazione dei messaggi legate al modello di management applicato dall’azienda). Si passa dunque dall’analisi sull’identità, ad un lavoro su di essa che vada a modificare o rafforzare il profilo della corporate image e successivamente porti un riscontro positivo a livello di reputazione. Il processo si avvale quindi di diversi strumenti che è necessario utilizzare in modo adeguato a seconda dei pubblici e che data la complessità del processo vengono per comodità inseriti in una matrice. La total communication matrix, è una tabella a doppia entrata in cui vengono indicate le diverse classi di pubblico a cui l’azienda si rivolge e gli strumenti di comunicazione di volta in volta adottati1. Concludendo, dice Brioschi : “Corporate identity and, therefore corporate image, constitute the beginning and end of a process which is of a circular kind and which, once rationally started, tends to realize a balance between identity and image and also to help maintaining the said balance afterward. At the heart of this process we can find the communication positioning, which is, in fact, the identification and valorization of particular aspects of the desired identity (…)”2. Per approfondire l’utilità della matrice nella politica di comunicazione totale, si veda BRIOSCHI E.T., op. cit. p. 113. Un esempio di matrice è riportato a p. 114 2 BRIOSCHI E.T., op. cit. p. 115 1 94 Prima di passare all’analisi della comunicazione narrative, dati i diversi modelli di corporate identity management ed in particolare il punto di vista di Brioschi, a me caro, vorrei soffermarmi nel prossimo paragrafo sulle modalità di analisi e misurazione della CI. La necessità di passare in rassegna questi modelli, deriva dalla costante richiesta del business di sistemi performanti e di attività a cui si possa dare un valore effettivo in termini di costi/ricavi. 2.5 Il metro della corporate identity e del CIM Nel panorama attuale dei mercati nazionali ed internazionali è sempre più necessario dare non solo un significato ma anche un peso economico alla nostra strategia di comunicazione: ogni attività deve essere portata avanti in funzione di un obiettivo e per tale motivo, alla fine il suo impatto deve essere valutato a livello di valore economico portato all’azienda. La valutazione non è sempre così facile ed immediata, soprattutto se si parla di valori intangibili come immagine ed identità per esempio. Tuttavia la letteratura ci ha fornito dei modelli attraverso i quali leggere fra le righe ed analizzare da un lato la struttura del corporate identity mix, dall’altra i risultati del processo di CIM. Cominciamo dall’identità. Possiamo individuare due tipi di modelli d’intervento: l’analisi della corporate identity nel suo insieme e l’analisi dei singoli elementi che compongono il CI mix. Nel primo filone, troviamo: - Il metodo Cobweb di Bernstein – utilizzato soprattutto a livello di top management cerca di spiegare quali sono le attuali potenzialità dell’azienda mettendo in luce i valori aziendali e la cultura. La sua funzione principale è di misurare le immagini che i manager hanno dell’impresa, che non sono necessariamente le stesse dei diversi target. Ciò rappresenta la sua maggiore debolezza. - Il metodo a stella di Lux – utilizzato per stimolare la discussione ai piani alti del management, in particolare in termini di cambiamento, può essere considerato come uno strumento di supporto alla misurazione, non sufficiente in sé e per sé. - La tecnica del Laddering di Van Rekom – permette di costruire una panoramica delle attività che un’azienda porta avanti nei confronti dei diversi pubblici di riferimento, dei valori ed obiettivi che soggiacciono a queste attività e della relazione fra di loro. 95 Può essere messo in atto nei confronti di un’azienda nella sua totalità oppure nei confronti dei singoli dipartimenti, comparando poi i diversi risultati ottenuti. Un tale lavoro permette in fase finale di mettere a fuoco quali aspetti dell’identità aziendale corrispondono all’immagine che i diversi pubblici hanno dell’azienda. - Il Mannheimer CI test di Keller – misura non tanto l’identità in sé, quanto gli effetti dell’identità. Si tratta di uno strumento diagnostico, non fine a sé stesso1. Per quanto riguarda il secondo filone, mentre gli Organizational climate studies si occupano del corporate behaviour e della comunicazione, i facilities audit e graphic design audit sono improntati all’analisi del corporate symbolism. In breve possiamo concludere quanto segue: “the measuring instruments that are reviewed (…) all have their merits in certain areas of corporate identity, for example company communication, design or personality. Some are useful for measuring the effects of corporate identity, e.g. the Mannheimer CI test. However, there is as yet no instrument for measuring company identity in its entirety. A combination of the Coweb method of Bernstein and the Laddering method of Rekom is, at this stage, probably the most acceptable approach for obtaining a clear view of the (desired and actual) corporate identity of an organization”2. Passando alla valutazione del processo di CIM (si veda in particolare il modello di Van Riel al punto 10), ci troviamo ad un livello maggiormente operativo, successivo all’analisi della CI di cui sopra. Gli strumenti utilizzabili in questo senso sono molteplici e riguardano in particolare l’ambito di marketing strategico e di ricerca: analisi quantitative o qualitative di marketing. Sono due modalità completamente diverse, come approccio e forma mentis ma anche come tipo di struttura. Le prime possono essere utilizzate soprattutto in casi di valutazione di attività precise (eventi, lanci, promozioni). Sono sviluppate secondo domande a risposta chiusa e somministrate ad un target definito per un numero superiore alle 100 persone. Le seconde lasciano ampio margine di sviluppo e permettono un’analisi maggiormente approfondita: possono consistere in interviste individuali o discussioni libere in focus groups e si basano su un campione più ristretto per un massimo di 80-100 persone. Malgrado la letteratura tenga a sottolineare in modo marcato la differenza fra le due, spesso Per comprendere meglio le modalità di attuazione dei diversi metri qui brevemente descritti, si rimanda a VAN RIEL C. B. M. , op. cit. pp. 47- 72 2 VAN RIEL C. B. M. , op. cit. p. 72 1 96 per ottenere risultati più efficaci e vicini alla soluzione del problema entrambe le modalità possono essere utilizzate: solitamente viene fatta una prima scrematura attraverso l’analisi qualitativa per passare poi alla quantitativa. Ovviamente tutto dipende dal tipo d’intervento, dal target e dall’obiettivo dell’analisi. I due livelli di misurazione individuati (della CI e del CIM) risultano essenziali per conferire valore al lavoro svolto nell’officina comunicativa, malgrado come si è detto, risulti ancora difficile quantificare certi valori intangibili quali identità, immagine, cultura… Ciò nonostante la loro rilevanza sui mercati è ormai più che assodata. Basti l’esempio della reputazione italiana nel mercato dell’attuale crisi economica a darci un’idea. Ci auguriamo che nei prossimi anni ulteriori ricerche portino a dei modelli condivisi di misurazione e a definizioni unanimi dei vari paradigmi incontrati fino ad ora (corporate identity, image, reputation). Per il momento è nostro interesse dare al lettore gli strumenti adatti per affacciarsi sul mondo della comunicazione narrativa, un mondo in continua evoluzione su tutti i fronti, che ha recentemente suscitato non pochi dibattiti di carattere etico- morale andando a volte a ledere i confini della deontologia professionale dei “comunicatori”. Vedremo nel prossimo capitolo come è nato lo storytelling, quali sono le recenti ricerche nell’ambito e le sue specificità. Vaglieremo in sostanza il potere della parola in contesto sociale ed organizzativo, facendone un attore presente e vivo nella realtà aziendale ed associativa. 97 98 3. IL CORPORATE STORYTELLING “Nel processo che ci trasforma in uomini compiuti, siamo tutti Eroi che affrontiamo guardiani interiori, mostri e aiutanti. Se provassimo a esplorare la nostra mente, scopriremmo insegnanti, guide, demoni, dei, compagni, servitori, capri espiatori, maestri, seduttori, traditori e alleati, tutti aspetti della nostra personalità e personaggi dei nostri sogni. Tutti i cattivi, i Trickster, gli amanti, gli amici e gli avversari dell’Eroe possono essere trovati in noi stessi”. (Christopher Vogler) 3.1 Comunicazione narrativa e narratologia: i fondamenti I l mistero racchiuso in ogni “parola” è ancora oggi uno dei temi più dibattuti di tutta la storia dell’umanità. La sua capacità di incantare, trasformare, persuadere, terrorizzare la rende uno strumento molto potente, malleabile ma difficilmente controllabile. Un tema certo non nuovo, le cui origini possono essere rintracciate già a partire dalla cultura greco-romana, culla della retorica e della poetica, patria di grandi filosofi e dei primi grandi poemi, da Omero a Virgilio. Lo studio delle strutture e dei generi narrativi nasce da qui, per poi essere ripreso intorno agli anni 60-70 del 900 ed esplodere nel nostro secolo dove la riflessione si è andata spostandosi in nuove aree di pensiero: dal folclore all’antropologia, dalla comunicazione, alla psicologia, al marketing. Ci si potrebbe chiedere per quale motivo sia emerso questo rinnovato interesse nei confronti del racconto e come si sia sviluppato il pensiero nel corso degli anni a tal proposito. I perché possono essere molteplici ma derivano soprattutto da quanto abbiamo detto all’inizio: da sempre la parola risulta essere uno strumento che contraddistingue l’uomo, e che lo identifica come tale rispetto al mondo animale, pertanto avere una padronanza dello strumento non solo è importante oggi ma è un elemento strategico capace di creare a vari livelli (aziendale, individuale, politico, sociale) un vero e proprio vantaggio competitivo. Questo è ancora più vero se pensiamo alla situazione attuale caratterizzata da un overload 99 informativo, un’overdose cognitiva che ha invaso tutti i campi, grazie soprattutto all’evoluzione della tecnologia, madre dei social network, dei blog e delle recenti applicazioni fruibili con semplici apparecchi mobili. Simultaneamente è andata in crescendo la domanda sociale di informazione: per restare sempre aggiornati ed aumentare la propria competitività rispetto agli altri, alla concorrenza, bisogna essere sempre vigili e vagliare i diversi canali di comunicazione. E’ quello che accade anche nell’ambito organizzativo, invaso da fiumi di parole che si intrecciano, andando a creare una rete complessa di interconnessioni. Il flusso informativo, quindi, domina la nostra società che risulta sempre più “schizofrenica”. Pertanto il recupero delle nostre origini attraverso studi sull’uso della parola (retorica), e sulla struttura della narrazione (linguistica, antropologia, psicologia, semiotica, marketing e management…) sono una diretta conseguenza di tale matassa di contenuti che ingloba la società. Rappresentano la necessità di emergere, di farsi riconoscere creando un messaggio unico, capace distinguersi all’interno di una massa indistinta di notizie. Le motivazioni specifiche per ogni singolo ambito di studi possono variare, ma da un punto di vista generale possiamo affermare che questo imperativo di riconoscibilità accomuna gran parte delle casistiche e può essere sintetizzato con una semplice parola: identità. Identità personale, ma anche identità sociale o per quanto riguarda il nostro lavoro, identità aziendale. Ma ritorniamo per un attimo alle origini e al concetto di “parola” per entrare nelle dinamiche che la rendono così peculiare alla natura umana. Secondo Aristotele, l’uomo è un “animale sociale e razionale” (Το̟οί - Topici): con ciò intende rimarcare la sua fondamentale predisposizione alla relazione e all’uso della logica. Tale concetto di relazione viene poi spiegato nella “Politica”, dove Aristotele parla di uomo come di “animale avente il logos” (secondo l’originale “λογον δε µονον ανθρω̟ος εχει των ζωων” ), ovvero la parola1. Tale parola è ciò che distingue l’uomo dall’animale, il quale si definisce homo narrans. Ci spiega Calabrese che “…mentre gli animali vivono in una cultura “episodica”, legata al qui e ora dell’evento, e possono avvalersi solo di schemi d’azione innati, la capacità di prevedere il futuro in termini di storie o destini appartiene sino in fondo all’uomo, homo narrans proprio in quanto la narratività costituisce uno strumento cognitivo in grado di fornire modelli di comprensione Uno studio accurato del significato di uomo come “animale razionale”si trova nel sito di antropologia filosofica del prof. Pagani: http://www.filosofico.net/antr0opol0oologimethis.htm 1 100 concettuale delle situazioni e di cooperare alla configurazione spazio-temporale dell’agire quotidiano”1. Il racconto è di conseguenza un format insito nel vivere dell’uomo, in quanto la struttura narrativa ne articola il pensiero. Parleremo perciò, in questo capitolo, di comunicazione narrativa ed in particolare di narratologia, branche del sapere dalle quali si è sviluppato il concetto di storytelling. La narratologia, termine coniato dal filosofo Tzvetan Todorov per indicare lo studio delle strutture narrative, è una materia che come abbiamo visto rimonta ad epoche lontane ma si è affermata con questo nome solo intorno agli anni 60 del 900. Secondo molti è una disciplina in divenire, che beneficia degli apporti di diverse aree del sapere, un campo non omogeneo, con interessi specifici spesso disparati. Il nostro compito è di indagare queste teorie e di mettervi un po’ di ordine, come dice Marchese: “…questa è la nostra scommessa – esiste un discorso coerente all’interno di codesto suggestivo mondo epistemologico, che insegue col proprio metalinguaggio il fantasmagorico universo della fictio narrativa, forse nella speranza utopica di possederne l’intima natura”2. Ciò che andiamo cercando è il senso primo della narrazione, vogliamo esplorare fino in fondo “l’officina del racconto”, per capire come utilizzare meglio “la parola”, come rendere la nostra storia efficace, come sedurre e nello stesso tempo informare… In sostanza, capire da dove nasce la pratica dello storytelling e successivamente come possa essere utilizzata in ambito organizzativo. Prima di passare brevemente al vaglio i principali autori e le teorie, vorrei soffermarmi sulla struttura generale della narrazione a prescindere dal mezzo utilizzato (radio, tv, internet, quotidiani…) e dal formato (mito, film, fiaba, spot pubblicitario). Innanzitutto è bene chiarire sin da subito cosa intendiamo con i termini storia, racconto o discorso e narrazione. Secondo le definizioni derivanti da studi sul linguaggio e di critica letteraria, possiamo dire che: - Storia = è l’insieme degli eventi descritti secondo una successione logica e cronologica, è il contenuto di un certo racconto - Racconto = è la forma del discorso con cui una certa storia viene raccontata - Narrazione = è l’azione di enunciazione, l’atto attraverso cui una storia è veicolata3 Come il lettore avrà certo notato, tali termini sono stati utilizzati più volte nel testo come sinonimi. Per comodità, continueremo a farlo durante il corso dell’intero lavoro, al fine di CALABRESE S., op. cit. p. 8 MARCHESE A., op. cit. p. 3 3 FONTANA A., Manuale di storytelling, op. cit. pp. 25-26 1 2 101 evitare inutili ripetizioni. Tuttavia la distinzione fra storia e racconto/discorso è molto importante e la ritroviamo nei maggiori scritti che si occupano di narratologia. La riproponiamo qui brevemente, nella forma maggiormente accettata dagli studiosi. Ogni atto narrativo, si compone di due elementi: una storia (histoire), il contenuto ovvero il concatenarsi di eventi in cui agiscono gli esistenti (personaggi, elementi dell’ambiente) e un discorso (discours), particolari procedimenti espressivi atti a comunicare il contenuto della storia (strutture di trasmissione, manifestazione nei media). In sintesi “la storia è ciò che viene rappresentato in una narrativa, il discorso è il come1”: la narrazione è sempre un cosa e un come. Tale distinzione era nota già ad Aristotele, il quale parla nei suoi scritti di mimesis, imitazione del reale (praxis), attraverso un argomento (logos), all’interno di cui vengono selezionate le unità che formano l’intreccio (mythos). Altre correnti di pensiero, tra cui i formalisti russi e gli strutturalisti francesi, l’hanno poi espressa secondo la divisione che noi oggi conosciamo e che lo schema di seguito, ha il merito di sintetizzare: Figura 3.1 Il testo narrativo: Storia e discorso2 Eventi STORIA Esistenti Testo narrativo -Azioni -Avvenimenti -Personaggi -Ambiente Strutture di trasmissione DISCORSO Manifestazio ne nei media La narrazione è pertanto un processo comunicativo caratterizzato dalle stesse dinamiche che abbiamo descritto in precedenza: coinvolge almeno due parti, un emittente ed un ricevente (autore e pubblico, oppure azienda e cliente), in forme e in modi diversi, ovvero utilizzando svariati canali. E’ importante aver bene in chiaro questo concetto: la narrazione è una modalità di comunicazione ed in quanto tale, risponde all’esigenza di conoscere, conoscersi e riconoscersi ( di nuovo un rimando al concetto di identità) all’interno di un gruppo, della 1 2 CHATMAN S., op. cit. p 15 FONTANA A., Manuale di storytelling, op. cit p. 7, Fig. 1.1; si veda anche CHATMAN S., op. cit. p. 15 102 società, o di un’organizzazione. La sua funzione è quindi soprattutto una funzione epistemica, che consiste nell’innescare processi di elaborazione e di interpretazione. In particolare la narrazione consente: - di conferire senso e significato all’esistere, - di ordinare il reale, - di orientare l’uomo nella quotidianità, - di catalogare e comprendere le esperienze. In sostanza essa genera una conoscenza funzionale, ed è pertanto uno strumento intrinseco all’essere umano in quanto gli consente di orientarsi nel mondo. Dopo questo breve excursus sui principi guida della narrazione, passiamo a fare un quadro specifico degli approcci teorici che si sono occupati di narratologia in particolare fra ‘800 e ‘900. Come dice Fontana si tratta di “tante correnti in un unico mare”1, ma ci saranno utili per orientarci nei “boschi narrativi”. Fra le correnti di pensiero che restano ancora oggi modelli di analisi per le strutture narrative, ricordiamo: - il formalismo russo con autori come Bakthin, Šklovskij, Todorov, Tomaševskij e Vladimir Propp - lo strutturalismo francese, grazie alle teorie di Barthes, Lévi-Strauss, Greimas, Bremond, Genette e Ricoeur - il neo-criticismo statunitense, rappresentato da Frye, Scholes, Chomsky, Chatman e MacIntyre - la storiografia e la semiotica italiana, di cui ricordiamo Segre, Avalle ed Eco - la sociologia e la psicologia cognitiva, con studiosi del calibro di Goffman, Lakoff, Minsky, Schank, Abelson - la psicologia narrativa, grazie ai lavori di Mair, Kelly, Bannister e Bruner - i lavori sulla cinematografia statunitense da Campbell a Vogler - l’ermeneutica tedesca che annovera fra gli altri, filosofi come Husserl e Gadamer2. Tutti questi autori hanno in qualche modo contribuito ad aprire nuove riflessioni in ambito narratologico, evidenziando come “ogni cultura umana ha strutture narrative profonde, quasi Ibid. p 18 Ibid. p. 18. Lo schema di Fontana è qui arricchito dalla lettura di ANGELO M., L’officina del racconto, pp. 5-68 e dall’opera di CALABRESE S., La comunicazione narrativa, pp. 5-13 1 2 103 “archetipiche”, che ricorrono nella costruzione della vita quotidiana”1. Tesi che ritroviamo a conclusione di molti lavori provenienti da ambiti diversi, tanto che l’antropologia sembra fondersi nella semiotica, la linguistica nella filosofia, la psicologia nella letteratura, quasi ad innalzare il principio narrativo come fondamento dell’intera essenza umana. Tratteremo in modo più approfondito solo alcuni di questi grandi studiosi, lasciando al lettore tutti gli elementi per potersi creare una visione autonoma e per percorrere una propria strada attraverso i testi. In particolare ci soffermeremo sul lavoro di Propp, Greimas, Chatman –Eco e sulle teorie della psicologia narrativa e cognitiva. Metteremo in evidenza infine, un modello di strutturazione del racconto attraverso l’opera magistrale di Vogler, modello che trovo molto utile per riflettere sulla pratica dello storytelling e che riprenderemo nei suoi capisaldi nel prossimo capitolo. Prima di iniziare il nostro viaggio, vorrei però lasciare la parola ad uno dei padri della semiotica francese, scrittore e critico letterario, uno dei primi a comprendere l’importanza delle storie all’interno della società: Roland Barthes. Nel suo libro “Introduzione all’analisi strutturale del racconto”, dà una definizione magistrale di narratività, che riportiamo qui per intero: “ The narratives of the world are numberless. Narrative is first and foremost a prodigious variety of genres, themselves distributed amongst different substances – as though any material were fit to receive man’s stories. Able to be carried by articulated language, spoken or written, fixed or moving images, gestures, and the ordered mixture of all these substances; narrative is present in myth, legend, fable, tale, novella, epic, history, tragedy, drama, comedy, mime, painting… stained glass windows, cinema, comics, news item, conversation. Moreover, under this almost infinite diversity of forms, narrative is present in every age, in every place, in every society; it begins with the very history of mankind and there nowhere is nor has been a people without narrative. All classes, all human groups, have their narratives … Caring nothing for the division between good and bad literature, narrative is international, transhistorical, transcultural: it is simply there, like life itself”2. Ibid. p. 18 Tratto da “The narrative turn in social studies”: http://www.sagepub.com/upm-data/9690_023494Ch1.pdf 1 2 104 3.2 La modernità della fiaba: le teorie della narratività 3.2.1 Propp e la scuola russa (1895-1970 ) Vladimir Propp è stato uno dei primi grandi studiosi ad occuparsi di forme narrative. La sua opera più importante, “Morfologia della fiaba” , è ancora oggi una pietra miliare nell’ambito della narratologia. In essa Propp si propone di studiare la struttura di cento fiabe di magia russe, dimostrando l’esistenza di costanti nella variabilità. Dietro o sotto la molteplicità dei racconti possiamo infatti trovare un modello paradigmatico unico, una sorta di schema compositivo costituito da 31 unità fondamentali. In sintesi una struttura narrativa, secondo Propp, si presenta come segue: la situazione iniziale è caratterizzata dal benessere (mondo ordinario), cui segue una sciagura o un fatto inspiegabile che stravolge gli eventi (infrazione di un divieto). Qui entra in scena l’antagonista che tenta in qualche modo di ingannare l’eroe o di farlo cadere in un tranello. L’eroe cadendo nella trappola (connivenza) mette in moto l’azione: il danneggiamento provocato dall’antagonista costringe il protagonista ad allontanarsi (partenza) per ristabilire la situazione iniziale. Nel suo “viaggio” verrà aiutato dal donatore dal quale riceve un “mezzo magico” che lo aiuterà ad affrontare alcune prove (lotta) contro il “male”. Con la rimozione della sciagura abbiamo il ritorno dell’eroe. Il racconto raggiunge l’acme ed è qui che l’eroe è sottoposto ad una persecuzione o inseguimento da cui si salverà, arrivando però a casa a dover combattere un nuovo nemico, il falso eroe. Segue quindi il compito difficile (prova finale) la cui risoluzione porterà alla sconfitta e allo smascheramento dell’antagonista/falso eroe, alla punizione ed infine alle nozze dell’eroe. Questa struttura ci è cara perché la ritroveremo spesso negli studi successivi (si veda l’approccio vogleriano), applicata anche a generi diversi rispetto a quello della fiaba e con qualche sfumatura di colore in più. Concludendo è possibile mettere in luce i due punti chiave dell’analisi proppiana: - in primis, i singoli eventi presenti nella narrazione sono definiti secondo la funzione che svolgono; - inoltre i personaggi sono caratterizzati a seconda del ruolo che svolgono nella storia, e possono quindi essere raggruppati in 7 sfere d’azione (antagonista, donatore, aiutante, principessa e re, mandate, eroe e falso eroe). 105 In sostanza si tratta di un lavoro di scomposizione funzionale del racconto nel tentativo di ricercare un modello logico totalizzante della narratività. Propp ha così lasciato una grossa eredità nell’ambito delle teorie narrative, ripresa anche da altri grandi scrittori come Claude Bremond. 3.2.2 Greimas e la scuola francese (1917-1922) Il merito più grande di Greimas è quello di aver cercato di fondare una semiotica della narratività partendo dai contributi di grandi predecessori come Propp e Lévi-Strauss ed estendendola ad ogni tipo di racconto. Egli infatti riprende le teorie dei formalisti integrandole con le scoperte di Lévi-Strauss, il quale aveva evidenziato l’esistenza di strutture profonde, atte a strutturare il discorso narrativo e soggiacenti alle funzioni individuate da Propp. Greimas sviluppa pertanto una struttura sintagmatica a partire dal presupposto secondo il quale un racconto si sviluppa sempre a partire da due storie contrapposte (v. coppie oppositorie di Lévi-Strauss), quella del soggetto e dell’antisoggetto (antagonista): confronto in cui si genera la trasmissione di oggetti di valore dall’uno all’altro. Nella complessità del racconto individua poi tre livelli di analisi: un livello delle istanze fondamentali che strutturano il senso (modello costituzionale), un livello intermedio in cui le istanze sono investite dall’antropomorfizzazione (modello attanziale) ed un livello di manifestazione dei significati testuali (modello linguistico-stilistico). Presi in considerazione tali livelli e il sistema di congiunzioni ed opposizioni, l’organizzazione della struttura elementare di un racconto può essere incorniciata all’interno di un quadrato semiotico, schema anteriore ad ogni investimento semantico: Figura 3.2 Il quadrato semiotico di Greimas Vita Morte Non-morte Non- vita 106 Vita e morte /non-morte, non-vita sono fra loro contrari, vita e non-vita /morte e non-morte sono contradditori e la relazione fra vita, non-morte /morte, non-vita è di implicazione. “L’aspetto sintattico del quadrato semiotico e con ciò della grammatica fondamentale, prelude alla narratività vera e propria. I racconti operano spostamenti e trasformazioni nell’universo cui fanno riferimento e questi spostamenti e trasformazioni seguono i percorsi tracciati dalle operazioni logiche sul quadrato”1. Greimas scava ancora più a fondo rispetto a Propp, andando ad individuare delle dinamiche che sottostanno alle funzioni analizzate dalla scuola russa. Si genera un meccanismo di conversione per cui si passa dall’astrazione del quadrato ad una narratività antropomorfizzata: quindi le possibili affermazione/negazione studiate da Lévi-Strauss operazioni sintattiche di e le relazioni logico-semantiche individuate da Greimas, si traducono in volizioni ed azioni. I valori astratti presenti nel quadrato vengono ora investiti in oggetti che possono trovarsi in congiunzione o disgiunzione con i soggetti. “La narratività è dunque la sequenza ordinata di situazioni e di azioni: è la versione “umanizzata” di quello che succedeva con il quadrato a livello profondo. (…) E’ bene sottolineare (…) che questa è una delle idee più importanti di Greimas: il senso può essere colto solo attraverso la sua narrativizzazione. Se si accetta l’ipotesi che qualsiasi discorso è organizzato in forma narrativa, la componente narrativa diventa un universale del piano del contenuto dei linguaggi; la narratività diventa il principio organizzatore di qualsiasi tipo di discorso, dai discorsi figurativi, (cioè narrativi in senso stretto), ai discorsi scientifici o filosofici”2. Si tratta di una sottolineatura fondamentale: grazie a Greimas e all’apporto di Lévi-Strauss si passa dalla morfologia della fiaba alla morfologia del discorso, che si manifesta secondo una struttura narrativa variamente articolata a seconda del grado di strutturazione. Parlare di una fiaba è diverso rispetto ad un film o ad una chiacchierata fra amici, ma in tutti questi casi, la trasmissione del senso avviene attraverso un format narrativo secondo Greimas. Gli strumenti della narratologia proppiana diventano così la base per costruire un livello semio-narrativo costituito dagli attanti narrativi : tipi narrativi astratti, diversi dai personaggi, identificabili come ruoli tematici o “entità figurative animate ma anonime e sociali”. SBISÁ M., La semiotica narrativa di A.J. Greimas. Concetti principali ed istruzioni per l’uso, materiali per il corso di semiotica, Scienze della formazione, Università di Trieste, disponibile al seguente link: http://www2.units.it/sbisama/it/didattica/semiodisp_2.PDF 2 Per un approfondimento di questo concetto e della semiotica greimassiana, si veda: http://traini.comunite.it/Greimas.pdf. In particolare la citazione è tratta dalla p. 13, al capitolo Strutture semio-narrative: il livello di superficie. 1 107 Viene a crearsi pertanto un preciso modello attanziale che si esemplifica come segue1: Figura 3.3 Il modello attanziale della struttura narrativa Destinatore Oggetto Destinatario Aiutante Soggetto Oppositore Tale modello si articola su tre coppie di attanti: soggetto-oggetto (investimento semantico del desiderio), destinatore - destinatario (asse del desiderio + asse della comunicazione), aiutante-oppositore (asse del potere). A partire da questo modello si possono scorgere due principali sintagmi narrativi: il contratto e la prova. Nel contratto il destinante trasmette un oggetto modale a un destinatario che grazie ad esso diventerà soggetto di un programma narrativo, mentre durante la prova, il soggetto si confronta con l’opponente per la realizzazione del programma narrativo. Vengono distinte poi nella narrazione quattro strutture modali (far fare, essere del fare, far essere, essere dell’essere), cui corrispondono 4 momenti della struttura di un racconto: manipolazione, competenza, performanza e sanzione. Essendo competenza e performanza parte dell’azione, lo schema narrativo di base è così composto: Manipolazione – Azione – Sanzione. A questo schema, definito anche percorso narrativo del soggetto può opporsi quello dell’antisoggetto, andando a creare una vera struttura oppositiva inglobata nell’intero sistema narrativo che comprende entrambi i percorsi. Potremmo dilungarci oltre sulle scoperte dello studioso strutturalista e dei suoi adepti, tuttavia ciò che ci preme sottolineare è il fatto che tale approccio permette di analizzare qualsiasi impianto narrativo, scavando nei singoli elementi semantici. Il merito di Greimas è infatti l’aver compreso l’importanza della narratività nella strutturazione di ogni singolo discorso al fine di veicolare il senso. Tale concetto, vedremo, verrà ripreso più avanti in particolare dagli studi di psicologia cognitiva, che dimostrano grazie alla teoria del frame, un’idea che già la semiotica di Greimas aveva espresso anni prima. 1 Immagine tratta da MARCHESE A., op. cit. p. 39 108 3.2.3 Chatman ed Eco: passeggiando fra “Storia e discorso” e “Lector in fabula” Maggiori esponenti della scuola di pensiero americana ed italiana, Chatman ed Umberto Eco sono conosciuti a livello internazionale per i loro studi in campo semiotico e nell’ambito della comunicazione narrativa. Abbiamo deciso di trattare insieme i due autori per una questione contenutistica: entrambi si occupano di indagare il ruolo di autore e lettore all’interno del testo. Se con Propp e Greimas ci siamo avvicinati alle profonde strutture della narratività, con Eco e Chatman vogliamo invece analizzare il racconto come comunicazione, ovvero comprendere come avviene la trasmissione di senso fra un soggetto ed un destinatario, fra autore e lettore, azienda e cliente/dipendente, e mettere a fuoco le varie dinamiche che entrano in gioco. Cominceremo con il contributo di Chatman, il quale riassume la comunicazione narrativa come segue1: Figura 3.4 Il modello della comunicazione narrativa di Chatman Autore reale Autore implicito Narratore Narratario Lettore implicito Lettore reale Questo schema mette in luce i ruoli fondamentali all’interno di una comunicazione narrativa: da un lato e dall’altro ritroviamo i concetti di autore e lettore reale, mentre al centro il riquadro riporta le figure insite all’interno del testo. L’autore implicito è “il principio che ha inventato il narratore insieme a tutto il resto della narrazione”2, è in sostanza il costruttore del testo. All’altro capo invece il lettore implicito è il lettore presupposto. Nel mezzo narratore e narratario: narratore è colui che parla nel testo ed è diverso dall’autore reale, mentre il narratario è “un espediente col quale l’autore implicito informa il lettore reale su come giocare la parte del lettore implicito…”3. Chatman riprenderà più volte lo schema all’interno del suo libro aggiungendo elementi o facendo precisazioni. Quello che ci preme ricordare qui è in particolar modo questo schema di interazione fra lettore e autore secondo i vari gradi, MARCHESE A., op. cit. p. 52 CHATMAN S., op. cit. p. 155 3 Ibid. p. 157 1 2 109 schema che verrà preso in esame anche da Eco nella sua ricerca di una teoria dell’interpretazione. Ci fermeremo quindi per ora con la scuola americana per partire invece grazie a Chatman, alla volta di Eco e dei suoi “boschi narrativi”. Perché parliamo di boschi? Riprendiamo con questo termine il titolo di uno dei libri più importanti del semiotico italiano: “Sei passeggiate nei boschi narrativi” (1994), le cosiddette Norton Lectures tenute presso l’università di Harvard e che riassumono in sei lezioni il pensiero echiano già esposto in alcuni celebri libri come “Lector in Fabula” e “Opera aperta”. Secondo Eco, il bosco è una metafora per il testo narrativo. Un bosco, dice Eco, “è… un giardino dai sentieri che si biforcano. Anche quando in un bosco ci sono sentieri tracciati, ciascuno può tracciare il proprio percorso decidendo di procedere a destra o a sinistra di un certo albero che si incontra. In un testo narrativo il lettore è costretto in ogni momento a compiere una scelta”1. Il filosofo di casa vuole metterci in guardia sulle potenzialità del lettore/destinatario. In qualche modo completa il quadro elaborato da Chatman e lo amplifica sottolineando la portata del modello: non parliamo soltanto di opere letterarie ma di qualsiasi enunciato che si basi sulla narrazione per trasmettere significato. Ciò vuol dire che questo ragionamento può essere tranquillamente applicato a molte forme: il cinema, la pubblicità, la radio. Il motivo è semplice: nella comunicazione narrativa viene ad instaurarsi una sorta di dialogo fra soggetto e destinatario, che si inserisce a livello del testo. “Mentre il parlante si accinge a terminare la frase noi, sia pure inconsciamente facciamo una scommessa, anticipiamo la sua scelta, o ci chiediamo angosciati quale scelta farà”2. Ovviamente le dinamiche sono variabili nelle diverse forme prese in considerazione: se in un discorso orale, il dialogo si costruisce attraverso uno scambio che sottintende un feedback diretto, in un testo letterario o in un testo per il cinema questo avviene in modo indiretto attraverso la relazione fra autore e lettore modello. Questi concetti introdotti da Eco si rifanno per certi versi all’autore e lettore implicito di Chatman: mentre il lettore modello è il lettore-tipo che il testo prevede come collaboratore e che cerca di creare, l’autore modello è l’autore-tipo, l’autore che si viene a creare nella mente del lettore empirico. E’importante andare a fondo della questione in quanto parliamo delle modalità attraverso cui il messaggio veicolato sotto forma narrativa, raggiunge il destinatario e viene da questi interpretato. Tale presupposto risulta fondamentale per un’organizzazione che decida di affidarsi alla comunicazione narrativa. 1 2 ECO U., op. cit. p. 7, Seconda lezione Ibid. 110 Il processo interpretativo del testo, non a caso, è al centro dell’opera di Eco e di molti suoi lavori. Egli giunge nelle sue analisi a dei risultati importanti che sintetizziamo qui di seguito: - il testo è una macchina pigra che richiede lo sforzo dell’interprete per produrre senso (ricordiamo che interpretare significa secondo Eco e la semiotica tradizionale, tradurre un segno in un’altra espressione) - per comprendere il concetto di testo è necessario prendere in considerazione il codice di partenza (si veda a questo proposito il lavoro di Roman Jakobson) e l’Enciclopedia, ovvero l’insieme registrato di tutte le interpretazioni, concepibile oggettivamente come libreria delle librerie. Quest’ultima rispetto all’interpretazione è un’ipotesi regolativa nella lettura del testo, derivante dalla libreria virtuale di ciascuno, e variabile a seconda della cultura, dell’educazione, delle letture precedenti…1 - il testo lascia al lettore l’iniziativa interpretativa, ovvero viene emesso affinché qualcuno lo attualizzi e ne porti alla luce il senso è a questo livello che si inseriscono le figure di autore modello, lettore modello e lo schema di Chatman. Partendo da tali idee, infatti, Eco descrive il processo di interpretazione come segue: “il lettore empirico siamo noi, io, voi, chiunque altro, quando leggiamo un testo. Il lettore empirico può leggere in molti modi, e non c’è nessuna legge che gli imponga come leggere, perché sovente usa il testo come un contenitore per le proprie passioni, che possono provenire dall’esterno del testo, o che il testo gli può eccitare in maniera casuale”2. Il lettore modello invece si manifesta a livello interpretativo come colui che sta al gioco dell’autore, in quanto sigla con lui un patto lasciandosi trasportare attraverso il testo3. E’, concretamente parlando, il risultato delle decisioni dell’autore, il quale prevedendo un lettore modello, sceglierà la lingua, un tipo di enciclopedia, un patrimonio lessicale e linguistico....e produrrà un testo con determinate caratteristiche dando per presupposto che il proprio potenziale lettore corrisponderà alle sua attese strategiche4. Pertanto, sintetizzando possiamo dire che: - autore e lettore modello/implicito sono intesi come strategie testuali; Per una sintesi del pensiero narratologico di Eco e della sua semiotica si veda il seguente testo: http://www.comunicazionidimassa.net/Semiotica/Il-modello-interpretativo-Semiotica.html 2 ECO U., op. cit. p. 10 3 Ibid. p. 12 4 Cit. dall’articolo: http://www.comunicazionidimassa.net/Semiotica/Il-modello-interpretativoSemiotica.html 1 111 - l’autore empirico/reale (soggetto all’enunciazione testuale), formula un’ipotesi di lettore modello ed attua le sue strategie; - il lettore empirico/reale (soggetto degli atti di cooperazione), disegna un’ipotesi di autore modello deducendola dai dati di strategia testuale. All’interno di una comunicazione narrativa, emittente e destinatario reali, lavorano in funzione delle strategie testuali, mettendo in atto una cooperazione testuale su più livelli. In tale cooperazione, il lettore deve fare uso delle conoscenze presenti nella sua Enciclopedia ed attuare delle sceneggiature comuni o intertestuali, ciò che Eco chiama passeggiate inferenziali- passeggiate compiute al di fuori del bosco narrativo, solitamente incoraggiate dall’autore stesso grazie a tecniche di indugio (suspense, rallentamento…). Ciò è tanto più vero, in quanto nella lettura di un testo, bisogna far sempre riferimento ad un mondo retrostante possibile a cui il testo rimanda, per la sua ricostruzione di senso. Facciamo quindi un passo indietro e da “Sei passeggiate nei boschi narrativi”, ritorniamo a “Opera aperta”, di alcuni anni precedente. Cosa vuole dirci Eco attraverso la sua riflessione sulla narrazione e l’interpretazione? Semplicemente vuole farci riflettere sulla relazione fra testo e fruitore e sulle possibilità interpretative che lo coinvolgono. Per questo parla di opera aperta, ove per apertura, Eco intende “la predisposizione programmata di una cooperazione particolarmente libera, nel tentativo (tuttavia) di dirigere l'iniziativa dell'interprete secondo certe possibili tendenze di interpretazione che l'opera non impone ma in qualche modo predispone, rendendole più probabili”1. Nell’interpretazione di un testo, il lettore ha un certo livello di libertà che si manifesta grazie all’apertura a passeggiate fuori dal testo stesso. Tale libertà può essere limitata dalla strategia testuale inserita dall’autore all’interno del testo. Avremo quindi a seconda dei vincoli opere più o meno aperte, o meglio testi aperti e testi chiusi. Il discorso è sicuramente molto complesso, soprattutto in riferimento a vere e proprie opere d’arte. Nel nostro caso, occupandoci di comunicazione narrativa abbassiamo un po’ il tiro prendendo in considerazione l’attore organizzazione. Il discorso anche in questo caso non perde di valore, anzi, al contrario ci aiuta ad ampliare i nostri orizzonti. Ci è molto utile infatti capire l’importanza del lettore e la sua costante libertà nell’interpretare il testo sia esso un’opera letteraria, un articolo o uno spot pubblicitario. Tratto dal sito « La semiotica echiana: influenza e manifestazione”, http://users.telenet.be/henk.verdru/il_rasoio_di_Eco/node5.html 1 112 Da questo punto di vista il lavoro dell’autore e molto simile al lavoro iniziale del comunicatore nell’identificazione dei suoi stakeholder. Come l’autore deve aver bene in testa il suo lettore modello, allo stesso modo l’organizzazione per comunicare deve rintracciare la propria audience. Tale specularità è ancora più forte nel caso in cui l’azienda metta in atto una comunicazione di tipo narrativo: decida di raccontare e raccontarsi. Questa è per noi ed il nostro lavoro la più grande eredità echiana. La riflessione di Eco, certo, non si ferma qui, avremmo pagine e pagine da riempire se volessimo approfondire il suo pensiero: voglia quindi essere questo breve paragrafo un invito al lettore ad approfondire gli studi di un grande semiotico italiano. Prima di terminare però vogliamo omaggiare nuovamente Eco, per un’altra grande intuizione che ci permette di entrare nel filone degli studi di psicologia narrativa e cognitiva. Siamo sempre nelle sue Norton Lectures, nel capitolo intitolato “Protocolli fittizi”: qui Eco introduce il concetto di frames e di conoscenza della realtà attraverso schemi narrativi. In sintesi: “…noi comprendiamo una frase perché siamo abituati a pensare una storia elementare a cui l’asserto si riferisce, anche quando si sta parlando di individui o generi naturali”1. Parla di frames, riferendosi alle recenti scoperte in campo di intelligenza artificiale, “…come schemi di azione (entrare in un ristorante, andare alla stazione per prendere un treno, aprire un ombrello)”2. E continua: “ …uno psicologo come Jerome Bruner assume che anche il nostro modo normale di render conto dell’esperienza quotidiana prende la forma di una storia, e lo stesso accade con la Storia come historia rerum gestarum. (…) I nostri racconti percettivi funzionano perché diamo fiducia a un racconto precedente. Non percepiremmo pienamente un albero se non sapessimo (perché altri ce l’hanno raccontato) che esso è il frutto di una lenta crescita, e non è spuntato dalla mattina alla sera: anche questa certezza fa parte del nostro “capire” che quell’albero è un albero, e non un fiore”3. 3.2.4 La psicologia cognitiva e narrativa: il pensiero di Bruner Introdotto il tema attraverso le parole di Eco, ci dedicheremo in questo paragrafo a mettere in evidenza lo sviluppo delle teorie psicologiche e le relative conseguenze ed evoluzioni, soffermandoci soprattutto sul pensiero di Jerome Bruner. ECO UMBERTO; op cit. p. 160 Ibid. p. 161 3 Ibid. p. 161-162 1 2 113 Ma iniziamo dal principio e cioè dal concetto di schema. Nato a partire dalle teorie gestalstiste intorno agli anni venti, il primo a parlare di schema (pl. schemata) è Bartlett (1932) . Egli si era occupato di studiare i processi di trasformazione subiti dalla memoria di storie giungendo alla conclusione che il ricordo è una “costruzione immaginativa” costituita dalla struttura delle nostre reazioni ed atteggiamenti affettivi nei confronti dell’evento ricordato. In sostanza la teoria dello schema “si basa sulla convinzione che ogni nostra esperienza viene compresa sulla base di un confronto con un modello stereotipico, derivato da esperienze simili registrate nella memoria: ogni nuova esperienza verrebbe dunque valutata sulla base della sua conformità o difformità rispetto a uno schema pregresso”1. Successivamente Schank e Abelson (1977) riprendono il concetto parlando di script: copioni di azioni predeterminate e stereotipate. Gli script racchiudono in memoria le trame stereotipate delle più comuni situazioni sociali e personali permettendo all’uomo di trarne delle inferenze e quindi di modellare il proprio comportamento. Un esempio molto semplice è lo script “lezione universitaria”, da cui possiamo facilmente ricavare il ruolo del docente, di studenti e certi atteggiamenti o azioni peculiari a questo script, come il prendere appuntamento per il ricevimento o il consegnare il libretto per farsi registrare il voto. Altro concetto analogo ai precedenti ci viene dagli studi sull’Intelligenza Artificiale di Marvin Minsky (1975), è il concetto di frame, poi ripreso anche da Goffman. Assimilabile ai precedenti è usato soprattutto nel senso proprio del termine, come “cornice” interpretativa applicabile ad ogni tipo di relazione. Un caso esemplare di frame è quello contemplato dall’azione di andare a mangiare al ristorante, esemplificato nella figura sottostante2, ma ve ne potrebbero essere infinite. CALABRESE STEFANO, op. cit. p. 5 Per ulteriori approfondimenti sul tema della psicologia narrativa ed in particolare sui concetti di schema, frame e script si veda: “Lezioni di psicologia cognitiva” di Maurizio Cardaci al seguente link http://sissis.unipa.it/sito/cardaci/psicologia%20cognitivaxsissis.DOC 1 2 114 Lo schema o frame si riferisce solitamente ad oggetti statici o relazioni e riguarda in modo particolare le attese relative al modo in cui le aree esperienziali sono strutturate in una certa situazione. Tale sistema di attese non è presente in ciascuno in modo precostituito, ma viene a formarsi gradualmente attraverso l’esperienza. Ognuno di noi si crea quindi un data-base esperienziale destinato ad aumentare di continuo e tale da permetterci di leggere qualsiasi situazione, classificandola ed immagazzinandola nella nostra memoria. Non ci soffermeremo oltre sui concetti di schema e script e sulle loro differenze, basti avere ben chiaro il fatto che essi rappresentano la nostra chiave di lettura del mondo, ci insegnano le regole dell’agire orientato allo scopo e diventano atti delle nostre personali life stories. Creano vere e proprie micro-narrazioni, ciascuna delle quali “si organizza intorno al desiderio da parte di un attore di promuovere e perseguire un obiettivo malgrado gli ostacoli che vi si frappongono e in virtù delle pianificazioni elaborate per rimuovere tali ostacoli. A partire dai tre anni ogni bambino inizia a elaborare uno stile di storytelling secondo questo schema, e ciò gli consente di classificare la rappresentazione mentale della situazione in cui si trova, colmando le lacune di informazione attraverso la memoria semantica(che registra gli schemata), e poi leggere gli eventi che accadono grazie alla memoria episodica o sequenziale (che registra gli script)”1. Ciò deriva dal fatto che, come ci spiega Calabrese, e come abbiamo già anticipato nelle prime righe del capitolo, l’uomo è un animale che comunica, e lo fa attraverso delle storie. La narratività costituisce in questo senso uno strumento cognitivo in grado di fornire modelli di comprensione concettuale delle singole situazioni e di cooperare nell’interpretazione e nella configurazione dell’agire quotidiano. Parliamo quindi di homo narrans e lo facciamo appoggiandoci ad uno de massimi esponenti di narratologia in ambito psicologico e di ricerca: Jerome Bruner. Egli ha il merito di aver rivalutato il pensiero narrativo in alternativa al pensiero scientifico. Proprio da questo assunto vorremmo partire, per sottolineare che non ci occupiamo “solo di cose che sono tutte storie”2, ma ci occupiamo di strutture complesse del linguaggio che sono alla base della nostra forma mentis e della nostra capacità di comunicare con l’altro. Bruner ha mostrato nelle sue analisi come alla logica scientifica si possa accostare il pensiero narrativo. Vediamone brevemente le caratteristiche aiutandoci con questo schema riassuntivo3: CALABRESE STEFANO, op. cit. pp. 7-8 CORTESE C. G., op. cit. sottotitolo all’opera “Perché occuparsi di cose che effettivamente sono” tutte storie”” 3 CORTESE C. G., op. cit. schema p. 20, tabella 1.1 1 2 115 Figura 3.5 Differenze fra pensiero scientifico e pensiero narrativo Pensiero scientifico Pensiero narrativo Ragionamento logico-matematico Ragionamento quotidiano Verticale Orizzontale Libero dal contesto Sensibile al contesto Nomotetico Idiografico Validato attraverso la falsificazione Validato in termini di coerenza Costruisce leggi Costruisce storie Estensionale Intensionale Come possiamo vedere, se il pensiero scientifico si misura attraverso grandezze secondo una struttura gerarchica e principi di induzione e deduzione (sistema descrittivo ed esplicativo formale e matematico), il pensiero narrativo si basa su una complessa rete di storie o connessioni, combinazioni articolate attorno all’idea di intenzionalità e di azione in sequenze temporali (sistema rappresentazionale). A questo proposito infatti, Bruner sottolinea che: “…mentre il prodotto del pensiero scientifico consiste in una legge, cioè in un principio generale, contestuale, astratto e verificabile, quello del pensiero narrativo è una storia “locale”, legata al contesto, concreta, in cui “il punto di vista soggettivo”è elemento fondante. ”1. Egli difende l’importanza del pensiero narrativo in quanto elemento del nostro modo di comunicare e pertanto forma di comprensione della realtà parallela a quella logica. Il suo potere, consiste “nella possibilità di configurare una serie di eventi in una vicenda unitaria, di far confluire in una medesima trama esperienze apparentemente frammentate”2. Esso rappresenta il modo attraverso cui l’uomo costruisce ed organizza il dominio dell’interazione umana: è il primo strumento interpretativo e conoscitivo. E’grazie a questi studi e ad alcuni grandi pensatori precedenti che si afferma la psicologia culturale, secondo la quale attraverso il linguaggio e specificatamente attraverso le storie, l’uomo non solo co-nosce (nel senso di gnosis, conoscenza fattuale) il mondo, ma letteralmente co-nasce al mondo: si inserisce in un contesto ricco di significati e si apre alla condivisione. “Le storie”, dice Bruner, “sono la moneta 1 2 CORTESE C. G., op. cit. p. 21 Ibid. 116 corrente di una cultura”1. Tale assunto verrà poi ripreso da altri grandi del pensiero postmoderno come Jacques Derrida, François Loytard o Jacques Lacan che hanno portato alle estreme conseguenze questi presupposti: la conoscenza non è data semplicemente dalla logica, ma dalle curve e dai movimenti del linguaggio. Mair, sintetizza bene il punto di svolta a cui si è giunti: “ Le storie sono abitazioni, noi viviamo dentro ed attraverso le storie. Esse escogitano mondi. Noi non conosciamo il mondo altro che come mondo di storie. Le storie danno forma alla vita, esse ci tengono uniti e ci tengono separati. Noi abitiamo le grandi storie della nostra cultura”2. Prima di terminare il nostro excursus su narrazione e psicologia,vorrei mettere in evidenza il lavoro di Bruner relativo alle principali caratteristiche del racconto. Esse sono3: 1. Diacronicità narrativa = il racconto è un’esposizione di eventi che ricorrono nel tempo ed ha per sua natura una durata 2. Particolarità = i racconti si basano su riferimento di avvenimenti particolari, incastonati in schemi generali d’azione, di cui abbiamo parlato prima 3. Necessario riferimento a stati intenzionali = i racconti si basano sempre su dei personaggi i quali operano avendo precisi stati intenzionali (valori, scopi, desideri…) 4. Componibilità ermeneutica = i protagonisti e gli eventi costituiscono gli ingredienti di una storia potenziale ed in quanto tali vengono utilizzati, secondo quanto ci dice Propp, come funzioni all’interno del testo. Nota che vi è sempre una forte interdipendenza fra la parte ed il tutto 5. Canonicità e violazione = in tutte le narrazioni vi è una fase di processualità “normale” (dimensione canonica della narrazione), all’interno di cui accadono eventi eccezionali (violazione) che creano squilibrio deviando il corso delle azioni. Per questo in un racconto abbiamo sempre la canonicità e l’eccezionalità 6. Referenzialità = nella narrativa il realismo va concepito come una convenzione letteraria e non come una questione di corretta referenza, infatti nel giudicare la verità narrativa ci si basa sulla verosimiglianza e non sulla verificabilità. Ciò rimanda ad Eco e alle sue Norton lectures: per affrontare un testo il lettore deve Per ulteriori approfondimenti sul pensiero narrativo si veda il documento on-line di Francesco Dammacco e Alberto Pattono, Autobiografia e pensiero narrativo, al sito: http://www.acfriends.it/files/038_autobiografia_e_pensiero_.pdf 2 Ibid. 3 BRUNER J., op. cit. pp. 4-12 1 117 accettare un patto con l’autore, ciò che Coleridge chiamava “sospensione dell’incredulità” 7. Appartenenza ad un genere = ogni narrazione può inserirsi in un genere che fornisce uno schema di situazioni determinato. Esso viene inteso secondo due dimensioni: la fabula (il contenuto, la logica delle azioni e la sintassi dei personaggi) e l’intreccio (il modo di raccontare) 8. Normatività = dato che la “raccontabilità” di un testo come forma di discorso poggia sulla violazione di un’aspettativa convenzionale, la narrativa è per forza in qualche modo normativa. Si veda a questo proposito la pentade drammatica di Burke, secondo cui, un racconto per essere ben formato deve comporsi di cinque elementi: attore, azione, scopo, scena, strumento. Finchè i loro rapporti sono in equilibrio, la narrazione procede senza rotture della normalità, alla perdita di equilibrio, segue un comportamento irrazionale dell’attore e quindi la violazione. 9. Sensibilità al contesto e negoziabilità = abbiamo già parlato di questo punto, affrontando l’opera di Eco. Bruner aggiunge a tal proposito che la dipendenza della produzione narrativa dal contesto permette la negoziazione culturale che rende possibile la coerenza e l’interdipendenza di cui può essere capace una cultura. 10. Accumulazione narrativa = l’accumulazione per la narrativa è un elemento di studio importante, verso il quale si stanno orientando numerosi addetti ai lavori. Se ne parla in termini di “storia” o “tradizione” e investono gran parte della nostra esistenza dai rapporti familiari a quelli con una comunità. Per esempio Bruner ci dice che persino i resoconti domestici in ultima analisi, confluiscono in autobiografie più o meno coerenti incentrate su di un Io che agisce in un mondo sociale secondo un dato scopo1. Alle caratteristiche individuate da Bruner se ne potrebbero aggiungere altre, si pensi soltanto alle celebri lezioni di Calvino o alle indicazioni Aristoteliche. Non si tratta naturalmente di prendere questi dati come norme, quanto di aiutarci con essi a riflettere sugli avanzamenti delle materie umanistiche di stampo psicologico in tema di narratività e sulle potenzialità del racconto. Arriveremo così ad una importante rivelazione che va a concludere questo paragrafo: il modo narrativo di conoscere ed esperire il mondo consiste nell’organizzare l’esperienza attraverso il collegamento di fatti ed eventi, creando una cornice di senso che 1 Si veda BRUNER JEROME, op. cit. pp. 22-37 118 presume l’intenzionalità umana. Ciò che è importante in una narrazione non è la verità o la falsità degli eventi narrati , ma la verosimiglianza, la loro sequenzialità e la loro coerenza1. Concluderei con le mirabili parole di Eco: “Nessuno vive nell’immediato presente : tutti colleghiamo cose ed eventi mediante il collante della memoria personale e collettiva. (…) Allora è facile capire perché la finzione narrativa ci affascina tanto. Ci offre la possibilità di esercitare senza limiti quella facoltà che noi usiamo sia per percepire il mondo sia per costruire il passato. (…) E noi adulti attraverso la finzione narrativa addestriamo la nostra capacità di dare ordine sia all’esperienza del presente sia a quella del passato”2. 3.2.5 Vogler e gli american studios: il viaggio dell’eroe Per quale motivo ci addentriamo nella jungla hollywoodiana, noi che ci stiamo occupando di impresa e di comunicazione? Può apparire un azzardo, ma non lo è. Dopo aver vagliato la struttura del racconto attraverso la linguistica, la semiotica e la filosofia, dopo aver individuato il procedere della mente umana secondo una serie successiva di narrazioni (pensiero narrativo), ci occupiamo ora di analizzare il racconto secondo una prospettiva nuova, quella del costruttore, ovvero di scrittori di narrativa e di cinema. Perché questo? Semplicemente per aiutarci a capire come si formano le storie: comprendere i punti di snodo principali, i ruoli dei personaggi, la struttura. Vogler nel suo libro, “Il viaggio dell’eroe”, ci propone una guida pratica per comprendere la narrazione, un piccolo saggio che ci aiuta ad individuare un modello forte e rappresentativo da tener presente ogni qual volta vorremo approcciarci al mondo narrativo con la consapevolezza di essere noi i padroni della creazione. Nel caso della narrazione in azienda questo punto mi sembra fondamentale: non è possibile usare il racconto per forgiare la nostra identità, né per scopi commerciali o di marketing, se non se ne conoscono i rudimenti. Il lavoro di Vogler si rifà sia agli studi di psicologia di Carl Jung sia ai lavori sulla mitologia di Joseph Campbell, e si basa su semplice analisi ed osservazione. Per approfondire la tematica del pensiero narrativo e della psicologia culturale si consigliano le seguenti letture: SMORTI ANDREA, Il pensiero narrativo: Costruzione di storie e sviluppo della conoscenza sociale, Giunti, 1994 ; GROPPO MARIO – VERONICA ORNAGHI et Al., La psicologia culturale di Bruner: aspetti teorici ed empirici, Raffaello Cortina, 1999 2 ECO U., op. cit. pp. 162-163 1 119 “[Il viaggio dell’eroe] è il riconoscimento di un modello eccellente, un insieme di principi che governano il modo di vivere e il mondo della narrazione così come la fisica e la chimica regolano il mondo fisico”1. Mi sembra rilevante rimarcare sin da subito la forte connotazione metaforica del termine viaggio, che acquista qui una triplice valenza: è il viaggio dell’eroe all’interno dei boschi narrativi, è il viaggio dello scrittore nel suo tentativo di scrivere un’opera compiuta, ed è il viaggio di una vita o meglio di tante vite. Ed è lo stesso autore a fornirci, per così dire, la chiave di lettura: “Sono andato cercando i principi della narrazione, ma sulla strada ho trovato qualcosa di più: una serie di principi per vivere. Ho iniziato a credere che il viaggio dell’Eroe sia niente meno che un manuale, un libretto d’istruzioni completo per la vita”2. Ho voluto sottolinearlo non soltanto per mostrare l’importanza del lavoro vogleriano, ma anche per rimarcare la relazione a quanto dicevamo prima con Bruner e la psicologia culturale. Ma entriamo nel merito della questione. Innanzitutto Vogler riprende l’analisi compiuta da Campbell nel libro, “L’eroe dai mille volti”, nel quale viene presentata la cassetta degli attrezzi per il mestiere di narrare: secondo Campbell i diversi miti dell’eroe sono la stessa storia, raccontata infinite volte con numerose varianti. Si tratta di “(…) modelli molto precisi dei meccanismi della mente umana, vere mappe della psiche psicologicamente valide ed emotivamente realistiche, anche quando rappresentano avvenimenti fantastici, impossibili o irreali”3. Tali storie hanno un carattere universale e rispondono alle domande esistenziali o meglio ontologiche tipiche dell’uomo: chi sono? Da dove vengo? Cosa sono il bene ed il male? Cosa ci faccio nel mondo? Cosa ne sarà del mio domani? C’è qualcun altro là fuori?... Già Campbell descrive il viaggio dell’eroe nel suo libro, che a grandi linee altro non è che la struttura, lo scheletro, il modello base di ogni racconto (miti antichi e moderni, fiabe, barzellette, autobiografie…). Noi prendiamo le “Chiavi”4 di Campbell per rileggerle alla luce del lavoro di Vogler. Parliamo quindi di viaggio dell’Eroe: viaggio, proprio perché la storia dell’Eroe è sempre un viaggio verso un mondo sconosciuto, fuori dall’ordinario, sia esso una foresta o un labirinto ma anche un viaggio nella mente o nel cuore del personaggio. VOGLER C., op. cit. p. 5 Ibid. 3 Ibid. p. 22 4 Chiavi non a caso è il nome del capitolo nel quale Campbell descrive il modello base del mito nel suo libro, L’eroe dai mille volti. 1 2 120 Tale viaggio presuppone sempre un cambiamento di cui l’Eroe è il protagonista e si sviluppa in dodici tappe e tre atti (si veda la “Poetica” di Aristotele). Descriveremo questo percorso facendo attenzione di marcare la divisione nei tre capitoli della storia: PRIMO ATTO (o la decisione dell’Eroe di agire) 1. Il mondo ordinario = all’inizio di ogni storia che si rispetti l’Eroe si trova dentro ad un mondo ordinario, normale e si appresta con la sua avventura ad entrare in un mondo straordinario. E’ la nota teoria del pesce fuor d’acqua1, che rimanda anche alla caratteristica individuata da Bruner, canonicità e violazione. 2. La chiamata all’avventura = qui l’Eroe si trova davanti ad una sfida, un ostacolo o un’avventura da intraprendere. Questa chiamata lo porta ad oltrepassare i confini dell’ordinario ed è un momento non privo di criticità. E’ la fase in cui si stabilisce la posta in gioco e si chiarisce l’obiettivo dell’eroe. Notare che spesso la posta in gioco viene espressa con una domanda: Dorothy in “Il mago di Oz”, riuscirà a tornare a casa? 3. Il rifiuto della chiamata = l’Eroe è riluttante ed esita sulla soglia della chiamata. Egli non nasconde la paura nell’affrontare la missione affidatagli e si mostra dubbioso. E’ il caso di Sebastian di fronte al compito che gli è dato compiere in “La storia infinita”. 4. Incontro con il mentore = in questo punto della storia viene in aiuto dell’Eroe un mentore o vecchio saggio, colui che lo aiuterà e lo accompagnerà lungo il suo viaggio, fornendogli consigli, dritte o strumenti magici. Tale rapporto è ricco di significati e rappresenta l’eterna relazione tra padre e figlio, insegnante e studente, dottore e paziente… Uno personaggi maggiormente rappresentativi in tal senso è il mago Merlino. 5. Il superamento della prima soglia = qui l’Eroe entra nel mondo straordinario ed è pronto ad affrontare tutte le conseguenze della sua scelta: insidie, ostacoli, lotte, combattimenti… La teoria del pesce fuor d’acqua non è altro che l’idea di riportare un caso eccezionale all’interno della quotidianità. Prima di mostrare un pesce fuori dal suo elemento è però necessario farlo vedere all’interno del suo mondo Ordinario. Questo espediente ha dato origine a numerosi film molto celebri: Il fuggitivo, Il mago di Oz, Una poltrona per due, La corte di re Artù… 1 121 SECONDO ATTO (o l’azione dell’Eroe) 6. Prove, alleati ed amici = oltrepassata la soglia, nel mondo straordinario l’Eroe si imbatte in prove nuove e sfide. Inizia a farsi alleati e nemici e comincia a conoscere le regole del nuovo mondo, ma si deve confrontare anche con delle prove per dimostrare il proprio valore e prepararsi al conflitto finale. E’ il caso delle prove che affronta Luke in Guerre Stellari. 7. L’avvicinamento alla caverna più profonda = l’Eroe arriva nel luogo più pericoloso dove si cela l’oggetto della sua ricerca e varca così la seconda soglia. Spesso è il luogo in cui si cela il nemico, una caverna o un antro oscuro e sotterraneo. E’ il caso della caverna in cui si nasconde Tarabas in “Fantaghirò” o il castello della Strega Nera. Prima di varcare la seconda soglia però, l’Eroe si sottopone ad una preparazione, studia le mosse e la strategia: è la fase dell’Avvicinamento. 8. La prova centrale = è lo scontro con il male oscuro o il nemico, l’Eroe si trova faccia a faccia con la sua Paura più grande, reale o immaginaria. Affronta la possibilità di fallire o addirittura di morire nella battaglia contro la forza ostile che si oppone a lui o si cela nella sua mente. E’ uno dei momenti più critici e di maggiore suspense/climax dell’intero racconto: se la storia è raccontata bene, il pubblico è arrivato ad un così elevato grado di identificazione con il protagonista che teme per lui come per la sua stessa vita. 9. La ricompensa = dopo essere sopravvissuto alla morte, avendo sconfitto il nemico, l’Eroe può festeggiare. Conquista finalmente l’oggetto che andava cercando, il tesoro perduto, la principessa o semplicemente maggiore consapevolezza per aver sconfitto le sue paure. Per esempio in La ricerca della felicità, il padre riesce ad ottenere il lavoro di broker tanto sognato. Possiamo ora notare il risultato del cambiamento avvenuto nel protagonista: un cambio esteriore, più spesso interiore o relativo al rapporto con gli altri. TERZO ATTO (o le conseguenze dell’azione) 10. La via del ritorno = l’Eroe ancora nel mondo straordinario si trova a decidere di ritornare a casa. In questo punto della storia possiamo trovare sia situazioni di 122 riappacificazioni (con i genitori, la persona amata, l’amico, gli dei…), oppure più di frequente scene di inseguimento da parte di forze avverse scatenatesi dopo la sua vittoria. 11. La resurrezione = è l’ultimo tentativo delle forze oscure di annientare il protagonista o di deviarlo dalle sue intenzioni. E’ l’ultimo sforzo, che corrisponde anche allo scontro con la morte, la paura più grande: la battaglia finale in cui qualcuno verrà sconfitto definitivamente. Altro grande climax del racconto. 12. Il ritorno con l’elisir = l’Eroe ritorna vittorioso dal viaggio, portando con sé un elisir, un tesoro o una lezione di vita che consegna al lettore/pubblico. “Qualche volta l’elisir è un tesoro conquistato dopo una lunga ricerca, ma può essere amore, libertà, saggezza o consapevolezza che il mondo straordinario esiste e si può sopravvivere ad esso. Altre volte significa soltanto tornare a casa con una bella storia da raccontare”1. Il viaggio dell’Eroe secondo Vogler, dovrebbe essere lo scheletro a cui aggiungere di volta in volta particolari o coup-de-théâtres a seconda del genere e del fine che la storia si pone: la struttura è flessibile e atta ad essere modellata e non ad attrarre su di sé l’attenzione. Ciò vuol dire che queste 12 fasi non devono essere seguite sempre in modo rigoroso, ma devono essere utilizzate come guida per addentrarsi nel bosco narrativo. Naturalmente arrivati a questo punto, il lettore penserà che si tratta di convenzioni banali, di una struttura che probabilmente ha già nella sua testa sin da quando era piccolo e che si adatta soltanto a fiabe per i bambini. E’ chiaro che non è così banale come sembra se la maggior parte dei capolavori dell’industria americana si basano su siffatte indicazioni, così come non è un caso che questa struttura possa trovarsi in testi così diversi fra loro da comprendere i miti dell’antichità sino ai moderni videogiochi. Questo perché ancora oggi, malgrado le apparenze, la perfezione va riscoperta nella semplicità delle forme. Lo schema di Vogler ci sarà quindi utile a titolo indicativo nel momento in cui si dovrà passare alla fase operativa del nostro lavoro. 1 VOGLER C., op. cit. p. 32 123 Prima di concludere però, vorrei finire di delineare l’analisi compiuta dallo story analist statunitense parlando della mappatura degli archetipi: i personaggi che popolano il territorio della narrazione. Anche in questo caso si tratta di cose non nuove per i più, ma estremamente importanti da ricordare nella costruzione di una storia. Il termine archetipi è stato utilizzato per la prima volta in relazione alle tipologie di personaggi da Karl Jung. Egli sosteneva che “esiste un inconscio collettivo, simile a quello individuale. Le fiabe e i miti equivalgono ai sogni di un’intera cultura e scaturiscono dall’inconscio collettivo”1. All’interno delle singole culture, gli archetipi mantengono una funzione costante così come nella mitologia del mondo intero. Pertanto il concetto di archetipo è importante per comprendere lo scopo o la funzione di un personaggio in una storia. Essi non sono ruoli stabili ma funzioni svolte temporaneamente dai personaggi per ottenere effetti determinati. E’ esattamente ciò che diceva Propp nel suo libro, Morfologia della fiaba. Gli archetipi non sono altro che maschere indossate dai personaggi, i quali nel corso della storia possono portarne più di una, o secondo altri, sarebbero le sfaccettature della personalità dell’eroe. Quel che interessa a noi ora è capire quali sono i principali e quali le funzioni corrispondenti, per poterli utilizzare in tutte le loro varianti in modo efficace. Anzitutto due sono le domande che dobbiamo porci nel voler sondare un archetipo: - quale funzione psicologica o parte della personalità rappresenta? - qual è la funzione drammaturgica assunta nel racconto? In generale gli archetipi più frequenti possono essere così riassunti: L’eroe = è colui che fa da protagonista della storia. Solitamente connesso al concetto di abnegazione, la sua funzione drammaturgica è quella di aprire un ponte di contatto con gli spettatori, i quali devono identificarsi con lui ed imparare, cammin facendo, a guardare attraverso i suoi occhi. Nella vita reale l’Eroe siamo noi. Il mentore = è la figura del vecchio saggio, ovvero l’aiutante dell’Eroe. La sua funzione drammaturgica è di insegnare, consegnare gli strumenti necessari al protagonista, dargli consigli e motivarlo. Vi sono diversi tipi di mentore: negativo, caduto, ricorrente, molteplice, comico, sciamano ed interiore. Nella realtà il mentore 1 VOGLER C., op. cit. p 34 124 può essere una persona che ci è particolarmente vicina: genitori, amici, insegnanti, il proprio capo o la propria collega. Il guardiano della soglia = rappresentano un ostacolo per l’Eroe. Sono coloro che sorvegliano le soglie per impedire l’accesso alle persone non meritevoli. Mostrano spesso un’espressione minacciosa, ma possono essere superati o trasformati in alleati. La loro funzione drammaturgica è quella di rappresentare una prova per l’Eroe: sono gli ostacoli piccoli o grandi che ciascuno di noi incontra nella propria vita. Il messaggero = è colui che recapita i messaggi di sfida o annuncia l’arrivo di un cambiamento. Il suo ruolo è di fornire la motivazione all’Eroe, offrire una sfida ed avviare il racconto. Può essere una forza o un oggetto; amico, nemico o neutrale e può entrare in campo in qualsiasi momento della storia. Lo shapeshifter = ha una natura mutevole ed incostante, tuttavia è molto potente ed è importante riconoscerlo nella storia come nella vita. La sua funzione è di instillare dubbi nell’Eroe e dare suspense alla storia. E’ una sorta di maschera che può essere ricoperta di volta in volta dagli altri ruoli e che si trova spesso nelle storie sotto la figura dell’oggetto dell’amore dell’Eroe, che cambia spesso forma ed opinione. L’ombra = è il lato oscuro, ovvero gli aspetti inespressi, irrealizzati o respinti, presenti nell’animo dell’Eroe o antropomorfizzati. Nella vita reale le ombre sono tutte quelle cose che non ci piacciono di noi, paure, difficoltà che troviamo sul nostro cammino. La sua funzione drammaturgica è quella nota dell’antagonista che si contrappone alla figura dell’Eroe o protagonista: crea conflitto, mettendo alla prova l’Eroe e le sue capacità. Il trickster = rappresenta la forza della malizia ed il desiderio di cambiamento. Il suo ruolo è di intermezzo comico (buffoni, spalle comiche…) e può essere alleato dell’Eroe, oppure schiavo dell’Ombra. Come spiega Vogler : “Gli archetipi costituiscono il linguaggio dei personaggi infinitamente flessibile”1. Saperli riconoscere ed utilizzare può aiutare tutti coloro che si confrontano alla narrazione per costruire personaggi a tutto tondo, ricchi di profondità e fedeli ai valori 1 Ibid. p. 66 125 umani e alla cultura di partenza. Le indicazioni che il libro di Vogler ci fornisce fanno sicuramente riflettere ma, concludendo, è lui stesso che sottolinea: “Ricordate: i bisogni della storia dettano la sua struttura [e naturalmente, se mi possono permettere, i mezzi attraverso cui comunicarla]. La forma segue la funzione. Le vostre convinzioni e le vostre priorità, insieme ai personaggi, ai temi, al tono, allo stato d’animo che cercate di comunicare, determineranno la forma e il disegno della trama. La struttura sarà influenzata anche dal pubblico, dal tempo e dal luogo in cui la storia viene narrata.”1 Insomma dice Vogler: “Caveat, scriptor!”, cioè attento scrittore, perché prima di tutto è indispensabile sapere cosa vuoi scrivere (contenuto), per quale motivo (obiettivo), e a chi ti rivolgi (pubblico o target). Spero con questo di aver di nuovo messo in evidenza come scrittura e comunicazione si avvicinino molto e come la progettazione di un libro si incontri e scontri con la pianificazione di una strategia di comunicazione nei suoi principi base. Tornando a noi, vorrei concludere sottolineando che il viaggio dell’Eroe altro non è che una metafora di ciò che succede in un racconto e nella vita, è la mappa da seguire che ci permette di non perdere mai la via lungo il cammino ed è ciò che serve a noi per costruire una grande storia aziendale. 3.2.6 Il nostro finale: una breve sintesi delle puntate precedenti Siamo giunti sin qui attraversando mille correnti: l’oceano della narrazione è stato rivisitato in questi paragrafi spaziando da una terra ad un’altra, da un sapere all’altro. Non vi è certo qui la presunzione di essere stati esaurienti, sia per la vastità del tema in questione, sia per gli innumerevoli studi che affrontano la narratologia e le sue applicazioni: psicologia, letteratura, semiotica, linguistica, scienze cognitive… La nostra analisi della struttura narrativa si è basata su uno specifico obiettivo che fa da sfondo all’intero lavoro: capire la narrazione, comprenderne le forme e il funzionamento al fine di applicarla alla comunicazione aziendale attraverso il corporate storytelling. Vorrei quindi riassumere di seguito le principali caratteristiche proprie del racconto, utili al nostro scopo, in modo tale da recuperare il filo conduttore ed accompagnare il lettore nel prossimo capitolo all’insegna della moderna pratica dello storytelling organizzativo. 1 Ibid. p. 173 126 Secondo quanto visto sino ad ora, la narrazione: è innanzitutto una metafora; ma è anche un medium, “perché è lo strumento di mediazione e riconoscimento tra soggetto ed oggetto della narrazione”1; è una modalità di comunicazione; è uno strumento d’interpretazione della realtà, in quanto conferisce senso strutturando i significati ed orientando l’uomo nel mondo (codifica del reale)2; permette di catalogare e comprendere le esperienze (conoscenza funzionale); coinvolge il pubblico, attivando una storylistening trance experience3 , ovvero una trance narrativa ( meccanismo di auto illusione che ci porta a credere, esperienza “del perdersi”, concetto che si rifà alla sesta caratteristica individuata da Bruner, la referenzialità); contiene sempre un messaggio. Per questo “i racconti non sono mai innocenti: hanno sempre un messaggio, il più delle volte così ben nascosto che nemmeno il narratore sa quello che sta perseguendo”4; è una forma strategica, coerente e ben strutturata (si veda il modello vogleriano); se il contenuto è memorabile, viene ricordata e tramandata; genera appartenenza; aiuta la comprensione di eventi complessi, permettendo di ordinare il reale; e coinvolgendo sprona all’azione. La narrazione è uno strumento di comunicazione molto serio e complesso: un excursus tecnico che appartiene da sempre all’umanità e che oggi, nel mondo del web 2.0, dell’intertestualità e della convergenza mediale, è sempre più attuale. FONTANA A., Storyselling, op. cit. p. 30 Possiamo parlare di funzione epistemica del racconto, ovvero di capacità di innescare processi di elaborazione ed interpretazione del reale 3 Ibid. pp. 3-10. In queste pagine l’autore descrive molto bene il concetto di sospensione dell’incredulità, spiegando come esso si sviluppi all’interno dell’arco d’esperienza della trance narrativa. Tale arco si suddivide in una serie di tappe che ci fanno perdere all’interno del bosco narrativo: contatto, familiarità, immersione, identificazione, emersione, distanzi azione, trasformazione. Il punto di culmine dell’arco, corrisponde all’identificazione, ovvero, secondo quanto detto da Vogler, al climax maggiore all’interno della storia. L’arco inoltre può essere anche utilizzato come punto di partenza per sviluppare un racconto che sappia coinvolgere il pubblico e permetta il verificarsi di un’esperienza unica. 4 Ibid. p. 14 1 2 127 Essa rappresenta, oggi più che mai “un sofisticato mezzo retorico di presidio e scambio del potere, un modo per gestire la percezione dei pubblici che all’interno delle società conoscitive sono sempre più sofisticati ma anche più assuefatti”1. Risulta allora chiaro che la narrazione non è soltanto una questione di letteratura: saperla utilizzare come mezzo di comunicazione efficace apre le porte a nuove possibilità di costruire significati e raggiungere fette di lettori, o di pubblico più ampie. Inoltre le storie sono vettori che ci permettono di creare senso e quindi di mettere insieme i pezzi del puzzle che costituisce la nostra identità, appoggiandosi alla memoria narrativa costituita da topoi e schemi narrativi (i frame di cui parlavamo). L’uomo vive di storie sin da piccolo ed ha un bisogno direi quasi naturale di inserirsi all’interno di format narrativi: è un dato che non dobbiamo sottovalutare, perché significa che la narrazione poiché è un qualcosa che ci cattura e di cui necessitiamo per capire ciò che ci circonda, è un modo per avvicinarci all’altro e per creare un ponte di contatto, uno spazio di condivisione. Se le narrazioni ci aiutano a riempire le pagine bianche della nostra biografia, è facile immaginare come ciò sia possibile anche per identità più ampie, costituite dalla moltitudine di storie, di vite, aggregate sotto il nome di una comunità, di un universo di senso particolare: l’azienda. E’ ciò che cercheremo di spiegare nelle pagine che seguono, andando ad analizzare gli autori che trattano di narrazione in ambito aziendale: dall’organizational storytelling al corporate digital storytelling; l’azienda si fa racconto. 3.3 Storytelling e impresa: studi italiani ed esteri 3.3.1 La rinascita dello storytelling: the narrative turn Veniamo finalmente a parlare del grande protagonista di questa tesi: lo storytelling. Il concetto di storytelling è nato, sotto questo nome, a partire dagli anni ’90 negli Stati Uniti, ma riguarda una tecnica molto antica che trae le sue origini dalla narratologia: si tratta dell’arte di raccontare delle storie. Esso recupera gli studi in materia di narrazione precedentemente analizzati mettendoli in valore in un contesto nuovo e dinamico: rispetto al passato, le condizioni sono mutate e quelle che venivano definite prima “fiabe per bambini”, cominciano a catturare l’attenzione di analisti e manager. In una società sempre più oppressa da un flusso di informazioni continuo e martellante, riemerge la necessità di ascoltare e di 1 Ibid. p. 22 128 farsi ascoltare. Questi anni, infatti, sono caratterizzati da un insolito fenomeno definito “the narrative turn”, ossia il dilagare dell’interesse nei confronti delle storie, da tempo ormai accantonate, la cui lettura avveniva nei momenti di svago e l’analisi era relegata agli studi umanistici. Salmon parla di “âge narratif”, età in cui tutti sembrano ritrovare l’interesse per la narrazione, in cui le marche hanno cominciato a parlare puntando sul loro lato emozionale, in cui la sfida più grande che devono affrontare le aziende è la maniera attraverso cui comunicano la loro realtà nel modo più efficace e credibile possibile, sia all’interno che verso l’esterno. L’interesse trova conforto negli studi degli autori di cui abbiamo parlato prima, da Barthes a Bruner: l’idea che l’uomo comunichi attraverso frame narrative è una scoperta senza precedenti. E’ così, ci dice Lynn Smith nel suo articolo “Not the same old story”, comparso sul Los Angeles Times nel 2001, che “il pensiero narrativo si è propagato ad altri campi : storici, giuristi, economisti e psicologi hanno riscoperto il potere che le storie hanno di costruire la realtà. E lo storytelling ha cominciato a rivaleggiare con il pensiero logico”1. Le scoperte più importanti riguardano l’ambito politico (la retorica del potere, a cui si riallacciano gli studi relativi ai discorsi dei grandi politici americani), l’ambito del marketing (storyselling e marketing narrativo), il settore pubblicitario, la formazione (nelle scuole e nelle aziende), la ricerca (es. ricerche qualitative in contesti aziendali), le scienze psicologiche (la psicoterapia), la progettazione di parchi a tema, i videogiochi (es. quello destinato all’addestramento dei militari impegnati in Irak) e non da ultime le imprese… In questa nuova veste, lo storytelling è una disciplina divenuta strumento indispensabile per essere ascoltati o per essere scelti: è un mezzo per sedurre e convincere, influenzare i pubblici di riferimento (lettori, elettori, clienti), espandere le conoscenze, condividere esperienze ed organizzare il flusso informativo. In breve, possiamo riassumere dicendo che la pratica dello storytelling nasce da un solido background di studi di stampo umanistico e si sviluppa grazie ad una forte esigenza sociale di fondo, in un ambiente in continua evoluzione in cui emergono nuovi media. Sarebbe interessante affrontare l’utilizzo di questo strumento all’interno dei vari campi del sapere nell’epoca moderna, ma non è questo certo il luogo più adatto. 1 SALMON C., op. cit. pp. 10-11 129 Entriamo invece più nel merito del nostro lavoro e cominciamo a penetrare nel cuore della narrazione in azienda: come si sviluppa, quali sono le sue funzioni, quali i principali autori di riferimento, detti anche guru delle storytelling. 3.3.2 Corporate storytelling: da Denning a Fontana…fra ricercatori e guru Nel parlare di Corporate storytelling ci faremo aiutare dagli studiosi di ultima generazione che si sono occupati in questi anni della narrazione in azienda. Iniziamo il nostro percorso, riprendendo quanto detto all’inizio: tutte le organizzazioni parlano. La loro necessità di comunicare si esemplifica nell’antica esigenza retorica di convincere l’altro a fare ciò che desideriamo o a sposare una nostra causa, esigenza insista nell’essere umano. Per un’azienda questa non è soltanto una dinamica intrinseca, è anche una necessità imperante. Ora, un’organizzazione può comunicare all’interno e all’esterno secondo varie modalità, ma una di queste è sicuramente l’utilizzo di storie. “E, esattamente come per gli individui, anche per le organizzazioni che si raccontano, e raccontano i loro prodotti e servizi, richiamano tracce emotive, traiettorie affettive, che suggestionano la memoria individuale e di gruppo. In questo senso la narrazione è pervasiva dell’esperienza organizzativa.”1 Le narrazioni popolano la nostra esperienza organizzativa e la nostra esperienza di consumo: basti pensare all’esempio già visto nel secondo capitolo a proposito del concetto di immagine. Nel nominare il nome di una marca o azienda, cogliamo subito il concetto tramite un’immagine che spesso altro non è che uno script, una scena di vita. Certo, non tutte le narrazioni sono storie. Esistono narrazioni frammentarie (osservazioni, aneddoti…) e narrazioni omnicomprensive (storie, saghe…), come possiamo vedere nell’immagine che segue2: Figura 3.6 Narrazioni frammentarie e omnicomprensive 1 2 INVOLTI S. – ANDREA F. et Al., op. cit. p. 58 Ibid. p. 59 130 Entrambe sono presenti in modo massiccio nei diversi atti narrativi aziendali. Si pensi alle battute scambiate davanti alla macchinetta del caffè o alle discussioni di dipendenti in merito all’immagine aziendale. Non si tratta di un racconto organico e complessivo, ma sono comunque delle narrazioni che possiamo definire frammentarie e che appartengono alla cultura dell’azienda. Altro invece sono le biografie aziendali, i cosiddetti miti fondatori o la storia che avvolge la figura mitica del presidente: narrazioni omnicomprensive. Come è possibile definire allora le narrazioni che si sviluppano in ambito organizzativo? A mio modo di vedere è interessante l’approccio di Fontana, il quale considera storie in ambito aziendale “tutte quelle forme narrative che generano prodotti oggettivi e/o simbolici (interni ed esterni) che “parlano” ai diversi pubblici”. O ancora Boje le definisce “sceneggiature di natura semi-narrativa o anche pre- narrativa, che i membri di una comunità usano per mettersi in relazione “con le cose” e dare un senso al loro mondo”1. Le storie organizzative sono, praticamente parlando, un prodotto complesso e vario. Mi sembra molto utile in questo senso l’immagine di un groviglio di fili. Questi fili non sono altro che le storie, le quali vengono a confondersi all’interno e all’esterno dell’azienda e disperdendosi si intrecciano. Per districarsi e trovare il bandolo della matassa è necessario cercare di incanalare i flussi. E’possibile allora individuare un triplice punto di vista attraverso cui studiare le storie organizzative: - Punto di vista individuale = tutte le narrazioni con cui le persone esprimono la propria esperienza di lavoro all’interno della comunità le ricerche qualitative all’interno dell’organizzazione ovvero l’ambito dell’organizational storytelling e le operazioni di comunicazione interna - Punto di vista strategico = il set di storie strategico per promuovere attività, iniziative, progetti a questo livello ritroviamo lo storytelling management e tutte le operazioni di comunicazione interna ed esterna volte a sostenere un singolo progetto oppure a migliorare la visibilità dell’azienda in termini di identità, immagine e reputazione 1 FONTANA A., Manuale di storytelling, p. 26 131 - Punto di vista del consumo = le narrazioni che si occupano di promuovere i prodotti ed orientare il cliente all’acquisto si tratta soprattutto di operazioni di marketing narrativo, molto utilizzato oggi in ambito pubblicitario1. Gabriele Qualizza, ricercatore di marketing e comunicazione dell’università di Udine, a questo proposito pone l’accento sulla differenza fra l’ambito del management, cioè quello più strategico, e l’ambito della ricerca, ovvero l’organizational storytelling, che si rifà agli studi sociologici ed organizzativi. Il primo, lo storytelling management, parte infatti da dei presupposti strumentali: “l’arte di raccontare storie è intesa come tecnica, espediente utilizzabile per rendere la comunicazione più coinvolgente ed accattivante. A tal fine diventa oggetto di interesse tutto ciò che può incorporare al proprio interno un elemento narrativo, traducibile a sua volta in un artefatto simbolico, capace di “parlare” a pubblici diversi: in questa prospettiva, possono diventare “storie” tutti i discorsi con cui la direzione strategica cerca di orientare l’opinione pubblica, ma possono essere rielaborati in termini narrativi anche i messaggi diffusi all’interno dell’organizzazione, così come i processi comunicativi tesi a presidiare i significati che le persone attribuiscono alle proprie esperienze di consumo”2. All’interno di questo filone ritroviamo gli studi di grandi esperti come Van Riel e Stephen Denning. L’organizational storytelling invece nasce dall’idea che storie, miti e riti possano essere visti come l’espressione profonda della cultura aziendale. Viene perciò data enorme importanza al vissuto delle persone e a ciò che resta nascosto all’interno di queste storie secondarie e dei comportamenti e discorsi ufficiali. I maggiori autori nel campo della ricerca sono, fra gli altri, Claudio Cortese e Yannis Gabriel. A metà fra organizational e management, troviamo altre due figure importanti, l’una per essere uno dei padri americani degli studi sullo storytelling (David Boje), l’altra (Andrea Fontana) per aver avuto il merito di portare la riflessione in Italia. E’ facile comprendere allora il titolo dato al paragrafo: “fra ricercatori e guru”. E’ proprio attraverso la viva voce degli uni e degli altri che cercheremo di dare un senso all’universo della narrazione in azienda, ovvero, più in generale del corporate storytelling, termine che abbraccia tutte le dinamiche appena viste. 1 2 Ibid. p. 27 QUALIZZA G., op. cit. pp. 5-6 132 In modo particolare ci occuperemo di storytelling in relazione alla capacità delle storie di veicolare un discorso solido e strutturato, portatore di valori aziendali, dimostrando come sia possibile grazie ad esso sostenere un’identità forte e coerente. Per farlo, durante il nostro percorso daremo uno sguardo d’insieme a tutti questi strumenti perché è soltanto grazie all’integrazione dei discorsi in un messaggio coerente secondo le tre modalità viste in precedenza che sarà possibile attribuire un valore concreto alla narrazione e raggiungere un vantaggio competitivo reale. Infatti le narrazioni che prendono vita all’interno dei tre filoni, tutte insieme vengono a costruire la core corporate story, che altro non è che l’incontro fra le storie interne, le storie esterne e le storie di consumo1. “Fare storytelling significa allora, per un’impresa, saper gestire meglio il cambiamento culturale ed organizzativo, raccontandolo con nuovi codici e stili linguistici. Vuol dire anche dare vita a prodotti che siano significativi in mercati ad alto assedio testuale. Acquistare un brand significa oggi acquistare sempre una storia (un racconto, una narrazione) un modo in cui immedesimarsi e progettarsi in modo simulato, temporaneo, vicario”2. Questo perché, ci dice Qualizza, “le narrazioni vengono sempre più spesso collegate alla comunicazione istituzionale, elaborata secondo il concetto di corporate branding”3. Tanto per capirci, si tratta di un processo abbastanza complesso che vede le imprese al centro di una fitta rete di narrazioni: non soltanto strumenti, discorsi, storie, provenienti dall’azienda, ma anche storie, racconti, esperienze che derivano dal vissuto dagli stakeholder. Le dinamiche di prosuming sociale contemporaneo comprendono organizzazioni, società ed individui; un sistema di interrelazioni tale da creare un universo sempre più intricato, che Fontana ha cercato di riassumere molto bene nello schema che segue4: Si veda: FONTANA A., Manuale di storytelling, op. cit. p. 31, figura 4.2 e VAN RIEL C., Managing the corporate story, p. 189, figura 12.1 2 FONTANA A., Manuale di storytelling, op. cit. p. 32 3 QUALIZZA G., op. cit. p. 5 4 FONTANA A., op. cit. p. 46, figura 6.1 1 133 Figura 3.7 Storie, individui, imprese e società BIOGRAFIE INDIVIDUALI STORIE D’IMPRESA SET SOCIALI IN DIVENIRE STORIE DI PRODOTTI Con prosuming indichiamo il sistema di coinvolgimento dei pubblici, tale da renderli sempre più dinamici all’interno della relazione con il prodotto/marca/azienda. Si parla di prosumer, termine che abbiamo già incontrato nel corso di questa tesi. Esso deriva dalla contrazione di due concetti diametralmente opposti: produzione e consumo1. Il consumatore diventa produttore: è presente in modo preponderante all’interno del processo produttivo e lega la sua storia di consumo a quella degli altri, venendo a confermare oppure a negare la grande narrazione aziendale. Per questo la storia del singolo (biografie individuali), si scontra con la storia dell’impresa (autobiografia aziendale e narrazioni frammentate) e dei suoi prodotti in un contesto sociale in divenire. Si tratta di un cambio di paradigma che si focalizza non soltanto sul prodotto finito, ma sull’intero processo: “il consumo diventa pertinente per i marchi, per le imprese, per il mercato non solo e non tanto come momento finale del processo produttivo, quanto come processo centrale di valorizzazione del capitale”2. Ciò è dato anche dalle possibilità che offre oggi la rete, in particolare grazie all’avvento dei social network. Nel vasto ecosistema del web tutti possono raccontare la loro storia ed entrare in relazione con il proprio vicino, l’amico, la marca preferita, l’azienda, il candidato che intendono sostenere alle elezioni… Per comprendere meglio il fenomeno del prosuming si consiglia la lettura di MAZZOLI L., Network effect, op. cit. pp. 56-74 2 Ibid. p. 60 1 134 In questo senso, lo storytelling è uno strumento utile per gestire al meglio i flussi comunicativi nei confronti di un pubblico diversificato e molto più attento rispetto al passato, perché più informato e alla pari sul piano dei mezzi di comunicazione a disposizione. “ Le storie dunque”, dice Stas Gawronski in un articolo su La Stampa del 2005 “aiutano a capire lo stato di salute di un’azienda, ma anche ad aggregare le risorse umane favorendo l’identificazione nei valori aziendali (non è un caso che, nell’attuale momento di crisi, molte imprese stiano tentando di recuperare il mito dell’Italia degli anni ‘50 per creare un nuovo immaginario simbolico in grado di rimotivare i lavoratori ad un sacrificio costruttivo); e poi anche a formare i nuovi manager (…)”1. Che lo vogliano o no, le imprese comunicano tentando di orientare i comportamenti dei propri pubblici di riferimento, producono discorsi pregni di significati, ricchi di frammenti narrativi. Diventa dunque fondamentale saper plasmare i racconti e ridefinire la realtà organizzativa all’interno dei confini narrativi al fine di generare messaggi coerenti che sappiano rispondere alle esigenze dei pubblici interni ed esterni. Vediamo allora più in dettaglio i tre filoni già individuati, per capire meglio come viene applicata concretamente la narrazione, quali sono i suoi sviluppi attuali e quali le possibilità di evoluzione. Per comodità li divideremo secondo la classificazione di Qualizza in organizational storytelling e management storytelling, avendo l’avvertenza di aggiungere il marketing narrativo o storyselling, in modo tale da rispecchiare da un lato le tre correnti e di rappresentare dall’altro, in modo chiaro, tutte le aree di competenza in un’impresa: ricerca e formazione, management e strategia, marketing e advertising. Non si tratta naturalmente di un lavoro a compartimenti stagni. Vedremo come le tre correnti si fonderanno in un unico mare: un sistema operativo per pianificare l’attività di storytelling in azienda. 1. L’ORGANIZATIONAL STORYTELLING = la rete di narrazioni fra ricerca e formazione La ricerca in ambito aziendale è il primo passo verso l’implementazione di un processo narrativo efficace. Prima di poter parlare di storytelling management, ovvero di una strategia narrativa, è necessario partire da ciò che già c’è. O meglio, se le aziende parlano sempre è comunque, bisogna anche saper ascoltare le diverse voci: l’attività di ricerca si fa ascolto più che narrazione, è una vera e propria esperienza di storylistening. Facciamo subito una precisazione: l’ascolto non deve essere mirato alla 1 FONTANA A., Manuale di storytelling, op. cit. pp. 34-35 135 costruzione di una storia “ingessata” che recuperi frammenti qua e là di passato aziendale. E’ il caso di molte aziende che interpretano in questo modo l’esperienza di storytelling senza trarne grandi benefici a lungo termine. Più interessante è invece l’altra faccia della medaglia: aziende che lavorano sul e con lo storytelling, “come un processo continuo di narrazione nel quale sia l’azienda che si racconta, sia i suoi stakeholder, possono in varia misura essere coinvolti nel formulare, rivedere, applaudire e rifiutare i vari elementi della narrazione perennemente messa in scena”1. E’ piuttosto quest’ultimo l’obiettivo dello storytelling in azienda e il punto di vista da previlegiare. Fatta questa breve premessa, torniamo a noi e parliamo di ricerca rifacendoci in particolare agli studi di Claudio Cortese. Secondo quanto afferma l’autore, coadiuvato dai lavori di altri grandi studiosi come Czarniawska e Jorges, le narrazioni in azienda possono essere utilizzate come valido strumento di ricerca sociale secondo cinque ambiti ben definiti: storie come elementi di cultura organizzativa, storie come espressione di desideri e vissuti inconsapevoli, storie come schemi di comunicazione, di problem-solving e di decision-making, storie come espressione di dominazione politica e opposizione ed infine storie come processi di attribuzione ed esperienze di mobbing. Ciascun ambito rappresenta un settore di intervento particolare che, come vedremo, spesso si incrocia con le azioni di storytelling management. Vediamo in dettaglio di cosa si tratta: - Storie come elementi di cultura organizzativa = ambito di analisi che trae le sue origini dall’antropologia e dall’etnografia. Si basa sull’idea che “lo storytelling organizzativo possa essere utilizzato come mezzo per capire, spiegare e confrontare la cultura dell’impresa. (…) I racconti agiscono come “elemento culturale” che consente non solo agli attori di dare un senso alle esperienze vissute nell’ambiente lavorativo, ma anche al ricercatore di accedere a quella dimensione latente rappresentata dalla cultura, offrendo una conoscenza immediata (…) del sistema condiviso di norme e valori”2. Utile se considerato nell’ottica di un’analisi dell’identità e della cultura aziendale, preliminare ad un progetto più ampio di lavoro. Fra gli studiosi di maggiore rilievo troviamo: Allaire, Firsirotu, Meek, Hansen e Kahnweiler. - Storie come espressione di desideri e vissuti inconsapevoli = filone di ricerca che vede nei racconti dei “sintomi di processi latenti”, ovvero luoghi in cui si celano 1 2 QUALIZZA G., op. cit. p. 16 CORTESE C. G., op. cit. pp. 39-40 136 desideri, ansie ed emozioni proprie del singolo o del gruppo. Si tratta di un terreno favorevole da cui partire per studiare l’implementazione di processi strategici finalizzati al cambiamento, per valutare la situazione attuale degli stakeholder interni o gli effetti sul personale di una determinata azione portata avanti dal management dell’azienda. Fra gli esponenti: Gabriel, Van Maanen, Rafaeli, Sutton e Isen. - Storie come schemi di comunicazione, di problem-solving e di decision-making = in questo ambito le narrazioni sono considerate come racconti delle esperienze vissute in azienda, degli “schedari informali” e dei veicoli alternativi di comunicazione e di scambio del sapere presente e passato. “(…) Vengono quindi a costituire una sorta di diario (positivo e/o negativo) utilizzabile come elemento di confronto per l’analisi dell’organizzazione e del suo cambiamento”1. In questo senso l’analisi delle narrazioni è utile per affrontare criticità e prendere decisioni importanti: rifacendosi al passato per recuperare lezioni o modalità di operare, aiutandosi grazie agli schemi narrativi per sostenere l’apprendimento narrativo, costruendo narrazioni ipotetiche in cui mettere alla prova le strategie di problem-solving e di decision making individuate. Autore influente in questo contesto è David Boje, il quale affronta spesso nei suoi testi il tema dello storytelling in relazione al cambiamento. - Storie come espressione di dominazione politica e opposizione = corrente che promuove l’utilizzo di storie in contesto organizzativo come possibili vie di fuga, meccanismi di difesa e di riscatto nei confronti del management oppure dei pari, ma anche luogo di condivisione e di fronte comune. L’analisi del contesto narrativo può quindi essere utile per sondare eventuali malumori, ansie e fantasmi che coinvolgono a vari livelli gli attori aziendali. Rilevare il grado di controllo del management è molto importante (ce lo insegna già Boje con il suo studio relativo alla Walt Disney Company2), soprattutto nell’ottica di saper padroneggiare in modo adeguato la propria identità e di conseguenza la propria reputazione. Gli autori che si rifanno a questo filone di ricerca sono: Collinson, Meek e Rosen. - Storie come processi di attribuzione ed esperienze di mobbing = quest’ultima area di ricerca riguarda l’ambito del mobbing, cioè casi di maltrattamento, di minacce, di umiliazioni nei confronti di singoli o gruppi. E’ un’area che meno ci riguarda a livello Ibid. p. 42 BOJE D., Stories of the storytelling organization: a postmodern analysis of Disney as “Tamara-land”, op. cit. pp. 997-1035 1 2 137 di utilizzo dello storytelling management, ma è comunque un settore importante in quanto indice, come si diceva prima, di malesseri o di ansie che infettano una parte del gruppo di lavoro, facendo nascere anti-eroi potenzialmente pericolosi per l’attività. Le storie organizzative vengono studiate quindi, dal punto di vista della ricerca, come strumento utile d’indagine in quanto “…consentono di mettere a fuoco i differenti processi (politici, gestionali, produttivi, comunicativi, culturali, relazionali ecc.) attivi all’interno dell’organizzazione rivelando in che modo sono percepiti, commentati ed elaborati dagli individui”1. In quest’ottica, le storie organizzative possono essere interpretate come segue2: Figura 3.8 Processo d’interpretazione delle storie organizzative Resoconto di episodi conflittuali Resoconto soggettivo Riferimento al passato Attribuzione di significati STORIA ORGANIZZATIVA Dal punto di vista dell’organizational storytelling “La storia organizzativa è un resoconto soggettivo, strutturato in forma di racconto, relativo a un evento passato connesso a una problematica rilevante, che consente di pervenire a una attribuzione di significato”3. L’apporto di Cortese è sicuramente notevole: la sua capacità di guardare con gli occhi della ricerca e di riassumere i risultati e le tendenze di scritti precedenti ci aiuta a crearci un panorama abbastanza completo, benché non esaustivo. CORTESE CLAUDIO G., op. cit. p. 48 CORTESE CLAUDIO G., op. cit. p. 55, rielaborazione a partire dalla figura 2.1 3 Ibid. p. 55 1 2 138 Dati gli elementi di cui sopra, in particolare definiti gli ambiti di riferimento dell’organizational storytelling, vediamo infine quali funzioni svolgono le storie organizzative e come la ricerca lavori con questi materiali. Lo schema sintetico che ci propone Cortese, risulta utile per tracciare i confini, ma anche per rendere manifeste caratteristiche del racconto di cui avevamo già parlato, caratteristiche che derivano non per niente dalla stessa definizione di storia organizzativa1: Figura 3.9 Le funzioni delle storie organizzative FUNZIONI DELLE STORIE ORGANIZZATIVE INDIVIDUO GRUPPO ORGANIZZAZIONE Recuperare ed esprimere i vissuti personali Rielaborare l’esperienza Confrontarsi e condividere Costruire un senso comune agli eventi Trasmettere valori, regole e soluzioni Far apprendere l’organizzazione Portare alla luce il conflitto Stimolare il cambiamento 1 Ibid. p. 76, figura 2.2 139 La ricerca, come possiamo vedere, si inserisce in tre grandi aree che riguardano il singolo, il gruppo e l’organizzazione: tre figure essenziali all’interno di un’azienda. Il recupero dei vissuti personali così come la rielaborazione dell’esperienza fanno riferimento alla soggettività e quindi alla possibilità di entrare in ascolto con il singolo: si va dalla discussione delle storie organizzative all’analisi dei casi, alla lettura dei romanzi, sistemi utili per valutare e/o formare attraverso le narrazioni. Dal punto di vista del gruppo vengono trattati temi fondamentali: il confronto, la condivisione, la trasmissione di valori e la costruzione di senso. Qui l’organizational storytelling viene a intrecciarsi con il paradigma dello storytelling applicato al management. L’idea che la narrazione serva a creare ulteriori significati o ritrovare dei valori persi nel passato ci mostra in che modo l’utilizzo della narrazione come strumento di formazione sia utile al fine di creare una coscienza comune ed avvalorare immagine ed identità aziendali. Allo stesso modo, la formazione in azienda, il portare alla luce un conflitto e lo stimolo al cambiamento toccano l’organizzazione nel suo vivo: lo storytelling aiuta a trovare un background comune da cui partire per comprendere la realtà sociale interna all’azienda. Come è facilmente deducibile questo schema può essere tranquillamente applicato alla narrazione in azienda a 360°. In modo particolare a livello di ricerca applicata, tutto ciò si sviluppa secondo tre fasi che riguardano la raccolta delle storie (data collecting), l’analisi (data reduction + data display) e l’interpretazione (conclusion drawing). Non entrando ora nei meriti del processo di ricerca, vorrei sottolineare come l’organizational storytelling rappresenti una piattaforma di valutazione e riflessione profonda dell’ambiente – azienda: la rampa di lancio da cui partire per intraprendere progetti manageriali, cambiamenti, o semplicemente per capire come viene assorbita la cultura aziendale, come può essere migliorata la corporate image, come far accettare la nuova corporate identity. 2. LO STORYTELLING MANAGEMENT = la strategia narrativa a servizio della leadership Lo storytelling management si applica soprattutto a livello del corpo dirigente, per poi estendere i suoi influssi su tutto il sistema aziendale. Si tratta di una riflessione che ruota intorno all’organizzazione, alla sua identità, ai suoi valori e alla figura del leader, la quale è preposta ad incarnare il volere aziendale e portare avanti i suoi principi. 140 Fra gli autori che hanno scritto di questo tema, ci occupiamo in modo particolare di Van Riel e Stephen Denning. Questi due autori partono da concezioni e background diversi. Mentre Van Riel, appoggiandosi ai grandi pilastri della Corporate Communication descritti nel suo libro, porta avanti l’idea della necessità di una visione globale dell’azienda basata sui common starting points e su una corporate story integrata1, Denning2 si sofferma in modo particolare sulla figura del leader, declinando le funzioni dello storytelling ad uso e consumo del management. Focalizzandoci ora sul concetto di storytelling management, è chiaro comprenderne il principio: l’utilizzo di storie all’interno di una strategia consolidata volta a raggiungere un dato fine. A questo proposito Denning nel suo libro The leader’s guide to storytelling : mastering the art and discipline of business narrative, fornisce un quadro di otto situazioni (the eight narrative patterns) all’interno delle quali la narrazione può essere un utile strumento. Queste situazioni sono collegate ad un particolare obbiettivo di management: 1) comunicare un cambiamento in azienda ed incoraggiare gli stakeholder all’azione springboard story 2) permettere al leader di comunicare se stesso, di creare fiducia, e di incarnare valori e principi dell’azienda 3) comunicare l’essenza dell’azienda corporate identity, corporate branding 4) trasmettere i valori aziendali la cultura, le tradizioni, la storia 5) incoraggiare alla collaborazione i diversi team 6) addomesticare i rumors 7) trasmettere i saperi knowledge management 8) guidare le persone verso il futuro3 Facciamo riferimento in modo particolare al capitolo decimo del libro “The expressive organization: linking identity, reputation and corporate brand”, op cit. Il capitolo redatto da Van Riel, ed intitolato “Corporate communication orchestrated by sustainable corporate story”, tratta dell’utilizzo di una storia aziendale come cornice al fine di sostenere i valori e la cultura della corporate. 2 I libri a cui rimandiamo sono i seguenti : The leader’s guide to storytelling : mastering the art and discipline of business narrative, op. cit. ; e Squirrel Inc. A fable of leadership through storytelling. Molto utile anche il sito internet: http://www.stevedenning.com/site/Default.aspx 3 Questi punti li troviamo all’interno del libro- guida di Denning, The leader’s guide to storytelling : mastering the art and discipline of business narrative, e a pagina 9 dell’articolo, advance text del libro successivo Squirrel Inc., 2002, dal sito dell’autore: www.stevedenning.com/squirrel.htm. La tabella in questo secondo caso, riporta solo 7 degli 8 obiettivi presentati nel libro. 1 141 Non siamo più a livello dello storylistening, abbiamo compiuto uno step ulteriore e ci poniamo ora dall’altro lato, quello del puro racconto a servizio del management. Denning affronta più volte la tematica nei suoi due libri maggiori ma anche in articoli successivi, fornendo al leader (all’intera classe dirigente) le indicazioni formali per raggiungere il suo fine: come dev’essere la storia (forma e contenuto), quali devono essere i comportamenti, il tono, la postura… Per esempio, in riferimento al punto due relativo a come comunicare la figura del leader, Denning si sofferma su come creare la storia (focalizzarsi su un punto di svolta, raccontare la storia in tono positivo, creare un contesto di riferimento in cui inserirla…) e su come debba essere presentata allo stakeholder (essere autentico, usare l’ironia e l’emozione…)1. Consigli pratici ad uso e consumo della classe dirigente che dovrebbe trarre spunto per realizzare la propria strategia di comunicazione: vengono creati infatti 8 template, pronti da applicare alla situazione. Vorrei sottolineare due elementi che mi sembrano centrali in questo sistema di pensiero: innanzitutto l’idea secondo cui, prima di creare una storia è sempre necessario avere bene in mente un obiettivo, primo assioma della comunicazione d’impresa. In secondo luogo, Denning preconizza la figura di un manager diverso rispetto al passato, una figura moderna che si inserisce bene nel nuovo contesto del web 2.0: un leader interattivo, non più solo “comando-e-controllo”, che partecipi dell’universo dei suoi stakeholder, che comunichi e sappia mettersi in gioco senza mai dimenticare i suoi obiettivi. Tuttavia nel suo discorso vi è un gap abbastanza consistente: Qualizza infatti parla di approccio positivistico2, ovvero Denning presuppone che l’impresa sia una realtà data in cui il problema di comunicare subentra in un secondo momento. La narrazione non è vista, come risulta evidente nel filone precedente, come base su cui poggia l’azienda, ma come un tool da utilizzare all’occorrenza per raggiungere un dato fine. Secondo questo modo di vedere le cose è chiaro che i consigli pratici si trasformano in materia scevra e non efficace nel lungo periodo. Più interessante invece l’approccio di Van Riel, coadiuvato dagli studi di Shaw, Larsen e Mouritsen3. Al centro delle sue analisi resta sempre la comunicazione. In particolare a livello di narrazione parla di Corporate story in questi termini: “I shall claim that communication will Capitolo 4 “Build trust in you. Using narrative to communicate who you are”, in The leader’s guide to storytelling : mastering the art and discipline of business narrative, op. cit. 2 A questo proposito si veda l’intervista a Gabriele Qualizza presente negli allegati. 3 Stiamo parlando dei cap. 10-11-12-13 del libro: SCHULTZ M.- HATCH M. J. – LARSEN H. M., The expressive organization: linking identity, reputation and corporate brand, op. cit. pp. 157-227 1 142 be more effective if organizations rely on a so-called sustainable corporate story as a source of inspiration for all internal and external communication programs. Stories are hard to imitate, and they promote consistency in all corporate message”1. In questo senso le storie aiutano a creare delle identità forti ed autentiche, mettendo in luce i credo dell’azienda. Van Riel trae dalla rete di storie e discorsi aziendali la forza per inquadrare l’organizzazione in un discorso più ampio e pregno di significati: la corporate story a questo livello viene implementata secondo un processo di storytelling e monitorata in modo constante. Nella sua forma più alta, vengono a crearsi delle story-factory, delle aziende che sono loro stesse una storia, declinata attraverso il logo, il brand, i prodotti… Entreremo in un secondo momento nel merito del sistema proposto dallo studioso olandese, quello che è utile recepire sin da subito è il passaggio dall’ottica di Denning a quella di Van Riel: dal prendere il messaggio e trasformarlo in una storia condita di particolari ed emozione a generare una storia che rappresenti l’essenza dell’azienda, che possa essere trasmessa ed eventualmente declinata a seconda dell’obiettivo di management. La corporate story di Riel deve quindi essere la base da cui partire per implementare il processo, mentre i consigli di Denning possono aiutare il leader nella dinamica di gestione della storia, nell’inframmezzare l’epica imprenditoriale con micro-narrazioni create sulla sua pelle a partire da una singola situazione o necessità. Lo storytelling management in questo senso, si trova all’incrocio delle due pratiche: solo grazie alla loro integrazione sarà effettivamente possibile raggiungere gli obiettivi che il leader ed in generale il management si è preposto attraverso la narrazione. 3. IL MARKETING NARRATIVO = marketing & advertising nell’era dello storyselling Il marketing narrativo è una realtà nuova, una necessità che si collega alla rivoluzione a cui hanno assistito i mercati negli ultimi anni: il consumatore diventa prosumer2, più attento ed esigente, il consumo diventa narrativo, i mercati una rete di conversazioni. SCHULTZ M.- HATCH M. J. – LARSEN H. M., The expressive organization: linking identity, reputation and corporate brand, op. cit., p. 157 1 “The future of marketing is based on the simple principle of co-creation. That means the consumer is central to the process. It recognizes the essential role consumers have in co-creating meaning and value”. Dal sito di Randal Ringer : http://narrativebranding.wordpress.com/2011/01/02/welcome-to-the-decade-ofnarrative-marketing/ Questo sito “Narrative branding”, si occupa della rivoluzione narrativa 2 143 La marca a sua volta è passata da una funzione segnica (anni ’60) ad una funzione pragmatica (anni ’90) e si trova a dover puntare sul “valore aggiunto” per far breccia nell’ostilità dei nuovi consumatori e generare fidelizzazione. In questo senso la marca deve prendere la parola e creare degli spazi pregni di significato in cui coinvolgere le persone: da ciò emergono i diversi filoni dal marketing esperienziale al marketing relazionale, dal marketing emozionale alle frontiere del neuro marketing sino allo storyselling. Come la comunicazione, anche il marketing oggi ha la necessità di ripensarsi e di trovare vie alternative. “(…) Non basta più informare, comunicare, coinvolgere, ma diventa necessario narrare perché i processi di comunicazione e di condivisione del valore economico, sociale e politico non sono più dominati solo dalla prestazione operativa che poteva essere oggettivamente comunicata”1. Se un prodotto buono, di qualità ed una comunicazione chiara sono dati per scontati, bisogna puntare su altro: fare della marca un universo di senso, far emergere i valori e nello stesso tempo diversificarsi inserendo il tutto in un racconto unico. Il concetto di unicità poi è ancora più importante se pensiamo al significato che è venuto ad assumere il consumo in questi ultimi anni. Esso è sempre più ontologico: “Consumiamo per essere qualcosa e qualcuno, per esprimere parti delle nostre identità frammentate e pervase dall’incertezza”2. Quindi non è importante soltanto rivestire la marca di contenuto, ma anche comunicarlo in modo adeguato: creare un’anima del brand e posizionarsi sul mercato con qualcosa da raccontare (narrazione ed emozione), da far vivere (esperienza). E lì, ove la marca si fa macro-cosmo, i prodotti diventano naturalmente delle mirco-narrazioni. Ma qual è il rapporto fra azienda e prodotti?o meglio come si relazionano il marketing e la comunicazione al fine di creare un discorso coerente? A questo proposito è necessario rivedere il concetto di corporate identity affrontato nel secondo capitolo di questa tesi e metterlo in relazione con un nuovo concetto: il corporate brand. La migliore definizione del rapporto che intercorre fra i due è data da Balmer3: “A corporate brand involves the conscious decision by senior management to distil and make known the attributes of the organisation’s identity in the form of a clearly defined branding proposition. This nell’universo di marca. L’articolo in questione titola “Welcome to the decade of narrative marketing” e racconta la trasformazione avvenuta negli ultimi anni. FONTANA A. – SASSOON J. - SORANZO R., Marketing narrativo. Usare lo storytelling nel marketing contemporaneo, op. cit. p. 13 2 FONTANA A., Story selling. Strategie del racconto per vendere sé stessi, i propri prodotti, la propria azienda 3 BALMER J. M. T., Corporate identity, corporate branding, corporate marketing. Seeing through the fog, op. cit .p. 281 1 144 proposition underpins organisational efforts to communicate, differentiate, and enhance the brand visà-vis key stakeholders groups and networks. A corporate brand proposition requires total corporate commitment to the corporate body from all levels of personnel. It requires senior management fealty and financial support. On going management of the corporate brand resides with the chief executive officer and does not fall within the remit of the traditional directorate of marketing”. In sostanza mentre la corporate identity è la linfa, il nutrimento che irradia i suoi valori in tutto il corpo, il corporate brand rappresenta le ramificazioni che si estendono sino alle foglie, ovvero ai singoli prodotti. Questa metafora dell’albero ci aiuta a vedere l’azienda in modo più organico e a capire l’importanza dei brand e dei prodotti come prima finestra aperta sul mondo dei consumatori. Essi nutrendosi della corporate identity devono essere in grado di farsi specchio dell’azienda e di incarnare i suoi valori. Sono le stesse imprese ad essersene accorte. Per citarne una, ecco cosa dice Shell a riguardo: “We cannot be accountable solely to our shareholders or costumers. Our business touches too many lives for us to evade our wider role in society. We must communicate our values and demonstrate we live up to them in our business practices”1. Le storie ci aiutano in questo senso a creare un racconto uniforme e coerente, generare micro-narrazioni ad hoc per i prodotti, e posizionarci concretamente sul mercato e nella mente degli stakeholder. Perché nel marketing ciò che conta è vendere, e per farlo è necessario farsi riconoscere, rendere la nostra marca e i nostri prodotti memorabili e soprattutto far sentir bene il nostro consumatore, soddisfare le sue esigenze. Quindi cosa si può fare a livello pratico attraverso il marketing narrativo? I campi di applicazione del marketing sono numerosi: advertising, promozione, propaganda, vendita personale, prodotti e packaging… A seconda degli obiettivi e della strategia da mettere in atto è possibile applicare lo strumento dello storyselling per aumentarne l’efficacia, secondo una declinazione che può toccare mezzi diversi: dallo spot tv al pacchetto del prodotto, dalle affissioni al sito web, sino ai social network. A differenza di quanto spesso si dice infatti, la storia non è propria soltanto di mezzi quali tv e carta stampata, è possibile farla viaggiare anche attraverso i nuovi media, innalzando addirittura i livelli di attenzione e coinvolgimento del pubblico attraverso filmati audio e video, attività su social network, concorsi, attività interattive… 1 Ibid. p. 282 145 Inoltre l’attività sul web aiuta ad intercettare i gusti dei consumatori, le tendenze, a dialogare con loro e a volte a creare insieme nuovi sviluppi della storia1. Figura 3.10 Il Narrative marketing Naturalmente la forma più semplice e, tra virgolette, quasi arcaica del racconto applicato al marketing, è la campagna pubblicitaria. Vorrei soffermarmi un attimo su questo punto perché spesso partire da uno spot può essere un modo semplice per creare buzz e diramazioni sul web: viral stories, frammenti di racconto sparsi sulla rete, giochi… Parlare di spot ci permette inoltre di recuperare quanto detto sulle teorie narrative e vederne un’applicazione concreta. E’ possibile infatti applicare il format narrativo del viaggio dell’eroe messo in evidenza da Vogler ma già studiato da Propp e dagli altri, per raccontare il proprio prodotto. Si applica quindi il cosiddetto “schema canonico narrativo”, ove dinamiche archetipiche (eroe, antagonista, aiutante….) si fondono con le dinamiche di consumo. La marca o il prodotto può essere inserito nella storia come eroe, aiutante o addirittura ombra: è un attante e come tale svolge nel breve tempo di circa un minuto le funzioni che gli vengono attribuite. Nello spot tutto è molto veloce, pertanto lo schema è utilizzato come scheletro e può essere variamente modificato a seconda delle necessità. Ciò che resta sempre presente è il percorso costruito su inizio-momento culminante- fine. A volte, soprattutto in tv, il finale è volutamente rimandato secondo una sorta di “to be continued” che rimanda il pubblico alla puntata successiva o lo lascia volutamente in sospeso (si veda lo spot televisivo di Dolce & Gabbana Light Blue a Capri). L’immagine di seguito vuole essere una sintesi di quanto detto in questo ultimo paragrafo: marketing narrativo e web possono essere un alleato vincente per la nostra storia di marca o di prodotto. Dal sito: http://9inchmarketing.com/2009/07/14/story-based-vs-positioning-based-therise-of-narrative-marketing/narrative-marketing/ 1 146 Per dare un esempio concreto di applicazione dello schema canonico riprendiamo da Fontana1 l’analisi dello spot pubblicitario di Ferrero. Oggetto della pubblicità è la promozione della linea di merendine Kinder. Target: bambini in età scolare e pre-scolare e genitori. Iniziamo con lo schema che ci ripropone le sequenze dello spot, in modo tale da inquadrare la pubblicità: Figura 3.11 Schema della campagna pubblicitaria Kinder e Ferrero TESTO SPOT IMMAGINI PRINCIPALI Questo è Marco. Lui non si accontenta di quello Marco che col cappello da esploratore che vedono tutti. Per questo i suoi occhi sono i guarda dentro un vecchio baule da cui estrae più curiosi del mondo. una lente d’ingrandimento. Primo piano del volto che guarda attraverso la lente. Anna invece ha capito che ogni cosa per crescere Anna in giardino che si prende cura di ha bisogno di amore. E sa che un giorno alcune piante. raccoglierà i suoi frutti. Andrea guarda il cielo, ma non lo vede lontano Andrea affacciato a un balcone, di fronte allo perché sa che prima o poi arriverà a toccarlo skyline di una metropoli, che guarda il cielo e gioca con un piccolo aeroplano. E noi della Kinder è come se li conoscessimo uno I diversi bambini inquadrati in situazioni a uno. C’è chi fa colazione solo se gli piace con il prodotto. tanto…c’è chi vuole solo cose naturali. Chi ha bisogno di qualcosa di nutriente da portare a scuola. Possiamo dare ad Anna e ad Andrea quello di cui hanno bisogno. Perché da sempre ci prendiamo cura di loro. Accompagnandoli nella crescita. Sì, perché per aiutarli a crescere bene bisogna conoscerli bene. Kinder conosce i tuoi ragazzi da una vita. FONTANA ANDREA, Storyselling. Strategie del racconto per vendere sé stessi, i propri prodotti, la propria azienda, op. cit. p. 64, Tabella 6.2. Lo schema narrativo canonico è invece rappresentato nella Figura 6.2 p. 65 1 147 Cerchiamo ora di riflettere dal punto di vista dello schema narrativo canonico: i protagonisti della nostra storia sono i bambini, i quali hanno come obiettivo quello di crescere e realizzare i propri sogni. L’antagonista alla loro impresa è la realtà, nei termini di fallimento o indifferenza: tutti quegli ostacoli che si incontrano nella vita. Come si pone l’impresa in questa cornice? Come l’aiutante che accompagna i bambini e li aiuta a scoprire il mondo. Le merendine Kinder non sono altro che lo strumento magico che l’azienda propone all’eroe per continuare il suo viaggio e crescere “bene”. Si tratta di uno spot piuttosto semplice e lineare. Avremmo potuto trovarne altri con maggior impatto sul pubblico (es. lo spot di Apple del 1984, quando lanciò il Macintosh, con il riferimento al film Blade Runner di Scott), tuttavia mi sembra che questo si presti particolarmente bene come modello. La pubblicità viene letta come un racconto che l’azienda fa ai suoi consumatori attuali o potenziali. Spesso come avviene qui, l’azienda si pone all’interno della storia come aiutante e i suoi prodotti sono l’oggetto magico ( Gatorade è la bevanda magica associata alla performance sportiva, la crema è l’elisir che aiuta le donne a restare più belle e più giovani…1), ma ci possono essere infinite possibilità di lavorare sulla materia. Essenziale da sapere è che non la storia è uno strumento efficace malleabile, ma perché funzioni non basta il raccontino, è necessario che la marca, l’azienda o il prodotto siano inseriti nel modo giusto al suo interno: gli attanti ed archetipi devono essere caratterizzati a seconda delle finalità e della tipologia di prodotto di cui si parla. Per esempio un eroe può essere: in crescita, d’azione, involontario, amante, guerriero, catalizzatore… Questo perché è necessario che ogni meta-narrazione sia diversa dalle altre, ma anche perché l’oggetto di cui parliamo deve smaterializzarsi e vestire dei panni che sono suoi propri, riprendendo in toto le sue caratteristiche sotto nuove vesti. Naturalmente in questo caso ci siamo limitati ad un’analisi che dal livello di superficie passa a quello figurativo, narrativo ed infine al livello più profondo (schema di Floch2), ma è possibile applicare lo stesso schema in senso inverso, partendo dal livello profondo, ovvero i valori della comunicazione, passando per la narrazione sino ad arrivare alla superficie e quindi alla percezione (codici verbali/visivi/sonori…): è così che si crea un racconto pubblicitario. FONTANA A. – SASSOON J. - SORANZO R., Marketing narrativo. Usare lo storytelling nel marketing contemporaneo, op. cit. pp. 45-48 2 Ibid. pp. 30-31 1 148 Se lo spot è di per sé un mezzo che si predispone alla logica della narrazione, ciò è ancora più marcato oggi, nell’era del web 2.0 in cui la storia, se piace, può cominciare a circolare per i vari canali dalle piattaforme video ai social network, dando visibilità maggiore al prodotto/brand. Dopo aver visionato i diversi filoni di studio dello storytelling ed approfondito l’argomento con case history concrete, è giunto il momento di tirare le somme per capire in che modo i tre piani entrano in relazione fra loro. Dall’esposizione mi sembra chiaro che i punti di contatto sono numerosi, ma vogliamo andare oltre. Possiamo vedere i tre percorsi di studio come una serie di step per l’implementazione di un percorso narrativo organizzato ed efficace. Il primo step, l’organizational storytelling, consiste nella ricerca e nell’ascolto delle storie già esistenti in azienda ed all’esterno (a seconda dei casi è possibile un focus sulle narrazioni interne, o su quelle esterne, oggi ancora più a portata di mano grazie ai new media). Il secondo livello, strategico, serve a valutare la situazione e progettare delle attività mirate a seconda dell’obiettivo del management includendo eventualmente il terzo punto, molto più d’impatto sullo stakeholder finale. Nel nostro caso, l’utilizzo della narrazione per consolidare la corporate identity aziendale è utile passare per tutti e tre i livelli: dallo storylistening (ascolto e apertura di dialogo studio dell’organizational identity), all’intervento diretto sulla corporate story a livello di management (strategia e costruzione della leadership), all’implementazione di attività mirate sui pubblici esterni, corredato all’occorrenza da forme di marketing operativo (pubblicità…concorsi). Quest’ultimo punto sarà il tema affrontato in dettaglio nel prossimo capitolo. Prima però vorrei concentrarmi un attimo sulle forme di storytelling nell’era digitale e sui suoi possibili sviluppi nel web 2.0. 3.4 Il racconto nel web 2.0: corporate digital storytelling e transmedia storytelling Con il termine corporate digital storytelling, intendiamo l’utilizzo di “(…) strumenti digitali per creare storie multimediali dal forte impatto emotivo da raccontare, condividere, preservare”1. Il FONTANA A., Manuale di Storytelling. Raccontare con efficacia prodotti, marchi e identità d’impresa, Etas, 2009, Milano 1 149 racconto nell’era del digitale ha trovato nuovi mezzi attraverso i quali veicolare i propri messaggi: video, blog, siti, social network, banner… Queste nuove piattaforme hanno permesso al concetto di racconto di espandersi ed inglobare forme innovative, più aperte al coinvolgimento dell’utente e di viaggiare su più canali contemporaneamente. Si parla non a caso di transmedia storytelling. Secondo Jenkins, “transmedia stories are stories told across multiple media. At the present time, the most significant stories tend to flow across multiple media platforms”1 Si tratta di un approccio importante perché aumenta l’engagement del pubblico, creando una vera e propria esperienza di racconto. Questo anche perché i nuovi media permettono l’accesso a nuove modalità di espressione grazie all’integrazione di immagini, video, musica, voce. L’utilizzo di questo strumento in ambito aziendale si deve già dalla metà degli anni 90, grazie a Dana Atchley, fondatore della Digital Storytelling Foundation, il quale ha cercato di incoraggiare manager e dirigenti a raccogliere, studiare e raccontare storie che riguardassero i fondatori, la comunità aziendale, i partner, i clienti, gli obiettivi e i marchi aziendali. In particolare Atchley si era focalizzato sul corporate brand utilizzando il digital storytelling per comunicare l’identità di marca al pubblico sempre più diversificato di internet. Il web permette infatti di raggiungere un pubblico più ampio ma anche molto diversificato. Inoltre la comunicazione cambia, facendosi più diretta, più simmetrica, partecipata ed interattiva, tanto da arrivare addirittura alla co-creazione di storie o all’incoraggiamento a scriverne per confrontare le proprie esperienze di marca. Naturalmente il digitale può essere variamente declinato ed utilizzato dall’azienda in contesti diversi: dal potenziamento di identità aziendale o di marca, al marketing, come strumento di comunicazione interna oppure di knowledge management. Le possibilità in ciascun caso sono infinite: blog, Twitter, piattaforme di YouTube, Facebook, video aziendali, iniziative sul sito. Particolarmente in voga in quest’ultimo periodo sono i social media. Si potrebbe anche in questo caso aprire un capitolo a parte, tale la vastità dell’argomento e gli sviluppi ancora in corso. Non credo sia possibile al momento presente definire i confini del discorso, data l’attualità del problema. Le aziende stanno cominciando ad aprirsi ora a questo nuovo mondo e a capire l’importanza dell’instaurare una relazione con i propri Transmedia storytelling narrative strategies, fictional worlds and branding in contemporary media production:http://www.slideshare.net/cscolari/transmedia-storytelling-narrative-strategiesfictional-worlds-and-branding-in-contemporary-media-production 1 150 stakeholder. Certo è che, rispetto al passato il digitale ha portato nuove opportunità ma anche rischi notevoli per le organizzazioni. Ci avverte Fontana: “I social media possono dare voce a chiunque, e quindi anche alle persone che lavorano nelle organizzazioni, mettendo in comunicazione individui con opinioni e punti di vista simili, e questi con altre parti al di fuori dell’organizzazione. Di conseguenza, il digital storyteller attraverso i blog e YouTube potenzialmente mette in condizione le persone di disporre di un canale tanto efficace e diffuso quanto quelli utilizzati dai professionisti che curano le pubbliche relazioni”1. E’possibile quindi che il mezzo, se non monitorato, si rivolti contro l’azienda: sempre più spesso i social media sono utilizzati come strumenti di denuncia e nel peggiore dei casi come mezzo per screditare o recar danno all’azienda. Al pari dei rischi, le opportunità sono molte e vanno di pari passo con la trasformazione del consumo in rete di narrazioni e del consumatore in prosumer: l’UGC, lo user generated content è la chiave che apre le porte al dialogo con l’esterno. In questo senso è interessante non soltanto la possibilità di creare storie ma anche di ascoltare le storie che vengono raccontate sull’azienda, aprirsi alle esperienze di marca degli stakeholder, recepire le dinamiche di vita del prodotto nel “mi piace” o “non mi piace” degli utenti. Questo feedback è un indicatore oggi più che mai importante per le aziende e per la loro reputazione: non si tratta solo di accrescere la visibilità o migliorare l’immagine, ma di guadagnare anche in credibilità, aumentare il vantaggio competitivo su diversi fronti. Figura 3.12 Il panorama mediatico attuale del web 2.02 FONTANA A., op. cit. p. 194 Immagine del panorama mediatico attuale del web 2.0; dal sito: http://socialmediamarketingmadeeasy.co.nz/ 1 2 151 In tale contesto cosa succede alla narrazione come l’abbiamo studiata nelle sue vesti classiche? Si passa da una concezione lineare ad una declinazione in forma ipertestuale, proprio perché la rete è formata da ipertesti. Pertanto la storia si frammenta e si espande sul web manifestando nuove potenzialità rispetto al passato, ma tenendo fede alla struttura di archetipi e attanti. Possiamo raccontare la nostra storia sul sito aziendale e fargli percorrere una miriade di strade diverse oppure come nel caso del trans media storytelling, partire da una campagna offline per attrarre le persone sulla rete creando buzz ed accessi sul sito. Abbiamo già esempi italiani interessanti soprattutto del primo tipo, case history che verranno analizzate più avanti, ma molti passi avanti verranno fatti nei prossimi anni, perché la rete ora, il web 2.0, è un mondo ancora tutto da scoprire per i singoli, le aziende e le associazioni. Quel che è certo è che il paradigma della comunicazione organizzativa è destinato a cambiare: lo storytelling narrativo né è un esempio concreto. Ovviamente “il digital sotorytelling non è adatto ad ogni organizzazione e per ogni tipo di contenuti o contesto comunicativo. Tuttavia (…) può aiutare le organizzazioni a superare le barriere tracciate da una comunicazione impersonale e interagire con i diversi interlocutori, all’esterno come all’interno, in una modalità più diretta, densa e coinvolgente”1. Ho voluto soffermarmi su questa tematica perché considero il mondo dei new media una sfida davvero avvincente per le aziende di oggi, ma soprattutto del domani2. In un epoca di crisi ed incertezza, è importante saper costruire delle relazioni solide con i propri stakeholder. La rete ci offre in questo senso enormi possibilità adatte a tutte le tasche. Quello che farà davvero la differenza non saranno soltanto gli zeri degli investimenti stanziati per il digitale, ma la strategia adottata, il monitoraggio continuo e la disponibilità, oggi più che mai ad aprire un canale di discussione e critica costruttiva capace di rassicurare lo stakeholder e renderlo un consumatore fedele perché crede nella nostra azienda, perché si fida, perché la nostra storia gli trasmette dei valori, qualcosa di grande in cui sperare. FONTANA A., op. cit. p. 194 Si consiglia la visione dell’intervista al professore Bruno Lamborghini, docente di Knowledge Management presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, intervenuto alla seconda conferenza di “Narrare il consumo” per l’Osservatorio dello Storytelling. Intervento (Dal web all’azienda. Andata e ritorno) disponibile al sito: http://www.youtube.com/watch?v=rD3yNEOKOQk 1 2 152 4. L’ORGANIZZAZIONE SI RACCONTA “Interpretare significa reagire al testo del mondo o al mondo di un testo producendo altri testi (…). Il problema non è sfidare la vecchia idea che il mondo è un testo che può essere interpretato, ma piuttosto decidere se ha un significato fisso, molti significati possibili, o nessuno”. (Umberto Eco) 4.1 I campi d’intervento nella comunicazione d’impresa N el capitolo precedente abbiamo spiegato cos’è lo storytelling e su quali basi poggia. Ora invece vorremmo mostrare come concretamente la teoria venga trasposta nella pratica, quali settori tocca e quali i risultati auspicati e raggiunti. Questa visione d’insieme ci sarà utile per comprendere a pieno la funzione della narrazione in azienda e soprattutto per capire come sia possibile intervenire. Lo schema che segue rappresenta una mappa1 di pronto intervento: le sei aree individuate sono i campi che possono avvalersi della tecnica studiata. Figura 4.1 I campi d’espressione della Corporate Communication Strategic management Brand management Comunicazione interna STORYTELLING Advertising Product design Educazione e Formazione 1 FONTANA A., Manuale di Storytelling., op. cit. p.49, figura 6.2 153 Esse rispecchiano i tre piani di intervento precedentemente individuati: individuale (formazione e comunicazione interna), strategico (strategic management e brand management) e di consumo (product design e advertising). All’ interno di ciascuna area è possibile individuare un obiettivo specifico e progettare un sistema narrativo ad hoc che sia in grado di risolvere il problema o gestire una situazione. Non esiste una struttura narrativa univoca, ogni ambiente così come ogni obiettivo necessita di una strategia propria, ragionata ed oggettiva, cioè ogni azione deve essere motivata. Il progetto narrativo deve poi prendere in considerazione i canali disponibili. Possiamo individuare 4 canali principali: cartaceo, relazionale, digitale ed eventi. - Canale cartaceo = prodotti in cui la narrazione si fa elaborazione letteraria, declinabile su mezzi diversi: newsletter, house organ, biografia aziendale, booklet, brevi cartacee… - Canale relazionale = situazioni in cui la narrazione è utilizzata come processo di lavoro. Ne sono esempi i percorsi di training, interventi di comunicazione interna, l’implementazione di musei aziendali… - Canale digitale = la narrazione attraversa il web e si fa digital storytelling. In questo senso la rete si trasforma in una miniera di possibilità: blog interni, enterprise portal narrativi, fiction narrative, video-biografie, attività sui social media… E’ possibile ricorrere infatti a diversi device: dal sito istituzionale alla piattaforma su youtube, da un sito temporaneo alla pagina dei social network di riferimento… - Canale eventi = situazioni in cui la narrazione viene mediata in un contesto eccezionale che può essere una convention, un evento di premiazione… Troviamo un breve riassunto di quanto detto nello schema1 della pagina successiva, che suddivide gli strumenti secondo i canali di appartenenza. Come possiamo notare è possibile un ampia gamma di scelta a livello di strumenti e un vasto raggio entro cui lavorare. Naturalmente ogni mezzo deve essere scelto a seconda del messaggio e del target che si vuole raggiungere, in linea con un progetto comunicativo ben definito. 1 FONTANA A., Story factor, Human Resources Forum 2010, http://www.forumhr.it/ 154 Figura 4.2 Gli strumenti della comunicazione narrativa Ogni settore ed ogni strumento ha le sue peculiarità. Sarebbe senz’altro istruttivo imparare a conoscere ogni ambiente e quali siano i mezzi più efficaci, tuttavia sin dal prossimo capitolo ci soffermeremo su un particolare obiettivo di management, in modo tale da poter vivere concretamente lo storytelling attraverso degli esempi. Mi sembra interessante tuttavia accennare ad alcuni casi concreti, lavori o operazioni condotte da aziende che tocchino le varie aree, in modo da poter fare una panoramica completa prima di entrare nella singola case history. Non vuole essere una visione esaustiva, ma un modo di vedere in azione le teorie di cui abbiamo parlato. Ecco in breve i risultati di quanto dicevamo: 1) Strategic management e la comunicazione di crisi, il caso di Starbucks1. Starbucks, azienda nata sotto l’egida del suo fondatore Howard Shultz intorno agli anni 80, con una storia idilliaca alle spalle, ha vissuto una profonda crisi intorno agli anni 2007-08. Il marchio gravato dalla crisi economica e da alcuni passi falsi del management in termini di 1 VILLA C., Lo storytelling come arma per salvare Starbucks, ottobre 2008, www.brandforum.it 155 eccessivo espansionismo è stato costretto a correre ai ripari. Come è stata gestita la situazione? Mentre l’azienda sembrava porsi di fronte ad una perdita di valori ed un forte spaesamento, Shultz compreso il pericolo riprende in mano le redini come CEO. Le sue azioni per contrastare la crisi sono state mirate ad un recupero dei valori di Starbucks facendo leva sulla storia mitica dell’azienda. Tutto ciò è partito dalla sua intenzione di ritornare ai vertici con una lettera appassionata rivolta a tutti i dipendenti: la missione che si proponeva di compiere era di promuovere l’esperienza del caffè, mission su cui poggiava l’idea stessa della catena di negozi. Il suo piano prevedeva: il coinvolgimento degli utenti i quali avevano la possibilità di fornire i propri consigli per come far rivivere la storia di Starbucks sul sito istituzionale e dall’altro lato dei corsi di formazione per il personale, affinché fosse conscio della mission e dei valori di cui doveva farsi emblema lavorando per l’azienda. Il riposizionamento proposto da Shultz in tempo di crisi è stato recepito positivamente sia all’interno che all’esterno: lo storytelling, ovvero l’idea di rifarsi alla storia della fondazione ha mantenuto alta la reputazione e un’immagine molto positiva fra i diversi stakeholder. Come sostiene Cristina Villa, “ la storia di Starbucks (…) ci insegna quanto sia fondamentale lo storytelling e l’ “umanizzazione” del marchio nel processo di creazione del brand. Starbucks è nata come idea visionaria di un giovane imprenditore che aveva una missione, uno scopo. Durante la sua crescita smisurata, la catena sembrava aver tradito i suoi valori, fino a quando il crollo delle vendite è stato tale da provocare una reazione forte nel board: rimettere lo stesso fondatore, con le stesse idee e gli stessi ideali a capo di una nave che stava affondando è stata un’azione che ha permesso di rassicurare il consumatore, in un’ottica da film western in cui ad un certo punto, arrivano i buoni che sconfiggono i cattivi e “everything is gonna be al right” La storia di Starbucksè stata romanzata e identificata nel personaggio di Shultz in maniera tale che il consumatore potesse immedesimarsi nel fondatore e vedere i suoi diritti rivendicati. La potenza dello storytelling in questo caso ha salvato Starbucks”1. 2) Brand management; il brand fa parlare di sè , il caso di Petit Bateau2. E’ la grande trovata della marca d’abbigliamento francese Petit Bateau, che nell’aprile 2010 ha lanciato una campagna marketing per coinvolgere il proprio pubblico ed ingaggiarlo in una vero e proprio contest. L’idea di base è semplice: gli utenti sono chiamati a proporre 1 2 Ibid. p. 4 Case history al sito: http://www.blogoergosum.com/14689-petit-bateau-fait-parler-les-t-shirts 156 degli slogan originali da scrivere sulla propria t-shirt (Petit Bateau) per vincere delle riduzioni e buoni sconto. Anche qui, il racconto fa da fil rouge all’intera campagna. Per lanciare questo gioco il brand si appoggia a Facebook e a dei video personalizzati in stop motion: sulla pagina Talking Shirt è possibile inserire il proprio slogan oppure lanciare Facebook connect che permette di creare dei video a partire dagli status di Facebook, in poche parole i miei stati d’animo, le mie parole, vengono impresse a marchio sulla maglietta. Il video poteva poi essere inviato per mail oppure postato sulla propria bacheca. Naturalmente l’idea delle t-shirt parlanti e personalizzate ha riscosso un enorme successo per il brand, permettendo da un lato un maggior coinvolgimento degli utenti, in particolare giovani (moltissimi i “J’aime”), ma anche un enorme visibilità ed un “ringiovanimento” della marca, aperta alle nuove tendenze “digital”. Figura 4.3 La creazione della Talking Shirt Petit Bateau su Facebook 3) Comunicazione interna e storylistening, il caso del Gruppo Autostrade1. Al fine di aumentare il senso di appartenenza dei dipendenti, l’unità di comunicazione interna del Gruppo Autostrade, ha utilizzato lo storytelling come strumento efficace per gestire la comunicazione, l’apprendimento e la socializzazione fra colleghi. In particolare il 1 FONTANA A., Manuale di storytelling, op. cit. pp. 133-147 157 progetto nato nel 2006 con il nome di Progetto Esatto, si è incentrato sulla figura dell’esattore. Tale progetto è stato accompagnato dalla pubblicazione aziendale “Strada facendo”, dedicato al mondo dell’esazione, affiancato da un inserto letterario, “Raccontando storie e poesie di viaggio”, atto a raccogliere storie e poesie di autori esordienti. Il tutto inserito all’interno di un contest letterario per dare la possibilità ad esattori ed ex esattori di esprimere la propria creatività sul tema del viaggio e della strada. Racconti quindi derivanti dalla propria esperienza personale o lavorativa che aiutassero i dipendenti a sentirsi ascoltati e a parlare di sé: un canale per dialogare con il personale dell’azienda attraverso il racconto, monitorando la situazione lavorativa e il loro grado di attaccamento al gruppo. 4) Advertising e pubblicità istituzionale, il caso di Enel1. Figura 4.4 Video della campagna corporate Enel 2011 su YouTube Si tratta dell’ultima campagna istituzionale del brand italiano datata marzo 2011. Non è il primo caso in cui Enel si rifà allo storytelling per i propri spot corporate, mescolando cinema, musica, arte ed emozioni. In questo ultimo esempio l’azienda si rifà al suo passato (“1967Enel collega le isole alla terraferma”) per dar voce al proprio futuro, un avvenire che si tinge di una nuova energia, l’energia rinnovabile. Un messaggio (un aereo di carta) che viene lanciato dal bambino di ieri a quello di oggi, un turbinio di emozioni trasportate dalla colonna sonora di Ennio Morricone, per concludersi con le parole “Sono i vostri sogni a darci Case history riportata nel sito: http://socialsoda.blogspot.com/2011/04/pubblicita-enel-estorytelling.html 1 158 energia”. Altri esempi noti al pubblico italiano sono la campagna del 20091 (“Un’energia che cresce non si ferma mai”), in cui il racconto fatto di immagini parla dell’energia come di un messaggio di luci che attraversa i quattro continenti, o ancora più famosa la campagna del 20062 con l’interpretazione magistrale di Giannini in cui tre storie, quella di un nonno, di un cuoco e di uno studioso, si intrecciano dando sostegno all’idea che “L’energia va oltre quello che vediamo”. Enel utilizza le storie per veicolare i valori dell’azienda e per parlare alle persone di efficienza energetica, di futuro, di energia rinnovabile, di qualità e tradizione… Attraverso le storie ed unendo immagini, suoni, parole, è possibile comunicare anche su temi così complessi, arrivando al cuore del proprio pubblico, sensibilizzando ed emozionando ma soprattutto mettendo a nudo la propria identità aziendale e la propria mission. 5) Formazione in azienda e quality lab, il caso di Vodafone Italia3. Vodafone Italia ha utilizzato la narrazione a supporto dei suoi percorsi formativi per i professionisti dei call center. La struttura dei laboratori suddivisi in due settimane e ripartiti in attività di focus a tema, training, applicazioni operative, coaching, team meeting e valutazione, è stata imperniata sull’asse della narrazione, trasformando i quality lab in laboratori narrativi. Strumento principale utilizzato da Vodafone è la docu-fiction. Il sistema prevede che vengano girati dei video che riguardano la narrazione personale dell’esperienza lavorativa, cui segue la sperimentazione operativa, la relazione del lavoro svolto individualmente ed infine una valutazione dell’insieme confrontando i racconti dei colleghi con il proprio e le narrazioni dei clienti. Si tratta in sostanza di rileggere la propria storia e quella degli altri come in un libro aperto, analizzando i punti di forza e quelli di debolezza e confrontandosi con le percezioni del cliente. L’utilizzo dei quality lab e dello storytelling in azienda ha permesso di migliorare il Customer Satisfaction Index, ridurre i reclami dei clienti, aumentare l’efficienza e l’efficacia del personale. 6) Product placement & CSR, il caso di Mulino Bianco e le Storie di Frutta4. Storie di Frutta è il nuovo prodotto recentemente lanciato da Mulino Bianco. Per farlo Mulino Bianco ha deciso di utilizzare i social media attraverso l’applicazione su Facebook “Storie di frutta”, collegata a tre esperienze per aiutare il WWF: “Il Conta Alberi”, “Amici per la Buccia” e “Dai un nome all’albero”. Il tutto era partito da alcuni utenti che avevano postato la http://www.youtube.com/watch?v=AJulR5cOIa8 http://www.youtube.com/watch?v=xC4moOQuQTo&feature=related 3 FONTANA A., Manuale di storytelling, op. cit. pp. 141-147 4 Case history dal sito: http://www.storytellinglab.org/OS/news/storie-di-frutta-e-mulino-biancoun-posizionamento-leggero.html 1 2 159 loro idea di sostenere il WWF sul sito del Mulino Bianco, “Nel Mulino che Vorrei”. Interagendo con gli utenti stessi, Mulino Bianco ha deciso di accettare la sfida lanciando queste attività molto divertenti legate ai prodotti. “Amici per la buccia”, è un’iniziativa semplice: gli utenti possono votare il loro frutto preferito scegliendo fra gli ingredienti delle linee di prodotti “Storie di frutta”, “Frutta al cucchiaio” e “Frullato”. Le tre categorie costituiscono le squadre le quali giocano in una competizione a suon di “Mi piace”. Inoltre ad ogni frutto è collegata una storia particolare che può essere votata e condivisa sulla propria bacheca. Figura 4.5 Particolare della pagina Facebook “Storie di frutta” Ogni dieci voti per “Amici per la buccia”, il Mulino Bianco si impegna a piantare un albero nell’Oasi del WWF “Le Cesine” di Lecce. Nasce da questo il “Conta Alberi” ed il successivo “Dai un nome al tuo albero”: una volta raggiunto l’obiettivo di 1500 alberi, l’utente può continuare a giocare creando dei frumetti, vignette che possono essere postate sulla pagina Facebook iniziale, “Storie di Frutta”. Figura 4.6 Applicazione della pagina Facebook “Storie di frutta” Un esempio concreto di come la marca possa creare engagement dialogando con i propri stakeholder e creando delle reti narrative all’interno delle quali posizionare i prodotti e portare avanti delle attività social. 160 4.2 Raccontare l’identità aziendale: storytelling e C.I. Entriamo con questo paragrafo nel cuore dell’intero lavoro. Il nostro obiettivo è mostrare come sia operativamente possibile sostenere l’identità aziendale attraverso lo storytelling, quale struttura e quali strumenti possano essere utilizzati e soprattutto quale storia scegliere: come crearla ed inserirla nel contesto organizzativo. Per aiutarci nella nostra analisi faremo riferimento a due punti di vista interessanti: quello proposto da Van Riel e quello elaborato da Fontana. Entrambi gli autori presentano nei loro lavori degli spunti importanti, non da considerarsi come alternativi ma piuttosto come parti integranti di un medesimo racconto. 4.2.1 Cees Van Riel: the Sustainable Corporate Story Nel suo articolo contenuto nel libro “The expressive organization: linking reputation, identity and corporate brand”1, Van Riel dà ragione sin da subito dell’importanza della storia aziendale: “I shall claim that communication will be more effective if organizations rely on a so-called sustainable corporate story as a source of inspiration for all internal and external communication programs. Stories are hard to imitate, and they promote consistency in all corporate messages”2. Egli concepisce la corporate story come una storia unica ed irrepetibile, capace di distinguere l’azienda, creando un vantaggio competitivo rispetto ai competitors: una storia che sia fonte d’ispirazione nell’implementazione di qualsiasi piano di comunicazione o di management. E continua: “An ideal (normative) sustainable corporate story is a realistic and relevant description of an organization, created in an open dialogue with stakeholders the organization depends upon”. Prosegue poi indicando quattro caratteristiche fondamentali che devono contraddistinguere ogni corporate story. Essa deve essere: - Realistica = perché gli stakeholder abbiano ben in chiaro che la storia rappresenta il cuore dell’azienda, ne esemplifica i valori ed i principi, assorbendo in sé le caratteristiche dell’intera organizzazione, - Distintiva = perchè gli stakeholder siano consci che il messaggio intrinseco alla storia ha un valore aggiunto, rendendo l’intero racconto proprio all’azienda ed unico, 1 2 SCHULTZ M.- HATCH M. J. – LARSEN H. M., op. cit. Ibid. p. 157 161 - Interattiva = Riel definisce questa caratteristica “two-way symmetrical communication style”, intendendo con questo che la corporate story deve essere un’entità dinamica, ricreata dalla continua interazione fra stakeholder interni ed esterni. Non dev’essere qualcosa di precostituito, ma un dialogo capace di valutare la rilevanza e la verosimiglianza del racconto. L’idea di Riel risulta particolarmente innovativa se messa in rapporto al contesto tecnologico odierno: egli sottolinea l’importanza del dialogo permanente con gli stakeholder e di una storia che va costruendosi intorno alle percezioni interne ed esterne ed alle esigenze da parte dei pubblici. Come ribadisce lo stesso autore, non si tratta di un cambiamento tecnologico, ma di un cambiamento di mentalità da parte dell’azienda, - Sostenibile = è una delle caratteristiche principali. Secondo Riel: “A corporate story will only be sustainable if it succeeds in finding and maintaining the right balance between the competing demands of all relevant stakeholders and the desire of the organization itself”1. L’idea di sostenibilità nasce dal fatto che il racconto deve riuscire a mantenere l’equilibrio fra le esigenze e gli ideali aziendali e le necessità e i desideri degli stakeholder. Questi quattro attributi ci danno un’idea del significato che la corporate story ricopre per Riel. Sintetizzando possiamo intendere la storia aziendale come lo strumento principale dal quale far partire ogni attività di comunicazione. Essa rappresenta il motore, la base dalla quale si generano dei messaggi solidi e coerenti, atta a sostenere i valori aziendali, che Riel chiama Common Starting Points (CSPs). I CSPs di cui abbiamo già parlato in precedenza, altro non sono che “central values that function as the basis for undertaking any kind of communication envisioned by an organization”2, singole parole che rappresentano gli attributi chiave dell’organizzazione (es. qualità, innovazione, sviluppo, ricerca…). Ciò che Riel propone per aggirare le debolezze relative ai CSPs (in particolare l’utilizzo di parole spaiate facilmente imitabili o l’uso di gruppi di parole senza significato profondo per l’azienda e non legate fra loro) è di inserirli all’interno di una storia in cui ogni stakeholder possa riconoscersi e in cui possa investire. Per quale motivo? Semplicemente perché come dice Boje: “(…) storytelling is the preferred sense making currency of human relationships, The narrative 1 2 Ibid. p. 158 Ibid. p. 163 162 approach recognizes the meaningfulness of individual experiences by noting how they function as parts of the whole”1. La storia deve quindi farsi cornice: diventa un frame all’interno del quale è possibile inserire contenuti diversi o rimediare i messaggi già esistenti con le diverse parti. Per creare la corporate story Riel individua una serie di step (6 in totale), specificando che essa deve essere il risultato di una serie di parole, valori, percezioni, emerse all’interno di ricerche qualitative e quantitative di marketing condotte fra pubblici interni ed esterni. Vediamo quali sono questi step e come si sviluppano2: Figura 4.7 Processo di creazione della corporate story 1. Positioning 3. Corporate Reputation 2. Corporate Identity 4. Crediting and validating the sustainable corporate story 5. Implementing the final version of SCS 6. Monitoring 1. Posizionamento (Positioning) = Si tratta dell’operazione di posizionamento strategico dell’azienda costituita da attività di analisi interne ed esterne all’impresa: analisi di mercato, benchmarking (studio e confronto degli standard di business e comunicazione dei competitors), analisi dei piani di business dell’impresa a medio e lungo termine, analisi dell’attrattività di mercato, acquisizione di dati sul personale (turnover) e ricerche sugli investimenti e sui ritorni di capitale degli ultimi 5 anni. L’utilizzo di ricerche di mercato a carattere quali e quantitativo può essere un valido Ibid. Ibid. p. 166, Figura 10.1, Steps to be taken to create, implement and monitor a sustainable corporate story 1 2 163 aiuto nell’analisi (indagini fra i dipendenti, interviste ai dirigenti, indagini sul pubblico esterno). Trovare il giusto posizionamento infatti richiede un lavoro minuzioso ed attento che si fonda sulla capacità di prendere in considerazione tutti gli stakeholder da cui l’azienda dipende. 2. Identità aziendale attuale e desiderata (Corporate identity) = Nei capitoli precedenti abbiamo già parlato della definizione di Corporate Identity facendo in particolar modo riferimento al lavoro di Riel. Qui l’autore distingue ulteriormente i due concetti di identità aziendale desiderata (parent visibility) ed identità attuale (content agreement) ovvero “the degree to which all constituent parts of the company agree about the key message of the company ex pressing the why, and the how of the organization as a whole”1. Per creare una corporate story adatta all’azienda è infatti necessario aver bene in chiaro quale sia la sua identità. A questo livello la classe dirigente è quindi chiamata a indicare le due situazioni di identità reale e desiderata attraverso dei test o dei focus group mirati. Uno dei metodi qualitativi maggiormente utilizzati è il metodo Coweb: esso permette di giungere all’individuazione di parole chiave per l’azienda, parole dalle quali è facile partire per costruire la propria storia. Naturalmente tali parole vanno analizzate alla luce della percezione esterna al gruppo (stakeholder esterni), approfondendo il significato di ogni singolo lemma, in modo da poter avere una visione chiara e condivisa dell’identità aziendale. 3. Analisi della reputazione e dell’opinione pubblica (Corporate Reputation) = L’analisi della reputazione può dotarsi di validi strumenti di misura, i cosiddetti reputation rankings come il Fortune, il Price Waterhouse, il Cooper-Financial Times ece… Questi metri sono utili come punto di riferimento per la creazione di una sustainable corporate story da un lato perché danno la possibilità di valutare la situazione attuale dell’azienda per come viene percepita dai giudizi esterni degli stakeholder, dall’altro perché permette un monitoraggio nel tempo della reputazione di una data azienda in relazione a quella dei suoi competitors diretti ed indiretti. 4. Creazione della Sutainable Corporate Story ( Creating and validating the SCS) = I dati ricavati dalle analisi precedenti permettono di creare una prima bozza della 1 Ibid. p. 168 164 storia aziendale a partire dall’interpretazione delle informazioni e dall’elaborazione della key promise dell’azienda (ovvero ciò che l’azienda è e ciò che vuole essere) da parte di un gruppo di massimo 4-6 persone. Questo draft dev’essere successivamente portato al vaglio dal maggior numero di persone in modo tale da acquisire una maggiore efficacia attraverso le diverse correzioni e un maggior consenso da parte di tutti. Le rilevazioni possono essere fatte secondo diverse modalità: questionari distribuiti al personale o ad alcuni reparti per gli stakeholder interni, l’IDU-method di Rossiter e Percy per coinvolgere gli stakeholder esterni. Alla fine, una sessione di focus group con tutto il top management sarà utile per riorganizzare i dati ed analizzarli. Riel propone di utilizzare a questo punto il modello CAR (critical success factors, activities & results) applicato ai diversi ambiti aziendali. Esso prevede per ciascun punto l’individuazione dei fattori critici e di successo, delle attività collegate e dei risultati tale da creare uno schema capace di riassumere l’essenza dell’azienda. 5. Implementazione della Corporate Story (Implementing the final version of SCS) = l’elaborazione del modello CAR permette a partire dalla key promise di incentivare l’interpretazione della storia aziendale da parte del management, ampliando la propria conoscenza dell’organizzazione ma mantenendola sempre all’interno di un contesto ben definito e coerente. Da questo punto è possibile partire per l’implementazione di diversi format, grazie ai quali trasformare la core story in un racconto memorabile, scegliendo con attenzione, a seconda dei casi, i canali attraverso cui trasmettere i propri messaggi. 6. Valutazione del successo della SCS (Monitoring) = come detto in precedenza, una corporate story è un’entità dinamica, non statica. La storia dell’azienda non finisce mai, vive e respira con l’azienda stessa: si modifica con il passare degli anni prendendo delle pieghe nuove, scrivendo delle pagine nuove. Per questo va monitorata nel suo evolvere, cambiando di volta in volta le parole, i modi di comunicare, oppure ancora i canali di trasmissione. Conclude Riel: “A sustainable corporate story is not a guarantee for success, but a tool to increase understanding between organization and its stakeholders (o meglio avvicinare i pubblici alla realtà aziendale ed alla sua identità). The creation and implementation of a successful corporate story is 165 not only matter of using the “right” methods and the “right” approach, but above all the sincere desire to develop a story that will really improve the quality of corporate communication of an organization”1. Ciò significa anche che non importa il formato, lo stile, la lunghezza della story (questo dipende dall’obiettivo dell’organizzazione e dal contesto così come dal target di riferimento), ciò che conta è la core idea, ovvero il messaggio centrale basato sui CSPs, sui valori dell’azienda. Inoltre Riel sottolinea che è l’atto stesso dello storytelling ad essere fondamentale, il mettersi in comunicazione con l’altro (lo stakeholder) e condividere uno spazio comune, un racconto, L’importanza del lavoro di Riel rispetto a quello di Fontana sta nel suo approccio comunicativo ed organizzativo. Non si sofferma sul formato della storia, sui suoi caratteri, sulle dinamiche interne, ma sulle fondamenta e sulla core idea del messaggio che l’azienda deve veicolare. Riesce così a spiegare lo storytelling e la sua importanza all’interno dell’organizzazione come strumento strategico per una comunicazione strutturata e coerente. 4.2.2 Andrea Fontana: Fabula impresa e storytelling experience L’approccio di Fontana ci aiuta a colmare in parte i vuoti lasciati dallo studio di Riel. Se l’autore olandese si assesta su un profilo più comunicativo, quello di Fontana può essere definito più narrativo/sociologico, teso ad articolare le teorie della narrazione nel nuovo contesto aziendale. Come si sviluppa un percorso di storytelling in azienda secondo Fontana? Egli individua quattro step principali (è interessante notare che siamo già al 4° step dello schema di Riel, ciò significa che stiamo già operando sulla storia, limandone i contenuti e la forma): 1. Studio autobiografico del pubblico (impostazione strategica) = innanzitutto è necessario a questo livello conoscere il proprio pubblico (gli stakeholder di riferimento): il momento biografico in cui si inserisce, o le diverse traiettorie biografiche se ci si riferisce a target diversi, gli ambienti narrativi in cui è immerso (chi è, cosa legge, quali sono i suoi interessi, che musica ascolta…), quale potrebbe 1 Ibid. 179 166 essere la sua reazione nei confronti dell’azienda/marca/prodotto o di un cambiamento. 2. Individuazione della funzione narrativa portante (progettazione) = dopo aver letto i dati relativi al proprio pubblico, si deve trovare una chiave di lettura univoca: le motivazioni di fondo a cui tutte le storie sono orientate. Andando più in dettaglio è necessario: definire i temi del discorso, individuare gli episodi significativi che si intende trattare ed inserirli in una struttura narrativa data, in modo tale che siano il più possibile comprensibili. E’ qui che si mette a fuoco l’obiettivo e la struttura della narrazione più efficace per portarlo a termine. 3. Raccolta, analisi e selezione delle storie = raccolte le storie sia all’interno che all’esterno dell’azienda attraverso questionari, focus group, video, colloqui, interviste; si può passare ad un’analisi degli elementi utili rispetto al tema da affrontare, ovvero rispetto alla funzione narrativa portante. 4. Posizionamento narrativo (realizzazione) = in ultima analisi ci si occupa di restituire le storie ed i frammenti biografici, creando un proprio posizionamento narrativo. Ciò comporta due operazioni: da un lato la creazione di una storia o un set di storie a partire dall’obiettivo o dal problema identificato, dall’altra la restituzione delle storie secondo varie modalità ed attraverso diversi canali di comunicazione. Per quanto riguarda la costruzione della storia/e, ci avverte Fontana, esistono delle trame ricorrenti che l’impresa può prendere a prestito dalle teorie narrative ed in particolare dai precetti della retorica aristotelica. Le 4 micro-narrazioni principali sono: l’epica (l’eroe che deve superare delle prove per portare a termine la propria missione), il dramma (uomini colpiti dalla sventura che combattono fino alla fine contro il proprio destino), il melodramma (eroi divenuti vittime o vittime che si trovano a fare gli eroi, che cercano di riportare le cose alla situazione iniziale) e la commedia (protagonisti che con astuzia raggiungono i loro obiettivi divertendosi e facendo divertire)1. Incrociando la carica eroica che si desidera esprimere con la spinta al compimento dell’impresa è possibile generare una matrice che può aiutare a comprendere il posizionamento attuale e gli eventuali spostamenti possibili. 1 FONTANA A., Manuale di storytelling, op. cit. p. 37 167 La matrice1 può essere successivamente inserita all’interno di un genere narrativo. Ve ne sono moltissimi, ma i più comuni sono: il genere romantico (es. Barilla), il giallo (es. BMW), il comico (es. ING), il thriller (es. Nike), l’avventura (es. Alfa Romeo), il marziale-militare (es. Listerine), l’erotico (es. D&G) ed il poliziesco (es. Media World). Figura 4.8 La matrice narrativa C. i m p r e s a Tragedia Epica Commedia Melodramma Spinta eroica Per riassumere quanto detto, riportiamo nella pagina seguente, il diagramma dell’intero procedimento di storytelling operation, in cui vengono ripresi i 4 passaggi appena menzionati. Nel lavoro del sociologo italiano emerge tuttavia un’altra caratteristica di cui non abbiamo ancora parlato e che mi sembra necessario prendere in considerazione. L’effetto di un processo di storytelling condotto in modo rigorso, perché abbia successo deve portare il pubblico a sperimentare il transfer di Gruen ed una storylistening trance experience. La trance di Gruen rappresenta il momento in cui cadiamo preda del meraviglioso, vivendo una regressione allo stato infantile in una condizione di exciting propria dell’adulto. Si tratta di “uno stato di percezione “ossimorico”, contraddistinto dalla compresenza di percezioni contraddittorie come la confusione e la focalizzazione”2. E’la stessa esperienza che viviamo quando leggiamo un buon libro o vediamo un film riuscito. Per quanto riguarda le proprietà narrative invece, esse riprendono in gran parte le proprietà narrative proprie del racconto di cui abbiamo detto sopra, nel capitolo relativo alla narratologia; in questo caso le stesse sono applicate alla corporate communication. 1 2 FONTANA A., Storyselling, op. cit. p. 85, Figura 8.7, Le macrostrutture possibili di una narrazione Ibid. p. 105 168 Figura 4.9 Piano di storytelling operation1 Definiti gli step veniamo ora, più in concreto, al nostro caso: “…quali sono i racconti che costruiscono identità? Come si devono proporre in termini narrativi i principi guida, la mission e la vision organizzativa, gli strategic statements aziendali che spesso sono anche performance drivers (cioè indicazioni di comportamenti performativi)?”2 Per raccontare l’identità è innanzitutto indispensabile prendere in considerazione i seguenti aspetti: - Le narrazioni che l’organizzazione fa di sé = i temi dominanti, i miti e le tradizioni, la trama narrativa all’interno della quale si inserisce l’azienda nel parlare di sé direttamente (attraverso la voce del leader, attraverso pubblicazioni ufficiali…) o indirettamente (attraverso azioni e politiche interne ed esterne, attraverso la voce di coloro che fanno l’azienda) ciò che un’organizzazione pensa di essere - Le rappresentazioni degli eventi passati = eventi mitici o particolarmente importanti per la fondazione e la crescita dell’organizzazione che vengono elaborati sotto forma 1 2 Ibid. p. 107, Figura 12.1, Un piano di storytelling operation Ibid. p. 58 169 di storie e richiamati alla mente ogni qual volta sia necessario elaborare nuove conoscenze o incoraggiare un cambiamento ciò che un’organizzazione ricorda di essere - I diversi plot narrativi attraverso cui si esprime l’organizzazione = rete di narrazioni che regolano la comprensione dell’esistenza dell’azienda, delle sue attività e delle sue finalità; sono le forme del racconto ciò che un’organizzazione crede di essere - Il posizionamento narrativo = il posizionamento retorico che l’organizzazione decide di avere nel raccontarsi sotto quale luce vuole farsi leggere e per quali grandi aspetti vuole farsi ricordare. Come sottolinea Fontana e come ha messo in evidenza anche Riel nel suo lavoro, la corporate identity è un processo in continua evoluzione: essa vive ed evolve con l’azienda, si nutre della sua storiografia, dei momenti d’oro e di quelli di crisi. Lo storytelling, la capacità di raccontare la propria identità come organizzazione sta nell’abilità insita nell’interpretare il vissuto (passato e presente, momenti proficui e momenti bui), elaborare un posizionamento narrativo che sia coerente e trasmettere il contenuto in messaggi sotto forma di plot narrativi. Questo lavoro deve essere portato avanti non soltanto dalla direzione di comunicazione, ma dall’area di comunicazione insieme al top management, il quale deve essere il primo baluardo dell’identità dell’azienda: testimone, testimonial e modello. “All’identità come sostanza viene dunque sostituito un modello d’identità come racconto, la cui unità è il continuo prodotto dell’attività di ri-configurazione narrativa delle storie/racconto dei diversi pubblici. La concezione organizzativa monolitica viene meno per lasciare il posto a un’ “organizzazione-in-racconto” che è in continua revisione da quando nasce fino al momento in cui sarà ancora in grado di rapportarsi a sé stessa e agli altri”1. A partire dai 4 step che abbiamo analizzato in precedenza com’è possibile progettare narrativamente parlando, una storia istituzionale? Data l’impostazione strategica e quindi l’elaborazione del materiale attraverso ricerche sul campo, indagini di mercato e focus group, ci si può porre quattro finalità in relazione al nostro racconto istituzionale (progettazione): mantenere la propria posizione rafforzando l’identità attuale, allineare identità attuale e identità desiderata, mutare la propria identità in 1 FONTANA A., Manuale di storytelling, op. cit. p. 60 170 funzione del nuovo contesto di mercato, incoraggiare le forze interne aumentando la coesione e il riconoscimento nei valori aziendali. Secondo quanto detto, ipotizziamo di prendere in considerazione la prima alternativa, ovvero “presidiare l’esistente”, rafforzando la nostra corporate identity. Decidiamo un target di riferimento a cui rivolgere il nostro racconto (possiamo rivolgerci a pubblici interni in modo esclusivo, oppure ad entrambi i pubblici, interni ed esterni) e cominciamo a pensare alla declinazione sui canali ( stampa, digitale, relazionale). Siamo sempre nella fase di progettazione. A questo punto, tenendo in considerazione quanto detto, risulta necessario scegliere le trame, i generi e gli esistenti1. Figura 4.10, Definizione di trame, generi e microstorie Finalità narrative - Presidio - Adattamento - Cambiamento Scelta trame - Epica - Dramma - Melodramma Definizione genere Declinaz. microstoria - Azione/avventura - Eroe - Crimine - Impresa - Erotica - Rivale - Fantascienza - Trauma -Fantasy - Conflitto - Mistery - Tesoro - Narrativa - Oggetti magici - Noir - Aiutanti - Poliziesco - Compimento - Orrore - Eccitazione - Commedia - Thriller - Western -Utopia - Distopia - Ucronia 1 Ibid. p. 61, Tabella 7.1. Tracce di progettazione narrativa per i discorsi istituzionali 171 Questo è lo schema proposto da Fontana, ma vi potrebbero essere infinite variazioni in generi e costruzione delle micro-storie. Se le matrici rimangono costanti, il resto è declinato a partire dalla struttura del “Viaggio dell’eroe” di Vogler: si tratta di uno scheletro, una mappa attraverso la quale addentrarsi nel mondo narrativo, sapendo sin dall’inizio che i percorsi sono molteplici e variano a seconda del punto di arrivo, della nostra meta, del nostro tesoro nascosto. “La bravura di un’impresa narrante e di un manager stratega mediatico sta proprio nella scelta del giusto mix”1. Per quanto riguarda i canali che risultano essere più utili rispetto al nostro obiettivo, possiamo citare ad esempio i seguenti: autobiografie aziendali di figure simbolo, memoriali d’impresa, agende d’impresa (con i racconti dei fondatori), ri-scrittura del business plan, pubblicità istituzionali, drama road show mirati (es. teatro d’impresa), videoclip narrativi, blog o diari degli A. D. dove si raccontano e commentano fatti di business o interni all’azienda, docu-fiction, video-monografie dedicate a progetti particolari, musei d’impresa, eventi o manifestazioni d’eccezione, esposizioni intineranti, comunicazioni sull’intranet, newsletter e flash info… Dopo aver messo a nudo i due approcci, quello di Riel e quello di Fontana possiamo ora trarre alcune conclusioni di merito. Prima di tutto ci terrei a ribadire che non si tratta di lavori atti a proporre procedimenti contrapposti, quanto di studi che si compenetrano e si rafforzano vicendevolmente. In secondo luogo è facile notare come la costruzione / il rafforzamento della corporate identity attraverso la pratica dello storytelling prenda ispirazione dall’identità culturale, volta, come sostiene Michèle Ruffat a creare: consenso, coesione, potere, identità, cambiamento, obbligo, seduzione e senso2. Per questo l’identità culturale è una fonte inesauribile del racconto: fonte d’ispirazione e di motivazione. In terzo luogo: la storia non dev’essere mai un semplice racconto inventato sui due piedi, perché si rischia in questo modo di non arrivare a nulla, aggravando addirittura la situazione. Dietro una storia devono esserci sempre un OBIETTIVO, una STRATEGIA e delle AZIONI CONCRETE. La storia deve quindi essere corredata sempre da un piano di 1 2 Ibid. SYLVAIN B., op. cit. 172 comunicazione strutturato e preciso tale da rendere lo storytelling uno strumento efficace nelle mani del comunicatore. A livello di identità aziendale risulta chiaro come l’utilizzo di questo strumento possa risultare strategico per l’organizzazione e funzionale ad un recupero del proprio passato, ma anche efficace nella gestione della comunicazione e nell’accompagnamento delle scelte politiche aziendali e della governance. 4.3 Impresa regista di saperi: criticità e problematiche Abbiamo parlato dello storytelling come strumento efficace e dell’organizzazione moderna come impresa-parlante: la narrazione è ovunque e i flussi comunicativi ci circondano. Tuttavia in questi ultimi anni numerose sono state le critiche rivolte allo storytelling provenienti da diversi ambiti, la più celebre delle quali è da attribuirsi allo scrittore e ricercatore francese Christian Salmon. Vedremo di seguito quali sono le problematiche che si legano alla formula dello storytelling e ne verificheremo la solidità. 1. Prima critica, e sicuramente, una delle più sentite è quella che fa dello storytelling una pratica manipolatoria. Lo sottolinea molto bene Salmon nel suo libro, “Storytelling la machine à fabriquer les esprits”, nel quale mette a nudo i meccanismi della narrazione del nuovo millennio, nelle organizzazioni ed in politica (Bush, Obama…). L’abbiamo già visto con Lausberg nel primo capitolo: tutte le storie sono di per sé manipolatorie, ogni messaggio, ogni atto comunicativo lo è in qualche modo, perché attraverso questo atto si tende a far sì che il pubblico accetti il nostro punto di vista e compia una data azione. “Lo storytelling [in particolare] fa perdere l’innocenza a ognuno di noi quando crede di raccontare cose neutre (Wittgenstein). E chi lo adopera è altrettanto responsabile di perdere questa innocenza, assumendosi “la responsabilità prometeica” di generare percezioni e visioni del mondo” 1. Tale responsabilità deve però essere presa in considerazione sin da subito per poter operare con coscienza. E’ uno strumento che deve essere utilizzato con un’etica ben precisa ed una predisposizione 1 FONTANA A., Manuale di storytelling, op. cit. p. 14 173 per il vero. E’ fatto per incitare, incoraggiare, creare coesione non per distorcere o falsare. Se usato in questo senso lo storytelling può risultare addirittura controproducente. Lo descrive molto bene Bénédicte Sylvain1, nella sua tesi di laurea specialistica, affrontando il problema della comunicazione all’interno del parco d’attrazioni Disney in USA, dove la storia ufficiale si confonde con le contronarrazioni ufficiose dei dipendenti. Ciò crea una distorsione nella percezione ed un malcontento interno all’azienda che mette la storia ufficiale in una condizione di rigetto. Nel momento in cui lo storytelling viene utilizzato per piegare piuttosto che per unire, risulta evidente che esso perde il suo valore, si rompe l’effetto del meraviglioso ed i pubblici non credono più nella storia, addirittura la aborrano. D’altro canto è impossibile per un’organizzazione non comunicare sé stessa, non raccontare la propria storia nello tsunami narratologico odierno: non lo può fare l’azienda, non può permetterselo il candidato o il politico (si veda a questo proposito la differenza dell’esposizione mediatica dei due candidati premier alle scorse elezioni politiche italiane, Prodi e Berlusconi, alla luce dei risultati raggiunti). Pertanto è necessario ricorrere alla propria eticità: tener fede ai valori dell’azienda, essere trasparenti e chiari nel proprio modo di comunicare. Se lo storytelling è uno strumento di comunicazione, ecco che la linea di confine sta proprio lì, nella differenza tra il verbo comunicare ed il verbo manipolare. 2. Seconda critica insita nel processo di storytelling è la difficoltà di equilibrare le storie presenti nell’organizzazione. E’ innegabile che se partiamo dal presupposto che l’azienda comunica, non troveremo soltanto una voce univoca, una sola storia ufficiale; accanto ad essa corrono una miriade di altre storie che provengono dalle esperienze interne all’azienda e dai vissuti degli stakeholder interni2. Come allineare le storie interne ed esterne in un unico racconto omnicomprensivo? La novità della pratica dello storytelling rispetto alle precedenti teorie narrative, sta nel fatto di dover prendere coscienza del proprio pubblico di riferimento e di poterlo fare attraverso diverse modalità. Se in narrativa parliamo di lettore implicito, qui ci riferiamo ad un SYLVAIN B., op. cit. Si veda BOJE D., Stories of the storytelling organization: a postmodern analysis of Disney as “Tamara-land”, in Academy of Management Journal, volume 38, numero 4, 1995, pp. 997-1035 1 2 174 target preciso che possiamo studiare attraverso studi qualitativi, indagini interne all’azienda, focus group… Mentre lo scrittore si costruisce il proprio pubblico immaginandoselo ed in parte costruendolo, in ambito organizzativo è possibile scannerizzare la situazione ed una volta interpretati i dati e capite chi abbiamo davanti, adattarci modellando la nostra storia, il nostro messaggio sul pubblico. Lo storytelling è prima di tutto storylistening, dalla loro interazione può risultare un quadro esaustivo della situazione ed un percorso produttivo di implementazione del racconto. 3. Terza critica, mossa soprattutto dalla classe dirigente, riguarda l’efficacia dello strumento e la produzione di risultati tangibili in termini di bilancio aziendale. Dobbiamo partire dal presupposto che utilizzare lo storytelling in ambito aziendale in modo serio, per ottenere risultati riconoscibili, richiede tempo, impegno, dedizione, fiducia e risorse. Il tutto commisurato alla grandezza dell’obiettivo da raggiungere. Ove l’operazione si stagli su attività di advertising e di marketing (storytelling per il consumo), è facile trovare strumentazioni che possano permettere una valutazione seria dei risultati ottenuti, rispetto agli obiettivi preposti (gli indicatori possono essere relativi al n° di visualizzazioni della campagna, all’aumento delle vendite ecc...) Nei casi in cui l’operazione venga applicata a livello di principi strategici, operazioni di management o training, è necessario attivare sin da subito un sistema di monitoraggio che consenta di valutare i progressi rispetto alla situazione aziendale iniziale (interviste, analisi di mercato, ricerche quali e quantitative all’interno e all’esterno). In questo secondo caso è difficile preventivare il trend di benefici a livello di bilancio aziendale, ottenibili tramite un’operazione di storytelling. Esso fa leva su valori intangibili la cui forza in termini di benefit finanziario è ancora oggi tema di discussione. Nuovi studi devono essere condotti per far luce su quest’ultimo punto, ciò che è chiaro è che lo storytelling permette di strutturare in modo coerente l’insieme dei messaggi dell’organizzazione, migliorando l’apparato comunicativo e rafforzando identità, immagine e reputazione. Un vantaggio competitivo che fa dell’azienda un’impresa narrante e del leader un gatekeeper narrativo, creando coinvolgimento ed incitando i diversi pubblici ad unirsi al racconto in una sorta di narrazione corale. 175 176 5. STORY-FACTORY: I CASI D’ANALISI “Quando uso una parola”, Humpty Dumpty disse in tono sdegnato, “essa significa esattamente quello che voglio né più né meno”. “La domanda è”, rispose Alice, “se si può fare in modo che le parole abbiano tanti significati diversi” “La domanda è”, replicò Humpty Dumpty, “chi è che comanda - tutto qui”. (Lewis Carrol) 5.1 Un modello di impresa narrante: la Apple di Jobs Figura 5.1 Immagini di Steve Jobs durante le presentazioni P rima di concentrarci su delle case-history nostrane, vorremmo occuparci di un caso internazionale: un’azienda che ha lasciato un segno indelebile, i cui meriti derivano dalla qualità dei suoi prodotti, dalla capacità di gestione del business, e dall’abilità nel comunicare, coinvolgendo il pubblico attraverso i suoi racconti. L’azienda nasce dall’intuizione di un uomo, Steve Jobs: sotto la sua guida la Apple è cresciuta e si è sviluppata fino a diventare quello che è oggi, un grande impero industriale. Grande inventore, uomo d’affari, il fondatore di Apple è soprattutto un comunicatore. Non è un caso se abbiamo deciso di introdurre il nostro lavoro con il discorso di Jobs agli studenti dell’università di Stanford: un magistrale esempio di storytelling con cui il guru della Apple è riuscito a coinvolgere, ed emozionare raccontando degli episodi della propria vita 177 personale. “Nella comunicazione d’impresa lo storytelling viene utilizzato per trasmettere valori, condividere la conoscenza, creare fiducia e motivare le persone. Nel discorso di Jobs c’è un po’ di tutto questo. L’epoca in cui viviamo è fortemente influenzata dal cambiamento. Viviamo proiettati all’immediato futuro ma è necessario a volte guardarsi indietro ripercorrendo la strada a ritroso per trovare la via di casa”1. La riflessione, la semplicità e la chiarezza è ciò che contraddistingue il suo discorso, ed in generale tutta la comunicazione della Apple. Ma qual è il segreto di questa azienda? Il segreto sta indubbiamente nella qualità dei prodotti, nell’innovazione, ma questo, da solo, oggi, non è più sufficiente a creare quell’aura che è riuscita a generare la Apple intorno a sé. Si tratta di un’aura di riverenza e rispetto: Apple si è creata un posizionamento ed una forte identità, così facendo si è guadagnata un’immagine positiva presso i suoi stakeholder ed una buona reputazione sul mercato. “The secret is the sauce” dicono gli inglesi: l’azienda ha capito l’importanza del dialogo e della vicinanza con il proprio pubblico. La storia della Apple, una storia travagliata, piena di successi ed insuccessi, si è mescolata con quella del suo fondatore fino a creare un racconto mitico, ricco di emozione, racconto che lo stesso Jobs ha fatto rivivere in quella giornata a Stanford. Per questo si è scelto di parlare della Apple come di un’azienda narrante, perché parte del suo successo è dato dalla capacità di creare una rete di narrazioni le cui fila rimandano alla mitica mela, il logo-simbolo, e alla figura del fondatore, uno storyteller d’eccellenza. Non mi sono soffermata troppo sulle vicissitudini che hanno portato alla nascita della Apple come la conosciamo oggi: sicuramente i più sanno del processo con la Microsoft, del periodo di crisi in cui Jobs si allontanò dall’impresa che aveva creato insieme al compagno di liceo e del suo rientro nel momento in cui la situazione sembrava essere sfuggita di mano e la Apple stava per chiudere. Da allora la figura di Jobs non ha più abbandonato quella della mela multicolor, e la sua persona è cresciuta accanto a quella dell’azienda: “The Mac is the expression of his creativity, and Apple as a whole is an expression of Steve2”. La comunicazione dell’azienda, compresa l’importanza di Jobs come figura simbolo della Apple, ha privilegiato il canale diretto con il pubblico. Per un’analisi del discorso di Steve Jobs si veda: http://novamob.wordpress.com/2007/12/18/dentro-lo-storytelling-analisi-di-un-caso/ 2 Dalle parole di un amico si Steve Jobs, Larry Ellisson. Altre informazioni sulla vita del fondatore della Apple su: http://allaboutstevejobs.com 1 178 Non c’è nulla di stupefacente infatti negli strumenti di comunicazione utilizzati dall’impresa, considerata la potenzialità dei canali e delle tecnologie che può vantare. Ed è questa la cosa sorprendente! I principali strumenti di comunicazione oltre alle ordinarie PR, sono costituiti dagli eventi live in cui Jobs faceva da padrone presentando i nuovi prodotti della Apple. Il suo è un one-man-show (anche se lui non ama definirlo tale, preferendo sempre parlare alla prima persona plurale piuttosto che per sé stesso) e le sue performance hanno fatto presto il giro del mondo. Sono i suoi racconti e le sue parabole ad incantare ma anche l’uso preponderante di key-notes1che spiazzano l’audience. “The live events are self-explanatory: a Steve Jobs keynote is guaranteed to cause weeks of speculation and coverage all across the internet and news media. These events are supplemented by Apple press releases and Jobs will occasionally even give TV and magazine interviews as well”2. Molte, del resto, sono le storie (ufficiali ed ufficiose) che circolano sul suo conto, che parlano del genio, della sfrontatezza e del coraggio; doti di Jobs che vengono incorporate nell’azienda. Fra le tante si ricorda la frase con la quale Jobs convinse Sculley, presidente della PepsiCo, a diventare CEO nell’83: “Vuoi continuare a vendere acqua zuccherata per il resto della tua vita? Oppure vuoi cambiare il mondo?”3. Molto note sono anche le sue parabole (the Parable of the Concept Car4 e the Carpenter story5) e le lezioni di vita (Stay hungry, stay foolish; Think different; Lead from the front): Jobs parla attraverso concept e metafore e si rivolgeva alla gente. Altra modalità di comunicazione per dar spazio al leader del gruppo erano gli articoli postati sul sito ufficiale, firmati da Jobs6 ed il canale diretto per porre le proprie remore, indirizzato sempre a lui . Tutto questo ha portato al discorso di Stanford, alla mitizzazione di un personaggio e alla successiva visione mitica e futuristica dell’azienda: con le sue parole, raccontando la propria Per una descrizione dell’uso delle key-notes nei suoi discorsi, si veda: http://www.blogcomunicazione.com/2010/02/04/apple-e-persuasione-i-segreti-svelati/ 2 Per un’analisi della strategia comunicativa della Apple si veda : http://jetplanejournal.com/applesavenues-of-communication/ 3 Breve storia della Apple dalle origini ad oggi: http://venus.unive.it/borg/Storia_Apple.pdf http://www.theapplemuseum.com/index.php?id=1 4 La parabola è riportata su Time Magazine online: http://www.time.com/time/magazine/article/0,9171,1118384-1,00.html 5 La metafora del carpentiere viene riassunta sul sito : http://www.pcworld.com/businesscenter/article/241295/steve_jobs_life_and_leadership_lessons.ht ml#tk.mod_rel 6 Un esempio degli articoli di Jobs: http://www.apple.com/hotnews/agreenerapple/ 1 179 vita, Jobs ha rivisitato i meandri del Viaggio dell’eroe di Vogler, ha viaggiato lui stesso, perché erano lui e la sua azienda i protagonisti di quel racconto. Certo, non è da tutti gli amministratori delegati essere dei geni nel business e contemporaneamente uomini di comunicazione, non è questa la strada per tutti, anche perché, come abbiamo detto sin dall’inizio, abbracciare lo storytelling può voler dire percorrere molte strade, spesso diverse. La Apple è soltanto un modello di impresa narrante, non l’unico, forse una delle prime aziende a capire l’importanza del dire e del non dire, come dare alla gente “quel poco”, come dirlo, come renderlo spettacolare. Mi è sembrato essenziale prima di iniziare a parlare di casi aziendali, trovare un esempio che mettesse in luce non soltanto l’utilizzo dello storytelling in quanto tale, ma anche la sua estensione nella creazione di un universo mitico che facesse risplendere la propria storia nei prodotti, nei dipendenti, nella filosofia, nel core business. La grandezza di Jobs comunicatore stava in questo. E sta nell’aver trasmesso tutto ciò alla gente, con le sue metafore ed i suoi ideali, perché si sa…gli uomini passano, le storie restano. “Steve Jobs was such an amazing man. I am an Apple customer and have been purchasing these products throughout my life. I always watch the launch of the new Apple products and Steve Jobs had such an amazing air about him. He could sell sand to the desert. This man is so inspiring and has the most amazing views in life. I've read and watched several of his speeches and every one is different. He knew how to reach his audience and give them specific advice for their futures. I wish the best for his family and close friends. I can only hope the Apple company can continue his legacy and make him a proud. You will be missed Steve Jobs”. Brittany1 Una delle testimonianze della grandezza di Jobs come uomo e comunicatore da parte di una delle clienti dell’azienda, dopo la sua morte avvenuta nel 2011. Altre testimonianze e ringraziamenti per l’uomo che è stato si trovano sul sito della Apple, la quale ha dedicato un’intera pagina per commemorare il suo grande fondatore: http://www.apple.com/stevejobs/ 1 180 5.2 Monte dei Paschi di Siena: Una storia italiana Monte dei Paschi di Siena, una storia dal 1472. E’ racchiuso tutto qui il concept del progetto, e sempre in esso troviamo l’identità di un’azienda dal forte sapore italiano. Prima di addentrarci nell’ambito dell’operazione di storytelling passeremo in rassegna le caratteristiche principali di questa banca: la sua storia e i suoi valori. In un secondo momento ci occuperemo di analizzare la campagna e la sua funzione. 5.2.1 Una banca italiana: Monte dei Paschi di Siena Nata nel 1472 per dare aiuto alle classi più disagiate della popolazione, è ritenuta una delle più antiche banche del mondo. Inizialmente chiamata “Monte Pio” nel 1624 cambiò il nome in quello attuale, sempre restando legata al luogo del suo insediamento, Siena e le zone circostanti. Fra il 1907 e il 1946 si vota prima al nazionale, aprendo filiali in altre province italiane, poi all’internazionale, dichiarandosi nel 1936 Istituto di credito di diritto pubblico e dotandosi di un nuovo statuto che resterà in vigore fino al 1995. A partire dagli anni 90, comincia a diversificare la propria attività e nel 95 vengono a distinguersi due entità: la Fondazione Monte dei Paschi di Siena, rivolta ad attività di beneficienza, assistenza ed utilità sociale in diversi settori e la Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.a, che svolge attività bancarie, creditizie ed assicurative. Gli anni 2000 sono caratterizzati dalla quotazione in borsa e da successive operazioni di espansione territoriale ed operativa seguite da numerose acquisizioni (Cassa di risparmio di Biella e di Vercelli, Banca Antonveneta). Ad oggi risulta essere uno dei gruppi bancari maggiormente conosciuti sul territorio nazionale con molte filiali in Italia (2917) e all’estero1. La mission aziendale si suddivide in tre principali ambiti: - creazione di valore per gli azionisti, con una particolare attenzione nei confronti della soddisfazione dei clienti e dello sviluppo professionale delle persone Per una storia dettagliata dell’azienda, si veda il sito ufficiale alla pagina: http://www.mps.it/GMPS/Storia/ 1 181 - ergersi a modello di riferimento nell’orizzonte creditizio italiano, mantenendo la propria leadership ma guardando anche al mercato estero - sviluppo del senso di appartenenza nel gruppo e valorizzazione delle differenze culturali Dotata dal 2000 di un codice etico e di una carta dei valori, l’azienda ha un posizionamento forte sul territorio. 5.2.2 Una storia italiana- La nostra Italia Monte dei Paschi di Siena forte del suo posizionamento di banca dalle radici italiche, attua un progetto di comunicazione importante sia dal punto di vista economico che relazionale. Attraverso questo progetto l’azienda ritrova le proprie origini, rafforza il proprio posizionamento, dando nuovo vigore ad un’identità tutta italiana, ed incita il pubblico a ritrovare insieme a lei le nostre radici, la nostra storia italiana. L’azienda non aveva mai rinnegato la sua biografia e negli ultimi anni le aveva dato rilievo, investendo in campagne pubblicitarie di livello, come quella del 2007 per la regia di Giuseppe Tornatore, colonna sonora di Paolo Conte ed una serie di immagini a dare lustro alle bellezze ed alle eccellenze italiane. Il pay-off citava: “Monte dei Paschi di Siena. Una storia italiana dal 1472”. Un cordone ombelicale stretto quello fra il gruppo ed il territorio italiano, tanto che l’azienda decide di realizzare un nuovo spot nel 2009 con una colonna sonora tipicamente nostrana, “Il cielo è sempre più blu” di Rino Gaetano, per la regia di Marco Bellocchio. Di nuovo una pubblicità creata da un regista famoso, al centro la storia della banca con il territorio italiano, sullo sfondo lo stesso pay-off. Ma nel 2009 qualcosa si muove: l’azienda indice un concorso e crea una pagina web apposita, un canale you-tube istituzionale su cui successivamente caricare lo spot pubblicitario in antemprima1 ed un diario-blog. Il concorso nella sua prima edizione si chiama “Una storia italiana - La nostra Italia”. I concorrenti sono chiamati a raccontare un’esperienza, una situazione inaspettata, un Il lancio dell’azienda sulla community di YouTube è documentato dal quotidiano La Nazione nella sezione dedicata a Siena: http://www.lanazione.it/siena/economia/2009/10/28/254198-monte_paschi.shtml Il canale YouTube è presente alla pagina: www.youtube.com/bancamps 1 182 momento particolare…la loro storia italiana, sotto forma di racconto scritto, video oppure un’immagine (che vanno a formare le 3 categorie del concorso). Figura 5.2 Concorso “Raccontaci la tua storia italiana” Il fil rouge della campagna di comunicazione sono gli spot: quello del 2007 a far da antesignano ed il nuovo, in fase di realizzazione da parte del regista Bellocchio. Il soggetto è sempre lo stesso: la storia di una giornata italiana. La piattaforma www.unastoriaitaliana.it1 è suddivisa in quattro ambienti: il primo chiamato “spot” riporta in breve la storia dell’azienda e si concentra sui contenuti relativi alla vecchia campagna pubblicitaria di Tornatore (il video dello spot, il backstage, una photogallery, l’intervista e la scheda del regista, un approfondimento sulla colonna sonora ed infine alcune curiosità sulla realizzazione della pubblicità), il secondo relativo al concorso contiene il regolamento, il format per partecipare e le storie già pubblicate, mentre la terza sezione intitolata “diario” riporta direttamente al blog esterno che racconta la realizzazione del nuovo spot all’utente come se fosse giornalmente presente nel backstage. Infine l’ultima sezione riguarda il sondaggio “Una storia italiana. D’estate” in cui gli utenti sono chiamati a votare canzoni, film, oggetti di culto, eventi e personaggi che hanno fatto la storia d’Italia negli ultimi cinquant’anni. Il sito ha una grafica eccezionale in cui vengono riproposti i colori del marchio aziendale a circondare uno sfondo ricco di immagini, alcune riprese dallo spot, altre invece sono panorami ricchi di pathos di un’Italia che resta. Attraverso questo concept, l’azienda riesce a catturare l’attenzione degli utenti su di sé. 1 Il sito di Una storia Italiana con lo spot del 2007 : http://www.unastoriaitaliana.it/?spot=1&skip=1 183 “La strategia creativa (…) ruota attorno al fascino di Banca Monte dei Paschi di Siena, un grande marchio italiano che con il suo patrimonio, la sua tradizione e i suoi valori può affermare di essere fra le cose della nostra vita quotidiana, ma anche uno dei protagonisti dello sviluppo del nostro Paese da sempre. Un’esperienza e una presenza sul mercato di oltre cinque secoli da raccontare attraverso la vita di “una giornata italiana”dove la banca, discreta, reale e concreta, è l’elemento centrale delle azioni e delle attività che scorrono in un giorno qualsiasi. Nello spot si afferma l’autenticità e l’identità della banca, attenta alle innovazioni e alle esigenze che cambiano” – è quanto afferma l’azienda stessa sul sito ufficiale, spiegando il lancio della piattaforma “Una storia italiana” e del concorso1. La decisione di mantenere la stessa idea creativa, è appositamente concepito per sottolineare il posizionamento dell’azienda che si apre a nuove modalità comunicative. Le storie che vengono raccontate creano una rete di narrazioni aventi lo stesso tema di fondo: il rapporto con il territorio, con la nostra Italia. All’interno di questa macro-storia, la banca Monte dei Paschi di Siena figura come aiutante, il guardiano che sorveglia i nostri passi e ci sostiene nella vita di tutti i giorni attraverso la sua presenza. L’attivazione del modello Vogleriano si esemplifica sotto le vesti di un format epico ed un genere romantico che permea entrambi gli spot risaltando anche nel linguaggio utilizzato e nelle immagini fortemente emotive, così come nella scelta delle colonne sonore. Tutto crea un quadro ben concepito, un mix di strumenti comunicativi che permettono all’azienda di aprirsi al dialogo con il pubblico, il quale è pronto a partecipare e commentare. Nel 2010 Monte dei Paschi di Siena bandisce un nuovo concorso: “La nostra Italia”. La piattaforma resta la stessa, ma questa volta si richiede agli utenti di inviare le foto che meglio riescono a descrivere la nostra penisola. Delle storie raccontate attraverso un tour fotografico, questo il progetto dell’azienda che vuole celebrare le infinite bellezze dell’Italia2. Ed eccoci finalmente al 2011. L’azienda decide nuovamente di puntare sulla piattaforma, lanciando un nuovo progetto a partire da una campagna declinata in una serie di corti . A dirigere i lavori è un altro grande regista italiano, Michele Virzì, mentre la musica è tratta da una delle più belle canzoni di Battiato, “La Cura”. Cambia però il punto di vista: si tratta del lancio di un nuovo prodotto aziendale, la polizza AXA MPS. Il sito racconta anche in questo Sito ufficiale con la presentazione del progetto e la spiegazione del percorso seguito: http://www.mps.it/NR/exeres/4FF67C24-6641-4C92-80DF-FBBD921C21EA.htm 2 Sito del nuovo progetto 2010: www.unastoriaitaliana/lanostraitalia/ 1 184 caso le fasi di realizzazione del filmato pubblicitario con le stesse modalità delle precedenti, salvo il fatto che sono stati tolti il diario ed il sondaggio, così come non viene riproposto un nuovo concorso ma è possibile accedere dal sito ad una nuova piattaforma, “Le vostre storie italiane”, in cui tutti i testi, i video e le fotografie dei precedenti concorsi sono presenti e incasellati a mò di mosaico, classificati secondo categorie, per regione e per aree d’interesse (luoghi, tradizioni, gastronomia, materie e creazioni e momenti italiani)1. Figura 5.3 La piattaforma “Le vostre storie italiane” Il percorso iniziato nel 2007 non viene completamente abbandonato, anche se in questo nuovo progetto il tasto che viene toccato non è tanto l’identità dell’azienda ed il suo radicamento sul territorio, quanto la consacrazione di un prodotto, dietro il quale si cela nuovamente l’azienda. “Perché sei un essere speciale…ed io, avrò cura di te”, sono le parole che riecheggiano nello spot, e sono le stesse parole che pronuncia il gruppo rivolgendosi a ciascuno di noi. L’azienda sotto la formula di AXA MPS svolge sempre lo stesso ruolo di Il sito “Le vostre storie italiane” è un tributo che l’azienda fa all’Italia e alla sua popolazione, come si legge nella sezione progetto, un premio per tutti coloro che hanno partecipato al concorso per raccontare l’Italia con i propri occhi. Link: http://www.unastoriaitaliana.it/levostrestorie/ 1 185 protezione nei confronti dell’eroe, ciascuno di noi, pronto a superare gli ostacoli della vita di tutti i giorni: “Attraverso la scrittura e il disegno, caratteristiche esclusive dell’essere umano, si visualizzano nuovi progetti, si disegnano storie che AXA MPS aiuta a proteggere con soluzioni innovative. Il segno e la scrittura come fil rouge concettuale che lega ogni situazione. (…) Uno spot, dunque, che vuole portare un chiaro messaggio di fiducia e serenità sul futuro: Vivi fino in fondo, progetta secondo le tue esigenze, sogna! A proteggerti ci pensa AXA MPS”1. 5.2.3 “E’ l’Italia a rendere unica la nostra storia” La case history che abbiamo presentato è il racconto di un incontro di storie: quella di un’azienda, e quella di un Paese. Il gruppo Monte dei Paschi di Siena ha dimostrato di saper eccellere puntando su una comunicazione di qualità, tanto da vincere il Leone d’oro al Milano Finanza Global Awards nel 2010 per la migliore campagna pubblicitaria istituzionale e per essersi distinta nella comunicazione finanziaria, istituzionale, corporate e di prodotto per creatività e mix di comunicazione2. Un successo dovuto anche alla bravura del responsabile dell’area comunicazione David Rossi e colleghi. La capacità di seguire un percorso narrativo nel tempo è stato un altro grande merito: il concetto di storia ha attraversato e tutt’ora attraversa le operazioni dell’azienda. Un esempio di storytelling che fa del gruppo Monte dei Paschi di Siena un’impresa narrans, anche grazie alla capacità di adattare il format alle esigenze comunicative: dal rafforzamento della corporate identity al product placement. Fra i tanti meriti, alcuni piccoli nei: da un lato la necessità di dare una maggiore risonanza alla pagina “Le vostre storie italiane”, che rappresenta un bellissimo squarcio sull’Italia che non dovrebbe andare perduto (sarebbe interessante fare un link diretto fra la piattaforma ed il sito ufficiale, dandogli nuovo lustro, oppure mettere in campo una nuova attività che ridia vigore al progetto di partenza), dall’altro l’importanza di non perdere questo cordone ombelicale che lega l’azienda al territorio, e di recuperare il concept iniziale del progetto, magari rivisitandolo in chiavi diverse a seconda del contesto storico-sociale. Descrizione del progetto 2011 sul sito di “Una storia italiana”: http://www.unastoriaitaliana.it/progettiaxamps/ 2 Il riconoscimento è riportato sul sito ufficiale del gruppo, nella sezione « Profilo del gruppo » : http://csr.mps.it/index.php?id=21&lingua=1 1 186 5.3 Mulino bianco: Il mulino che vorrei e le sorpresine Da un’azienda italiana passiamo alla comunicazione di un brand. Stiamo parlando di uno dei più importanti marchi italiani nel settore dell’agroalimentare: Mulino Bianco. La scelta di concentrarsi su un’area specifica dell’azienda Barilla, uno dei più importanti brand italiani del settore bakery è legata a diverse motivazioni di fondo: innanzitutto la possibilità di mostrare l’applicazione dello storytelling in riferimento ad una marca, in secondo luogo farlo presentando un brand che in questi ultimi anni ha condotto numerose iniziative di comunicazione di nota, in particolare sul web. Speculare alla corporate identity, il concetto di corporate brand trova nella tecnica narrativa un valido aiuto per la creazione di un universo di senso e per il rafforzamento del proprio io. E’ quanto cercheremo di dimostrare con l’esempio del Mulino. 5.3.1 Dal Mulino Bianco al Mulino che Vorrei Figura 5.4 Il logo di “Mulino Bianco” Legato strettamente alla casa madre Barilla, Mulino Bianco rappresenta una storia d’eccezione. Nato intorno ai primi anni 70 nel cuore industriale della Barilla, nella città di Parma, è uno dei primi grandi poli ad occuparsi di prodotti da forno. Entra in piena attività intorno al 1975 con il nome “Mulino Bianco” producendo una nuova linea di biscotti, a cui si affiancano molto presto merendine, grissini, pani, torte e dolcetti. Fra il 1983 e il 1990 iniziano ad essere introdotte nelle confezioni le note sorpresine per la gioia dei bambini ed i cartoni del Piccolo Mugnaio Bianco. La linea direttrice: tradizione, naturalità, nutrizione ed un tocco di tenerezza. Negli anni 90 il brand si riposiziona nella nuova campagna pubblicitaria “La famiglia del mulino”: una vita sana e naturale, fuori dal caos cittadino è questo a cui ambisce la marca riportando i propri clienti alla semplicità e alla naturalità delle 187 campagne italiane. “Dalle favole alla quotidianità” è invece il nuovo spirito che anima Mulino Bianco nel passaggio verso gli anni 2000: restano i valori di sempre ma conditi con una dose di leggerezza nuova, con la quale affrontare in modo autentico la vita di tutti i giorni. Il mondo incantato del Mulino dove equilibrio, semplicità e dolcezza sono protagonisti, ci aiuta a superare la quotidianità e a vivere in modo più genuino. Pian piano si riscoprono nuovi canali di comunicazione e il Mulino si apre al web: nel 2005 viene creato il sito internet e vengono messe online una serie di attività contestuali (un esempio è “Il Natale del Mulino”) cui segue, strettamente legato al debutto della nuova campagna pubblicitaria una piattaforma rivolta agli affezionati della marca: www.nelmulinochevorrei.it. I valori della marca: autenticità, genuinità, tradizione, naturalezza e naturalmente un ingrediente che non può mancare nelle saghe firmate Barilla, la famiglia. La comunicazione del brand invece è affidata sin dall’inizio a grandi firme e grandi spazi televisivi: già presente nello spazio di Carosello vedrà la collaborazione di grandi come Bruno Lauzi, Grazia Nidasio (ideatrice del Piccolo Mugnaio Bianco), Gabriele Salvatores, Franco Godi, Ennio Morricone, Tornatore, le agenzie di Armando Testa e Young & Rubicam…e molti altri1. E’ soprattutto l’ultima parte della vita del brand che ci interessano e andremo ora ad analizzare il digital storytelling che ha caratterizzato le recenti attività in rete della nota marca emiliana. 5.3.2 Nel Mulino che Vorrei e il blog delle sorpresine: una storia che vive con noi “Nel Mulino che vorrei”2 nasce nel marzo del 2009 come attività di marketing relazionale business to consumer applicato alla rete, volto alla cogenerazione di idee e prodotti. L’intento è quello di raccogliere idee, analizzarle e compatibilmente con la missione del brand ed i suoi valori realizzarle insieme agli utenti. Mulino Bianco si mette in gioco, vuole ascoltare le storie che i consumatori hanno voglia di raccontargli, si propone di essere trasparente e senza pregiudizi; in cambio chiede la partecipazione. Un tipo di dialogo nuovo che fa di questo brand un brand innovativo, che ha capito il paradigma nato con il web 2.0 ed ha deciso di arrischiarsi facendo il primo passo, con tutti i pro ed i contro del caso. Il sito si divide fra le proposte degli utenti ed i progetti in realizzazione: tanti sono stati portati a Per le informazioni storiche della marca si veda: http://www.mulinobianco.it/node/235 http://it.over-blog.com/Mulino_Bianco_storia_dellazienda_e_linee_di_prodotto-1228321773art421745.html 2 Sito ufficiale alla pagina: http://www.nelmulinochevorrei.it 1 188 compimento, molti altri sono ancora in fase di realizzazione. Fra gli altri abbiamo già citato la proposta degli alberi per il WWF lanciata da due utenti e portata a termine con successo attraverso la creazione della piattaforma www.lestoriedifrutta.it ed il relativo link sui social network. Altro progetto interessante è il progetto chiamato “La dolce favola” proposto da una ragazza (Elena97), che ha dato vita ad un concorso per creare la nuova favola da inserire sul packaging dei Cracker Sfoglia di Grano che usciranno in edizione limitata nel prossimo anno1. Idea non nuova quella di Elena, già da tempo il tema della favola è radicato in prodotti e spot Mulino Bianco. In particolare un sistema di narrazioni sono presenti sui packaging della linea biscotti e frollini. “Questa storia inizia con…Abbracci. Nessuno seppe mai se fu il cacao ad abbracciare la panna o viceversa”, è la favola che ci viene raccontata nell’aprire la scatola di biscotti Abbracci, oppure ancora: “Diede un ultimo sguardo al mare di latte sottostante e si tuffò” presente sulla confezione delle Macine. Anche se, è giusto precisare, che il prodotto della linea che si rifà in toto a questo schema narrativo, sono i biscotti “Pan di stelle”. Sin dalla loro comparsa il posizionamento ha prediletto la storia, in particolare il genere romantico-onirico: la buona favola per tutti i bambini, grandi e non. Figura 5.5 Il packaging dei biscotti “Abbracci” e “Macine” Mulino Bianco Il concorso si chiama “Diventa tu l’autore della nuova storia di Cracker Sfoglia di Grano!” ed è disponbile al seguente link: http://www.mulinobianco.it/promozioni/cracker_story La proposta di Elena 97 con successiva risposta da parte dell’ufficio marketing di Mulino Bianco è invece presente al seguente link: http://www.nelmulinochevorrei.it/idee/8728/la-dolce-favola-.htm 1 189 Una sorta di gioco che il brand istituisce con il cliente, ma anche un alone di magia che circonda i prodotti della marca e che ha più volte contraddistinto i discorsi ufficiali: pensiamo alla storia del mulino o alla storia della famiglia del mulino… Il sito naturalmente non si arresta sulla piattaforma ma si dirama su vari social network (Facebook e Twitter) utilizzati di volta in volta come spalla per attivare delle operazioni, dei giochi o delle attività da condividere con il pubblico. Mi interessava iniziare a spiegare “Nel Mulino che vorrei” per far capire l’approccio nuovo di Mulino Bianco nei confronti della comunicazione. E’ sulla stessa linea d’onda che si staglia anche il progetto delle sorpresine, un’operazione di storytelling semplice che attiva negli utenti ed affezionati della marca ricordi: ricordi di storie, della propria infanzia, dei giochi fatti da bambini. Anche in questo caso parte tutto dal sito “Nel mulino che vorrei”: un utente propone di far rivivere le vecchie sorpresine per i tanti nostalgici come lei1. Tanti post e blog sul social network più frequentato avevano già mostrato questa inclinazione: una spiccata nostalgia per le vecchie sorpresine. Mulino Bianco decide di muoversi in questo senso, ed è così che nasce una sezione apposita sul sito ufficiale: “Il mio Mulino”2. Lì troviamo: “Il catalogo delle sorpresine”, “Il blog delle sorpresine”, “Il blog del tour” e “Diari di spighe”. Dallo storylistening allo storytelling; il Mulino sembra aver capito bene come gestire la comunicazione sulla rete e come attivare le proprie storie attraverso i discorsi e le esperienze dei consumatori. Il catalogo presente sul sito è una sorta di archivio contenente tutte le sorpresine nascoste nelle scatole delle merendine per ragazzi a partire dal 1983: intere generazioni di ragazzi che hanno vissuto con questi piccoli giocattoli sorpresa possono ora non soltanto rivederli in formato digitale, ma registrandosi sul sito è possibile personalizzare l’archivio segnalando quelli in possesso e quelli mancanti. Si può creare un proprio catalogo, votare le sorpresine preferite e commentare: interazione, dialogo, esperienza e ricordi si mescolano in questo progetto di comunicazione con lo stakeholder. Ma non basta, Mulino Bianco fa di meglio e chiede anche qui agli utenti di partecipare: viene creato il blog delle sorpresine a cura di Graziella Carbone per rivivere insieme la magia delle sorpresine, ed attivate delle operazioni La proposta dell’utente e la risposta del team di Mulino Bianco nel diario dell’idea: http://www.nelmulinochevorrei.it/idee/261/vecchie-sorprese-nelle-merendine.htm 2 Link della sezione “Il mio mulino”: http://www.mulinobianco.it/sorpresine 1 190 per far rinascere le sorprese anche in formato digitale con il link alla pagina Facebook e con alcune applicazioni per IPhone, IPod Touch ed IPad, presenti sull’Apple Store1. Figura 5.6 Il catalogo delle sorpresine Le altre due sezioni, non sono strettamente legate a questo progetto, ma riguardano piuttosto un nuovo modo di fare esperienza del e con il Mulino: il Blog del Tour, è uno storico del Tour Mulino Bianco speculare a quello di Casa Barilla portato in molte piazze italiane e luoghi di fascino, mentre Diari di spighe2 è un diario animato da alcuni blogger della rete scelti da Mulino Bianco, in cui è possibile raccontare la propria esperienza di fare colazione, ma anche parlare di cibo e di esperienze di consumo in generale. Una comunicazione aperta quella della marca di Barilla, ma anche molto studiata e controllata: nulla è lasciato al caso ed i passi così come le risposte date agli utenti sono date con entusiasmo ma anche con cautela. L’idea del catalogo delle sorprese in modo particolare ha rappresentato un progetto interessante per quanto riguarda la nostra ricerca nell’ambito dello storytelling applicato alla marca, ed un modo per riflettere sulla difficoltà di mantenere un dialogo aperto con il pubblico senza mai disattendere le sue aspettative. Le applicazioni presenti sull’Apple Store si trovano al link: http://itunes.apple.com/it/app/biglie/id439678743?mt=8 La prima e più nota: “Le biglie incappucciate”, non ha per ora sortito grandi successi a causa della semplicità dell’applicazione. E’ sicuramente un primo passo per avvicinarsi al digitale ed al mondo dei giochi, siamo certi che ce ne saranno molti altri a venire. 2 Per un’analisi della comunicazione in “Diari di spighe” rimandiamo al seguente link: http://thetalkingvillage.com/casi/notizia/i-diari-delle-spighe.asp 1 191 5.3.3 Un brand partecipativo, una marca che si racconta nel tempo Quello che abbiamo capito attraverso l’analisi della case history in questione è l’importanza di cogliere il flusso comunicativo che riguarda la marca ed incanalarlo secondo una visione strategica il più possibile attrattiva. Dare al pubblico quello che il pubblico ci chiede, esattamente come in una performance. Nel nostro caso si tratta di appoggiarsi a valori intangibili facendo vivere la marca attraverso i ricordi del passato che hanno segnato le vite dei consumatori: il blog ed il catalogo delle sorpresine sono infatti degli attivatori di storie. L’aprirsi a questo tipo di dialogo ha permesso alla marca di puntare sulla propria brand identity, di ascoltare ma anche di parlare di sé per quello che è stata e che vuole essere. Specularmente a quanto visto con l’esempio precedente, dove si parlava dell’identità di un intero gruppo aziendale, qui invece il punto chiave sta nell’essenza e nei valori del brand. Se parliamo però a livello di azienda è centrale sottolineare che Barilla è un’impresa narrans da sempre: Mulino Bianco in questo è un baluardo dell’azienda. La schema narrativo in cui si inserisce lo vede come alleato: non tanto come aiutante, quanto come compagno di giochi, amico, presenza costante nella vita del consumatore. Ma la cosa interessante è che da questo schema si diramano attraverso i prodotti infinite narrazioni: spesso è la famiglia o un membro di questa ad essere protagonista della micro-narrazione, ed il prodotto è aiutante, oppure oggetto magico. Figura 5.7 Sito ufficiale di “Mulino Bianco” 192 La declinazione delle storie avviene sotto varie modalità: dallo spot al packaging, dal sito web alle attività di marketing. Particolare attenzione deve essere data alla grafica ed al linguaggio, entrambi molto evocativi di un passato dalle tinte fiabesche: basti guardare ai disegni del sito o alle confezioni ed alla modalità di presentazione dei prodotti. Un esempio della grafica del sito è presente nell’immagine riportata nella pagina precedente, ripresa dal sito ufficiale alla sezione prodotti – colazione e merenda. Un genere quindi romantico che scende a volte a recuperare tinte fantastiche, quasi oniriche. Da questo punto di vista la marca si riavvicina all’azienda Barilla, riprendendone chiavi narrative, protagonisti e valori. Casa (Mulino), famiglia, nutrizione, tradizione, il recupero del passato come eredità da tramandare di generazione in generazione ed il forte legame con il territorio: tematiche che ritornano anche se studiate con stili differenti. Approfondendo l’ambito dell’ interazione con gli stakeholder, come abbiamo detto fin dall’inizio, Mulino Bianco è una marca modello, ed è anche per questo che l’abbiamo scelta. Ovviamente il sistema partecipativo applicato dal brand è altamente innovativo ed al passo con i tempi, ma anche pericoloso se non monitorato in modo costante da parte dell’azienda: la libertà può sempre risultare un arma a doppio taglio per le aziende. Inoltre è necessario che questa libertà, se proclamata, non sia solo apparente ma dia risultati concreti: quando si promette qualcosa al proprio utente, bisogna restare ai patti, pur sempre nel rispetto dei valori del brand. Con “Nel Mulino che Vorrei”, Mulino Bianco ci sta riuscendo molto bene, anche se ciò comporta un certo dispendio in termini di costi ed energie, di cui non tutti possono disporre. Anche in termini narrativi il brand si muove piuttosto bene, come nel caso trattato, ma manca una certa presa di coscienza del mezzo utilizzato. Questo perché a nostro modo di vedere, Mulino Bianco non ha sfruttato a pieno il potere della narrazione, mentre avrebbe potuto giocare molto di più con i propri stakeholder. L’opportunità era grande. Intervenendo in risposta ad una necessità ed accettando la sfida, le possibilità di generare attività intorno al brand erano infinite: campagne, eventi, riproposizione delle sorpresine, piattaforma youtube… Ci ha fatto emozionare, facendoci rivedere le nostre amate sorpresine in vetrina sul sito, avrebbe potuto farlo di più facendocele conoscere meglio, facendocele amare meglio, raccontandoci delle storie del loro passato, facendole scrivere a “noi” ragazzi della generazione ‘80-’90, oppure ai nuovi ragazzi perché imparassero a conoscere la marca da ciò 193 che ha fatto affezionare noi. Per esempio meglio è stata gestita l’operazione di promozione dei nuovi prodotti “Storie di frutta”, in cui l’idea di storia ha fatto da sfondo all’intera campagna. Quel che è indubbio è che uno dei grandi meriti della marca è l’utilizzo dello storylistening: la capacità di ascoltare e capire i discorsi dei consumatori. Gli spunti attualmente sono molti e data l’appartenenza ad un gruppo come Barilla, siamo certi che Mulino Bianco non smetterà mai di alimentare in noi una certa suggestione con i suoi prodotti e la sua comunicazione. Il nostro augurio è che non smetta mai di crescere e continui a restare un modello da seguire per le tante imprese italiane piccole e grandi, affinché capiscano l’importanza della comunicazione nel processo di relazione con gli stakeholder e l’influenza dello storytelling sulla brand identity. 5.4 Gruppo Amatori: Viaggiare Terra e Mare Fino ad ora abbiamo tratto gli esempi da casi nazionali molto importanti, aziende di rilievo radicate sul territorio, nella mente di clienti e consumatori, italiani e non: un gruppo ed un brand conosciuti, che hanno saputo sfruttare la tecnica dello storytelling per sostenere la propria attività. Quest’ultima case-history è volutamente diversa ma altrettanto importante, anzi direi che potrebbe essere considerata il manifesto dell’intero lavoro perché testimonianza concreta di come l’approccio narrativo non sia uno strumento adatto soltanto ai grandi: tutti possono accedervi e costruire la propria storia per rafforzare la corporate identity, far rivivere il brand, lanciare un prodotto, incoraggiare il management o il lavoro dei dipendenti… L’esempio in questione tratta di una mini impresa, capace di creare un grande mondo,di raccontare luoghi e genti diverse, emozionare e dare tanto. Si tratta di un tour operator italiano, il Gruppo Amatori, di cui parleremo nelle pagine a venire. 5.4.1 Un Tour Operator made in Italy Fondato nel 1945 dal capitano Primo Amatori nella città di Ancona, il gruppo Amatori si divide fra l’agenzia marittima che lavora come agente raccomandatario per le imbarcazioni e spedizioniere doganale, l’Interstate che offre servizi per le cartiere, Blue Service dedicato al settore della sicurezza marina ed infine Amatori Group Tour Operator, punto di riferimento per tutti i turisti. Radicato nella cittadina di Ancona, la sede del gruppo si trova nell’antico 194 palazzo Benincasa in sui oltre agli uffici è presente una biblioteca di circa 20.000 volumi, donata da Franco Amatori, figlio di Primo e docente di Storia Economica presso l’Università Bocconi di Milano. Ma parliamo ora del Tour Operator. Nato dall’esperienza del Gruppo Amatori, lavora sulle due sponde dell’Adriatico, occupandosi in modo particolare di Croazia, Bosnia, Slovenia, Montenegro ed Albania da una parte e le Marche dall’altra. Per comunicare con i propri clienti, sono messi a disposizione diversi canali: i due siti ufficiali (www.marche.amatori.com e www.croazia.amatori.com), una pratica piattaforma adibita alle prenotazioni e rivolta sia alle agenzie che ai privati (www.booking.amatori.com), un blog dell’agenzia (www.viaggiareterraemare.it), una pagina esclusivamente dedicata alla prenotazione di traghetti per i Balcani (www.traghetti.amatori.com) ed infine delle pagine apposite sui principali social network (Facebook e Twitter). Il nostro esempio si basa sul blog dell’agenzia, sito che andremo ad analizzare nel prossimo paragrafo, approfondendo il lancio e le sue funzioni1. 5.4.2 Viaggiare Terra e Mare: una storia fra mondi diversi Il blog del gruppo viene lanciato nel settembre del 2009 grazie alla collaborazione con un’agenzia di comunicazione esterna, la E-xtrategy2. Prima di descrivere l’operazione vorrei lasciare per un attimo la parola al manifesto programmatico che troviamo sul blog, alla voce Manifesto, per comprendere gli obiettivi della strategia comunicativa di Amatori: “Perché un Tour Operator ha scelto di creare un blog così, non commerciale e aperto? Ecco in 5 punti la nostra risposta: 1) Ci piace viaggiare. Siamo fanatici in effetti: c’è sempre qualcosa di nuovo da provare e soprattutto da imparare. 2) Altrove vendiamo viaggi. Qui no. Al massimo li raccontiamo. 3) Ci piace la tecnologia quando è pensata per le persone: abbiamo creato questo spazio comune per raccogliere informazioni e sensazioni, ma anche far conoscere luoghi e persone. Per approfondire la storia del Gruppo e dei diversi settori si veda il sito ufficiale alla pagina: http://www.amatori.com/home/il-gruppo-amatori/ 2 Per avere maggiori dettagli sull’operazione, si rimanda al sito ufficiale dell’agenzia di comunicazione digitale che si è occupata del caso: http://www.e-xtrategy.net/2009/09/14/viaggiare-terra-e-mare-lostorytelling-del-gruppo-amatori/ 1 195 4) Vogliamo sempre scoprire qualcosa di diverso. I nostri occhi non bastano: abbiamo bisogno anche dei vostri in uno spazio condiviso. 5) Abbiamo scelto di partire dalle Terre di cui siamo esperti, Marche e Croazia, unite dallo stesso Mare: le faremo raccontare da 4 personaggi immaginari che potrebbero rappresentare molti di voi. Sappiamo da dove partiamo, non vogliamo sapere dove arriveremo. Amatori Tour Operator”1. Il manifesto ha il merito di sintetizzare in breve l’attività: il blog è stato costruito per creare del valore e per poterlo condividere con gli utenti. I temi sono quelli propri al Tour Operator: il viaggio, in particolare un viaggio che ci porta nelle terre di Marche e Croazia, da cui il sottotitolo “Suggestioni tra Marche e Balcani”. A raccontare il viaggio saranno dei personaggi immaginari, a rappresentare viaggiatori in carne ed ossa. Figura 5.8 Il blog “Viaggiare Terra e Mare” Qui in alto possiamo vedere il sito del blog con il primo post, contenente la presentazione dei personaggi. La funzione del blog è di raccontare quattro storie di viaggio, quattro esperienze diverse, ma anche di far parlare gli utenti, farli interagire e creare argomenti di discussione su delle tematiche che costituiscono il core business dell’azienda. Riprendiamo quanto dice l’agenzia creatrice del blog: 1 Il manifesto è presente al seguente link: http://www.viaggiareterraemare.it/manifesto/ 196 “Lo scopo del blog è proporre questioni che riguardano il territorio, chiedere agli utenti opinioni riguardo i loro viaggi su queste terre, dar vita ad una conversazione attiva con le persone che vivono quotidianamente queste esperienze.(..) Il blog farà da aggregatore dei contenuti che i personaggi generano in rete attraverso i propri social network. L’obiettivo finale di questo progetto è creare una community di persone che partecipa attivamente alla generazione di contenuti e al confronto costruttivo sul web, sempre intorno al tema del viaggio e della scoperta del territorio”1. Il blog è creato poi per espandersi sulla rete attraverso il collegamento a reti sociali, pagine Facebook e Twitter. Tutto rimanda al tema del viaggio fra terra e mare, anche la grafica dallo stile vintage riprende la stessa tematica, rielaborandola con un azzurro misto all’ocra a richiamare la terra. Il gruppo cerca quindi attraverso la narrazione in rete, di crearsi una community, di moltiplicare i punti di aggregazione e di aumentare la propria visibilità puntando sull’identità del marchio. Una caso di digital storytelling su misura, originale e di successo, tanto che dopo il primo anno, il blog ha continuato ad esistere sotto diverse forme, inserendo concorsi, attività, eventi ed alimentando una comunità in crescita. 5.4.3 Una storia per viaggiare…anche con la fantasia Viste le dimensioni del gruppo, lanciare un’attività di comunicazione del genere ha avuto un peso rilevante. L’idea di legare il viaggio alla narrazione non è nuova, ma viene inserita in un contesto innovativo: la rete ed il blog, un ambiente fatto per raccontarsi e raccontare. Una scelta azzeccata, così come il linguaggio e lo stile del racconto. Tale è stato il successo del blog e delle storie, racconta Michele Luconi (direttore dell’agenzia di comunicazione Extrategy) da portare addirittura la gente a credere nell’esistenza dei quattro personaggi: quando si dice che l’immaginazione supera la realtà, e quando un racconto fa veramente il proprio lavoro! Nuovamente interessante il contributo dell’agenzia creatrice, la quale nel suo blog spiega lo storytelling management: “le aziende oggi sono grandi, frammentate, complesse: è difficile delinearne il quadro complessivo. le “storie” aiutano a comporre il quadro vero e concreto dell’azienda, quella che i dipendenti vivono e sentono. Adottare un taglio più narrativo nella comunicazione aziendale, anche in quella esterna e “ufficiale” aiuta spesso a conquistare attenzione e lettori, a Dal blog dell’agenzia E-xtrategy: http://www.e-xtrategy.net/2009/09/14/viaggiare-terra-e-mare-lostorytelling-del-gruppo-amatori/ Il post analizza il lavoro eseguito e ne spiega le finalità. 1 197 sfuggire i pericoli dell’omologazione, a dare all’organizzazione uno stile e una voce propri. Una fredda case history può essere narrata come un racconto, con un inizio, uno svolgimento e una conclusione. E così per un nuovo prodotto, la cui nascita può essere raccontata dalla viva voce dei suoi progettisti”1. L’esperienza del Tour Operator Amatori con E-xtrategy, è la testimonianza di piccole e medie aziende che si affidano alla pratica dello storytelling per far parlare di sé e raccontarsi: un primo esempio di qualcosa che cambia, grazie alla rete e al web 2.0, ma anche grazie alla comunicazione che si rende più che mai indispensabile per farsi riconoscere in un contesto diversificato e complesso. Sono queste le imprese che imparano a fare i primi passi nell’universo della comunicazione integrata dove il mercato richiede coraggio, entusiasmo ed originalità per far sentire la propria voce al di sopra del vociare continuo del sistema. Qui lo strumento dello storytelling diventa uno strumento efficace alla portata di molti, a misura di obiettivi e a seconda delle risorse. Dal blog dell’agenzia di comunicazione E-xtrategy, al link: http://www.e-xtrategy.net/2009/06/11/storytelling-marketing-la-fabbrica-delle-storie/ 1 198 6. COME UNA STORIA PUÒ CAMBIARE LA SOCIETÀ “Vi è mai capitato di sentire una barzelletta così tante volte da dimenticare perché è divertente? E poi la sentite di nuovo ed improvvisamente è nuova. E vi ricordate perché vi era piaciuta tanto la prima volta …A furia di raccontare le sue storie, un uomo diventa quelle storie. Esse continuano a vivere dopo di lui, e così egli diventa immortale”. (dal film “The big Fish”) 6.1 La comunicazione e l’impresa oggi oltre la crisi “C omunico quindi esisto” è il titolo di un libro di Eugenio Caruso in cui si parla dell’importanza della comunicazione per le aziende; un titolo che mi ha fatto riflettere. Siamo arrivati alla conclusione del nostro percorso all’interno dell’universo della comunicazione, in questo viaggio abbiamo toccato temi spesso diversi accomunati da due tematiche di fondo: l’impresa moderna e lo storytelling come nuovo mezzo di comunicazione. In questo senso l’assioma qui sopra mi sembra riassumere in modo adeguato quanto abbiamo vissuto ed imparato: comunico quindi esisto significa comprendere dal punto di vista ontologico e gnoseologico l’essenza della comunicazione e la sua importanza per la nostra vita. Non si tratta di un surrogato di blanda filosofia per le masse o di una frase fatta, queste parole sono la chiave per capire l’uomo ed interagire meglio con l’altro ma anche per mettere a punto dei messaggi corretti e coerenti con il nostro obiettivo ed il nostro essere. Comprendere che comunicare è essenziale per esistere e farsi riconoscere nella società è una key-issue fondamentale per il singolo come per i gruppi, associazioni o imprese: che si parli di personal brand o di corporate brand/identity, farsi ascoltare e riuscire ad emergere è una necessità che ci impone il mercato odierno. L’identità è un marchio che ci contraddistingue, per questo dobbiamo valorizzarlo e saperlo comunicare nel modo più 199 adeguato: eccitando, emozionando, creando interesse… Da ciò l’importanza data alla scelta delle parole, dello stile, del tono, dei canali di comunicazione. Avere questa attenzione permette al singolo di parlare in modo efficace e misurato da un lato ed ascoltare in modo disincantato le voci che provengono dal flusso comunicativo sapendo scindere la confusione e selezionare ciò che gli interessa. L’azienda da parte sua beneficia di una competenza ulteriore, può utilizzare molti più strumenti e confidare i propri messaggi nelle mani di professionisti della comunicazione, ma ha più storie da gestire e più aspettative che non può permettersi di disattendere. Ciò è ancora più vero se pensiamo che il terreno fragile su cui si muovono le aziende oggi, in un periodo di crisi, non permette passi falsi. Il contesto è mutato, ma anche la comunicazione lo è. In questi ultimi anni grazie allo sviluppo di nuovi media e al crescente bisogno di comunicare, la corporate communication è diventata strategia e disciplina di studio e la comunicazione si è emancipata, ha trovato la propria strada, non sempre facile. Del resto, la situazione è destinata a mutare progressivamente con l’evolversi della tecnologia: da internet al web 2.0 si è rivoluzionato il modo di pensare la comunicazione, il consumo, la vita di ciascuno, ma il processo di cambiamento è ancora in atto. Come noi abbiamo dovuto adattarci anche l’azienda ha dovuto fare lo stesso per restare al passo con i tempi e per esaudire le richieste di stakeholder sempre più esigenti: sono nati nuovi approcci a livello comunicativo (lo storytelling, il social media marketing, il marketing relazionale…) e a livello manageriale (lo humanistic management…). Le scienze umane sono entrate nelle organizzazioni e con esse anche una maggiore necessità di rispetto nei confronti del sociale e dell’ambiente: pensiamo alla corporate social responsability, al codice etico e al bilancio sociale. L’azienda ha compreso l’importanza di agire come soggetto nella società e di comportarsi in modo più responsabile, operando sul territorio e dialogando con le persone che la costituiscono e la circondano. Afferma Gianni di Giovanni, Responsabile della Comunicazione di Eni: “Il tema della reputazione oggi si intreccia fortemente con quello della Responsabilità Sociale di impresa, dal momento che vi è una crescente tendenza dei consumatori a prediligere le imprese che si dimostrano sensibili a valori “intangibili”, che vanno oltre il business, come l’ecologia, per esempio, e l’attenzione alle sollecitazioni che provengono dalla società. Ed è questo il motivo per cui molte aziende cercano esplicitamente di associare la propria immagine a questi valori 200 per migliorare il proprio capitale reputazionale”1. Un’impresa nuova quindi, che rivede le proprie priorità e che si staglia all’interno di un contesto instabile, di cambiamento continuo e di crisi in cui i valori e la cultura organizzativa hanno un peso determinante nella costruzione di identità ed immagine. L’architettura della comunicazione aziendale, dato il nuovo contesto, sta seguendo una parabola evolutiva secondo diversi step che ne condizionano l’ascesa. Da questo punto di vista le parole chiave del flusso comunicativo 2.0 sono le seguenti: partecipazione, dialogo, interazione, ascolto e controllo. Se volessimo riassumere il tutto in un solo vocabolo parlerei di relazione2. Tale concetto è oggi centrale per ogni attività comunicativa e si basa su un’attività di scambio di informazioni reciproco. A questa parola aggiungerei poi l’idea di autorità, perché l’azienda non deve mai dimenticare il valore dei propri messaggi e deve saper dosare con misura le proprie parole. Forse è proprio l’idea di parola ad essere il centro del culto della comunicazione oggi: saper comunicare in modo efficace significa dare l’importanza necessaria ad ogni parola presente nel testo, nel comunicato stampa, nel video, nel messaggio. Ho recentemente trovato un interessante articolo datato 2008 in cui si parlava delle sfide della comunicazione nei prossimi anni a venire3. La prima delle quattro è un invito a ritornare alla semplicità: “Go back to basics”. Nell’era del digitale e dei social network è più che mai importante saper dosare le parole ed utilizzarle in modo corretto: a fiumi di parole e complesse attività sulle pagine Facebook preferire dei messaggi forti, coerenti con il posizionamento aziendale e le sue concrete operazioni di business. Semplicità non come informazione scarna o elementare, ma come essenza. E’ questa la prima sfida della comunicazione di domani: dare il giusto peso alle parole che vogliamo comunicare. Altra grande sfida è naturalmente saperlo fare nel modo adeguato, e quindi adattare il linguaggio ed il modo di operare ad una società partecipativa e dialogante: le parole devono essere Dall’intervista a Gianni di Giovanni, firmata da Gianni Panico. L’articolo, “Niente di più facile, niente di più difficile” compare a p. 18 nel numero 63 del Magazine “Relazioni Pubbliche” di Ferpi, ed è stato scritto in occasione dell’uscita del libro che reca lo stesso titolo dell’articolo, scritto da Gianni di Giovanni e da Stefano Lucchini. 2 In riferimento all’idea di relazione e al concetto di creazione di reti di valore, si consiglia la lettura dell’articolo di Toni Muzi Falcone, “Accompagnare, narrandola, l’organizzazione verso il beyond”, in “Relazioni Pubbliche”Magazine, numero 63, 2010, p. 6 3 L’articolo, scritto da Jim Shaffer, si trova nel sito MELCRUM Internal Comm Hubs, “Four communication challanges to overcome in 2008” : http://www.internalcommshub.com/open/strategy/casestudies/shaffer.shtml 1 201 calibrate e modellate sul canale prescelto avendo coscienza della propria autorità e capacità di controllo del flusso comunicativo. Il momento di crisi attuale sembra andare ulteriormente verso questa direzione: dove le risorse da spendere in comunicazione sono esigue, le esigenze di mercato richiamano le aziende all’efficienza e all’efficacia ed è quindi indispensabile calibrare le proprie mosse e selezionare dall’infinità di strategie comunicative, quella più adatta al caso. Plasmare la propria comunicazione su uno schema narrativo come abbiamo visto, può essere un valido aiuto nel gestire i messaggi e nel posizionarsi in modo deciso all’interno del mercato, proprio perché le narrazioni prediligono la chiarezza e la coerenza. Vedremo nel prossimo capitolo quali sono le caratteristiche di un’impresa che cambia e daremo degli spunti per l’utilizzo dello storytelling in un contesto nuovo ed in mutamento continuo. Si tratta di uno strumento particolare, di cui ci siamo occupati in queste pagine, ma non è il solo, ve ne possono essere molti altri. In questo, il compito del comunicatore è oggi più che mai fondamentale. Egli deve essere una persona intuitiva, sempre pronta all’ascolto ma anche pronta ad agire in modo istantaneo in un mondo in cui la notizia si fa virale ed ipermediale. Il suo lavoro sta nel capire quale mezzo si adatta meglio al tipo di messaggi che la propria azienda intende trasmettere in riferimento ad un dato pubblico, ad un contesto e ad un obiettivo prestabilito a monte. Un’attività di strategia potremmo dire, sì, ma la strategia da sola, spesso, non basta. E ritorniamo nuovamente al concetto di relazione: il comunicatore deve farsi guru della parola e muovendosi all’ombra dell’organizzazione, garantire delle relazioni proficue con gli stakeholder aziendali. “Sia che un’azienda comunichi per informare, sia che lo faccia per motivare o persuadere, essa non può fare a meno della fiducia dei suoi destinatari. Nella realtà aziendale la fiducia è un valore che tocca trasversalmente tutti i segmenti dell’impresa. Per un’azienda la fiducia è trasversale a qualsiasi rapporto, genera rispetto ed aumenta la reputazione”, afferma in un intervista apparsa sul Magazine di Ferpi Gianni di Giovanni, Responsabile della Comunicazione di Eni1. La fiducia in un momento di crisi è una delle più importanti leve per il successo: quando le comunicazioni si fanno sempre più liquide e si vanno mescolando nella rete, coltivare relazioni, ascoltare e farsi ascoltare diventa un imperativo. Ricominciare dalle Dall’intervista a Gianni di Giovanni, firmata da Gianni Panico. L’articolo, “Niente di più facile, niente di più difficile” compare a p. 18 nel numero 63 del Magazine “Relazioni Pubbliche” di Ferpi, ed è stato scritto in occasione dell’uscita del libro che reca lo stesso titolo dell’articolo, scritto da Gianni di Giovanni e da Stefano Lucchini. 1 202 parole e dalle relazioni è quindi il messaggio che mi sembra più attuale per la nostra comunicazione 2.0, l’unica strada per capire il senso dell’assioma della prima riga di questo paragrafo: “Comunico quindi esisto”. 6.2 Accompagnare l’organizzazione, narrandola Definiti i termini della comunicazione, fra limiti ed opportunità, in un ambiente comunque ostile, come può essere un sistema governato dalla crisi predominante di questi anni, come può inserirsi la narrazione? O meglio, cosa può fare lo storytelling e a quali livelli? La narrazione d’impresa, lo abbiamo visto, è reduce da una trasformazione: l’applicazione di principi narrativi ad un ambito potremmo dire, più prettamente tecnico ed organizzativo. A questo livello non tutte le possibilità sono ancora state esplorate, tenendo conto dell’espansione del web, dell’attività frenetica degli attori del consumo e delle straordinarie potenzialità della tecnologia odierna. A ciò dobbiamo aggiungere l’estrema attenzione del nostro pubblico, un pubblico, ricordiamolo, sempre più attivo (si veda il concetto di prosumer), nei confronti delle responsabilità dell’azienda verso il sociale ed il singolo. In mezzo a tutte queste trasformazioni sociali e non, fra digitale, web tv e ampliamento delle piattaforme di connessione, dovrebbe farci riflettere il fatto che sia stata ripresa dal passato e ripensata una teoria che recupera il pensiero degli antichi greci, da Aristotele in poi. Dopo aver studiato i processi linguistici e narrativi, averne mostrato gli effetti in alcuni esempi concreti, credo che il nodo della questione si trovi nell’idea di metafora. Sappiamo tutti cos’è una metafora e cosa significhi parlare per immagini: molti si sono occupati di linguaggio metaforico da Aristotele a Freud. Bene, le storie non sono altro che delle metafore di vita, per questo motivo ci appassionano e provocano in noi un senso di abbandono: da qui l’idea del meraviglioso e della trance narrativa da ascolto1. Le storie insegnano e ci permettono di andare oltre il nostro “giardino”: un momento di evasione che ha riscontri sul nostro vivere. Il modello del Viaggio dell’eroe di Vogler lo spiega molto bene, riuscendo nel rielaborare uno schema narrativo archetipico. Per approfondire il concetto di trance narrativa da ascolto, si veda FONTANA A., Manuale di storytelling, op. cit. pp. 4-32 1 203 L’idea di metafora trova ulteriore riscontro anche nelle teorie delle neuroscienze, della psicologia e della medicina: la mente ed il pensiero funzionano in modo narrativo, ce lo ricorda Freud con la teoria del pensiero per immagini, lo fa Proust parlando di memoria involontaria. Non vorrei entrare troppo nei tecnicismi, molto già è stato detto fino ad ora. Parlando invece di narrazione d’impresa, vorrei soffermarmi un attimo sulle sue caratteristiche. Secondo Andrea Cornelli, presidente di Ketchum Italia, il nuovo impulso verso lo storytelling in ambito aziendale è un effetto della crisi: “Il punto di partenza è la costatazione della pervasività delle informazioni in cui siamo costantemente immersi e di cui siamo destinatari, che impone la necessità di alzare sempre di più il tono della voce per poter dare visibilità alle proprie iniziative, idee, proposte, prodotti. La narrazione rappresenta una modalità innovativa che consente di attivare un modello di scambio comunicativo più evoluto, nel quale il fruitore è partner attivo ed emotivamente partecipe”1. Le tecniche narrative rappresentano un valido strumento per farsi riconoscere, affermando la propria identità all’interno del mercato; esse permettono coerenza e chiarezza, creando un frame che genera attrattività, migliorando tutti e tre i valori intangibili di base che abbiamo analizzato: corporate identity, corporate reputation e image. Inoltre sembrano rispondere molto bene al bisogno crescente di migliorare il dialogo con gli stakeholder incoraggiando la partecipazione. A livello di applicazioni, come si è detto, variano a seconda dell’obiettivo che l’azienda si propone e possono adattarsi ad ogni tipologia di strumento: le storie possono essere intertestuali ed ipermediali insieme, attraversare un solo canale o più canali alla volta. Focalizzandoci sulle nuove necessità relative alla responsabilità aziendale, lo storytelling può essere impiegato per innovare il dialogo con gli stakeholder. In particolare abbiamo individuato gli ambiti oggi in decisiva espansione in cui pratiche innovative come lo storytelling possono migliorare il sistema di comunicazione : - L’ambito della CSR e le operazioni ad essa associate sia in campo ambientale che in campo sociale si veda l’esempio di Mulino Bianco con l’operazione WWF, oppure ancora la case-history di “The Fun Theory” firmata Volkswagen2. E’ un settore in evoluzione ma che permette notevoli spazi di intervento. Saper inserire queste 1 2 CORNELLI A., op. cit. p. 7 SOBRERO R., op. cit. p. 35 204 attività in un racconto strutturato ed in un contesto va a beneficio del progetto e dell’immagine dell’azienda - Nelle presentazioni di rapporti come il bilancio sociale d’azienda i bilanci di rendicontazione sono oggi sempre più strumenti vitali di relazioni e non più il classico elenco di voci e numeri, venendo ad inserirsi nella narrazione aziendale. Un ambito da riconsiderare alla luce di quanto detto! - In attività di sponsorizzazione e mecenatismo la narrazione permette di legare due storie diverse in una sola, spiegando le motivazioni e le finalità di questi progetti e permettendo ai due enti di emergere dalla massa - Nell’ambito delle media relations per svecchiare i soliti mezzi ormai usurati dal tempo quali comunicati e conferenze stampa, inserirendoli in una conversazione pregna di significati - Ai vertici dell’impresa perché management ed AD in particolare devono essere storytellers ad hoc, capaci di incarnare i valori dell’azienda e perché in ogni storia che si rispetti deve esserci un protagonista a portare avanti l’azione. Ciò permette di spiegare, formare, crearsi un universo mitico in cui operare…tante sono le possibilità che si aprono per il management. Riuscire a spiegare meglio il proprio business in modo non semplicistico e più interessante è una mission da perseguire nel tempo. Utilizzare le storie per avvicinarsi al pubblico, per far comprendere le esigenze e le difficoltà del business attraverso degli esempi,perché la verità e la fiducia oggi, contano più delle bugie e delle attività manipolatorie di ieri, crea aziende nuove ed aperte al dialogo con la società ed i cittadini. Abbiamo qui mostrato alcuni settori che potranno migliorare la comunicazione utilizzando la tecnica dello storytelling ma crediamo che molti siano i meriti nell’utilizzare questo strumento, in primis la creazione di significato e la condivisione delle conoscenze. Riassumendo credo si possa dire che il suo vantaggio risiede nella capacità di ritornare alla semplicità, preferendo sistemi di coerenza e cornici capaci di inquadrare il lavoro dell’organizzazione in riferimento ad un pubblico dato. Lo storytelling risolve in pratica il paradigma di ritorno alla parola che abbiamo portato avanti nel discorso precedente, incuriosendo e stimolando la relazione. Il limite, ma anche se vogliamo, la base del suo 205 successo, sta nel fatto che non esiste una parola magica che vada bene a tutti, non esiste la storia universale, esiste un modello a partire del quale ogni storia deve imparare ad essere unica, solo così sarà possibile operare una distinzione e raggiungere un vantaggio competitivo ottimale. 6.3 Il filo di Arianna: beyond the tale Nell’introduzione a questa tesi ho definito quanto ci apprestavamo a trattare una storia di ricerca. Storia e ricerca sono le parole che mi hanno accompagnato lungo tutta la scrittura e che mi hanno in qualche modo segnata: cos’è una storia se non una ricerca di qualcosa? Uno spunto interessante che è maturato fra le pagine di Eco e quelle di Aristotele, fra i testi di Bruner e quelli di Barthes. Leggiamo, ascoltiamo, per cercare un qualcosa: spesso questo qualcosa già ci appartiene, altre volte è una scoperta continua…ma è una ricerca che non finisce mai. Non smettiamo mai di cercare nella nostra vita, perché semplicemente abbiamo sete di storie, o meglio di ciò che sta al di là delle storie. E’ quello che ho imparato in questa storia di ricerca ai confini fra identità, comunicazione, narrazione e impresa. Perché ogni storia che si rispetti lascia sempre dentro di noi un messaggio, così come ogni “C’era una volta” nasconde una morale. “Beyond the tale” sta a conclusione del nostro “Viaggio dell’eroe”, vuole essere una conclusione aperta, perché non si smetta mai di cercare, come ha detto lo stesso Steve Jobs ai ragazzi di Stanford; non si smetta di cercare il senso che attraversa le nostre vite, e non si smetta di indagare in due ambiti così interessanti come quello della comunicazione e della narrazione. In una società che cambia, in cui la crisi non lascia più posto alla ricerca, essa è diventata un bene ancora più prezioso e così è per la cultura e l’identità. Non è un caso se il più grande esempio di storytelling odierno parli proprio di cultura ed identità nel progetto di rilancio dell’identità dello Stato italiano culminato nei festeggiamenti dei 150 anni dell’Unità1. Un’operazione straordinaria nelle mani di un gruppo di esperti capeggiati da Paolo Peluffo per conto dello Stato Italiano e dello stesso Presidente della 1 PANICO G., Come si comunica la nazione, dalla storia allo storytelling, in Relazioni Pubbliche, volume 21, numero 65, 2011, p. 18 206 Repubblica, allora Carlo Azeglio Ciampi. Un Stato al pari di un’azienda che deve ritrovare, riscoprire, rivivere la propria identità, in questi mesi messa a dura prova dalla crisi finanziaria che ha colpito il Paese. Se la reputazione nazionale scricchiola al peso delle ingenti richieste del mercato, dove l’immagine è minata dai recenti avvenimenti politici, l’azienda-stato guarda al passato per cercare risposte e basi solide con le quali affrontare l’avvenire. In questo il governo punta sui valori del Paese, chiedendo sacrifici pesanti ai suoi “dipendenti”, ma non dubitando delle capacità della Nazione a rialzarsi da questa situazione. Guardando al futuro, l’esempio in questione ci aiuta a capire una cosa fondamentale: oltre alla nostra storia, oltre le storie, ci stanno i valori e l’identità di ciascuno, individuo, organizzazione, Stato. La crisi ci chiede un cambiamento prima di tutto interiore, nel ripensare la società e il ruolo che ognuno vi ricopre: oltre la storia, oltre lo storytelling, c’è il messaggio di un cambiamento delle menti, per capire, lavorare, sopravvivere in un mondo diverso ma costruito sulle radici del passato. Il filo di Arianna vuole essere allora una metafora “narrativa” per questo legame che unisce noi, le nostre aziende, con il passato, l’identità e la storia. Da qui deve ripartire la ricerca, da qui dobbiamo cominciare per scrivere il racconto che renda le nostre azioni memorabili…che ci aiuti a costruire la nostra reputazione, a migliorare la nostra immagine, a renderci riconoscibili…a rubare un briciolo d’immortalità. Ma il filo di Arianna è anche la piccola eredità che lascio a tutti coloro che come me troveranno nella comunicazione e nelle storie qualcosa di magico, una grotta da esplorare, un oceano di attrattive, perché dal mito possano ritrovare i principi elementari, perché questo filo con il passato diventi l’inizio di una nuova affascinante storia. 207 208 ALLEGATI • Intervista al dott. Gabriele Qualizza, in riferimento al suo articolo “Lo storytelling nella comunicazione d’impresa”- 16 dicembre 2011 Dott. Qualizza, innanzitutto potrebbe spiegarmi secondo quali modalità compie una distinzione fra organizational storytelling e storytelling management? Se ho capito bene, mi corregga se sbaglio, il primo tratta della ricerca in azienda e quindi l'approccio piuttosto sociologico e formativo di Fontana, mentre l'altro fa piuttosto riferimento a Stephen Denning e alla narrazione come strumento di gestione. L'approccio denominato organizational storytelling si trova soprattutto negli scritti (non sempre di facile lettura) di Barbara Czarniawska. E' un approccio consapevole delle implicazioni di carattere teorico e di carattere strategico che lo storytelling aziendale sottende. Presuppone cioè un diverso modo di pensare e un diverso modo di essere dell'azienda (che ha un'identità narrativa, dunque dinamica, aperta, non statica, in continuo divenire. Attenzione: qual è la storia "vera" dell'azienda? Quella ufficiale, proposta dai media aziendali o quella che si tesse continuamente negli innumerevoli racconti "vissuti" e tramandati dalle persone che interagiscono con l'azienda stessa?). E' un approccio più sociologico, come giustamente dici tu, che non pretende di dare risposte immediatamente spendibili sul piano operativo, ma che si propone piuttosto di sollevare domande, interrogativi, temi di discussione…L'approccio manageriale è quello di Denning: suggerisce a mio modesto parere delle ricette un po' troppo semplicistiche, ma immediatamente operative. Non si interroga sull'identità dell'azienda, sulla necessità di un diverso approccio cognitivo, ma si limita a suggerire l'applicazione di tecniche narrative alla comunicazione aziendale. Un modo come un altro per catturare l'interesse del pubblico. Un mero espediente retorico, di facciata, che non cambia la sostanza delle cose. Il primo è un approccio costruzionistico (ogni impresa è una realtà "costruita" narrativamente: dunque la comunicazione è un aspetto strategico, essenziale alla sua stessa esistenza), il secondo è un approccio positivistico (ogni impresa è una realtà già data, poi eventualmente - in un secondo momento - si prone il problema di comunicare). Nel cap. 3 del mio libro (Transparent Factory) ho cercato di spiegare la differenza tra questi due 209 approcci. Applico comunque la distinzione a due esempi concreti: Google è un'azienda "narrativa" (poco strutturata, riduce al minimo la gerarchia, premia la creatività e il lavoro di squadra, il pensiero laterale, ecc.), Nike utilizza tecniche narrative negli spot (ma all'interno l'organizzazione ha una struttura formale molto tradizionale e anche un po' burocratica). Alla luce della distinzione fra organizational storytelling e management storytelling, sarebbe possibile inserire un terzo focus distinto solo sul marketing narrativo/ storyselling? E' possibile un terzo focus? Direi che alla distanza la seconda posizione (solo tecnica manageriale, solo espediente di facciata per rendere la comunicazione più accattivante) non è sostenibile. Come dice Semprini, ogni marca traduce i suoi elementi valoriali in una intelaiatura di senso che ha carattere narrativo (Barilla racconta da molti anni la stessa storia: il ritorno a casa). Non c'è marca, se non c'è racconto. Il problema è che questo racconto non appartiene esclusivamente all'azienda, ma è co-generato attraverso l'interazione dell'azienda con i propri interlocutori, è un tessuto fatto di tanti fili che si intrecciano. Dunque alla fine bisogna cambiare anche il proprio stile di pensiero e il proprio modo di essere azienda. Anche Barilla ha introdotto progetti di questo tipo ("Nel Mulino che vorrei"). Lo storytelling porta allo storylistening. Volevo poi sapere, dato che la mia tesi s'incentra sull'utilizzo dello storytelling come strumento per la creazione di una forte identità aziendale, quanto i racconti di marca possono essere utili a tal fine? e c'è una relazione stretta fra corporate identity e corporate branding? Corporate identity e corporate branding: qualche tempo fa c'era un articolo interessante sul caso Lego sulla Harvard Business Review. In ogni caso, le due cose sono sempre più in stretto rapporto: si tende sempre più a riprendere l'approccio delle marche giapponesi (grandi marche-ombrello, che sviluppano logiche di corporate branding. Es.: Yamaha che fa moto da corsa e anche pianoforti! Virgin è un altro esempio), superando l'approccio di P&G (una grande corporate, che resta sconosciuta ai più, in quanto si scinde in una molteplicità di marche-prodotto). 210 BIBLIOGRAFIA A cura di ASSOCOMUNICAZIONE, Il mercato italiano della comunicazione d’impresa e delle istituzioni. 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rielaborata a fronte dell’opera di VAN RIEL C. B. M., p. 19 Figura 1.5, Il modello della C.C. secondo Kapferer, LIBAERT T.- JOHANNES K., op. cit. p. 22, figura 2.2 Figura 1.6, Il concetto di framing e l’esperimento universitario di Lakoff, le immagini sono tratte da: http://www.welovemercuri.com/2010/03/screen_beans_per_chi_usa_il_pa.html http://www.soluzionipercrescere.com/articoli/controllo-di-gestione-e-organizzazioneaziendale.htm Figura 1.7, Le immagini mentali associate ad una marca o ad un prodotto. Le immagini sono tratte da: http://justreous.blogspot.com/2010_09_01_archive.html http://web-release.info/2011/02/25/barilla-winning-the-product-of-the-year-award/ Figura 1.8, Processo di creazione e passaggio d’informazioni, Mc Guire, VAN RIEL C. B. M., op. cit. p. 81 Figura 1.9, Modello di formazione della corporate image elaborato da Dowling, VAN RIEL C. B. M. , op. cit. p. 95, Figura numero 3.7 The creation of the corporate image (Dowling, 1986) Figura 1.10, Il triangolo della comunicazione di Georges Lewi, LIBAERT T.- JOHANNES K., op. cit. p. 42, Figura numero 3.2 in LEWI G., La marque, Vuibert, 2004 221 Figura 1.11, La Reputation Platform secondo il Reputation Insitute, dal sito ufficial del Reputation Insitute nella sezione “Advisory Service”: http://www.reputationinstitute.com/advisory-services/ Figura 1.12, I campi d’espressione della Corporate Communication Figura 1.13, Le sfide della comunicazione interna per il futuro, Modello costruito a partire dallo schema di Giacomo Mason - Nuove sfide per la comunicazione interna http://www.slideshare.net/giacomo.mason/la-nuova-comunicazione-interna Figura 1.14, Gli strumenti utilizzati dalla comunicazione interna, LIBAERT T.- JOHANNES K., op. cit. p. 70. Tabella 5.1 con relative modificazioni ed aggiunte. Traduzione mia dall’originale francese. Figura 1.15, Piano di gestione e comunicazione delle crisi elaborato da Invernizzi, tratto dal sito ufficiale del professore: http://www.emanueleinvernizzi.it/showPage.php?template=formazione&id=107 Figura 1.16, L’evoluzione del marchio di Shell ed alcuni loghi famosi, 1 la prima immagine è tratta dal blog Best Ads: http://best-ad.blogspot.com/2008/08/evolution-of-logos.html. Le successive dai seguenti siti: http://www.worldwildlife.org/home-full-2.html# http://www.starbucks.com/; http://www.logodesignsense.com/blog/bmw-logo-design/; http://www.facebook.com Figura 1.17, Alcuni esempi di comunicazione editoriale, tratti dai siti ufficiali delle tre aziende: http://www.burgundy-wines.fr/ ; http://www.aspes-spa.it/; http://www.intesasanpaolo.com/scriptIbve/retail20/RetailIntesaSanpaolo/ita/home/ita_h ome.jsp Figura 1.18, Le applicazioni di Barilla su Facebook, tratte dal sito ufficiale dell’azienda http://www.barillaus.com/Pages/Home.aspx Figura 2.1, Il modello di corporate identity secondo Stadler e Birkigt, VAN RIEL CEES B. M. , op. cit. p. 33, figura 2.1 Figura 2.2, Il prisma dell’identità di Kapferer, LIBAERT T.- JOHANNES K., op. cit. p. 37, figura 3.1 Figura 2.3, La tassonomia di Melewar, MELEWAR T.C., op. cit. p. 10, figura 1.1. Figura 2.4, Modello dinamico dell’organizational culture di Hatch, MELEWAR T.C., op. cit. p. 21, figura 1.2 222 Figura 2.5, Il rapporto fra gli intangible assets aziendali secondo Balmer e Riel, VAN RIEL C. B. M: – BALMER T. C., op. cit., p. 342 Figura 2.6, Il processo di formazione e maturazione della C.I. secondo Melewar, MELEWAR T.C., op. cit. p. 26, figura 1.3 Figura 2.7, La politica di comunicazione totale, BRIOSCHI E.T., Communicative business: verso un modello ottimale di azienda nell’ottica della comunicazione, Vita e Pensiero, 2008, Milano, p. 27 Figura 2.8, Processo d’attuazione della total business communication, da una rielaborazione del quadro presentato da BRIOSCHI E.T. nel suo libro Total Business Communication: profiles and probelms for the new century, p. 109-112, figura 1 e 2, della prof.ssa Gambetti durante il corso di Economia della comunicazione aziendale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore Figura 3.1, Il testo narrativo: storia e discorso, CHATMAN S., op. cit. p 15 Figura 3.2, Il quadrato semiotico di Greimas, MARCHESE A., op. cit. p.37 Figura 3.3 Il modello attanziale della struttura narrativa, MARCHESE A., op. cit. p.39 Figura 3.4, Il modello della comunicazione narrativa di Chatman, CHATMAN S., op. cit. p. 155 Figura 3.5, Differenze fra pensiero scientifico e pensiero narrativo, CORTESE C. G., op. cit. schema p. 20, tabella 1.1 Figura 3.6, Narrazioni frammentarie e omnicomprensive, INVOLTI S. – ANDREA F. et Al., op. cit. p. 58 Figura 3.7, Storie, individue, imprese e società, FONTANA A., op. cit. p. 46, figura 6.1 Figura 3.8, Processo d’interpretazione delle storie narrative, CORTESE C. G., op. cit. p. 55, rielaborazione a partire dalla figura 2.1 Figura 3.9, Le funzioni delle storie organizzative, CORTESE C. G., op. cit. p. 76, figura 2.2 Figura 3.10, Il narrative marketing, immagine tratta dal sito: http://9inchmarketing.com/2009/07/14/story-based-vs-positioning-based-the-rise-ofnarrative-marketing/narrative-marketing/ Figura 3.11, Schema della campagna pubblicitaria Kinder e Ferrero, 1 FONTANA A., Storyselling. Strategie del racconto per vendere sé stessi, i propri prodotti, la propria azienda, op. cit. p. 64, Tabella 6.2. 223 Figura 3.12, Il panorama mediatico attuale del web 2.0, tratto dal sito internet: http://socialmediamarketingmadeeasy.co.nz/ Figura 4.1, I campi d’espressione della Corporate Communication, FONTANA A., Manuale di Storytelling., op. cit. p.49, figura 6.2 Figura 4.2, Gli strumenti della comunicazione narrativa, FONTANA A., Story factor, Human Resources Forum 2010, http://www.forumhr.it/ Figura 4.3, La creazione della Talking Shirt Petit Bateau su Facebook, immagine tratta dal sito web http://www.blogoergosum.com/14689-petit-bateau-fait-parler-les-t-shirts Figura 4.4, Video della campagna corporate Enel 2011 su YouTube, fotogramma tratto dal video all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=McWUzWszmxc Figura 4.5, Particolare della pagina Facebook “Storie di frutta”, tratta dal sito http://www.storytellinglab.org/OS/news/storie-di-frutta-e-mulino-bianco-unposizionamento-leggero.html Figura 4.6, Applicazione della pagina Facebook “Storie di frutta”, tratta dal sito http://www.storytellinglab.org/OS/news/storie-di-frutta-e-mulino-bianco-unposizionamento-leggero.html Figura 4.7, Processo di creazione della corporate story, SCHULTZ M.- HATCH M. J. – LARSEN H. M., op. cit. p. 166, Figura 10.1, Steps to be taken to create, implement and monitor a sustainable corporate story Figura 4.8, La matrice narrativa, FONTANA A., Storyselling, op. cit. p. 85, Figura 8.7, Le macrostrutture possibili di una narrazione Figura 4.9, Piano di storytelling operation, FONTANA A., Storyselling, op. cit. p. 107, Figura 12.1 Figura 4.10, Definizione di trame, generi e microstorie, FONTANA A., Manuale di storytelling, op. cit. p. 61, Tabella 7.1. Tracce di progettazione narrativa per i discorsi istituzionali Figura 5.1, Immagini di Steve Jobs durante le presentazioni, tratte dal sito web: http://allaboutstevejobs.com/pics/life/caricatures/caricatures.html Figura 5.2 , Concorso “Raccontaci la tua storia italiana”, immagine tratta dal sito: www.unastoriaitaliana.it 224 Figura 5.3, La piattaforma “Le vostre storie italiane”, print della pagina del sito internet all’indirizzo: http://www.unastoriaitaliana.it/levostrestorie/ Figura 5.4, Il logo di “Mulino Bianco”, tratto dal sito ufficiale www.mulinobianco.it Figura 5.5 Il packaging dei biscotti “Abbracci” e “Macine” Mulino Bianco, dal sito ufficiale www.mulinobianco.it Figura 5.6, Il catalogo delle sorpresine, print della pagina dedicata alle sorpresine “Mulino Bianco”, http://www.mulinobianco.it/sorpresine Figura 5.7, Sito ufficiale di “Mulino Bianco”, print della pagina principale: http://www.mulinobianco.it/colazione_e_merenda Figura 5.8, Il blog “Viaggiare Terra e Mare”, print della prima pagina del blog dal sito web http://www.viaggiareterraemare.it 225